Se qualcuno aveva mai pensato che il conflitto tra capitale e lavoro poteva essere rimosso nella società post-fordista (sono corsi per lungo tempo discorsi inutili sulla “fine”, o almeno la crisi, del lavoro salariato, che sarebbe stato sostituito dalla nuova dimensione dell’«autoimprenditorialità» che avrebbe reso i lavoratori finalmente “padroni di se stessi”), ebbene la storia ha provveduto a smentirlo. Ormai non si fa che parlare di livelli retributivi insufficienti, di contratti di lavoro scaduti, di padronato alle prese con “esuberi”, di dipendenti che “non arrivano alla fine del mese”. Qualcuno ha persino resuscitato la venerabile categoria del «proletariato» [1], mentre non c’è benpensante che non denunci la crescente sperequazione tra “ricchi” e “poveri”, o almeno tra “nuovi ricchi” e “nuovi poveri”. Francesco Cossiga, come sempre al di sopra delle righe, si è spinto fino ad annunciare il ritorno della «lotta di classe» [i]. E così la presunta obsoleta «contraddizione tra capitale e lavoro» è ritornata prepotentemente sulla scena, con le parti sociali a guardarsi in cagnesco per la spartizione dell’osso. Appunto. Ma quale osso?
Quando si affronta la contraddizione tra capitale e lavoro è necessario definire esattamente l’oggetto del contendere per non rischiare di ridurre il tutto, come in effetti sta succedendo, a sola questione distributiva (che c’è, ma non l’unica). Intanto il problema del salario può essere coniugato in una duplice maniera, la prima delle quali è il salario monetario, ossia l’ammontare di retribuzione che si stabilisce nel contratto di lavoro. Ed è ovvio che già qui si aprano contraddizioni, essendo ben noto fin dall’alba della economia politica che «i salari correnti del lavoro dipendono ovunque dal contratto che comunemente si conclude tra le due parti sociali i cui interessi non sono affatto gli stessi. Gli operai desiderano ricevere il più possibile, i padroni dare il meno possibile. I primi sono propensi a coalizzarsi per elevare il salario, i secondi per diminuirlo» [2].
Ma il salario può essere considerato anche dal punto di vista del suo potere di acquisto e si parla allora del salario reale. Con il salario monetario contrattato i lavoratori prevedono di acquistare poi quel paniere di beni di consumo che giudicano consono (e quindi necessario) al loro benessere. Essi fanno questa previsione sulla base dei prezzi dei beni di consumo correnti al momento della stipula contrattuale; ma siccome il contratto ha validità prolungata, il salario monetario resta invariato nel tempo anche a fronte di un eventuale aumento dei prezzi. Così il lavoratore può trovarsi costretto ad acquistare, con lo stesso salario monetario, un paniere di beni di consumo ridotto rispetto alle proprie previsioni oppure, se non intende rinunciarvi, deve far ricorso al credito o consumare i propri risparmi. Da qui le contestazioni per il “recupero dell’inflazione” così da assicurare ai lavoratori l’acquisto dei beni-salario che avevano preventivato.
Se bloccata sulla dicotomia salario monetario/salario reale, la contraddizione tra capitale e lavoro resta però confinata al solo momento distributivo del reddito, ossia alla questione di quanta sua parte, espressa in termini monetari oppure in termini reali, affluisce al “fattore lavoro”. Ne viene così accantonato, per non dire escluso, il vero carattere che trova la propria ragion d’essere nella natura del contratto che lega il lavoratore alla controparte e da cui deriva quel salario monetario che poi acquista sul mercato i beni di consumo. Ora il contratto di lavoro è stato ricondotto, piuttosto che ad una «obbligazione a fare», ad una «obbligazione a dare» (secondo l’intelligente interpretazione di M. Martini in Mercenarius. Contributo alla studio dei rapporti di lavoro in diritto romano (Giuffrè, Milano, 1958) recentemente riproposta da Ernesto Screpanti su “Proteo” [3]). Infatti, a differenza delle obbligazioni a fare (locatio operis) che definiscono i contratti d’associazione, di mandato, d’opera e di mezzadria e nelle quali il lavoratore s’impegna, dietro remunerazione, a compiere una prestazione lavorativa per conto altrui ma con la decisione che resta comunque di sua spettanza, nel contratto di lavoro (locatio operarum) l’accordo vincola i lavoratori «a rinunciare alla propria autonomia decisionale per un certo numero di ore al giorno, durante le quali svolgeranno attività lavorative sotto il comando (della controparte)... Così la loro remunerazione non si configura come il prezzo di una merce e il valore del prodotto ottenuto con la loro attività non si configura come valore prodotto da loro. Il salario non è il prezzo dei servizi lavorativi, ma un compenso per l’impegno all’obbedienza... (dato che) qui non si scambia un bene, si assume un obbligo all’obbedienza... (con il quale) il datore di lavoro acquisisce potere di comando sul lavoro» [4]. È per questo che nel contratto di lavoro si dà (e non si fa) lavoro, ossia si consegna alla controparte la capacità di decidere riguardo alla propria attività che sarà poi svolta secondo il volere di quella. Così l’impresa capitalistica si costituisce come un “nesso di contratti” (giusta la definizione attualmente più alla moda), ma con l’avvertenza - sottolinea Screpanti - che si tratta di «un nesso di contratti di lavoro, vale a dire proprio l’opposto di ciò a cui pensano i teorici del “nesso di contratti”» [5].
Ciò premesso, non pare affatto strano che una simile definizione dell’impresa capitalistica trovi una esatta corrispondenza in quella data da Ronald H. Coase nel suo seminale articolo sulla Natura dell’impresa del 1937: se infatti l’impresa si contrappone al mercato perché produce merci (make) invece di acquistarle (buy), allora l’impresa capitalistica si distingue da una generica impresa per «la relazione giuridica normalmente chiamata del “padrone e del servitore”, i cui caratteri essenziali sono stati definiti come segue...». E qui Coase cita da F. R. Butt, Master and servant del 1929: «1) Il servitore deve trovarsi nella condizione di dover rendere servizi personali al padrone o a terzi per conto del padrone, altrimenti si ha un contratto per la vendita di beni o simili. 2) Il padrone deve avere il diritto di controllare il lavoro del servitore, sia personalmente sia per mezzo di un altro servitore o agente. È questo diritto di controllo o interferenza che autorizza il padrone a dire al servitore quando lavorare (all’interno delle ore di servizio) e quando non lavorare, e quale lavoro fare e come farlo (all’interno della condizioni stabilite per tale servizio) che è la caratteristica dominante in questa relazione e distingue il servitore da un lavoratore autonomo al quale compete solo di dare al datore di lavoro i frutti del suo lavoro» [6]. Fin qui la citazione, che Coase immediatamente commenta giudicando che allora «è proprio la direzione l’elemento che caratterizza l’essenza del concetto legale di “datore di lavoro e dipendente”» e che solo una definizione siffatta «si attaglia bene all’impresa così come essa viene considerata nel mondo reale» [7].
Se quindi è il comando sul lavoro altrui a definire l’impresa capitalistica, a maggior ragione una intera economia sarà capitalistica quando è organizzata attorno alla erogazione del «lavoro comandato» (labour commanded, come avrebbe detto Adam Smith) da parte dei lavoratori salariati (labouring poor, per dirla ancora con Adam Smith). E saranno le modalità d’esecuzione e l’ammontare temporale di quel lavoro, ben più che il salario reale o monetario, a qualificare la «capacità di comando» del capitale sull’insieme degli «obbedienti» [8]. Solitamente nella scienza accademica questa dimensione del rapporto di produzione è (di proposito) trascurata. Posta invece al centro della Critica dell’economia politica di Karl Marx, essa è stata coltivata dagli studiosi marxisti, ma con ben poca fortuna se, al termine del “secolo breve”, dalla verifica è risultato che il dettato marxiano soffre di tali insufficienze analitiche da rendere logicamente impossibile ricondurre il profitto capitalistico a quel «lavoro comandato». È stato questo, come è noto, l’esito disperante del controverso dibattito sulla «trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di produzione» [9], un dibattito che ha fatto scorrere fin troppo inchiostro e su cui, in conclusione, sarebbe opportuno riconoscere che, almeno nella forma letterale in cui la “trasformazione” è stata messa sulla carta da Marx, i critici hanno avuto ragione perché non regge proprio.
Eppure nello spirito la “trasformazione” deve restare assolutamente centrale se si vuol comprendere la realtà del modo capitalistico di produzione in cui il profitto è soltanto un fenomeno che rimanda ad altro per la propria spiegazione. Ma soprattutto essa si può dimostrare valida se viene ricondotta, giusto il titolo della prima sezione del terzo libro del Capitale, alla sola «trasformazione del plusvalore in profitto» o, per dire meglio ancora, alla trasformazione del pluslavoro in profitto. È certo che per rendere coerente il tutto si richiedono aggiustamenti al dettato marxiano (ma meno di quelli che si possono immaginare), trattandosi di confinare il processo di trasformazione al solo «lavoro vivo» erogato dalla forza-lavoro, con esclusione quindi del controverso «lavoro morto» in cui dovrebbe essere convertito il prezzo di produzione dei beni-capitali impiegati. Ma il risultato vale la fatica, perché allora è possibile pervenire alla conclusione inoppugnabile che il profitto dipende dal pluslavoro, ossia «dal grado di sfruttamento del lavoro complessivo da parte del capitale complessivo» [10].
È quanto si era cercato di mostrare, riassumendo le più recenti innovative tendenze del dibattito internazionale sulla «trasformazione» marxiana, in G. Gattei (a cura di), Karl Marx e la trasformazione del pluslavoro in profitto (MediaPrint, Roma, 2002), che è il testo che sta alla base del sintetico ragionamento teorico che viene sviluppato nel paragrafo che segue.
Supponiamo allora [11] una economia capitalistica chiusa (con esclusione quindi dei rapporti internazionali) che produce merci impiegando lavoro e beni capitali. Il lavoro è acquistato all’inizio del periodo di produzione sul mercato della forza-lavoro dietro corresponsione di un salario monetario. Pagando questo salario (che è il «valore di scambio» della merce forza-lavoro), il capitale ne acquista il «valore d’uso», ossia la possibilità di consumare la forza-lavoro a proprio vantaggio [12]. Ma l’uso del valor d’uso della forza lavoro non è altro che il lavoro vivo.
Anche i beni-capitali sono acquistati all’inizio del periodo di produzione sul proprio mercato dietro pagamento del loro prezzo di produzione che è un prezzo speciale (d’equilibrio di lungo periodo) che garantisce un saggio uniforme del profitto in tutti gli impieghi e l’identico salario orario per tutti i lavoratori. Differisce quindi dal prezzo corrente di mercato, che è invece influenzato dalle variazioni occasionali della domanda e dell’offerta e che porta a saggi del profitto difformi nei vari impieghi e a salari differenti nelle diverse occupazioni. Non assicurando l’uniformità del saggio del profitto e del salario orario, i prezzi di mercato non possono essere infatti dei prezzi di equilibrio, dato che allora i capitali e i lavoratori si sposterebbero dagli impieghi e dalle occupazioni a minor saggio del profitto e salario verso quelli dove i saggi del profitto ed i salari sono maggiori. Solo se i saggi del profitto ed i salari orari risultano uniformi, quel movimento di capitali e lavoratori viene a cessare e l’economia viene a trovarsi, per l’appunto, in uno stato di equilibrio di lungo periodo. Ora i prezzi che definiscono saggi del profitto e salari orari uniformi per ogni merce (prodotto o bene-capitale che sia) sono chiamati in dottrina «prezzi di produzione» [13].
Ma quale significato conoscitivo possono avere le due condizioni così estreme d’uniformità dei saggi del profitto e del salario orario, tanto inverosimili nel concreto? Della prima condizione ha spiegato direttamente il senso Marx nel Capitale: «l’idea fondamentale è quella del profitto medio,... ossia che ogni capitalista non è in realtà che un semplice azionista dell’impresa complessiva della società che partecipa al profitto complessivo in proporzione della sua quantità di capitale» [14]. Altrettanto si può dire, parafrasando, per la condizione di salari orari uniformi: ogni salariato si presenta come componente paritetico della classe operaia impegnata nel produrre e partecipa al salario complessivo in proporzione della quantità di lavoro personalmente erogata (e quindi ne riceve un salario orario uniforme). È ovvio che nella realtà tutto questo non avviene mai. Eppure l’economia politica ha sempre presupposto tali condizioni d’equilibrio ideale, mentre economisti d’ogni colore se ne sono tranquillamente serviti. A che scopo? È ancora Marx a rispondere: «innanzi tutto per situare i fenomeni nella loro forma regolare, ossia per studiarli indipendentemente dalle manifestazioni esteriori che risultano dal movimento della domanda e dell’offerta; in secondo luogo, per delineare la vera tendenza del loro movimento e, in qualche modo, fissarla» [15]. Così l’equilibrio di lungo periodo è una posizione limite verso cui la realtà concreta tende a muoversi senza raggiungerla mai, ma che potrebbe raggiungere «tanto più rapidamente, 1) quanto più mobile è il capitale, ossia quanto più facilmente può essere trasferito da una sfera di produzione ad un’altra, da un luogo ad un altro; 2) quanto più rapidamente la forza-lavoro può essere gettata da una sfera di produzione in un’altra, da una località produttiva in un’altra» [16].
Ciò premesso, proseguiamo. Dopo aver pagato il prezzo di produzione dei beni-capitali ed il salario della forza- lavoro, il processo di produzione può avere luogo. Ai beni-capitali disponibili si applica il «lavoro vivo» eseguito dalla forza-lavoro, che è altrettanto disponibile, e da questa “combinazione produttiva” scaturisce un ammontare di merci che, terminato il processo lavorativo, viene venduto al relativo prezzo di produzione. Ne risulta un ricavo totale che è pari alle quantità delle merci prodotte moltiplicate per i loro prezzi, mentre il costo complessivo della produzione è dato dal prezzo di produzione delle quantità dei beni-capitali impiegati e dal salario pagato all’insieme della forza-lavoro messa all’opera.-----
Si tratta adesso di calcolare la redditività di questa economia, una redditività che può però assumere diversi significati. Il primo di tutto ’è la vitalità, che si definisce come la capacità di una economia di riprodurre un ammontare di beni superiore alla quantità esistente all’inizio del processo di produzione [17]. Se poi la produzione di questi beni (output) avviene mediante l’utilizzo degli stessi come beni-capitali (input), allora la vitalità dell’economia si può misurare direttamente in termini fisici, semplicemente sottraendo dall’ammasso dei beni prodotti (che supponiamo essere uno solo: Q) l’insieme degli stessi utilizzati per la produzione (che supponiamo essere uno solo: Qk). La differenza costituisce il «prodotto netto» Qn che sarà positivo per la condizione presupposta di «vitalità» di quella economia:
Qn = Q - Qk > 0
La stessa condizione di vitalità, espressa nei termini dei
relativi prezzi di produzione, definisce il «prezzo (di produzione) del Netto»:
Qn p = Q p - Qk pk
E qui si pone la questione principale: da dove può mai scaturire
questo «prezzo del Netto»? Ipotizzando una «funzione di produzione di merci
a mezzo di beni-capitali e lavoro» [18], è ovvio che, avendo già tolto dal computo
del prezzo del Netto il valore dei beni-capitali impiegati, non resta come unico
fattore produttivo necessario al suo sorgere che quel lavoro diretto
(d’ora in poi «lavoro vivo») che è stato richiesto per produrlo. Le due grandezze
sono quindi economicamente equivalenti, entrambe nel proprio ordine di rappresentazione:
quello che appare sul mercato delle merci prodotte come il «prezzo del Netto»,
nel processo lavorativo si presenta invece come quantità di «lavoro vivo». È
così possibile esprimere la equivalenza di neovalore, che è poi tutta
la sostanza della «nuova interpretazione» della “trasformazione” [19]:
Qn p = L
Essa mostra come il prodotto netto, espresso nei termini del
proprio prezzo di produzione, risulta equivalente all’ammontare del lavoro vivo
necessario a produrlo, espresso nella propria unità di misura (le ore di lavoro)
[20]. Tuttavia il «prezzo del Netto», così ottenuto dopo aver dedotto
dal ricavo complessivo il prezzo delle merci impiegate come mezzi di produzione,
non è interamente a disposizione del capitale. Infatti una sua parte deve recuperare
l’ammontare del salario W anticipato alla forza-lavoro e quindi è soltanto la
differenza, che ne misura il profitto, ad essere effettivamente disponibile.
L’equazione del profitto risulta allora dalla differenza contabile:
Qn p - W = Profitto
A sua volta anche il lavoro vivo si può marxianamente suddividere
nelle due parti del «lavoro necessario» Ln, ossia nella parte di lavoro destinata
alla produzione delle merci necessarie al benessere della forza-lavoro, e nel
«pluslavoro» inteso come eccedenza del lavoro vivo sul lavoro necessario [21], così
che l’equazione di pluslavoro viene ad esprimersi nella forma:
L - Ln = Pluslavoro
Si tratta adesso di porre a confronto le due definizioni di
profitto e pluslavoro a somiglianza dalla precedente equivalenza posta tra «prezzo
del Netto» e lavoro vivo. Partiamo alla rovescia: si può ipotizzare qualcosa
di equivalente tra il monte-salari e il lavoro necessario? La considerazione è naturalmente aggregata, ossia valida solo
per l’economia nel suo complesso. All’inizio del processo produttivo sul mercato
della forza-lavoro viene contrattato il salario monetario con il quale i capitalisti
acquistano il diritto di utilizzare la forza-lavoro all’interno della produzione
(nell’ipotesi di un salario uniforme, il monte-salari complessivo risulterà
pari al prodotto del salario orario per il numero dei lavoratori occupati).
Al termine del processo di produzione i lavoratori (supponendo che sia nulla
la loro propensione al risparmio) spenderanno l’intero monte-salari nell’acquisto
delle merci reputate necessarie al loro benessere. Naturalmente quantità e qualità
di questi «beni-salario» dipenderanno dal prezzo di produzione a cui le merci
vengono vendute e quindi non possono essere note finché l’acquisto non è stato
condotto a termine; ma come che sia i lavoratori potranno acquistare col monte-salari
i beni che a loro interessano soltanto traendoli dal «prezzo del Netto» e senza
esaurirlo completamente altrimenti non ci sarebbe margine per il profitto. Così
il monte-salari arriva ad acquistare solo una porzione (α < 1) del «prezzo
del Netto»:
W = α Qn p
Se questa percentuale, che si determina alla fine del processo
di produzione, è proprio quella che i lavoratori si aspettavano d’acquistare,
essi saranno quantitativamente soddisfatti di aver così realizzato il proprio
salario monetario. Tuttavia può darsi che le loro aspettative quantitative vengano
disattese e che, avendo previsto una porzione del prodotto netto pari ad αe,
si trovino a mettere le mani solo sulla porzione α < αe. Ma
ciò può risultare possibile solo perché dalla equivalenza:
W = α e Qn pe = α Qn p
nella quale monte-salari monetario e prodotto netto sono grandezze
date, risulta che i prezzi di produzione a cui vengono effettivamente vendute
le merci prodotte sono maggiori di quelli che avevano previsto i lavoratori,
ossia che p > pe. È quindi il rincaro dei prezzi ad impedire ai lavoratori
di soddisfare le proprie aspettative quantitative di prodotto netto [22]. Ma qui interessa la logica effettiva d’equilibrio e non il
confronto con le previsioni. E allora, posta la porzione di prodotto netto su
cui i lavoratori riescono effettivamente a mettere le mani con il monte-salari,
sulla base della «equivalenza di neovalore» precedentemente discussa trova corrispondenza
quella porzione in una parte (percentualmente la medesima) del lavoro vivo complessivamente
erogato:
α Qn p = α L
È questa la porzione di lavoro vivo che possiamo chiamare «lavoro
indisponibile», oppure alla Marx lavoro necessario, «poiché la classe
lavoratrice in generale deve intanto lavorare la quantità di tempo di lavoro
necessaria per conservarsi in vita, prima di poter lavorare per altri» [23]. Ma questa
porzione è necessaria «anche dal punto di vista del capitalista, in quanto l’intero
rapporto capitalistico presuppone l’esistenza continua della classe lavoratrice,
la sua ininterrotta riproduzione e la produzione capitalistica ha per sua presupposto
necessario la continua disponibilità, conservazione e riproduzione di una classe
lavoratrice» [24]. E la parte di lavoro vivo che resta invece a disposizione del
capitale dopo la deduzione del lavoro necessario a che sarà mai equivalente?
Seguendo lo stesso ragionamento è facile provare che questa eccedenza di lavoro
vivo (marxianamente pluslavoro) non può che coincidere con la parte del
«prezzo del Netto» che resta a profitto. Infatti:
Pluslavoro = L - α L = Qn p - αQn p = Qn p - W = Profitto
Così quanto si presenta al momento del realizzo delle merci
prodotte come profitto trova ragione nel processo di produzione da una differenza
di ore di lavoro: sono quelle ore del lavoro vivo complessivamente erogate dalla
forza-lavoro che superano le ore di lavoro necessarie alla produzione della
porzione del prodotto netto che la forza-lavoro arriva ad acquistare con il
monte-salari complessivamente pagatogli dal capitale. E questa differenza è
il pluslavoro «che sorride al capitalista con tutto il fascino di una
creazione dal nulla» [25]. Quando si passa dall’analisi teorica alla quantificazione statistica
si presenta un problema. Quando va bene, si è soliti rimproverare alla Critica
dell’economia politica di limitarsi a descrivere concettualmente il fenomeno
dello sfruttamento senza arrivare a tradurlo empiricamente. Infatti, se è naturale
che la teoria produca e utilizzi costrutti analitici astratti, questi non dovrebbero
prima o poi trovare una corrispondenza nei dati reali, così da farsi anche concretamente
veri? Certo che sì. Ma come si possono quantificare grandezze economiche
quali il valore e il plusvalore? Il salario o l’occupazione si possono ritrovare
nei dati della contabilità nazionale, ma lo sfruttamento? Si sostiene (alcuni
sostengono) che esiste; si percepisce (alcuni percepiscono) che c’è, ma la sua
misura oggettiva sfugge al calcolo, restando così una variabile che, se può
interessare qualcuno, non arriva però mai a convincere tutti. Quanto differente
è stata invece la ricaduta empirica della macroeconomia keynesiana! Elaborata
teoricamente negli anni ’30, essa ha poi dato luogo alla rilevazione statistica
dei dati sul reddito, i consumi, gli investimenti e quant’altro fino a creare
una disciplina apposita, la Contabilità nazionale per l’appunto, che ha il compito
di raccogliere ed elaborare questi dati con ricadute sulle decisioni concrete
di politica economica che sono a tutti evidenti [26]. Marx, invece... Al suo tempo, consapevole della necessità di
«una conoscenza esatta e positiva delle condizioni in cui lavora e si muove
la classe operaia» [27], aveva progettato una indagine statistica che fosse condotta
dai lavoratori stessi, in quanto soltanto da costoro egli pensava di poter ricavare
le informazioni necessarie a descrivere i «fatti e misfatti dello sfruttamento
capitalistico» [28]. La sua intenzione era di «dimostrare come la produzione
del plusvalore, la totalità delle forme di sfruttamento capitalistico, si ripercuotessero
sui produttori immediati, come da essi fossero sperimentati e subiti fisicamente,
psichicamente ed intellettualmente» [29] ed
allo scopo aveva predisposto un formulario di 100 domande sulle condizioni di
lavoro e di resistenza operaia che la “Revue socialiste” distribuì in 25.000
esemplari nel 1880. Ne ritornarono compilati però appena un centinaio, così
di che di quella prima «inchiesta operaia» non si fece nulla. L’idea venne resuscitata nel 1965 dalla rivista “Quaderni rossi”
con l’intenzione di prendere conoscenza della nuova realtà del lavoro “fordista”
nel frattempo sopraggiunta [30], mentre recentissimamente
una «inchiesta di classe» è stata effettivamente portata a termine da CESTES-”Proteo”
(cfr. S. Cararo, M. Casadio, R. Martufi, L. Vasapollo, F. Viola (a cura di),
La coscienza di Cipputi. EuroBang/3. Inchiesta sul lavoro: soggetti e progetti,
MediaPrint, Roma, 2002). È questo un risultato certamente notevolissimo, che
però rischia di restare al margine della considerazione quantitativa dello sfruttamento
perché portato avanti da un proponente non ufficiale come CESTES-”Proteo” (ma
questo sarebbe il meno), ma soprattutto perché la descrizione dello sfruttamento
resta affidata alla sola percezione dei soggetti, che vengono interrogati tramite
interviste. Non è un caso che il titolo dell’inchiesta parli della «coscienza»,
e non dell’esistenza, di Cipputi [31]. Siamo così forse condannati a vedere la Critica dell’economia
politica sfuggire alla quantificazione empirica perché priva di corrispondenza
nei dati della contabilità nazionale oppure restare relegata al territorio della
soggettività dei sondaggi demoscopici? Non lo crediamo affatto, come si cercherà
di provare nelle pagine che seguono. Ma prima è necessaria una premessa. Supponiamo che quell’economia, che teoricamente abbiamo descritto
nel paragrafo precedente, sia nel concreto l’Italia. Ci poniamo la domanda:
è possibile misurare statisticamente le variabili economiche cruciali che sono
state poste nella «equivalenza di neovalore» (ossia il «prezzo di produzione
del Netto» e il lavoro vivo) e poi quelle che ne derivano, ossia il lavoro necessario
e il pluslavoro? Nella loro precisione analitica ciò non è possibile, non essendoci
serie statistiche che misurino simili variabili economiche. Però a questo riguardo
suona opportuna una indicazione espressa una volta da Piero Sraffa quando ebbe
occasione di sottolineare (al congresso dell’International Economic Association
tenutosi a Corfù nel 1958) «la differenza tra due tipi di misurazione»: quella
a cui sono interessati gli statistici e la misurazione in teoria. Ora, mentre
«le misure teoriche richiedono una precisione assoluta», dato che «qualsiasi
imprecisione in queste misure teoriche non è semplicemente fastidiosa, ma distrugge
le basi dell’intero edificio teorico», «le misure degli statistici sono solo
approssimate e costituiscono un buon campo di lavoro per la soluzione di problemi
di numeri indici» [32]. Che ci sta dicendo
allora Sraffa? Che, mentre per le definizioni teoriche dobbiamo essere assolutamente
certi del loro rigore logico a pena del fallimento dell’analisi, nella rilevazione
empirica è consentita una certa approssimazione, che è poi l’unica che ci consente
di calare nel concreto il rigore dell’astrazione. Così, se non è dato ritrovare
nelle serie statistiche «prezzi di produzione» o pluslavoro nella loro precisione
teorica, è però permesso ricorrere a dati disponibili che richiamino all’incirca
quelle grandezze dando così, se non proprio la misura esatta, almeno una idea
della loro dimensione.----- La prima grandezza statistica che ci servirebbe è il «prezzo
di produzione del prodotto netto», che tuttavia non esiste. Esso può però essere
approssimativamente rappresentato nei dati della Contabilità nazionale dal Prodotto
Interno Netto a prezzi costanti. Spieghiamoci meglio [33]. È noto che la variabile di riferimento consuetudinariamente
utilizzata per valutare l’efficienza di una economia nazionale è il Prodotto
Interno Lordo (PIL) che misura il valore statisticamente accertato dell’attività
di produzione delle unità produttive residenti in un dato intervallo di tempo
sul territorio nazionale di un certo paese. Esso corrisponde all’ammontare della
produzione complessiva di beni e servizi finali diminuita dei beni e servizi
(materie prime e semilavorati) che sono stati necessari a quella produzione
e che nella Contabilità nazionale sono definiti come «consumi intermedi». Ma
il Prodotto Interno Lordo è, per l’appunto, lordo perché comprende ancora al
proprio interno il valore delle quote di ammortamento dei beni strumentali impiegati
come macchine, impianti, mezzi di trasporto e così via (i beni strumentali sono
quei beni che perdono valore solo progressivamente nel corso dei processi produttivi
a seguito del logorio fisico e della obsolescenza). Ora, se dal Prodotto Interno
Lordo si tolgono anche questi ammortamenti, si ottiene un’altra misura del prodotto
nazionale: il Prodotto Interno Netto (PIN) - che tra l’altro l’ISTAT ha sempre
diligentemente rilevato - che è il dato empirico che più si avvicina alla grandezza
economica del «prezzo di produzione del Netto» in quanto misurato a prescindere
dal consumo dei beni intermedi (come il PIL), ma pure dall’ammortamento del
capitale fisso. Così è solo il Prodotto Interno Netto a determinare il prezzo
della produzione nazionale al netto di tutti i consumi di capitale costante,
circolante o fisso che sia [34]. Ma l’ISTAT rileva il Prodotto Interno Netto (per adesso soltanto
fino all’anno 2000) secondo due diversi indici di prezzo: ai prezzi correnti
ai vari anni, o PIL «nominale», e a prezzi costanti riferiti all’anno 1995 (PIL
«reale») [35]. Per avvicinarci
alla misura del prezzo di produzione, che è quanto qui interessa, pare evidente
escludere dalla considerazione la serie statistica del Prodotto Interno Netto
a prezzi correnti, che è troppo condizionata dagli effetti monetari contingenti.
Naturalmente neanche i prezzi costanti dell’ISTAT, ottenuti moltiplicando le
quantità dei beni e servizi prodotti ai vari anni, anziché per i corrispondenti
prezzi di mercato, per quelli registrati nell’anno prescelto come base (nel
caso in questione quelli del 1995), corrispondono ai prezzi di produzione della
teoria (se non altro perché, per essere tali, dovrebbero scontare l’uniformità
dei salari unitari e dei saggi del profitto, che sono condizioni di equilibrio
di lungo periodo del tutto impossibili a concretizzarsi nella realtà). Ma siccome
di statistiche del PIN non se ne danno altre, si tratta di fare di necessità
virtù: dovendo scegliere solo tra queste due contabilità, non resta che adottare
quella a prezzi costanti in quanto più prossima alla grandezza economica che
ci interessa quantificare. E così, individuato il PIN a prezzi costanti come
la misura statisticamente più vicina alla grandezza economica richiesta dalla
teoria, raccogliamo i dati ISTAT che ci portano a determinarla: Ciò posto, nella «equivalenza di neovalore» compare a secondo
membro il lavoro vivo complessivo. È questa una grandezza economica che sembra
trovare invece un più preciso riscontro nella contabilità dell’ISTAT, che contempla
infatti la misurazione statistica delle Ore di lavoro effettuate nell’attività
unica o principale durante la c.d. “settimana di riferimento” (la prima
settimana priva di giorni festivi del mese in cui viene condotta l’indagine
sulle forze di lavoro) e rilevate nella c.d. “settimana di rilevazione” (la
settimana successiva a quella di riferimento durante la quale i rilevatori si
recano presso le famiglie per intervistarle) [36]. Così l’ISTAT calcola l’ammontare settimanale di qualcosa che è
molto simile al lavoro vivo e che, nell’ipotesi di un anno lavorativo di cinquanta
settimane, dà quella stima delle ore di lavoro erogate annualmente in Italia
che approssima la grandezza teorica del lavoro vivo [37]: A sua volta il lavoro vivo si suddivide, come abbiamo visto,
nel lavoro necessario (o «lavoro indisponibile») e nel pluslavoro che dà luogo
al profitto. Ma che cos’è il lavoro necessario? È il costo del «lavoro vivo»
quale è monetariamente rappresentato dal monte-salari pagato ai lavorator nel
complessoi. Poi questo monte-salari viene convertito, al termine del processo
di produzione, nell’acquisto dei beni di consumo che risultano accessibili ai
lavoratori traendoli dal «prezzo del Netto» (si fa sempre l’ipotesi che non
si verifichino scambi internazionali oppure, alternativamente, che i valori
delle esportazioni e delle importazioni si compensino esattamente). Utilizzando
allora l’«equivalenza di neovalore», una semplice proporzione può consentire
di risalire al quantum di lavoro vivo contenuto nel prezzo di quella
parte del «prezzo del Netto» che viene destinata al benessere dei lavoratori
impiegati nella produzione: infatti il «prezzo del Netto» sta al lavoro vivo
così come il prezzo dei beni di consumo acquistati dai lavoratori sta al lavoro
necessario. Statisticamente, si tratta di scegliere nella Contabilità nazionale
la misura del costo monetario del lavoro vivo. Ce ne sono due che possono aspirare
a tanto titolo: la prima è direttamente il totale dei salari pagati, la seconda
è la somma dei consumi complessivi. Naturalmente parrebbe più corretto utilizzare
la prima misurazione, ma se si fa l’ipotesi che i consumi siano: a) espressione
dei soli lavoratori e b) che vi spendono l’intero monte-salari (siccome la prima
ipotesi è esagerata per difetto, dato che anche altri consumano, mentre la seconda
è esagerata per eccesso, dato che anche i lavoratori possono risparmiare, si
può supporre che le due esagerazioni si compensino), allora può essere più conveniente
servirsi della seconda, che l’ISTAT peraltro calcola anche a prezzi costanti
(a base 1995) rendendola così perfettamente omogenea alla misura precedentemente
scelta del PIN. Abbiamo allora la serie statistica dei: che rappresenta la parte indisponibile del Prodotto Interno
Netto secondo la percentuale a che risulta agli anni: Sulla base della «equazione di neovalore» la percentuale α
sarà la stessa che misura la proporzione del lavoro necessario sul lavoro vivo.
E quindi, applicandola all’ammontare complessivo del lavoro vivo, ne risulta
l’ammontare delle ore di lavoro necessario: A questo punto basta sottrarre dalle ore di lavoro vivo le
ore di lavoro necessario per arrivare alla misura quantitativa delle Ore
annuali di pluslavoro annuo che sono state erogate in Italia nel periodo
temporale considerato: Il risultato, se si accettano tutte le approssimazioni che
si sono dovute introdurre per arrivare a tanta misurazione statistica, mostra
un progressivo incremento della massa del pluslavoro [38], sulla cui base è possibile procedere al calcolo
del saggio del pluslavoro, che è «l’espressione esatta del grado di sfruttamento
della forza-lavoro da parte de capitale» [39]. Tuttavia il passaggio dalla massa al saggio del pluslavoro
non è così immediato come si potrebbe pensare. Sorgono questioni fondamentali
che devono essere discusse in dettaglio, sicché pare opportuno rimandare il
seguito ad un altro articolo. (Continua).3. «Prezzo del Netto» e Lavoro vivo in Italia.
[1] Così Carla Fracci su “La Repubblica” del 5 dicembre 2003.
[i] Cossiga: “La CGIL contro i lavoratori, “La Repubblica”, 3 dicembre 2003.
[2] A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, Newton Compton, Roma, 1995, p. 108.
[3] E. SCREPANTI, Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governi dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo, in “Proteo”, 2001, n. 1, pp. 70-81.
[4] Idem, p. 74 (corsivo aggiunto).
[5] Idem (corsivo aggiunto).
[6] R. COASE, La natura dell’impresa, in Impresa, mercato, diritto, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 93.
[7] Idem, p. 94 (corsivo aggiunto).
[8] Il termine non è usato a sproposito: si denominava «obbedienza» l’obbligo che in età moderna doveva alla Corporazione chi lavorava in un’attività da quella regolata senza potervi essere iscritto (ad esempio perché ancora apprendista, oppure perché donna, oppure perché ebreo). Questi «sudditi delle Corporazioni», in cambio del diritto ad esercitare il proprio mestiere d’artigianato o di piccolo commercio, s’impegnavano a prestare «lavoro obbligato», anche gratuito, quando richiesto dalle Corporazioni per le esigenze della città. Ma le Corporazioni potevano anche vendere le «obbedienze» ai singoli maestri mediante «aste» ed «appalti», realizzando così la costrizione al «lavoro per altri» (sull’argomento cfr. L. GHEZA FABBRI, L’organizzazione del lavoro in una economia urbana. Le Società d’Arti a Bologna nei secoli XVI e XVII, CLUEB, Bologna, 1988, pp. 88-105).
[9] La cui storia è stata meticolosamente commentata da G. JORLAND, Les paradoxes du capital, Editions Odile Jacob, Paris, 1995, pp. 15-353.
[10] K. MARX, Il capitale. Libro terzo, Editori Riuniti, Roma, 1965, p. 241.
[11] Qui si riprende anche il ragionamento sviluppato in G. GATTEI, Per ritrovare il senso del “Capitale”, in “Proteo”, 2003, n. 1, pp. 100-105.
[12] «Il venditore della forza-lavoro realizza il suo valore di scambio e aliena il suo valore d’uso, come il venditore di qualsiasi altra merce» (K. MARX, Il capitale. Libro primo, Editori Riuniti, Roma, 1964, p. 228).
[13] Per una presentazione storico-teorica dei «prezzi di produzione» cfr. H. D. KURZ e N. SALVADORI, Theory of production. A long-period analysis, Cambridge University Press, Cambridge 1995. Gli autori così spiegano: i prezzi di produzione, «detti anche “naturali”, “normali” oppure “prezzi ordinari”, sono stati concepiti come espressione delle forze persistenti, non accidentali e non temporanee che governano il sistema economico, distinguendosi così dai prezzi “correnti” o “di mercato” che riflettono invece tutti i generi d’influenze, molte di natura accidentale e temporanea. Nella letteratura i sistemi economici così considerati sono anche conosciuti come “posizioni normali” o “di lungo periodo” dell’economia» (pp. 1-2).
[14] K. MARX, Il capitale. Libro terzo, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 256.
[15] Idem, p. 233.
[16] Idem, p. 240.
[17] In verità la definizione esatta di “vitalità” è più blanda: «una configurazione produttiva si dice vitale se è in grado di riprodurre la quantità di ciascuna merce indispensabile in misura almeno pari alla quantità complessivamente impiegata di ciascuna di esse in tutti i processi che producono le merci indispensabili» (G. CHIODI, Teorie dei prezzi, Giappichelli, Torino, 2001, p. 40). Come si vede, si considera “vitale” anche una configurazione produttiva che riproduce soltanto esattamente le merci consumate. Qui si fa invece l’ipotesi che se ne producano di più.
[18] Naturalmente abbiamo ben presenti tutte le difficoltà che si pongono nella costruzione di una funzione macroeconomica della produzione (cfr. G. COLACCHIO e A. SOCI, On the aggregate production function and its presence in modern macroeconomics, in “Structural change and economic dynamics”, 2003, n. 14, pp. 75-107), ma quanto esposto nel testo ha funzione puramente indicativa.
[19] I suoi “fondatori” sono stati Gerard DUMENIL (a partire da De la valeur aux prix de production, Economica, Paris, 1980) e Duncan FOLEY (a partire da The value of money, the value of labor power and the Marxian transformation problem, in “Review of radical political economics”, 1982, n. 2, pp. 37-47). I due testi citati non hanno ancora trovato traduzione italiana.
[20] Come da tempo scritto da S. PERRI (in Prodotto netto e sovrappiù. Da Smith al marxismo analitico e alla «new interpretation», UTET, Torino 1998, p. 212), «ci sembra che almeno un aspetto della problematica relativa alla “sostanza” del valore possa essere affrontata in termini rigorosi senza sollevare particolari problemi metodologici: quello del confronto tra quantità di lavoro contenute in determinati aggregati di merci e la valutazione delle stesse quantità ai prezzi di produzione». Però il confronto, per essere indiscutibile, non può riguardare (come invece è stato sempre fatto) il prezzo di produzione del «prodotto lordo» ed il quantum di lavoro «vivo e morto» necessario a produrlo. Esso va posto - e solo allora è inoppugnabile - tra il prezzo di produzione del prodotto netto e il solo lavoro vivo.
[21] È stato questo il principale apporto analitico della Critica dell’economia politica che discende da quella distinzione fondamentale tra «lavoro» e «forza-lavoro» che non era stata invece percepita dagli economisti precedenti a Marx.
[22] L’argomento, cui qui si accenna soltanto, è stato discusso da R. BELLOFIORE, R. REALFONZO, Finance and the labour theory of value: towards a macroeconomic theory of distribution from a monetary perspective, in “International Journal of Political Economy”, 1997, n. 2, pp. 97-118; G. FORGES DAVANZATI, R. REALFONZO, Wages, labour productivity and unemployment in a model of monetary theory of production, in “Economie appliquée”, 2000, n. 4, pp. 117-138; R. BELLOFIORE, G. FORGES DAVANZATI, R. REALFONZO, Marx inside the circuit: discipline device, wage bargaining and unemployment in a sequential monetary economy, in “Review of Political Economy”, 2000, n. 4, pp. 403-417. Attende adesso di essere “voltato” in italiano.
[23] K. MARX, Manoscritti del 1861-63, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 181.
[24] Idem, pp. 176-177.
[25] K. MARX, Il capitale. Libro primo, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 250. È curioso che in un recente articolo anche Ernesto Screpanti, dopo aver definito impropriamente lo sfruttamento capitalistico come differenza tra la produttività media del lavoro ed il salario (entrambi misurati in termini di prezzi), abbia poi sentito il bisogno di “tradurlo” in una differenza del «lavoro comandato» sul «lavoro contenuto», così da ricavarne una espressione che «si presenta come un rapporto tra due quantità di lavoro». Ne segue che i capitalisti fanno profitto quando «possono comandare al termine della produzione più lavoro di quanto ne hanno comandato nella produzione stessa, più lavoro per avviare un nuovo processo produttivo di quanto ne è stato usato nel vecchio processo» (E. SCREPANTI, Valore e sfruttamento: un approccio controfattuale, in “Proteo”, 2001, n. 3, p. 53). A prescindere dal percorso logico, che cosa manca in tutto questo rispetto alla conclusione raggiunta nel testo? Soltanto il termine «pluslavoro».
[26] Nel suo piccolo, perfino la teoria del «surplus economico» di Baran e Sweezy ha provato a darsi una veste statistica, come si può vedere in J. D. PHILLIPS, La stima del surplus economico, in P. A. BARAN e P. M. SWEEZY, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino, 1968, pp. 309-329.
[27] K. MARX, L’inchiesta operaia, Laboratorio politico, Napoli, 1995, p. 48.
[28] Idem.
[29] V. HUNECKE, Statistiche operaie borghesi e proletarie nel secolo XIX, in “Studi storici”, 1973, n. 2, p. 399.
[30] Cfr. l’intero numero Intervento socialista nella lotta operaia, “Quaderni rossi”, 1965, n. 5.
[31] Quando, al primo convegno dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Ginevra, 1866) si lanciò l’idea di una «statistica delle condizioni delle classi operaie», ciò fu fatto proprio allo scopo di «sviluppare presso gli operai dei differenti paesi, non soltanto il sentimento, ma anche il fatto della loro fraternità» (cfr. C. LABARDE (a cura di), La Première Internationale, Union Générale d’Editions, Paris, 1976, p. 74. Corsivi nel testo).
[32] P. SRAFFA, in F. A. LUTZ e D. C. HAGUE (a cura di), The theory of capital, Macmillan, New York, 1961, p. 305.
[33] I testi consultati per la definizione delle grandezze macroeconomiche cui si farà riferimento sono: G. ANTONELLI, G. CAINELLI, N. DE LISO, R. LEONCINI, S. MONTRESOR, Economia, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 373-377; G. ALVARO, Contabilità nazionale e statistica economica, Cacucci, Bari, 1999, pp. 160-162; V. SIESTO, La contabilità nazionale italiana., Il sistema dei conti del 2000, Il Mulino, Bologna, 1996.
[34] È noto che il “punto di vista del Netto” è stato reintrodotto nell’analisi economica da Piero Sraffa: «il reddito nazionale di un sistema in stato reintegrativo è formato dall’insieme di merci che rimangono dopo che dal prodotto nazionale lordo abbiamo tolto una per una le merci che occorrono per reintegrare i mezzi di produzione che sono stati usati dall’insieme delle industrie» (P. SRAFFA, Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi,Torino, 1969, p. 14). Ma pure la teoria neoclassica della crescita, quale ad esempio esposta da Robert Solow nell’articolo seminale Un contributo alla teoria della crescita economica del 1956, assume l’identico punto di vista per misurare «il prodotto ottenuto con l’aiuto di due fattori di produzione, il capitale ed il lavoro» quando stabilisce che «per prodotto si deve intendere il prodotto netto dopo aver tenuto conto dell’ammortamento del capitale» (R. SOLOW, Crescita, produttività, disoccupazione, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 33). La scelta del Prodotto Nazionale Netto (PNN) è peraltro opportunamente presente anche nell’unico tentativo che ci è noto di misurare statisticamente il pluslavoro in italia» in Italia: cfr. A. IOVANE e G. PALA, Lavoro salariato e tempo libero. Un’analisi dell’economia del tempo, Franco Angeli, Milano, 1977, p. 139 («per tener conto del consumo dei mezzi di produzione impiegati per la produzione strettamente necessaria si devono porre a confronto le ore complessivamente lavorate con il PNN; con il PNL, viceversa, si escluderebbe proprio l’effetto degli ammortamenti»).
[35] ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA, Contabilità nazionale, Tomo 1. Conti economici nazionali. Anni 1970-2000, Roma, 2002.
[36] ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA, Forze di lavoro. Media 1995 - 1996 - 1997 - 1998 - 1999 - 2000, Roma, ai vari anni.
[37] A confronto, le cifre stimate da A. Iovane e G. Pala (op. cit., p. 134) erano, in miliardi di ore, nel 1960: 38,24; nel 1964: 39,24; nel 1968: 37,99; nel 1972: 38,01. E questo è stato il loro commento: «il numero stimato di ore effettive lavorate non ha subito variazioni notevoli, oscillando intorno ad un valore medio di circa 38 miliardi: questo è il dato che più immediatamente interessa per la ripartizione del tempo sociale complessivo» (idem, p. 135). Trent’anni dopo la cifra risulta più o meno la stessa.
[38] Il paragone con la cifre del pluslavoro stimate da A. Iovane e G. Pala è possibile soltanto dopo una precisazione. I due autori, avendo distinto il «consumo necessario (salario di sussistenza)» (op. cit., p. 138) dal sopraconsumo (che misura il consumo oltre la sussistenza), ricavano un «tempo di lavoro strettamente necessario» da cui per differenz, ottengono, come massa del pluslavoro, la somma del «tempo di lavoro per sopraconsumo» e del «tempo di lavoro per accumulazione». Ora è soltanto quest’ultima grandezza ad essere confrontabile con le nostre Ore di pluslavoro, dopo di che essa mostra nel tempo questo andamento: 6,45 miliardi di ore di pluslavoro nel 1960; 6,12 nel 1964; 6,10 nel 1968; 5,15 nel 1972 (op. cit., p. 137).
[39] K. MARX, Il capitale. Libro primo, cit., p. 251.