Neoliberismo di guerra e ordine mondiale

Alvaro Bianchi

1. La strategia USA

La guerra degli Stati Uniti e dell’Inghilterra contro l’Iraq ha sollevato nuovamente il vecchio dibattito all’interno dell’American establishment tra isolazionisti e internazionalisti, unilateralisti e multilateralisti. Questo dibattito ha una storia recente sulla quale è importante soffermarci ancora, in considerazione delle nuove scelte di politica estera nordamericane e dell’invasione dell’Iraq. Con il collasso dell’Unione Sovietica e con la fine del suo ruolo strategico di controparte/avversario che insieme agli Stati Uniti l’aveva portata a costituire l’ordine mondiale, imposto con gli accordi di Yalta e Potsdam, non erano mancati coloro che avevano previsto il momento in cui l’impero del nord avrebbe cominciato a ridefinire il suo assetto interno, assumendo posizioni di politica estera più moderate. Sconfitto in maniera inaspettata l’avversario strategico, proprio nel momento in cui la crisi fiscale assumeva proporzioni inaudite, si erano create le condizioni per raccogliere i “dividendi della pace”, diminuendo le spese militari e i costi di una difesa esterna.

La fine dell’antagonista strategico e della sua capacità di opporsi aveva portato nel frattempo all’emergere di nuovi e più ampi problemi. Non era stata solo l’Unione Sovietica a crollare. L’ordine mondiale che aveva in questa uno dei suoi pilastri, aveva seguito lo stessa sorte. L’argomento è sicuramente molto considerato e negli Stati Uniti esiste un importante dibattito in merito a questo. Ma proprio coloro che sostenevano la continuità di un ordine liberale predisposto a partire dall’accordo del 1941 tra Stati Uniti e Inghilterra e sfociato nel sistema di Bretton Woods, sono obbligati ad affermare che questo aveva come presupposto un ordine di blocchi contrapposti, basato sull’equilibrio del potere, sulla detenzione di ordigni nucleari e sulla competizione politica ed ideologica [1]. Il mantenimento dell’ordine liberale sarebbe stato possibile nel dopoguerra solamente nella misura in cui fosse stato operativo un ordine di blocchi contrapposti.

Ora, molto prima del collasso dell’ordine di blocchi contrapposti, lo stesso ordine liberale aveva mostrato il suo indebolimento. Terminato sul finire degli anni ’60 il ciclo espansivo del dopoguerra, ebbe inizio un profondo rallentamento dell’economia, con alcuni gravi momenti di crisi. La crisi aveva scosso profondamente il sistema di Bretton Woods eliminando uno dei suoi presupposti, il gold standard, e diminuendo l’efficacia delle sue principali istituzioni, tra cui la Banca Mondiale (BM) e il Fondo Monetario Internazionale (FMI), per l’organizzazione dell’economia mondiale e per evitare nuove turbolenze. Proprio in questo processo decennale la crisi odierna trova le sue spiegazioni.

La fine dell’ordine dei blocchi contrapposti aveva comportato nuovi problemi all’imperialismo nordamericano e aveva impedito la stabilizzazione di un nuovo ordine liberale. Si era andata consolidando, nelle elite politiche ed economiche nordamericane, l’idea che era necessario costruire un “nuovo ordine mondiale”. L’avventura di Saddam Hussein in Kuwait, all’inizio degli anni ’90, era stata interpretata da questa elite come una opportunità per dare avvio a questa costruzione. Un mese dopo l’invasione, il presidente Bush annunciava al Congresso nordamericano: “La crisi del Golfo Persico, a causa della sua gravità, ci offre una rara opportunità per muoverci in direzione di un periodo storico di cooperazione. Superando questi tempi tumultuosi, il nostro (...) obiettivo può emergere - un nuovo ordine mondiale: una nuova era libera dalla minaccia del terrore, forte nel perseguimento della giustizia e più sicura nella ricerca della pace” [2].

L’opportunità nasce dalla crisi, dice un proverbio cinese che Bush ha fatto suo. Con il collasso dell’Unione Sovietica e con l’espansione sfrenata verso nuove aree da esplorare, il capitale finanziario globale ha intravisto la possibilità di superare la congiuntura avversa degli anni ’70 e ’80, approfondendo la sua penetrazione nell’America del Sud, conquistando territori che fino ad allora erano rimasti marginali, come l’Europa dell’Est e l’area eurasiatica, e garantendo una presenza diretta in Medio Oriente attraverso le basi militari istallate in occasione della Guerra del Golfo.

Ma i documenti chiave della politica di difesa nordamericana, da allora, hanno messo in risalto oltre alle opportunità che si aprivano per gli Stati Uniti, i pericoli a queste associate, indicandone i timori. Infatti, il National Security Strategy of the United States, del 1991, annunciava: “Questa nuova era ci offre una grande speranza, ma questa speranza può essere stemperata dalla sempre maggiore incertezza che stiamo affrontando. Quasi immediatamente ci si presentano nuove crisi e instabilità” [3]. Di fatto, le nuove crisi erano già in corso quando il documento vide la luce. Gorge Bush padre, si era trovato di fronte a conflitti nazionali (l’ex Iugoslavia e le ex repubbliche sovietiche), etnici e tribali (Somalia) e a guerre convenzionali (l’Iraq) che si sono sommati a vecchi problemi come i movimenti guerriglieri dell’America Latina (Perù e Colombia) e dell’Asia (Filippine).

La Guerra del Golfo, annunciata da molti come la prova definitiva dell’avvento di un nuovo ordine mondiale unipolare era stata definita in maniera più moderata dalla Casa Bianca, che vedeva nell’episodio “un forte ammonimento sul fatto che ci fossero ancora fonti autonome di turbolenza nel mondo”. Lo stesso era stato detto riguardo al collasso dell’Unione Sovietica e ai dubbi che avrebbe destato il suo destino. Per molti strateghi nordamericani, era venuta l’ora di rivedere il modo di intendere la politica, ossia di pensare a nuove configurazioni politiche del mondo contemporaneo e al ruolo degli Stati Uniti al suo interno [4].

Le possibilità e le sfide della nuova situazione mondiale percepite dalla politica estera nordamericana, si riassumono così nella creazione di una strategia che permetta di espandere significativamente l’ordine liberale, anche ad aree fino allora interdette, come quella eurasiatica o dell’Est europeo, in un contesto nel quale s’intende ancora definire un nuovo ordine di blocchi contrapposti. Da un punto di vista pratico, questo comporta una politica estera più aggressiva che si fonda su due ordini: la sicurezza nazionale e gli obiettivi economici degli Stati Uniti, ossia “la sicurezza nazionale e il vigore economico. Ciò comporta: promuovere una economia nordamericana forte, prospera e competitiva; garantire l’acceso ai mercati esteri, all’energia, alle risorse minerarie, agli oceani e allo spazio; promuovere l’apertura e l’espansione del sistema economico internazionale, basato su principi di mercato con alterazioni minime al commercio e all’investimento, monete stabili e regole ampiamente rispettate per amministrare e risolvere le dispute economiche” [5].

La National Security Strategy, del 1991, non poteva essere più esplicita quanto agli obiettivi degli Stati Uniti. Dobbiamo infatti ricordare che il rigore e la diplomazia nordamericani sono sempre stati al servizio degli interessi economici. Charles E. Wilson, ex dirigente della General Motors e segretario della Difesa degli Stati Uniti (1953-1957) ha reso immortale questa politica con la frase: “Ciò che è bene per la General Motors è bene per gli Stati Uniti; ciò che è bene per gli Stati Uniti è bene per la General Motors” e lo storico William Appelman Williams aveva rimarcato negli anni ’60, che questa era una costante nella politica nordamericana [6]. Ma ciò che il documento indica è la necessità urgente degli Stati Uniti di costruire un nuovo ordine mondiale di blocchi contrapposti come prerequisito all’espansione dell’ordine liberale.

I fondamenti di questo nuovo ordine mondiale sono definiti in maniera ancora più esplicita nel Defense Planning Guidance per gli anni fiscali 1994-99. Una bozza di questo documento è stata divulgata dal New York Times a febbraio di questo anno, provocando un vero e proprio scandalo. In questa si affermava la possibilità di guerre preventive, ossia senza che si fosse attaccati per primi o senza che vi fosse un pericolo d’attacco. Ma ciò che aveva causato la rabbia dei servizi diplomatici occidentali era stata la strategia adottata per impedire a tutti “i potenziali rivali di aspirare ad un ruolo più importante”, come ad esempio il Giappone, la Germania e l’India. Il documento affermava anche che gli Stati Uniti avrebbero dovuto prevenire “l’eventualità di dispositivi di sicurezza europei che avessero escluso gli Stati Uniti”  [7].

Il documento era confidenziale e la sua versione definitiva non aveva visto la luce sino allora, anche se alcuni più audaci hanno potuto raccontare come vi avevano avuto accesso [8]. Ma ciò che i passaggi pubblicati dal New York Times avevano evidenziato era una nuova offensiva della politica estera nordamericana con lo scopo di ridefinire il mondo dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Si veniva delineando così ciò che Valladão aveva chiamato la “strategia dell’aragosta”. La testa sarebbe stata costituita dagli Stati Uniti nel contesto dell’Acordo de Livre Comércio da America do Norte (NAFTA), e il corpo sarebbe stato composto dall’America Latina. Una delle tenaglie sarebbe stata formata dall’Organização do Tratado Atlântico Norte (OTAN o NATO) allargata e l’altra dagli accordi militari di difesa bilaterale con il Giappone e l’Asia del Pacifico, perseguiti insistentemente dal governo nordamericano. Tra queste due tenaglie ci sarebbero state le zone di turbolenza e quelle rappresentanti le principali minacce alla supremazia nordamericana: l’ex Unione Sovietica, il mondo mussulmano e la Cina [9].

2. La “dottrina di Clinton”: l’unilateralismo chique

Paradossalmente, il presidente che aveva annunciato la vittoria definitiva sull’Unione Sovietica e la costruzione di un nuovo ordine mondiale, aveva dovuto cedere alle pressioni dell’opinione pubblica nordamericana, fortemente segnate dalla recessione e favorevole ad un aggiornamento dell’agenda che privilegiasse la politica interna. Le pretese di Gorge Bush di ottenere un nuovo mandato erano sfumate e Bill Clinton e i democratici avevano assunto il potere, promettendo di focalizzare la loro attenzione sull’economia interna, come un raggio laser (“like a laser beam”).

Nel frattempo, i cambiamenti nella politica estera, portati avanti da Bill Clinton, avevano tardato alcuni mesi prima di apparire. I presunti nemici, no. Il 26 giugno 1993, sei mesi dopo l’incarico, gli Stati Uniti lanciavano un attacco missilistico sul quartiere generale dei servizi segreti iracheni, accusati di organizzare un attentato alla vita dell’ex presidente Bush.

Dopo alcuni mesi di politica reattiva, in cui si notava l’assenza di una strategia più chiara, si venne a delineare ciò che era stata chiamata, con una certa esagerazione, la “dottrina Clinton”. Spettò all’assistente del presidente Clinton per gli affari di sicurezza nazionale, Antonhy Lake, annunciare la nuova strategia in un discorso del 21 settembre: “Durante tutta la Guerra Fredda, abbiamo contenuto una minaccia globale per le democrazie basate sui principi del mercato, ora intendiamo ampliare la sua gettata, in particolare in quei luoghi che hanno un significato speciale per noi. La dottrina successiva a quella dei blocchi contrapposti deve contenere una strategia di ampliamento (enlargement) - ampliamento della comunità mondiale libera delle democrazie basate sui principi di mercato [10].

All’idea di un allargamento della “comunità internazionale”, è associata l’espansione dell’area di influenza diretta degli Stati Uniti nelle sfere economica, politica ed ideologica. Pochi giorni dopo il discorso di Lake, Bill Clinton aveva ridefinito i contorni della politica estera nordamericana. Il presidente aveva dichiarato: “in una era di pericoli e di opportunità, il nostro obiettivo principale deve essere quello di espandere e rafforzare la comunità mondiale delle democrazie basate sul mercato. Durante la Guerra Fredda ci siamo preoccupati di contenere la minaccia alla sopravvivenza di libere istituzioni. Ora dobbiamo cercare di allargare il circolo di nazioni che vivono nell’ambito di libere istituzioni” [11].

Il problema affrontato da Bush, ossia quello di andare avanti nella costruzione di un nuovo ordine mondiale di blocchi contrapposti, era lo stesso che stava affrontando Clinton, ma non il motto con il quale il nuovo governo lo fronteggiava. L’unilateralismo aggressivo caratteristico dei repubblicani ha la sua versione più sofisticata nei democratici. Sotto l’idea di allargamento si trova il presupposto della ricostruzione di un ordine liberale ampliato che ritrovi il vigore dell’economia nordamericana che aveva caratterizzato i tempi nei quali gli orientamenti delineati a Bretton Woods ancora non erano carta straccia.

La promessa di focalizzare l’economia come un laser non aveva così smesso di essere portata a compimento. Commentando il Peace, Prosperity and Democracy Act, avviato dal governo Clinton al Congresso, l’allora Segretario di Stato, Warren Christopher, definiva la questione in questi termini: “Il nuovo atto promuoverà aggressivamente gli interessi economici degli Stati Uniti. Attraverso quest’atto, potremo incoraggiare la crescita economica su base ampliata, creando mercati dinamici per le esportazioni nordamericane nel mondo in via di sviluppo, dove vivranno, intorno all’anno 2000, quattro dei cinque consumatori mondiali” [12]. Lo stesso Clinton aveva così affermato in un messaggio al Congresso, in occasione del dibattito sul Budget per il 1994: “abbiamo collocato la nostra competitività economica nel cuore della nostra politica estera” [13]. La riunione dell’organo direttivo dell’Asia-Pacific Economic Cooperatio (APEC - Cooperazione Economica dell’Asia-Pacifico), con la partecipazione della Cina, a novembre del 1993, l’entrata in vigore del North American Free Trade Agreement (NAFTA - Trattato di Libero Commercio del Nord America), l’1 gennaio 1994, e la firma degli accordi del General Agreement on Tariffs and Trade (GATT - Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio), nell’aprile del 1994, simbolizzavano il nuovo vigore della politica estera nordamericana.

Questa nuova visione costruita intorno all’imperativo della ricostruzione di un ordine liberale si associava, nei documenti strategici del governo Clinton, alla necessità della ricostruzione di un ordine di blocchi contrapposti. Le direttive strategiche di base di questo ordine di blocchi contrapposti erano state presentate per la prima volta in maniera più consistente nel noto Report on the Bottom-Up Review. La nuova politica cedeva alle pressioni interne per un rimaneggiamento delle risorse, difendendo una forza militare minore e più economica che fosse però in grado di operare simultaneamente su due teatri di guerra. Nel frattempo l’Unione Sovietica non sarebbe più stata la potenza oppositrice. I nuovi nemici dichiarati (sebbene ve ne fossero altri non precisati) sarebbero stati i cosiddetti “Stati Canaglia” (Rogue States): Cuba, Siria, Libia, Sudan, Iran, Iraq e Corea del Nord, con particolare enfasi per quest’ultimo.

La definizione di “Stati Canaglia” sarebbe stata realizzata appiattendo ogni differenza culturale, politica e storica e collocando al posto di queste i valori del capitalismo nordamericano. Così, nel Report on the Bottom-Up Review il segretario della Difesa, Les Aspin, annunciava l’inizio di una era nella quale “si potrà sostituire il confronto Est-Ovest della Guerra Fredda con una era nella quale la comunità delle nazioni, guidata da un compromesso comune sui principi democratici, sull’economia di libero mercato e sullo stato di diritto, potrà essere significativamente allargata” [14]. Ciò che definisce uno Stato Canaglia è così la sua insubordinazione, più o meno grave, di fronte ai valori considerati essenziali della politica estera nordamericana e in particolare al libero mercato. Così, sono considerati potenziali nemici tutti qui paesi che si collocano al margine dell’ordine mondiale che gli Stati uniti pretendono di costruire sotto il loro comando.

Retorica dei valori o dei prezzi? Nella definizione della sua strategia e dei suoi nemici, nella persistente universalizzazione dei propri valori, nell’espansione delle proprie capacità repressive e nella ricorrente utilizzazione di queste, la politica estera nordamericana sotto il governo Clinton ha espresso un persistente unilateralismo, ossia, l’affermazione della massima indipendenza di azione e libertà di intervento o di astensione, secondo la gravità della situazione, orientandosi, esclusivamente in sostegno dei propri interessi [15]. Ma la retorica è anche parte integrante della politica. L’unilateralismo clintoniano era legittimato all’estero da un discorso multilateralista nel quale venivano considerati riferimenti formali alla comunità internazionale, ai diritti umani e ad una politica più attiva degli organismi internazionali.

L’articolazione della costruzione di un ordine di blocchi contrapposti come presupposto all’ordine liberale rivela, in tutta la sua ampiezza, il suo carattere unilateralista. Il raggiungimento degli obiettivi economici nordamericani presuppone una politica estera attiva. Bisogna ricordare che nel suo discorso elettorale, Bill Clinton aveva promesso di concentrarsi sull’economia come un laser. Gli obiettivi della politica estera sono resi brutalmente espliciti, dando seguito ad un discorso presentato per la prima volta in maniera incisiva da Gorge Bush e ripreso da Les Aspin [16]: “Il nostro obiettivo principale, come nazione, è quello di rafforzare la nostra società e l’economia in modo da poter affrontare l’ambiente competitivo del XXI secolo, evitando, al tempo stesso, i rischi di una riduzione improvvisa della capacità di difesa e degli impegni d’oltremare”.

La “diplomazia economica” incontrava, così, il suo luogo ideale al centro della politica estera nordamericana. Nel discorso, la chiamata alla “globalizzazione economica” appariva come l’alibi finalmente trovato da una politica estera attiva; una strategia d’ingaggio, come annunciato nel Quadrennal Defense Review, del 1997, che presumibilmente si contrapponeva tanto all’isolazionismo quanto all’idea che gli Stati Uniti dovessero costituire la polizia del mondo:

“In mezzo a questa visione concorrente di isolazionismo e di polizia mondiale, risiede una strategia di sicurezza che è consistente con i nostri interessi globali - una strategia nazionale di sicurezza di ingaggio. Una strategia di ingaggio presume che gli Stati Uniti continuino ad esercitare una leadership forte all’interno della comunità internazionale, utilizzando tutte le dimensioni della sua influenza per adeguare l’ambiente della sicurezza internazionale. Ciò è particolarmente importante per garantire pace e stabilità, nelle regioni dove gli Stati Uniti hanno interessi vitali o importanti e per estendere la comunità delle democrazie di libero mercato. Rafforzare e adattare alleanze e coalizioni che servano a proteggere gli interessi e i valori condivisi è la maniera più efficace per raggiungere questi obiettivi” [17].

La “diplomazia economica” non presuppone l’abbandono della politica delle cannoniere, come è stato evidente nell’attacco all’Iraq e nel successivo invio di truppe nordamericane in Somalia nel 1993, nell’invasione di Haiti nel 1994 e nei bombardamenti della NATO in Bosnia nel 1995. Ma i critici della politica estera dei democratici non smettono di far notare, dando giusta rilevanza a questi interventi militari, che la politica di ingaggio ed ampliamento dell’amministrazione di Bill Clinton è stata segnata da un carattere reattivo di fronte agli eventi internazionali e da una scarsa capacità di prevenzione [18].

Di fatto l’idea di ingaggio e di allargamento era poggiata su una visione spontaneista ed estremamente ottimista della costruzione del nuovo ordine mondiale. La fine della cosiddetta guerra fredda avrebbe aperto la strada al passaggio dei valori, della politica e, chiaramente, dei prodotti nordamericani. Sarebbe bastato a tale scopo seguire questo movimento spontaneo, cercando di portarlo avanti fino a dove fosse stato possibile. Questa politica, come molti avevano notato, era l’espressione di un desiderio piuttosto che il risultato di un’analisi della realtà [19]. L’ottimismo clintoniano si appoggiava, certamente, sull’importante crescita dell’economia nordamericana e sulle conseguenti vittorie della diplomazia economica, che sembravano puntare ad una ricostruzione ben riuscita dell’ordine liberale.

Ma i conflitti che il governo nordamericano si trovò a dover affrontare nel primo mandato presidenziale rivelarono le difficoltà del processo di costruzione dell’ordine di blocchi contrapposti. L’apertura della libera strada proiettata dall’amministrazione Clinton sarebbe dipesa da un uso più costante della forza. Gli analisti conservatori e i politici repubblicani, forti della maggioranza conquistata al congresso nel 1995, affermavano che un ordine mondiale avrebbe visto la luce solo con la supremazia nordamericana. Discutendo, nel 1996, sul programma repubblicano per le elezioni, William Bristol e Robert Kaga, due importanti specialisti in relazioni internazionali, prevedevano:

“I conservatori non saranno in grado di governare gli Stati Uniti per un periodo lungo, se mancheranno di offrire una visione più elevata del loro ruolo internazionale. E quale deve essere questo ruolo? Un’egemonia globale benevola. Avendo sconfitto “l’impero del male”, gli Stati Uniti usufruiranno di un predominio strategico ed ideologico. Il primo obiettivo della politica estera nordamericana dovrà essere quello di preservare ed incrementare questo predominio” [20].

Il Quadrennial Defense Review Report, del 1997, non perde l’opportunità di essere una risposta a questi clamori. Quindi oltre ai presupposti del Bottom-Up questo anticipava, in una certa qual misura, ciò che sarebbe stata l’ascesa militarista nordamericana a partire dal 1998. Oltre a mantenere l’obiettivo di lottare e vincere sui due maggiori teatri di guerra, il nuovo rapporto accresceva la necessità di mantenere una costante presenza oltremare, in modo da “adeguare l’ambiente internazionale” e rispondere in maniera più efficiente “alla varietà di contingenze di piccola dimensione e alle minacce asimmetriche” [21].

Se fosse necessario ad “adeguare l’ambiente” internazionale e la “comunità internazionale” dovrebbe rimanere chiaro che: “Quando gli interessi in gioco sono vitali - ossia quando sono di ampia e crescente importanza per la sopravvivenza, per la sicurezza e per la vitalità degli Stati Uniti - noi potremo fare ciò che è giusto per difenderli incluso, se necessario, l’uso unilaterale del potere militare” [22]. I bombardamenti sull’Afganistan e sul Sudan, nell’1998 e, in maniera più chiara, l’attacco della NATO alla Serbia, ordinato dagli Stati Uniti nel 1999, dimostrano chiaramente che il multilateralismo clintoniano era solo una questione di tattica, o meglio, una questione di stile, come ha precisato l’analista conservatore Robert Kagan [23].

3. La “dottrina Bush”: l’unilateralismo shock

A partire dal 1999, illustrando una posizione più offensiva del governo nordamericano, il bilancio della difesa iniziava a crescere in termini reali, aumentando del 5,2% nel 1999, del 1,4% nel 2000 e del 5,0% nel 2001. Alla fine del suo secondo mandato presidenziale il governo Clinton aveva promosso diciotto interventi militari in un periodo di soli tre anni. “Una media di un intervento ogni nove settimane negli ultimi anni”, aveva fatto notare Gorge W. Bush durante la sua campagna presidenziale [24].

Il nuovo presidente, Gorge W. Bush, aveva continuato questa ascesa agli armamenti proprio mentre, con la sua equipe, promuoveva una nuova svolta tattica nella politica estera nordamericana. I primi mesi di governo erano stati fortemente segnati da una certa recrudescenza sulla politica unilateralista, già implementata da Clinton, per la fredda supremazia degli “interessi nazionali” sulla “comunità internazionale” e per un apparente disprezzo per i temi di politica internazionale.

Bush e la sua equipe erano portatori di un programma che riprendeva il paradigma reaganiano della realizzazione di una “egemonia benevola” da parte degli Stati Uniti, riscattando l’offensiva politico-economica del vecchio cowboy. L’unilateralismo chique di Bill Clinton, con i suoi appelli alla “comunità internazionale” lasciava il posto all’unilateralismo shock di Bush e della sua equipe.

Per la nuova strategia, la costruzione del nuovo ordine mondiale avrebbe dovuto essere un atto di forza degli Stati Uniti. La minaccia principale che gli Stati Uniti avrebbero affrontato sarebbe stata la loro stessa passività e il loro rifiuto nell’uso della forza necessaria al ridisegno dell’ordine mondiale: “l’egemonia nordamericana è l’unica difesa possibile contro la rottura della pace e dell’ordine internazionale. L’obiettivo appropriato della politica estera nordamericana è, quindi, quello di preservare quanto più possibile questa egemonia. Per raggiungere questo obiettivo, gli Stati Uniti hanno bisogno di una politica estera neo-reaganista di supremazia militare e di confidenza morale” [25].

Il 2 gennaio del 2001, durante i primi sei mesi del suo mandato, Gorge W. Bush aveva annunciato, che non avrebbe inviato al Senato, per la sua ratifica, l’accordo sancito con la Corte Criminale Internazionale; il 28 marzo aveva abbandonato il protocollo di Kyoto del 1997; il 1 maggio aveva minacciato di abbandonare il Trattato sui Missili Balistici; il 21 luglio aveva minacciato di ritirarsi dalla conferenza delle Nazioni Unite per la limitazione del traffico illegale di armi leggere; e il 25 luglio aveva ritirato le misure proposte per rinforzare la Convenzione sulle Armi Biologiche del 1982 [26].

Gli attentati del 11 settembre avevano fornito l’alibi perfetto per la ripresa dell’offensiva politico-economica. Decretata la guerra contro il terrorismo, “una guerra per salvare la stessa civilizzazione”, secondo le parole di Bush, si era dato inizio all’offensiva [27]. Quando Bush fu eletto, nel 2001, il bilancio per la difesa era di 329 miliardi di dollari, questo è balzato a 396,8 miliardi di dollari nel 2003. Oltre all’elevata previsione sul bilancio del 2001, il governo Bush, subito dopo gli attentati, aveva sollecitato ed aveva ottenuto dal Congresso nordamericano un incremento di bilancio di 40 miliardi di dollari. Il bilancio del 2002 aveva incorporato nuovi aumenti alla difesa, arrivando ad un totale di 350,7 miliardi di dollari, ai quali si sommavano 14,4 miliardi di dollari come supplemento al bilancio, stanziati nell’agosto del 2002 e destinati al Pentagono per dare conto dei crescenti costi della guerra contro l’Afganistan. Il bilancio per la difesa del 2003, a sua volta, registra un incremento del 10,7% rispetto all’anno precedente, arrivando alla somma già citata di 396,8 miliardi di dollari, che uguaglia gli indici di crescita delle spese militari sostenute durante la corsa agli armamenti patrocinata da Ronald Reagan [28].

Per l’anno fiscale 2004, il governo Bush ha in piano di raccogliere 399,1 miliardi di dollari per il suo bilancio per la difesa. Questa somma supera del 13%, in termini reali, la media delle spese militari nel periodo della Guerra Fredda. La previsione ufficiale è che il bilancio aumenti del 17% tra gli anni fiscali 2003 e 2009, che comporterebbe, nell’ultimo periodo, un incremento del 22% oltre la media degli anni della Guerra Fredda, tornando ai valori della corsa alle armi promossa da Ronald Reagan negli anni 1980 [29].

Ma l’impero del male, secondo l’anatema di Ronald Reagan, non esiste più. Gorge Bush e la sua equipe trovano un sostituto se non alla loro altezza almeno funzionale per “l’asse del male” - Iran, Iraq e Corea del Nord [30]. Per coloro che ancora hanno l’illusione della politica estera di Bill Clinton vale ricordare che i documenti strategici del suo periodo non smettono il vilipendio degli “Stati Canaglia” (rogue States) - gli stessi tre de “l’asse del male”, più la Libia, il Sudan, la Siria e Cuba.

Il National Security Strategy of the United States of America, divulgato nel settembre 2002, aveva reso radicale la strategia del nuovo governo. In questo viene proclamata l’esistenza di un unico modello di successo nazionale - libertà, democrazia e libera impresa, ossia, l’american way of life - e annunciata la presenza di nuovi nemici: i terroristi. Definiti in maniera vaga affinché tra questi potessero essere inclusi tutti coloro che si oppongono agli interessi nordamericani, i terroristi sono costituiti in migliaia di “cellule nell’America del Nord, nell’America del Sud, in Europa, in Africa, in Medio Oriente e attraverso l’Asia” [31]. Associando all’esistenza di questi e alla minaccia per la sicurezza americana l’assenza di “democrazia, di sviluppo, di libero mercato e di libero commercio”, il documento si impegna ad operare attivamente per sconfiggerli in tutte le parti del mondo e afferma: “una economia mondiale forte, aumenta la nostra sicurezza nazionale promovendo la prosperità e la libertà nel resto del mondo” [32].

Alcuni aspetti del National Security Strategy meritano di essere considerati a parte. Il documento da nuovi contorni al multilateralismo american style. Focalizzando sulla cooperazione tra grandi potenze, la nuova politica di sicurezza nordamericana afferma la volontà di costruire un nuovo ordine mondiale nel quale tutte le maggiori potenze si trovino direttamente subordinate al potere nordamericano. Per la prima volta dalla nascita del sistema degli stati-nazione stabilito nella Pace di Westfalia si avrebbe un potere incontrastato in grado di unificare tutte le maggiori potenze intorno al suo progetto.

Un potere incontrastato e che non ammetta alcuna possibilità di essere messo in discussione. Mostrando che la cooperazione tra grandi potenze è in verità un rapporto di dominazione, il documento, in uno dei suoi passaggi più criticati, dichiara che gli Stati Uniti “avranno la forza sufficiente per dissuadere i potenziali avversari dall’intraprendere tentativi di raggruppamento di forze militari con la speranza di sovrapporsi o eguagliare il potere degli Stati Uniti” [33]. Il testo riprende i passaggi polemici del Defense Planning Guidance, divulgato dal New York Times nel 1992, e non si deve dimenticare che Paul Wolfowitz, il consigliere indicato da quel documento, sia di nuovo alla Casa Bianca, con l’incarico di Sottosegretario alla Difesa del governo nordamericano.

Nello spirito di questo multilateralismo american style gli Stati Uniti hanno annunciano che forniranno sempre appoggio internazionale ma, sostengono, “non esiteremo ad agire soli, se necessario, per esercitare il nostro diritto all’autodifesa, colpendo preventivamente i terroristi, per impedirgli di nuocere al nostro popolo e al nostro paese” [34]. L’idea di un’azione preventiva qui annunciata è, in seguito, subito ampliata. Secondo la Casa Bianca, gli Stati Uniti devono essere pronti a fermare gli Stati Canaglia e i loro alleati terroristi, prima che questi li attacchino. I concetti tradizionali di deterrenza non funzionerebbero più, secondo il documento, motivo per cui si rende necessaria una strategia offensiva che includa tra le sue possibilità la “guerra preventiva”, ossia, l’attacco senza che ci sia stata una precedente aggressione o il rischio di una minaccia esplicita imminente: “per anticipare o prevenire atti ostili dei nostri avversari, gli Stati Uniti agiranno, se necessario in maniera preventiva [35]”.

La minaccia assume toni stridenti quando presa in considerazione dal Nuclear Posture Review, inviato dal governo nordamericano al Congresso nel 2002 [36]. Ripetendo gli obiettivi strategici presentati nel Quadrennial Defense Rview Report del 2001 - proteggere alleati ed amici, dissuadere gli avversari, fermare gli aggressori e sconfiggere i nemici - e stimando tra 1.700 e 2.200 le ogive nucleari come la forza necessaria per colpire questi obiettivi, la nuova strategia nordamericana propone modifiche importanti nell’arsenale nucleare [37].

La nuova strategia nucleare ritiene necessario sviluppare un insieme di forze più flessibili all’interno delle quali la combinazione di missili intercontinentali, bombardieri e sottomarini lanciamissili siano solo parte di una triade di forze che includano nuove capacità nucleari e non-nucleari in grado di sostenere le rinnovate minacce alle quali gli Stati Uniti sono sottoposti. Questa flessibilità include armi nucleari minori e capaci di distruggere bunker sotterranei e neutralizzare arsenali chimici e biologici con un ridotto “danno collaterale”. A tal proposito saranno riattivate le equipe di studio dedicate alla creazione di nuove armi e ridotto il termine per la ripresa di nuovi test nucleari da due o tre anni ad appena tre mesi.

Stephen I. Schwartz, editore del Bulletin of the Atomic Scietists ci ha messo in guardia sull’ipocrisia dell’argomento riferito ai “danni” provocati da queste armi e sul loro potere devastante: “la maggiore bomba convenzionale dell’arsenale nordamericano, la BLU-82 - chiamata “taglia-margherite” ed utilizzata con moderazione in Afganistan - contiene 12.600 libre (5.700 chili) di esplosivi chimici. Un’arma nucleare di un chiloton esplode con una forza equivalente a 2 milioni di libre di esplosivo (la bomba che ha distrutto Hiroshima era di 15 chiloton). Quindi un’arma di 0,1 chiloton (100 tonnellate) equivale a 200,000 libre di esplosivo (...)” [38]. Per fare in modo che una bomba di questa potenza possa essere detonata senza avere effetto sulla superficie la si dovrebbe fare esplodere a più di 70 metri di profondità, il che è tecnicamente impossibile [i].

Quali sono i bersagli di questi armamenti? Il documento sostiene l’esistenza di contingenze immediate, potenziali ed inattese che possano motivare l’utilizzo di questi arsenali. Le contingenze immediate considerano pericoli ben conosciuti, come indica il documento: “esempi attuali di contingenze immediate includono un attacco iracheno ad Israele o ai suoi vicini, un attacco della Corea del Nord alla Corea del Sud, o un confronto militare sullo status di Taiwan” [39]. Le contingenze possibili, come la nascita di una coalizione militare anti-nordamericana, con uno o più dei suoi membri in possesso di armi nucleari, non comporta pericoli immediati. Per ultimo si considerano contingenze inaspettate che repentinamente e senza preavviso sfidino la politica estera nordamericana.

La Corea del Nord, l’Iran, l’Iraq, la Siria, e la Libia sono i paesi che possono comportare contingenze immediate, potenziali e inaspettate. La Cina è considerata un paese che potrebbe partecipare a contingenze immediate o potenziali. La Russia, poiché coinvolta in rapporti di cooperazione con gli Stati Uniti, non rappresenta una minaccia né immediata né potenziale, anche se la sua pericolosità non è completamente scongiurata [i].

La reazione della Russia e principalmente della Cina alla minaccia nucleare è stata immediata e prevedibile, con dure critiche alla politica nordamericana e con l’accelerazione di un processo di revisione delle loro politiche nucleare [40]. La posizione cinese è indicativa delle tensioni che l’unilateralismo esacerbato può provocare su scala mondiale. Il governo nordamericano è consapevole di questa tensione ma sa che questo è il prezzo della transizione verso un ordine mondiale basato sulla sua supremazia.

4. Militarismo, egemonia e ordine mondiale

Subito dopo l’11 settembre molti analisti avevano creduto che il governo Bush stava abbandonando il suo unilateralismo aggressivo per incamminarsi in direzione di un multilateralismo efficace [41]. La costruzione di un’ampia coalizione contro il terrore, che riunisse non solo gli alleati tradizionali della politica estera statunitense ma anche la Russia, la Cina e i paesi arabi, avrebbe indicato una nuova posizione del governo Bush. Ma questa prospettiva si dissolse rapidamente. Il governo nordamericano cercò insistentemente l’appoggio di tutti i paesi nella sua “lotta contro il terrorismo”, semplicemente esigendolo, con l’affermazione che “nessuna nazione avrebbe potuto essere neutrale in questo conflitto” [42].

Ma una coalizione costituita su queste basi aveva riunito paesi con gradi di coinvolgimento nella politica estera statunitense molto differenti tra loro e molti altri addirittura senza coinvolgimento alcuno, come nel caso dell’Iran. Molto lontano da una piena egemonia, ossia, da un approfondimento della capacità di gestire la situazione, basato sulla costruzione di un consenso internazionale, si era arrivati all’utilizzo sistematico della corruzione, del ricatto e della minaccia con l’obiettivo di ottenere basi militari, permessi per l’utilizzo degli spazi aerei, informazioni o semplicemente la compiacenza, finché l’Afganistan fosse stato a pezzi [43].

Perfino quelli che credevano in una tendenza iniziale al multilateralismo, come lo specialista in relazioni internazionali Steve Smith, erano stati obbligati ad ammettere che “sei mesi dopo gli eventi [dell’11 settembre] si era fatto sempre più chiaro che l’ordine mondiale che sarebbe con molta probabilità emerso sarebbe stato quello fondato su un accrescimento del potere e dell’unilateralismo nordamericano: questo avrebbe implicato il rischio di un strapotere incontrastato che avrebbe definito la politica estera a partire dagli stretti interessi domestici e il successivo sviluppo di un ordine mondiale regressivo impermeabile a coloro i quali sarebbero stati trattati con iniquità [44]”.

La guerra contro l’Iraq, i conflitti con gli alleati tradizionali, come la Francia e la Germania e l’allontanamento dei nuovi partner, come la Russia e la Cina, mostrano che il governo degli Stati Uniti ha chiaramente optato per un esplicito unilateralismo. Come comprendere le nuove posizioni che la politica estera statunitense sta assumendo con il governo Bush? Esistono varie possibilità:

la prima possibilità è di carattere psicologico. Questa evidenzia le caratteristiche personali del presidente Gorge W. Bush. Mi riferisco ai suoi noti limiti intellettuali e alle sue credenze religiose marcatamente fondamentaliste. Da ciò deriva un fondamento teologico nella concezione del mondo che riduce tutto alla lotta tra bene e male. La politica estera statunitense sarebbe, così, il risultato di uno stile texano, ossia, di un duello in grado di redimere il mondo da tutti i peccati, ma inteso in scala planetaria.

La seconda, ha un carattere politico minimalista, che ha distinto l’ascesa, attraverso Bush, dei cosiddetti falchi Dick Cheney, Ronald Rumsfeld, Paul Wolfowitz e Richard Perle, insieme agli ideologi neoconservatori Robert Kagan, William Kristol e Charles Krauthammer. La loro ascesa al potere avrebbe rilanciato un progetto imperiale, nel quale la costruzione di un nuovo ordine mondiale avrebbe dovuto essere un atto di forza degli Stati Uniti [45].

La terza, ha un carattere economico minimalista, che evidenzia i legami dei repubblicani con l’industria degli armamenti, da un lato, e con quella del petrolio, dall’altro. La nuova politica estera si potrebbe così definire un successo per queste lobby, che si vedono assicurate le posizioni chiave del governo, inclusa, nel caso delle compagnie petrolifere, la stessa presidenza.

Queste tre caratteristiche non sono sufficienti a spiegare la politica estera statunitense attuale. L’ingenuità del carattere psicologico è evidente, sebbene la tentazione di parlare male del presidente Bush sia grande, come una specie di rivincita della vittima. Certamente esiste una dimensione psicologica che può essere pienamente compresa solo se ci riferiamo al momento attuale del capitalismo e particolarmente alla condizione degli Stati Uniti. Ma preferiamo lasciare la dimensione psicologica agli specialisti.

I caratteri che prendiamo in analisi sono quelli politici ed economici intesi in senso più ampio, evitando pertanto di ridurli ad un insieme di interessi egoistici immediati (potere e ricchezza), come sono invece abituati a fare i liberali. La nuova strategia statunitense approfondisce e radicalizza un movimento che ha avuto inizio con i bombardamenti del 1998, sull’Afganistan e sul Sudan, che è proseguito con l’attacco alla Serbia fino all’intervento militare in Afganistan e che ha infine prodotto l’invasione dell’Iraq. Il suo obiettivo, per riprendere una espressione dello stesso Dipartimento della Difesa nordamericano, è quello di “adeguare l’ambiente” per garantire la “vitalità e la produttività dell’economia globale” in un contesto segnato da una crisi economica e politica.

La strategia di Bush è una risposta capitalista alla crisi del capitalismo. Dal punto di vista economico questa combina due politiche anticicliche conosciute: l’espansione dell’industria degli armamenti che permette la realizzazione di un plusvalore senza l’aumento del consumo privato, e l’accesso a nuovi mercati, vitale per il superamento dell’attuale crisi economica statunitense e per la riduzione delle tasse per il commercio con l’estero. Si tratta, pertanto, di una politica intesa a ricostruire un ordine liberale esteso. Dal punto di vista politico, questa mette in movimento un monumentale apparato repressivo militare, con l’obiettivo di costruire un ordine di blocchi contrapposti (un ordine di aggressione, come ci ricorda The National Security Strategy) in grado di attaccare tutti gli ostacoli che si levano contro il cosiddetto “interesse nazionale” nordamericano. Con tale finalità l’unilateralismo persistente dimostrato dagli Stati Uniti, si combina, in una situazione di crisi organica, con una politica militarista in grado di crear il peggiore mondo possibile.

L’egemonia che la politica estera degli Stati Uniti persegue è, quindi, molto lontana dal rappresentare un rinnovato indirizzo politico ed ideologico. E non potrebbe neppure! Non si tratta della costruzione di un’egemonia da parte di una nazione che cerca di riassumere gli impulsi della trasformazione e del rinnovamento della politica mondiale ma di una egemonia voluta da una nazione la cui posizione politica ed economica nel sistema internazionale è in crisi. In questo modo, gli Stati Uniti sono strutturalmente incapaci di raggiungere un consenso spontaneo costruito sulla base di accordi e concessioni, come la socialdemocrazia europea sembrerebbe chiedere.

Per evitare confusioni, è importante specificare il significato che qui assume il concetto di egemonia. Nella teoria delle relazioni internazionali, e sempre di più nella grande impresa, la parola egemonia è utilizzata come sinonimo di dominazione o supremazia. L’egemonia sarebbe così l’affermazione della capacità di fare in modo che gli altri facciano ciò che altrimenti non farebbero. I mezzi per tale proposito possono variare, ma sono sempre rapportabili ad una dimensione coercitiva della politica. La dominazione viene realizzata attraverso l’uso reale o ipotizzato della forza. Kristol e Kagan parlavano proprio di dominazione e di supremazia, quando affermavano che “l’egemonia statunitense è l’unica difesa affidabile contro la rottura della pace e dell’ordine internazionale. L’obiettivo appropriato della politica etera statunitense, allora, è quello di preservare, quanto più possibile, questa egemonia. Per raggiungere questo obiettivo, gli Stati Uniti hanno bisogno di una politica estera neo-reaganista di supremazia militare e confidenza morale [46].

Non si tratta, pertanto di “una comprensione errata di ciò che intendono per egemonia” i governanti nordamericani o i loro ideologi, come afferma chiaramente Bresser Pereira in un suo recente articolo [47]. Questo è un processo di costruzione di un nuovo ordine mondiale in un contesto in cui gli Stati Uniti, nonostante possiedano un’ineguagliabile arsenale militare e non abbiano apparentemente nemici dello stesso calibro, non riescono a rendere stabile lo scenario internazionale e a controllarne le crescenti minacce. Questa egemonia è ridotta poiché incapace di incorporare nel suo progetto altre forze sociali e politiche. Nell’era dell’imperialismo, l’idea di egemonia borghese piena, in senso gramsciano di direzione etico-politica, è impropria. Sarebbe più adeguato parlare, quindi, di una rivoluzione passiva permanente, ossia di un processo continuo di costruzione di un ordine mondiale non inclusivo, nel quale l’uso della forza si articola attraverso la corruzione e la frode con l’obiettivo di scardinare, frammentare e pacificare qualsiasi oppositore.

Ora, questo processo non trova mai un suo punto d’equilibrio. La soluzione della crisi per mezzo dell’affermazione della supremazia statunitense e dell’uso della violenza ha prodotto, per un periodo molto più corto di quello che si sarebbe sperato, nuovi sconquassi [48]. La sfida della sinistra è, giustamente, quella di disarticolare questa rivoluzione passiva, d’impedire la ricostruzione di questa configurazione economica, politica e spaziale del mondo portata avanti dai crociati del neoliberalismo, di contrapporre la politica globale dell’imperialismo alla politica mondiale degli sfruttati, d’impedire che il nuovo secolo inizi prima che termini il precedente.


[1] G. John Ikenberry. The myth of post-Cold War chaos. Foreign Affaire, may-june, 1996, p. 81.

[2] Gorge Bush. Address before a Joint Session of the Congress on the Persian Gulf crisis and the federal budget deficit. Washington D.C.: Office of the Press Secretary, 11 Sept. 1990. Grifos nossos.

[3] The white House. National Security Strategy of the United States. Washington D.C. aug. 1991.

[4] Idem.

[5] Idem.

[6] William Appleman Williams. The tragedy of American diplomacy. New York: Basic, 1968.

[7] Alfredo G. A. Valladão. Les mutations de l’ordre mondial. Géopolitique des grandes puissances 1080-1995. Paris: La Découverte, 1994, p. 170.

[8] È stato Charles Knight con Project on Defence Alternatives che mi ha messo in guardia su questo.

[9] Idem, p. 170-177. l’immagine è più forte a partire da una proiezione Dymaxion del globo terrestre.

[10] Anthony Lake. From Containment to Enlargement. Address at the School of Advanced International Studies, John Hopkins University, Washington, DC, 21 Sept. 1993. US Department of State Dispatch, v. 4, n. 39, 27 Sept 1993. Per la formulazione di questa nuova visione confrontare Douglas Brikley. Democratic enlargement: The Clinton Doctrine. Foreign Policy, n. 106, Spring 1997.

[11] Bill Clinton. Confrontino the Challenger of a Broader World. Address to the UN General Assembly, 27 Sept. 1993. US Department of State Dispatch, v. 4, n. 39, 27 Sept. 1993.

[12] Warren Christopher. The Peace, Prosperity, and Democracy Act of 1994. Opening statement at a Senate Department news Conference. Washington, DC, February 3, 1994. US Department of State Dispatch, v. 5, n. 7 14 Feb. 1994.

[13] William J. Clinton. The Budjet Message of the President. Washington D.C.: 7 Feb. 1994.

[14] Les Aspin. Report on the Bottom-Up Review. Washington D.C.: Department of Defense, 1993. Disponibile su http://www.fas.org/man/docs/bur/index.html

[15] Sul persistente unilateralismo della politica estera nordamericana si veda Michel Dunne. US foreign relations in the Twentieth century: from world power to global hegemony. International Affairs, v. 76, n. 1, p. 25-40, 2000.

[16] Les Aspin. Op. cit.

[17] US Department of Defence. Quadrennial Defence Review, 1997. Washington D.C.: 1997.

[18] Charles William Maynes. Bottom-Up Foreign policy. Foreign Policy, n. 104, Fall 1996, p. 36.

[19] Douglas Brinkley. Democratic enlargment: The Clinton doctrine. Foreign Policy, n. 106, Spring 1997, p. 119.

[20] William Bristol e Robert Kagan. Toward a neo-reganite foreign policy. Foreign Affairs, v. 75, n. 5, jul.-aug. 1996, p. 20. Vedere anche Robert Kagan. The benevolent empire. Foreign Policy, n.111, p. 24-48, summer, 1998.

[21] William S. Cohen. The Secretary message. In: US Department of Defense. Quadrennial Defense Review, 1997. Washington D.C.: 1997.

[22] Idem.

[23] Robert Kagan. Multilateralism, American style. The Washington Post, 13 Sept. 2002.

[24] Gorge W. Bush. A period of consequences. The Citadel. 23 sept. 1999. Disponibile su http://www.ransac.org/new-web-site/.Confrontare le argomentazioni su dibattito elettorale che riferiscono alla politica estera su Rodger.A. Payne. Bush: the sequel. International Studies Perspective, v. 2, n. 3, p. 305-315, 2001.

[25] William Bristol e Robert Kagan. Toward a neo-reganite foreign policy. Foreign Affairs, v. 75, n. 5, jul.aug, 1996, p. 23.

[26] Michael Cox. American power bifore and after 11 September: dizzy with success. International Affairs, v. 78, n. 2, 2002, p. 270n; Steve Smith. The end of the unipolar moment? September 11 and the future of the world order. International Relations, v. 16, n. 2, 2002, p. 175-177 ; John Dumbrell. Unilateralism and “America First”? President George W. Bush foreign policy. The Political Quarterly, v. 73, n. 2, p. 279-287, jul. 2002.

[27] Gorge W. Bush. President discusses war on terrorism in address to the Nation World Congress Center. Washington D.C.: Office of the Press Secretary, 6 Nov. 2001.

[28] The Arms Trade Resources. Increases in military spending and security assistance since 9/11/01. TomPaine.com, 8 oct. 8 2002. Disponibile su: http://www.tompaine.com/feature.cfm/ID/6504/view/print. Vedere anche National Defense Budget Autorithy, FY 1960-2007. Disponibile su:
http://www.csbaonline.org/3Defense_budget/2Tables_Graphs/1Defense_Budget_Topline/Table2.pdf

[29] Steven M. Kosiak. FY 2004 Defense Budget Requiest: Back To Cold War-Level spending and beyond. Center for Strategic and Budgetary Assessments. 31, jan. 2003. Disponibile su: http://www.csbaonline.org.

[30] “States like these, and their terrorist allies, costitute an axis of evil, armino to Threaten the peace of the world. By seeking weapons of mass destruction, these regimes pose a grave and growing dange. They could provide these arms to terrorists, giving them the means to mach their hatred. They could attack our allies or attempt to blackmail the United States. In any of these cases, the price of indifference would be catastrophic.” George W. Bush. The President’s State of the Union Address. Washington, D.C.: Office of the Press Secretary. 29 jan. 2002.

[31] The White House. The National Security Strategy of the United States of America. Washington D.C., sept. 2002, p. 5.

[32] The White House. The National Security Strategy of the United States of America. Washington D.C., sept. 2002, p. 17.

[33] Idem, p. 38.

[34] Idem, p. 6.

[35] The White House. The National Security Strategy of the United States of America. Washington D.C.: Sept 2002, p. 15. Il tema era già stato anticipato in un discorso di George Bush all’accademia militare di West Point a giugno del 2001: “La detenzione
 la promessa di rappresaglie di massa contro le nazioni - non ha alcun significato contro le reti oscure dei terroristi senza nazione o città da difendere. La contesa non è più possibile quando folli dittatori con armi di distruzione di massa possono lanciare queste armi con missili o distribuirle segretamente a terroristi alleati. Non difendiamo gli Stati Uniti e i nostri alleati sperando per il meglio. Non possiamo credere nelle parole di tiranni che firmano solennemente trattati di non-proliferazione e in seguito li ritrattano sistematicamente. Se aspettiamo che le minacce si materializzino completamente rischieremmo di aspettare troppo (...) La guerra contro il terrore non può essere risolta sulla difensiva. Dobbiamo combattere il nemico, l’unica via verso la sicurezza è quella dell’azione. Questa nazione agirà”. Gorge W. Bush. Remarks by the president at 2002 Graduation Exercise of the United States at the West Point Military Academy. Washington D.C.: office of the Press Secretary, 1 jun. 2002.

[36] Il documento è considerato confidenziale ed è stata pubblicata ufficialmente solo una lettera di presentazione di Donald Rumfeld. Vedere William M. Arkin. Secret Plan outlines the unthinkable. Los Angeles Times, 10 mar. 2002; Doyle McManus. Nuclear use as “option” clouds issue. Los Angeles Times, 12 mar. 2002 e Greg Miller. Bush puts nuclear use in “options available”. Los Angeles Times, 14 mar. 2002. Analisi critiche più estese sul tema si possono trovare in Philipp C. Bleeck. Nuclear Posture Review laks; outlines targets, contingencies. Arms Control Today, v. 32, n. 3, apr. 2002 e Marianne Hanson. Nuclear weapons as obstacles to international security. International Ralations. V. 16, n. 3, p. 361-379, 2002. Gli estratti del documento qui utilizzato sono stati resi disponibili nel sito www.globalsecurity.org e coincidono con quelli pubblicati dal Los Angeles Times. Una sintesi ufficiale del documento si può trovare su J. D. Crouch. Special Briefing on the Nuclear Posture Review. U.S. Departmente of State international information Programs, 9 jan. 2002. Disponibile su http://usinfo.state.gov

[37] US Department of Defense, Quadrennial Defense Review. Washington D.C.: 2001 e US Department of Defense. Nuclear Posture Review. Washington D.C.: 2002.

[38] Stephen I. Schwartz. Nukes you can Use. Bulletin of Atomic Scientists, v. 58, n. 3, p. 18-19, 69, may-jun. 2002.

[i] Idem.

[39] Department of Defense. Nuclear Posture Review. Op. cit., p. 16.

[i] Idem, p. 16-17.

[40] Nation prompts US to explain nuke report. China daily, 13 mar. 2002. Sull’impatto della posizione nordamericana sulla politica nucleare cinese vedere Joanne Tompkins.How U.S. Strategic policy is changing China’s nuclear plans. Arms Control Today, v. 33, n.1, jan.-feb. 2003.

[41] Questa visione ottimista si può trovare in Walt [2001].

[42] Gorge W. Bush. President discusse war on terrorism in address to the Natio world Congress Center. Washington D.C.: Office of the Press Secretary, 6 Nov. 2001.

[43] Steven E. Miller. The end of unilateralism or unilateralism redux. The Washington Quarterly, Washington D.C., v. 25, n. 1, Winter, 2001.

[44] Steve Smith. The end of the unipolar moment? September 11 and the future of world order. International Relations, v. 16, n. 2, 2002, p. 171.

[45] Robert Kagan. Of Paradise and Power: America and Europe in the New World Order. New York: Knopf, 2003. All’interno delle molteplici analisi critiche sull’ascesa dei neocons nella politica estera statunitense vedere Tom Barry e Jim Lobe. The Men Who Stole the Show. Foreign Policy in Focus Special Report, n. 18, oct. 2002.

[46] William Bristol e Robert Kagan. Toward a neo-reganite foreign policy. Foreign Afairs, New York, v. 75, n. 5, jul.-aug. 1996, p. 23.

[47] Luiz Carlos Bresser Pereira. O gigante fora do tempo: A guerra do Iraque e o sistema global. Política Externa, Rio de Janeiro, v. 12, n. 1, jun.- jul. 2003, p. 42.

[48] Gli eccellenti lavori di Chalmers Johnson (Blowback. The costs and consequences of American empire. New York: Metropolitan Books, 2000) e Gabriel Kolko (Another century of war. New York: The New Press, 2002) danno conto dei risultati catastrofici per gli Stati Uniti della loro stessa politica estera. La Guerra del Golfo voluta da Bush senior è in questo senso paradossale dal momento che ha alimentato i risentimenti nei confronti di un vecchio alleato degli Stati Uniti, Osama bin Laden e ha destabilizzato ancora di più la regione.