Osservazioni critiche sul saggio di Ernesto Screpanti
L’articolo di Screpanti rientra a pieno titolo in un genere letterario che ultimamente ha conosciuto qualche fortuna, ma il cui successo era stato addirittura straripante negli anni Settanta: si tratta della critica al marxismo condotta in nome di Marx. Come ricorderà chi ancora oggi si ostina ad occuparsi di cose così desolatamente fuori moda, trent’anni fa questa modalità di attacco al marxismo conobbe due varianti: l’attacco a Engels (“rozzo interprete del pensiero di Marx”, inquinato dal positivismo se non addirittura dal materialismo volgare) e l’attacco a Lenin (“rozzo interprete del pensiero di Marx”, da lui tradotto in una concezione politicistica della storia e in una pratica politica in ultima analisi riconducibile al despotismo asiatico, totalitaria, ecc. ecc.). Screpanti sceglie oggi la seconda variante: attaccare Lenin in nome di Marx. Lo fa in maniera relativamente sofisticata e apparentemente soft, ossia accettando alcune tesi leniniane. Questo attacco ha comunque il punto di approdo in una esplicita negazione della validità attuale della categoria di “imperialismo”, che ha rappresentato una delle chiavi di lettura peculiari del mondo contemporaneo offerte dal marxismo novecentesco. Ad essa Screpanti contrappone la propria tesi secondo cui l’imperialismo stesso e i conflitti interimperialistici che a tale fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico sono inevitabilmente inerenti (secondo Lenin, ma anche secondo Bucharin, Rosa Luxemburg, e ancor prima secondo tutta l’ala sinistra della socialdemocrazia tedesca) sarebbe una fase superata del modo di produzione capitalistico: superata, cioè, dall’attuale “imperialismo globale”, inteso come “un sistema di controllo dell’economia mondiale in cui non esistono sostanziali contraddizioni inter-imperialistiche”.
Nel seguito si vedranno nel dettaglio le posizioni di Screpanti e le loro conseguenze - ad avviso di chi scrive tutt’altro che incoraggianti - sotto il profilo dell’interpretazione di quanto sta accadendo ed è accaduto negli ultimi anni.
La cifra stilistica dello scritto di Screpanti è chiara fin dall’incipit: “per capire la globalizzazione capitalistica moderna non c’è niente di meglio dell’Imperialismo di Lenin. Da usare però come pietra di paragone e modello controfattuale. ... Osservando le somiglianze e le differenze tra la realtà attuale e lo schema di Lenin, si può riuscire a capire cosa la globalizzazione è e cosa non è”. Insomma: per capire la realtà attuale dobbiamo leggere Lenin... e capire dove ha sbagliato.
Ecco, appunto: dove ha sbagliato? Secondo Screpanti, è presto detto: nelle ultime 2 tra le 5 caratteristiche distintive dell’“imperialismo”. Ossia la quarta: formazione di “associazioni monopolistiche internazionali che si spartiscono il mondo”. E la quinta: spartizione della terra tra grandi potenze imperialistiche e inasprimento delle contraddizioni interimperialistiche.
Di queste due caratteristiche Screpanti afferma, con sicurezza degna di miglior causa, che esse “non sembrano essersi realizzate, né essere in via di realizzazione, neanche in tendenza”. In altri termini: “Non sembra che il capitalismo globale contemporaneo abbia dato origine alla formazione di associazioni monopolistiche internazionali che si spartiscono il mondo. Né pare di assistere oggi alla spartizione della terra tra le grandi potenze”.
Si tratta di affermazioni piuttosto sorprendenti già a prima vista.
Quanto al “sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo”, ci sembra al contrario che la situazione attuale ci mostri una conferma (ed un rafforzamento) della tendenza evidenziata da Lenin. Chiunque salga su un’automobile, ad esempio, ha immediatamente a che fare con i cartelli delle società petrolifere, con quelli delle società assicurative, e con un enorme processo di concentrazione delle società produttrici di automobili su scala mondiale. I processi di concentrazione, in questo come in altri settori, sono talmente imponenti che hanno dato vita a transnazionali per le quali le stesse autorità Antitrust di un singolo Paese risultano totalmente inefficaci. Ed anche gli Antitrust più potenti (quelli degli USA e dell’UE) spesso scendono a più miti consigli, soprattutto in questi tempi di crisi: basterà ricordare il procedimento aperto negli Stati Uniti contro la Microsoft, conclusosi sostanzialmente con un nulla di fatto (e chi nega la realtà di poli imperialistici dovrebbe viceversa riflettere sul perché - per converso - l’Antitrust dell’Unione Europea appaia tuttora assai determinato a colpire la rendita di monopolio di questa multinazionale statunitense...).
Va però detto che Screpanti si semplifica le cose, stiracchiando un po’ le affermazioni di Lenin: ad esempio, secondo lui la quarta caratteristica “postula che si formino delle associazioni monopolistiche che acquisiscono il controllo di certi mercati o aree geografiche di sbocco e che associazioni monopolistiche di diverse nazionalità si spartiscano i mercati mondiali. Così ci saranno dei mercati dominati dai monopoli tedeschi, altri dominati da quelli americani e così via.” Detta così, sembra che Lenin descriva un puzzle i cui pezzi vengono sistemati una volta per tutte. Lenin però non dice questo: al contrario, mostra come il controllo dei mercati sia determinato dall’evoluzione sempre mutevole dei rapporti di forza. Scrive infatti Lenin: “la spartizione si compie ’proporzionalmente al capitale’, ’in proporzione alla forza’, poiché in regime di produzione mercantile e di capitalismo non è possibile alcun altro sistema di spartizione. Ma la forza muta per il mutare dello sviluppo economico e politico. Per capire gli avvenimenti, occorre sapere quali questioni siano risolte da un mutamento di potenza; che poi tale mutamento sia di natura ’puramente’ economica oppure ’extra-economica’ (per esempio militare), ciò, in sé, è questione secondaria, che non può mutar nulla nella fondamentale concezione del più recente periodo del capitalismo”. [1]
È qui che entra in gioco la quinta caratteristica dell’imperialismo, che Screpanti così sintetizza: “La quinta caratteristica postula che le grandi potenze imperialistiche, ponendosi al servizio delle associazioni monopolistiche nazionali, si spartiscano il mondo nella forma di zone d’influenza privilegiate. La spartizione delle zone d’influenza politiche sarebbe una conseguenza e una concretizzazione della spartizione dei mercati... Dunque si può anche dire che esistono le contraddizioni interimperialiste perché esistono quelle intermonopolistiche”.
Ora, per Screpanti questo è stato vero sino alla seconda guerra mondiale. Poi non più. A noi sembra invece che questo sia sempre più vero. E che in particolare dopo la caduta dell’Unione Sovietica e la dissoluzione del Patto di Varsavia le contraddizioni interimperialistiche - venuto meno il “nemico comune” dei paesi imperialistici - abbiano ripreso a manifestarsi in maniera sempre più esplicita, e secondo modalità sinistramente simili a quelle che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale.
Del resto, è difficile leggere la guerra all’Irak come qualcosa di diverso da un’aggressione imperialistica ad un paese “semicoloniale” (Lenin), aggressione che è al contempo - e manifestamente - conflitto interimperialistico. È sufficiente pensare ai contratti delle grandi compagnie petrolifere USA, alle opere per la ricostruzione appaltate ad imprese statunitensi come Halliburton e Bechtel (e alle briciole attorno a cui si affannano i capitalisti nostrani), per intendere di cosa stiamo parlando. O dobbiamo considerare un caso che il capo delle strategie per Prudential Securities, Ed Yardeni, seraficamente affermi che oggi “attraverso l’Irak gli USA sono il secondo paese Opec”? [2] Questo per quanto riguarda i monopoli attualmente vincitori. Quanto ai monopoli vinti, basterà menzionare la compagnia petrolifera francese Total, già titolare delle più importanti concessioni petrolifere nell’Irak di Saddam Hussein, e oggi costretta a dichiarare pateticamente, per bocca del suo presidente: “abbiamo fiducia nella nostra capacità di batterci ad armi uguali”. [3]
Ma c’è di più. Lenin afferma tra l’altro che “per l’imperialismo è caratteristica la gara di alcune grandi potenze in lotta per l’egemonia, cioè per la conquista di terre, diretta non tanto al proprio beneficio quanto a indebolire l’avversario e a minare la sua egemonia (per la Germania, il Belgio ha particolare importanza come punto d’appoggio contro l’Inghilterra; per questa a sua volta è importante Bagdad come punto d’appoggio contro la Germania, ecc.)”. [4]
Questo non è meno vero nel 2004 di quanto lo fosse nel 1916, quando Lenin attendeva al suo scritto. Con l’aggiunta di un’importante specificazione, che nulla toglie alla perdurante validità delle indicazioni leniniane: l’equivalente odierno delle vecchie politiche di “contenimento” esercitate da un paese imperialista contro l’espansione territoriale di un altro paese imperialista è rappresentato dalle iniziative volte ad impedire l’espansione della relativa area valutaria. Da questo punto di vista è facile dimostrare come proprio l’intendimento di contenere l’espansione dell’euro in Medio Oriente, oltreché quello di scongiurare l’effettuazione dei pagamenti di petrolio in euro anziché in dollari (che sarebbe esiziale per il mantenimento, da parte del dollaro, dello status di principale valuta internazionale di riserva), abbiano rappresentato i moventi fondamentali della recente guerra all’Irak. [5] L’aspetto della lotta per l’egemonia valutaria è essenziale per capire le attuali forme di dominio imperialistico e di conflitto interimperialistico. [6] Ma sempre di conflitto interimperialistico si tratta.
Screpanti non la pensa così. Il che è legittimo. Ma argomenta questa convinzione in maniera decisamente discutibile. Seguiamone i passi: “Si può dire che l’instabilità causata dalle contraddizioni interimperialistiche sia una caratteristica essenziale dell’accumulazione capitalistica? O non è più valida la tesi secondo cui il capitale è intrinsecamente cosmopolita?”. In questa schematica contrapposizione di tesi presentate come opposte, da una parte abbiamo la teoria dell’imperialismo, dall’altra l’intrinseca tendenza del capitale a creare il mercato mondiale. La prima teoria Screpanti la ravvisa in Lenin, la seconda in Marx. E ovviamente dà ragione a quest’ultimo. Qui è opportuno fare chiarezza. In primo luogo sulla validità stessa di tale contrapposizione, in secondo luogo sulla correttezza dell’attribuzione a Marx di uno dei suoi poli.
a) La contrapposizione tra conflitto interimperialistico e cosmopolitismo del capitale non ha alcuna ragion d’essere. Gli odierni conflitti interimperialistici possono ben coesistere con la tendenza cosmopolitica del capitale. Anche perché il cosmopolitismo per il capitale non è un fine ma un mezzo: quando l’apertura delle economie (preferibilmente di quelle altrui...) è giovevole ai profitti si procede in tale direzione, non appena l’accumulazione del capitale incontra i suoi limiti (essi pure intrinseci!) e si manifestano le crisi, subentrano il protezionismo, le chiusure nazionali, le guerre. E benché la scala di questo processo sia sempre più ampia con il procedere delle dinamiche monopolistiche (talché dalle industrie nazionali si passa alle multinazionali e transnazionali, dallo Stato-nazione ad entità superstatuali “regionali” quali l’Unione Europea e gli stessi Stati Uniti), nulla lascia presagire ad oggi che i conflitti intermonopolistici ed interimperialistici debbano per ciò stesso cessare. Anzi: le guerre commerciali, finanziarie e valutarie, per non parlare di quelle guerreggiate, attualmente in corso ci dicono che è vero il contrario. Affermare, come fa Screpanti, che l’ordine economico e politico che controlla l’economia mondiale oggi è piuttosto simile ad un “ordine mondiale sostanzialmente esente dalle contraddizioni inter-imperialistiche”, è affermazione non soltanto teoricamente infondata, non soltanto sintomo di un modo di ragionare scarsamente dialettico, ma anche assai poco compatibile con quello che quotidianamente vediamo avvenire nel mondo.
Ovviamente l’autore è consapevole di questa - diciamo così - discrepanza della sua teoria rispetto alla realtà empiricamente constatabile. E allora ricorre ad un escamotage classico, tipico di tutte le filosofie della storia (quelle che Labriola assai opportunamente definiva “storie a disegno”): tutto ciò che nel mondo di oggi possiamo osservare di incompatibile con la teoria della fine dei conflitti interimperialistici, viene minimizzato come frutto di una “sopravvivenza” storica e di un residuo del passato.
Il problema - si potrebbe obiettare - nasce quando questa “sopravvivenza” storica, nella forma di un potere statuale quale quello statunitense, con le sue azioni (Afghanistan, Irak, ecc.) ed i suoi veti (protocollo di Kyoto), minaccia la pace mondiale e la stessa sopravvivenza del pianeta. Niente paura, ci rassicura Screpanti: le contraddizioni inter-imperialistiche, ove anche vi siano, sono “residuali” non hanno alcunché di “sostanziale”, non sono “essenziali”, “non sono utili all’accumulazione capitalistica” (anche se, curiosamente, le multinazionali americane della “difesa” e dell’energia sembrano proprio pensarla in un altro modo...). Vale la pena di notare che questo modo di procedere, per cui ciò che contraddice la tendenza storica teorizzata è “inessenziale” o rappresenta un “residuo” del passato, è assai prossimo a quello utilizzato da Toni Negri allorché, avendo appena finito di teorizzare l’“Impero”, si è trovato nell’imbarazzante necessità di dover dar conto delle concrete manifestazioni dell’imperialismo americano - che andavano in tutt’altra direzione rispetto alla sua “storia a disegno”. Negri ha quindi escogitato, assieme al fido sodale Hardt, l’idea di una “deviazione” ed un “arretramento” rispetto al corso storico fissato dalla sua filosofia della storia; finanche - testualmente - di un “golpe nell’impero” [sic!!!]. [7] La logica è la stessa che informava molti testi sovietici: contrapposizione tra il corso storico immaginato (nobilitato con l’appellativo di “storicamente necessario”) e quanto lo contraddiceva (cui veniva affibbiato l’epiteto di “contingente”, “momentaneo arretramento”, ecc. ecc.).
b) E veniamo a Marx. Le fonti che Screpanti cita per fare di
Marx un sostenitore del cosmopolitismo del capitale sono il Discorso sul
libero scambio e i Grundrisse. Si potrebbe senz’altro aggiungere la
famosa pagina del Manifesto sul carattere progressivo della borghesia,
proprio in quanto tendenzialmente cosmopolitica. Se però approfondiamo un poco
la cosa, ed esaminiamo quanto Marx dice al riguardo nel Capitale, ci
accorgiamo del fatto che il quadro è ben più mosso di quanto Screpanti non
suggerisca. Ci accorgiamo, ad esempio, del fatto che Marx attribuisce in
generale un ruolo importante alla violenza nella storia, e - più in particolare
sottolinea con forza la propria visione niente affatto irenica della stessa
“età concorrenziale” dell’economia capitalistica. Al contrario: la
violenza e la guerra, afferma Marx, hanno giocato un ruolo centrale nella
conquista del potere politico da parte della borghesia, sin dalla fase della
cosiddetta accumulazione originaria. Al riguardo Marx scrive, in esplicita
polemica contro le ricostruzioni idilliache della genesi dell’accumulazione
originaria: “nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è
noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in
breve dalla violenza” - laddove l’economia politica del tempo vedeva
soltanto lavoro e diritto come base dell’accumulazione e della proprietà.
[8] In particolare, come è noto, Marx individua
nella violenza la leva fondamentale del “processo che crea il rapporto
capitalistico”, ossia il processo di “separazione del lavoratore dalla
proprietà delle proprie condizioni di lavoro”: separazione per la quale erano
risultati decisivi l’esproprio e l’espulsione della popolazione rurale.
[9] Ma Marx
cita altri momenti fondamentali dell’accumulazione originaria fondati sulla
guerra e l’uso della violenza: la scoperta dell’oro, lo sterminio e la
riduzione in schiavitù degli aborigeni in America; la conquista e il saccheggio
delle Indie Orientali; infine, la trasformazione dell’Africa in una “riserva
di caccia commerciale delle pelli nere”.-----
E dopo l’accumulazione originaria cosa avvenne? Avvenne la “guerra commerciale delle nazioni europee, con l’orbe terracqueo come teatro”: guerra che ebbe - dice Marx - momenti fondamentali nella secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, la “guerra antigiacobina”dell’Inghilterra, e che “continua ancora” nelle guerre dell’oppio contro la Cina. [10] E varrà la pena di ricordare quanto Marx conclude a tale proposito: questi “metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per es. il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica”. [11]
Questo passo è di importanza decisiva, perché - con buona pace dei neogandhiani dell’ultim’ora - ci dice che per Marx la violenza è centrale da sempre nel modo di produzione capitalistico. Il che nulla toglie alla tendenza cosmopolitica del capitale: ma il punto fondamentale - allora come oggi - è che il “potere dello stato, violenza concentrata e organizzata della società” è essenziale proprio per tradurre in realtà concreta quella tendenza cosmopolitica.
La migliore espressione del punto di vista (dialettico) di
Marx a questo riguardo la troviamo riportata nel III libro del Capitale, allorché
prendendo in esame la resistenza dei modi di produzione nazionali e
precapitalistici in India e in Cina - egli menziona anche gli strumenti posti in
opera dall’Inghilterra per infrangerla: “in India gli inglesi usarono al
tempo stesso della loro diretta forza politica ed economica, come dominatori
e come proprietari terrieri, per spezzare queste piccole comunità economiche”;
e - aggiunge Marx - se nel caso dell’India l’“opera di disgregazione”
delle comunità e dell’economia tradizionali “riesce loro molto lentamente”,
ancora minore è il successo degli Inglesi in Cina, fintantoché “la forza
politica diretta non viene loro in aiuto”. [12]
Fin qui Marx. I rilievi con i quali Friedrich Engels nel 1895 chiuse le sue Considerazioni supplementari al III libro del Capitale ci offrono un’immagine sintetica degli sviluppi di questi processi nei decenni immediatamente successivi: la “colonizzazione” è per Engels “una effettiva succursale della Borsa, nell’interesse della quale le potenze europee si sono qualche anno fa spartita l’Africa e i Francesi conquistato Tunisi e il Tonchino. L’Africa data in appalto diretto a compagnie (Nigeria, Africa del Sud, Africa tedesca sudoccidentale e Africa orientale) e Mozambico e il Natal accaparrati da Rhodes per la Borsa”. [13] Queste affermazioni sono idealmente completate da una nota dello stesso Engels al III libro del Capitale: “dopo l’ultima crisi generale del 1867 si sono verificati dei profondi cambiamenti. Con il colossale sviluppo dei mezzi di comunicazione ... il mercato mondiale è divenuto una realtà operante... Al capitale che si trova in eccedenza in Europa vengono offerti in tutte le parti del mondo campi di investimento infinitamente più vasti e più vari, di modo che esso si redistribuisce in misura molto maggiore, mentre la superspeculazione locale viene superata com maggiore facilità. Tutti questi fatti hanno eliminato o fortemente indebolito gli antichi focolai delle crisi e le occasioni che le favorivano. Al tempo stesso sul mercato interno la concorrenza retrocede di fronte ai cartelli ed ai trusts, mentre sui mercati esteri essa trova una barriera nei dazi protezionistici, di cui si circondano tutti i grandi paesi industriali, eccettuata l’Inghilterra. Ma questi dazi rappresentano in realtà soltanto degli armamenti per la definitiva campagna industriale universale che dovrà decidere della supremazia sul mercato mondiale. Di modo che ogni elemento che contrasta il ripetersi delle antiche crisi reca quindi in sé il germe di una crisi futura molto più terribile”. [14]
Come oggi sappiamo, la “crisi futura molto più terribile” di cui parlava Engels prese il nome di prima guerra mondiale, e si prolungò di fatto sino alla seconda guerra mondiale. Perché, è bene non dimenticarlo mai, l’“imperialismo” ed i “conflitti interimperialistici”, prima di essere una teoria, furono una ben solida e tragica realtà. E andrà semmai sottolineato ancora una volta che soltanto la teoria economica marxista più conseguente riuscì allora, assai per tempo, avvalendosi delle categorie di Marx e di Engels e sviluppandole coerentemente, ad interpretare correttamente quanto andava accadendo.
Screpanti è un uomo sereno. Mentre a noi corrono i brividi lungo la schiena nel leggere le frasi di Engels che abbiamo citato più sopra, lui è tranquillo: a suo avviso la realtà terribile prefigurata in quelle pagine è consegnata ad un passato morto e sepolto. Cito dal testo: “l’imperialismo di cui parlava Lenin, lungi dall’essere la fase suprema del capitalismo, ne è stata in realtà solo un fase di transizione: quella in cui le larve delle grosse imprese multinazionali sono cresciute dentro il bozzolo degli stati nazionali nell’attesa di poter rompere l’involucro e librarsi nell’economia-mondo appena raggiunte le necessarie dimensioni globali. Una volta rotto l’involucro, le contraddizioni interimperialistiche vengono meno e quelle che sopravvivono, ad esempio a causa di residui ideologici e persistenze storiche che possono influenzare le politiche delle grandi potenze, assumono il significato di “contraddizioni in seno al popolo” del grande capitale”.
Il nostro autore poi prosegue, ponendosi tre domande retoriche (almeno nelle sue intenzioni).
a) La prima: “Che se ne fanno le grandi imprese multinazionali europee di un impero ingleseo francese, o anche proprio europeo, quando il loro territorio di conquista è già il mondo intero?”. Sembra una domanda ragionevole, invece è soltanto sofistica. Per capirlo è sufficiente variare lievemente la sua formulazione: “Che se ne fanno multinazionali statunitensi quali la Boeing, la Lockheed Martin, la Northrop Grumman, la Halliburton, la Bechtel della guerra all’Irak?”. [15]
b) Seconda domanda: “E non hanno queste imprese [inglesi e francesi] un interesse di fondo in comune con le grandi multinazionali americane, un interesse all’abbattimento di ogni freno all’accumulazione capitalistica e di ogni limite all’espansione commerciale e produttiva?”. A questa domanda si sarebbe tentati di rispondere affermativamente. Ma in verità le cose non stanno proprio così, perché queste imprese hanno interesse all’abbattimento di ogni freno alla propria accumulazione ed alla propria espansione commerciale e produttiva - ed entrambe ovviamente sono in contrasto con il perseguimento degli stessi fini da parte delle omologhe imprese multinazionali americane. E Screpanti prosegue:
c) “E quindi non hanno in comune anche un interesse al superamento dei condizionamenti che possano derivare dalle politiche nazionali dei vari stati, nella misura in cui sono proprio tali politiche a determinare quei freni e quei limiti?”. Qui la risposta è un NO tondo tondo. Perché, a differenza di quanto pensano i teorici liberisti e Screpanti, il “freno all’accumulazione capitalistica” ed il “limite all’espansione commerciale e produttiva” di una impresa non sono “determinati” dalle “politiche nazionali dei vari stati”. Sono determinati dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, e dalla connessa sovraccumulazione di capitale. Contro questi limiti agiscono gli Stati. E lo fanno in molti modi: regolando o reprimendo senz’altro il conflitto sociale, sovvenzionando le imprese con soldi ottenuti attraverso la fiscalità generale, permettendo loro di eludere od evadere le tasse, stringendo accordi commerciali con altri Stati (da soli o a livello regionale, come nel caso dell’Unione Europea), erigendo barriere protezionistiche tariffarie o non tariffarie (ad esempio, fissando determinati standard), contingentando le importazioni da determinati paesi, sussidiando le esportazioni, ecc. ecc. [16]
Il problema è che, anche laddove questa azione sia coronata da successo, l’espansione delle imprese multinazionali prima o poi è destinata ad incontrare dei limiti: i limiti stessi dei mercati (che non possono espandersi all’infinito) combinati con quelli derivanti dall’esistenza di altre imprese alle quali interessa lo stesso mercato. Da questo punto di vista gli interessi della statunitense Boeing non sono affatto comuni a quelli dell’europea Airbus. E se la Boeing si trova in difficoltà rispetto all’Airbus nel settore dell’aviazione civile, può risultare utile per gli USA sovvenzionare sottobanco il settore civile di Boeing dando alla società forti commesse di natura militare. O, spostandoci su un altro settore, può essere utile per gli USA tagliar fuori l’azienda petrolifera francese Total dai pozzi iracheni, a beneficio, poniamo, della Exxon o della Texaco. Quanto sopra può magari essere fatto bombardando l’Irak...
È alla luce di questo che ritengo sia da rifiutare la prima definizione di “imperialismo globale” offerta da Screpanti: ossia “un sistema di controllo dell’economia mondiale in cui non esistono sostanziali contraddizioni inter-imperialistiche.”
E veniamo alla seconda definizione offerta da
Screpanti, per cui “imperialismo globale” sarebbe “un sistema di
relazioni internazionali in cui le politiche statali sono orientate a rimuovere
i vincoli che gli agglomerati nazionali (etnici, culturali, linguistici,
religiosi, sociali) possono porre all’accumulazione del capitale su scala
mondiale”. Qui si tratta di intendersi. In certa misura, questa
definizione è corretta. Ma soltanto nel senso che questo è sempre stato
vero: da sempre lo Stato delle principali potenze capitalistiche ha questa
funzione - nei confronti del resto del mondo (si pensi all’apertura a
cannonate del mercato cinese nell’Ottocento, ed oggi quella dell’Irak).
Secondo Screpanti, oggi ci sarebbe un elemento nuovo: “la differenza
principale tra l’imperialismo contemporaneo e quello otto-novecentesco - egli
sostiene - sta nel modo in cui il capitale metropolitano si rapporta alle
economie periferiche. Il vecchio imperialismo penetrava nei paesi
sottosviluppati senza modificarne sostanzialmente il modo di produzione,
lasciandoli ristagnare nelle loro strutture economiche e sociali
precapitalistiche, e limitandosi per lo più ad estrarre materie prime a basso
costo. Oppure vi penetrava, almeno in alcuni di essi, con l’immigrazione di
coloni dalla metropoli e la costruzione di nuove economie capitalistiche che
tuttavia restavano abbastanza circoscritte”. Ora, queste presunte
caratteristiche del “vecchio imperialismo” sono così poco rispondenti alla
realtà che lo stesso Screpanti in nota avverte la necessità di escludere da
tale quadro “l’europeizzazione dell’America e dell’Australia”. Ma
sarebbe stato sufficiente leggere il Marx degli articoli sull’India per
accorgersi che già alla metà dell’Ottocento l’Inghilterra si era trovata
nella necessità di rivoluzionare il modo di produzione indiano ed imprimere
sviluppo alle forze produttive locali, al fine di avere un mercato di sbocco non
troppo anemico per le proprie merci. [17] Niente di nuovo, quindi, rispetto a
quello che da sempre gli Stati borghesi hanno fatto: diversa è semmai la scala
ormai decisamente planetaria - su cui questo avviene.
Infine, la terza definizione: “l’imperialismo globale è la forma della globalizzazione del modo di produzione capitalistico”. Screpanti la spiega così: “oggi è proprio il modo di produzione capitalistico che è diventato globale. Non resiste praticamente più alcuna sacca di arretratezza precapitalistica”. Ossia, detto con parole più semplici: esiste ed è operante il mercato mondiale. E su questo siamo tutti d’accordo.
Ma anche in questo caso le conseguenze tratte da Screpanti finiscono per lasciare interdetti: “cambia di conseguenza anche la forma dello sfruttamento imperialistico. Non conta più l’uso della forza militare per l’estrazione coercitiva di risorse, e neanche tanto il meccanismo dello scambio ineguale. Si badi, non è che questi due strumenti di sfruttamento siano venuti meno. Anzi si sono rafforzati. Ma non sono essenziali”. [Se un fenomeno non è “essenziale”, perché “si rafforza”? Mah...]
Sono infatti “diventati secondari rispetto ad altri due meccanismi più propriamente capitalistici: 1) al livello microeconomico, l’uso di lavoro salariato per l’estrazione di plusvalore nella fabbrica capitalistica; 2) al livello macroeconomico, l’uso della finanza e del credito per l’esproprio di plusvalore e di ricchezza mediante il debito estero”.
Quanto al primo aspetto, ancora una volta, nihil sub sole novi: lo sfruttamento del lavoro salariato è infatti da sempre l’architrave del modo di produzione capitalistico. Quanto al secondo, certamente è importantissimo, ma non si vede perché esso debba essere trattato disgiuntamente e addirittura contrapposto all’aspetto coercitivo ed allo scambio ineguale: in verità, tutti questi aspetti, latenti o operanti, contribuiscono al dominio esercitato dai paesi imperialistici. L’eventuale predominio di quello macroeconomicoo-finanziario non è altro che la logica conseguenza di una delle caratteristiche classiche dell’imperialismo: ossia la crescente importanza dell’esportazione di capitale. E comunque esso stesso può essere sostituito dalla (o “aiutato” con la) violenza: così, se l’Argentina si era dollarizzata spontaneamente, per dollarizzare l’Irak c’è voluto un esercito di occupazione.
Infine, il nesso - cruciale - tra sfruttamento nei paesi dominati e nei paesi imperialistici (o, come Screpanti preferisce dire, nei “paesi capitalistici avanzati”). Il nesso tra povertà nei PVS, creazione di un esercito industriale di riserva a livello mondiale e sfruttamento anche nei paesi imperialistici è correttamente descritto da Screpanti. Ma, ancora una volta, la ricerca a tutti i costi di una novità, di una differentia specifica che non c’è, rende non del tutto condivisibile la sua impostazione. Vediamo:
“Si verifica così un fenomeno nuovo rispetto all’imperialismo otto-novecentesco. Nell’imperialismo globale di oggi lo sfruttamento dei paesi assoggettati è funzionale all’aumento dello sfruttamento dei paesi imperialistici. Le famigerate aristocrazie operaie non esistono praticamente più. Del resto è noto che la povertà e la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sono in aumento anche nei paesi ricchi e superricchi. E sono fenomeni che coinvolgono in maggiore o minore misura l’intera classe operaia.
Tutto ciò ci dà un utile indizio intorno alla questione dell’individuazione dei soggetti rivoluzionari... L’imperialismo globale, lungi dal rendere demodé il conflitto di classe, lo esalta, lo estende, lo esaspera e, soprattutto, lo globalizza. In prospettiva lo unifica. Ed è il tipico conflitto del modo di produzione capitalistico: la lotta di classe tra capitale e lavoro - tendenzialmente, tra il capitale globale e il proletariato globale”.
L’interpretazione di questi due periodi dipende dal peso che si dà a due avverbi: “tendenzialmente” e “praticamente”.
Cominciamo dal “tendenzialmente” che chiude il passo: che rapporto c’è tra “attuale” e “tendenziale”? Se il “proletariato globale” sarà tale tra 200 anni la cosa ci riguarda fino a un certo punto (e di questa “tendenza” potremo dire ciò che Lenin disse della kautskiana tendenza all’“ultraimperialismo”: sarà anche vera, ma “è priva di significato”, cioè non serve a nulla). Insomma: dare una migliore specificazione a questa “tendenza” - cosa che Screpanti si guarda bene dal fare - è cosa di non poco conto per chi voglia porsi l’obiettivo di organizzare il “proletariato globale”.
Le cose stanno ancora peggio per quanto riguarda l’altro avverbio: “le famigerate aristocrazie operaie - dice Screpanti - non esistono praticamente più”. E subito aggiunge, a mo’ di spiegazione, che “è noto che la povertà e la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sono in aumento anche nei paesi ricchi e superricchi”. Il punto è che i due enunciati NON si equivalgono, come ben sanno le migliaia di uomini e donne che rischiano la morte pur di raggiungere le nostre coste. In altri termini: l’innegabile impoverimento della classe lavoratrice (in termini assoluti e relativi) che ha avuto luogo negli ultimi anni in tutti i paesi imperialistici non toglie che sussistano disparità abissali (e crescenti!) di reddito tra questi lavoratori ed il proletariato e sottoproletariato dei paesi dominati [18] (né toglie che la classe lavoratrice sia articolata in maniera assai differenziata anche all’interno stesso dei paesi imperialistici, producendo forme anche eclatanti di aristocrazia salariale). Ora, il punto è che queste disparità rappresentano un problema non secondario per la creazione di un’effettiva unità di classe e di un vero internazionalismo. Pensiamo anche solo a fenomeni quali i flussi migratori, la ridislocazione del capitale su scala mondiale, la delocalizzazione produttiva, il diffondersi di forme di xenofobia e di razzismo nei paesi imperialistici, ecc.: rispetto a tutti questi fenomeni la formula del “proletariato globale”, di per sé, è di scarso aiuto. -----
Al termine di questa disamina del contributo di Screpanti ci sembra di poter dire che esso non ci aiuti ad interpretare i fenomeni più importanti di questo scorcio di millennio. Fenomeni quali: la gerarchizzazione tra Stati (con la subordinazione e talora lo smembramento di Stati non appartenenti ai principali blocchi imperialistici); la perdurante importanza delle politiche statuali, e semmai la loro sussunzione entro la più ampia cornice costituita da entità sovranazionali (o superstatuali) quali l’Unione Europea; il formarsi di due principali poli imperialistici (USA e Unione Europea); la tendenza alla regionalizzazione degli scambi; l’accentuarsi delle politiche esplicitamente protezionistiche; l’esplodere di guerre commerciali e valutarie; l’intensificarsi delle crisi finanziarie; la lotta sempre più accanita per il controllo delle materie prime e per estendere e consolidare la propria zona d’influenza da parte dei principali poli imperialistici; la preoccupante intensificazione, a partire dai primi anni Novanta, di vere e proprie guerre (che sino ad oggi hanno preso la forma di conflitti “per interposta persona”). Tutto questo resta fuori dal quadro dell’“imperialismo globale” disegnato da Screpanti. La stessa accentuazione del ruolo crescente delle istituzioni internazionali, in sé giusta (ancorché con la non trascurabile eccezione dell’ONU...), non può essere condivisa se quel ruolo è semplicemente giustapposto al ruolo degli Stati e se manca l’indicazione che gli attori principali del processo - anche attraverso queste istituzioni, che sovente svolgono il ruolo di “stanze di compensazione” dei conflitti - sono i poli imperialistici che rappresentano i principali attori dell’attuale fase di competizione globale; né è condivisibile la considerazione a sé stante di “quei centri di governance “atomistici” che passano per i cosiddetti “mercati”, cioè i soggetti economici, soprattutto le imprese multinazionali”.
Tutto questo ricorda da vicino, a dispetto delle differenze su singoli punti, la tesi di Negri e Hardt di un “Impero” senza Stato, senza imperialismo, imperniato attorno ad una nozione di mercato mondiale dominato dalle imprese multinazionali che “alla fin fine deve vincere sull’imperalismo e distruggere le barriere tra dentro e fuori”; un Impero nel cui “spazio omogeneo... non c’è un posto in cui risiede il potere - è in tutti i posti e in nessun posto”. [19] Quantomeno, questo è un rischio assai presente se - come fa Screpanti - definiamo l’“imperialismo globale” come una “struttura intrinsecamente acefala”, limitandoci a postulare l’esistenza di “una molteplicità di centri di governance” che stanno in non meglio precisati “complessi rapporti di competizione e cooperazione” tra loro.
E dire che fuggire dalle sirene dell’Impero, precisando un po’ meglio la natura di tali “complessi rapporti”, sarebbe facile: basterebbe ricordare che al Fondo Monetario Internazionale l’unico Stato con diritto di veto sono gli Stati Uniti; che la maggior parte dei membri del board di Fondo Monetario e Banca Mondiale provengono da Stati Uniti e Unione Europea; che in una delle più gravi crisi finanziarie degli anni Novanta, la crisi dell’Asia del 1997-8, organizzazioni sovranazionali, Stati Uniti e speculatori privati hanno agito in oggettiva coordinazione tra loro. [20] Si potrebbe proseguire, ricordando che le multinazionali USA della difesa e dell’energia hanno fornito al governo statunitense parte cospicua dei suoi membri (a cominciare dal presidente e dal vicepresidente), oltre a finanziare la campagna elettorale di Bush; oppure che l’intesa franco-tedesca è nata sul terreno della collaborazione in campo aerospaziale (e che Chirac non ha mancato di richiedere l’esenzione dal patto di stabilità per le spese militari); ancora, che in questo mondo “acefalo” la testa del 48% delle 500 maggiori multinazionali del mondo sta negli USA, e di un altro 31% nell’Unione Europea. [21] E così via.
Quanto sopra ci fa ritenere più che giustificate le parole di un importante volume recente su questi argomenti: “anche se apparentemente la cosiddetta globalizzazione significa apertura dei mercati e delle frontiere, la realtà è che con la metà degli anni Novanta si è entrati definitivamente nella nuova fase della mondializzazione capitalista con i connotati da competizione globale”. [22]
Conclusione: forse è bene che i lavoratori, anziché Lenin, in soffitta ci mettano l’Impero e i suoi seguaci.
[1] Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in V.I. Lenin, Scritti economici, a cura di U. Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 559.
[2] Intervista di V. Sciarretta a E. Yardeni, Borsa & Finanza, 14/2/2004.
[3] Dichiarazioni di Thierry Desmarest riportate su “Le Monde”, 19/2/2004.
[4] Lenin, op. cit., pp. 573 sg.
[5] Su questo rinvio ad alcuni miei articoli: “Irak: una guerra e i suoi perché”, “Guerra tra capitali - Dollaro contro euro: ultime notizie dal fronte”, comparsi rispettivamente sui nn. 93 e 96 de la Contraddizione. Nel volume curato da L. Vasapollo, Il piano inclinato del capitale, Milano, Jaca Book, 2003, si trova inoltre un’ampia e documentata lettura a più voci dell’attuale situazione internazionale, condotta servendosi delle categorie offerte da Marx e da Lenin.
[6] Screpanti sfiora questo aspetto, laddove accenna alla particolarità di USA e UE, che “emettono moneta internazionale, cosicché non sono soggetti al vincolo estero”. Ma non approfondisce la cosa.
[7] Leggere per credere: M. Hardt, “Il diciotto Brumaio di George W. Bush”, Global, n. 1, anno I, aprile 2003, pp. 4 sg. (queste argomentazioni furono espresse per la prima volta da Toni Negri in un’intervista ad Ida Dominijanni del manifesto, rilasciata a pochi mesi di distanza dall’inizio della guerra in Afghanistan).
[8] K. Marx, Il Capitale, libro I, tr. it. di D. Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 1980, cap. 24, p. 778.
[9] Cfr. ibidem e p. 813. Ma anche il cap. 13, p. 474: e infatti - dice Marx - la rivoluzione agricola “ha agli inizi più l’apparenza di una rivoluzione politica”; si vedano ancora, al cap. 24, le pp. 780-796.
[10] K. Marx, Il Capitale, libro I, cap. 24, p. 813. L’accenno alle guerre dell’oppio è sufficiente da solo a sfatare il mito di un pacifico periodo concorrenziale del capitalismo cui sarebbe succeduto un cruento periodo imperialistico. Le cose, come sempre, sono più complicate degli schemi in cui le si vuole rinchiudere.
[11] K. Marx, Il Capitale, p. 814.
[12] K. Marx, Il Capitale, libro III, tomo I, tr. it. di M. L. Boggeri, Roma, Editori Riuniti, 1980, cap. 20, pp. 398 sg.; corsivo mio. Come è noto, queste affermazioni di Marx sono assai ben ponderate, in quanto trovano la loro base fattuale nelle ricerche condensate in numerosi articoli su Cina e India scritti a partire dagli anni Cinquanta per il “New York Daily Tribune”. Un concetto analogo a quello citato nel testo era stato espresso ancora prima, in un articolo pubblicato da Marx nel 1850 per la “Neue Rheinische Zeitung”: “Vennero gli Inglesi e si aprirono con la forza il libero scambio con cinque porti cinesi” (K. Marx, India Cina Russia, a cura di B. Maffi, Milano, Il Saggiatore, 1960, p. 31; cfr. anche p. 35).
[13] F. Engels, Considerazioni supplementari al III libro del Capitale; in K. Marx, Il Capitale, libro III, tomo I, cit., p. 50.
[14] Nota n. 8 di F. Engels a K. Marx, Il Capitale, libro III, tomo II, cap. 30, p. 575.
[15] E per ossequio alla par condicio si potrebbe aggiungere: che se ne è fatta la francese Alcatel della guerra in Kosovo?
[16] Un’articolata disamina delle funzioni attuali degli Stati, e dell’accresciuto intervento statale negli ultimi anni, si trova in M. Casadio, J. Petras, L. Vasapollo, Clash! Scontro tra potenze, Milano, Jaca Book, 2004, pp. 38 sgg., 68-9, 190.
[17] Vedi in proposito K. Marx, India Cina Russia, cit., pp. 69-70 e pp. 86-89.
[18] La cosa è del resto ammessa dallo stesso Screpanti, che altrove afferma addirittura che “le uniche contraddizioni e le sperequazioni che sono acutizzate dall’evoluzione dell’imperialismo non sono le contraddizioni inter-imperialistiche”, ma “le sperequazioni tra il Nord e il Sud del mondo”.
[19] M. Hardt, A. Negri, Impero, Milano, Rizzoli, 2002; cit. in M. Casadio, J. Petras, L. Vasapollo, Clash!, cit., pp. 185-6 e 72-3; si vedano anche le “ipotesi infondate”di Negri e Hardt richiamate nello stesso volume, ed in particolare la seconda (p. 75).
[20] Lo mostra conclusivamente J. Stiglitz nel suo La globalizzazione e i suoi oppositori. Sulla vicenda rinvio al mio “Come si crea una crisi: Asia 1997”, la Contraddizione, n. 100, genn.-febbr. 2004.
[21] Dati riferiti al 2000, riportati in Clash!, cit., p. 206.
[22] M. Casadio, J. Petras, L. Vasapollo,Clash!, cit., p. 136. Il volume citato, oltreché condivisibile nella sua impostazione, è di grande utilità anche per la notevole mole di dati che rende disponibili.