I lavoratori di fronte ai quattro miti su sviluppo ed integrazione regionale in America Latina

Alfredo Falero

Le prospettive, le alternative per le società che compongono l’America Latina non si possono pensare in forma separata una dall’altra. Tale premessa non deriva dal discorso puramente del “dover essere” basato sul passato storico o su mere invocazioni politiche all’unità: si tratta di un esame dell’evidenza empirica. Le trasformazioni globali e regionali in corso modificano la capacità delle società di operare sulle proprie condizioni ed a sua volta questo deve riflettersi sulla maniera di pensare le congiunture e le alternative socio-storiche.

Quanto sopra, a sua volta, abbisogna di sbloccare quei reconditi angoli della conoscenza che rimangono sepolti sotto modi di pensiero che si limitano all’analisi del “possibile”. La ricostruzione di una prospettiva critica delle scienze sociali e conseguentemente il superamento di una costruzione della conoscenza eccessivamente pragmatica e di corto periodo che mutila la realtà costituiscono aspetti imprescindibili in questo contesto.

Tenendo conto di queste veloci considerazioni di metodo, il presente saggio intende ristabilire la tematica della integrazione latinoamericana considerando che tale discussione diventa inevitabile quando si pensi a società alternative su un piano regionale però anche globale. Una manifestazione centrale di questo impianto è la discussione sulle possibilità di sviluppo e che cosa si intenda con questa espressione. Questa è senza dubbio una discussione ciclicamente ricorrente per le scienze sociali nella regione.

Tuttavia è chiaro che il contesto generale di questo dibattito cambiò fortemente in funzione delle condizioni sociali nelle quali si svolgeva. Così negli anni 50 e 60 non solo si dava un altro scenario - per esempio un’America Latina ancora fortemente rurale ed una ritardata necessità di industrializzare - ma si competeva con altri orizzonti possibili: il socialismo. Ovviamente in quel momento i miti sullo sviluppo meritarono critiche fondamentali (Frank, 1970, Stavenhaguen, 1970).

Per i tempi presenti, lo scenario nel quale il tema riappare nella regione, implica la considerazione di almeno tre premesse generali comparativamente nuove:

a. L’inesistenza di un orizzonte di società socialista che ricollochi il concetto di sviluppo come idea egemonica entro il capitalismo, cosa che implica il prendere riferimenti falsi ma attraenti per un ampio spettro politico come possibilità reali. Nel caso dell’Uruguay, per esempio, spesso si indulge ad invocare il “modello” di sviluppo di paesi come la Nuova Zelanda, l’Irlanda o la Finlandia come se fosse possibile ripetere le condizioni di altre circostanze socio-storiche.

b. Una rivoluzione informatica sta ristrutturando il capitalismo ma a sua volta presuppone un approfondimento della divisione tra paesi centrali e periferici. Esiste un ricco insieme di analisi che evidenziano il nuovo ruolo della informazione - come la conosciuta formula di Castells e quello che significa come nuovo modo di sviluppo (1998) - sebbene allo stesso tempo dissolvono quella polarità che è intrinseca al capitalismo che creò la prospettiva di sistema storico come spiegai in un precedente lavoro (Falero, 2003a).

c. Una fase di crescente interconnessione e dominio geografico del capitale che suole identificarsi come globalizzazione e che implica inoltre la formazione di blocchi regionali. Come vedremo, una costruzione regionale di vari stati-nazione è sempre attraversata da diverse linee di conflitto e va sempre oltre i confini del piano economico entro il quale la si vuole contenere.

Quanto alla situazione presente dell’America Latina in particolare, si devono segnalare ugualmente altre tre premesse che ne identificano le particolarità:

a. Una congiuntura nella quale si revisionano gli sconci sociali del terremoto neoliberista (un termine che in realtà è semplificante) e cominciano a delinearsi altri orizzonti di possibilità che prima non erano possibili. Questo vale anche per società come l’Uruguay che avevano pensato se stesse come iper-integrate (avendo sovrastimato le proprie possibilità reali di mobilità sociale verso l’alto) e di profilo più europeo che latinoamericano: la distruzione del tessuto sociale ormai non permette di continuare con tali miti.

b. Una serie di manifestazioni sociali importanti che sfidano il modello di accumulazione basato sull’esclusione senza tuttavia mettere in pericolo il potere del capitale come relazione sociale. Menzioniamo tra le altre, senza pretendere di essere esaurienti nella lista: la esplosione sociale in Argentina, famosa nell’anno 2001 ma che aveva cominciato da prima, la ribellione dell’Ottobre 2003 in Bolivia ed i suoi nuovi orizzonti di possibilità o più recentemente il significato di tutto il processo collettivo che ha condotto ad un plebiscito ed ai suoi esplosivi risultati contro la privatizzazione parziale della impresa statale dei combustibili in Uruguay [1].

c. Una situazione geopolitica particolare dell’America Latina nella sua relazione con gli Stati Uniti e la sua indebolita capacità di influenza regionale sotto un progetto egemonico come l’ALCA (che come tutte le egemonie, ricordando Gramsci, implica sempre una mescolanza di consenso e coercizione, ma non coercizione solamente) e con un presente asse Buenos Aires-Brasilia-Caracas che non ha precedenti.

In questa situazione, attori sociali di diversa natura - partiti politici specialmente di tipo progressista, movimenti sociali compreso il movimento sindacale, università, organismi internazionali come la CEPAL (Commissione economica per l’America Latina, anche detta ECLA), etc. - tornano ad invocare la passata formula dell’ottenimento dello sviluppo politico e sociale.

Integrazione regionale e sviluppo passano ad essere concetti chiave, che però a volte, a seconda di chi li usa, si ritrovano ad avere diversi significati. Su questa base compaiono vari miti che hanno cominciato a diffondersi nella regione, quattro dei quali saranno qui considerati. Alcuni sono vecchi, rimasugli di discussioni che ai loro tempi furono falsamente risolte in funzione di “considerazioni tecniche” di stile economico che sono finite a seppellire altri punti di vista, ed altri sono miti prodotti da elaborazioni recenti.

Mito 1: un paese periferico può svilupparsi con i mezzi economici adeguati

È chiaro che lo sviluppo non si identifica con la semplice crescita economica ed ancor meno con la semplice “riattivazione” economica: serve sempre una formula parecchio più ambiziosa per rendere conto di obiettivi di crescita sostenuta ma con qualità della vita. Sebbene questi obiettivi sembrino sempre diffusi, finiscono per stabilirsi ciclicamente come guida o cinosura per usare l’espressione di Wallerstein (1998) delle società latinoamericane.

In secondo luogo sappiamo che in America Latina l’idea funzionò come aspetto polare di un paio terminologico che lasciava una idea non equivoca del desiderabile e della ubicazione del punto di partenza: paesi sviluppati-paesi sottosviluppati, o la versione più edulcorata di quest’ultimo termine: “in via di sviluppo”. Le questioni più importanti possono riassumersi in due rubriche: le possibilità reali di una società di svilupparsi ed il carattere al quale si ambisce per la società di arrivo.

Nella prima rubrica generale di questioni, consideriamo che è già stato dimostrato che non si sviluppa ‘una’ società ma un gruppo di potere che oltre tutto va oltre una società in particolare (Wallerstein, 1998; Quijano, 2000). Questa è una idea centrale che ricorre nel presente lavoro per cui torneremo su di essa varie volte. Nella seconda rubrica generale di questioni si include che l’obiettivo era alla fine cercare di somigliare ai paesi centrali con tutto il negativo che questo potrebbe significare in termini di qualità della vita.

Questo aspetto, al quale si aggiungevano le difficoltà di stabilire un modello più agglutinante di posizioni che includesse gruppi e movimenti di tipo ecologista, arrivò ad avere, per darsi un maggiore risalto, il carattere di “sostenibile”, che tendeva a considerare aspetti relativi alle questioni ambientali [2].

Si arrivò anche ad aggiungere in altre versioni la qualificazione di “umano” con la quale si cercava di stabilire un insieme ampio di necessità della vita dell’uomo in società. Tutto questo, tuttavia, non migliorò molto la precisione, sebbene dall’altro lato permise di considerare variabili che prima non apparivano.

In terzo luogo, tutto quanto detto sino ad ora porta a riconoscere che questa è una delle tematiche dove l’oscuramento ideologico sottostante è più profondo. L’andamento del dibattito negli ultimi anni - che confinò l’analisi alla identificazione di mezzi “tecnici” più adeguati all’interno del campo economico - ha portato all’idea che vi è possibilità di identificare e stabilire un insieme di mezzi neutri appropriati per potersi incamminare sul sentiero dello sviluppo.

In questo modo, la questione smette di dipendere da processi sociali e passa a situarsi nella graduazione dell’intensità dello strumento tecnico, all’estremo nella scelta di uno strumento più adeguato, che lo si chiami volume della spesa pubblica o abbassamento o innalzamento delle tariffe. Questo atteggiamento pratico tende a schivare il contesto e gli attori capaci di portare avanti una proposta di sviluppo.

Insomma, si ignora che lo sviluppo fu un processo sostenuto dalle società del capitalismo centrale nell’ambito della accumulazione globale, che ha un carattere irripetibile e che implica inoltre forme differenti di colonizzazione delle periferie e diverse forme di estrazione del surplus. Per esempio oggi si vede nell’impegno delle imprese transnazionali per privatizzare la biodiversità e attraverso l’ottenimento di patenti successivamente commercializzarla (Ritkin, 1999).

Da tutto questo si evince che parlare superficialmente di possibilità di sviluppo per i paesi periferici come maturazione di condizioni è una vecchia favola. Nondimeno, ciò non nega che un progetto alternativo è ammissibile se si ottiene almeno una certa autonomia dalla logica dell’accumulazione globale. Samir Amin in vari lavori (per esempio, 1997) ha segnalato che il concetto di sviluppo può essere critico del capitalismo se lo si pensa come “autocentrato”. Tuttavia, aggiungiamo noi, la prospettiva diventa valida solo a condizione che se ne identifichino e studino chiaramente le fondamenta sociali - in termini sociologici, gli attori sociali - che permettano una certa disarticolazione dalla logica centrale di accumulazione del capitale.

Mito 2: i paesi dell’America Latina possono svilupparsi se sfruttano il proprio “capitale sociale”

Oggi potrebbe esistere, più che qualche anno fa, un più ampio consenso sul fatto che parlare di sviluppo significa ampliare la discussione rispetto alle mere variabili economiche. Questo spazio cionondimeno è stato progressivamente occupato da una straordinaria risorsa tecnocratica chiamata “capitale sociale” che permette a molti sociologi e politologi di “dialogare” con gli economisti [3].

Come si sa, per questa tematica il concetto appare notoriamente influenzato dalla tradizione sociologica americana per mezzo di Coleman e Putnam (1993) e non da quella francese, specialmente a partire da Bourdieu. Nel primo senso si tratta di conciliare l’azione razionale con le relazioni sociali che la possono potenziare o ridurre. Si concede particolare importanza a valori quali la fiducia ed a reti sociali come il volontariato. Nel secondo senso - che a differenza della versione precedente si generò in chiave di critica - il capitale sociale appare come una dimensione ulteriore della disuguaglianza sociale insieme al capitale economico e culturale.

In questo modo Putnam dimostra che il successo economico dipende dal capitale sociale accumulato da associazioni che privilegiano reti orizzontali. Per quelli che seguono questo punto di vista, tutti i processi partecipativi passano a poter essere inclusi nella categoria del capitale sociale, da una rete di vicini di casa alle idee partecipative di Porto Alegre. Trasferito al nostro tema, il mito che parte dalla prospettiva del capitale sociale consiste nello stabilire una connessione diretta: più capitale sociale equivale a più sviluppo.

Questo apparirà dipendere fondamentalmente dall’esistenza e dalla rigenerazione di tali lacci sociali, facendo finire in secondo piano altre dimensioni centrali della discussione sui paesi periferici: capacità dello stato e suo potenziamento, con quali attori e classi si ha a che fare, obiettivi sociali del progetto, forze produttive che si possono potenzialmente far decollare e come si gestiscono queste ultime, etc. Insomma, questa visione suppone una chiusura cognitiva verso un numero di determinati contenuti sociologici che danno conto della realtà che non è minore, nel senso che l’agenda di temi da investigare, generata dalle risorse, è un’altra.

Come si osserva, quanto sopra non vuol dire che i nuovi punti di vista non attribuiscano a fattori sociologici o culturali una grande importanza nella spiegazione dello sviluppo. Al contrario, il punto è che considerando questi “fattori” e la forma di come li si articola nella costruzione della conoscenza, questa attribuzione può essere sia mistificante sia segnalare invece che lo sviluppo è un problema esclusivamente di politica economica.

Di certo per l’America Latina la questione della partecipazione, sia essa istituzionale o per mezzo dei movimenti sociali o della ricostruzione del tessuto sociale (reti di vicini di casa, orti comunitari, etc.) è centrale per considerare le prospettive di sviluppo e di cambio sociale. Il problema, dobbiamo insistere, è la prospettiva che si prende intorno ad essa e le logiche che ne rendono conto. Tanto più, come discutemmo in un altro lavoro (Falero, 2003b), può dirsi schematicamente che esistono due direzioni diverse che coesistono nel contesto della crisi e che suppongono orizzonti storici ben differenziati. Naturalmente quanto segue è necessariamente una semplificazione, che però risulta utile per vedere la tensione che vi è sotto.

Una direzione è quella della costruzione di una cultura alternativa, di crepe nella soggettività dominante, di generazione di spazi sociali in grado di aprirsi alla creatività sociale e magari di essere la base di altre aspettative. Tuttavia, molte azioni si situano e si incamminano più nella linea del tradizionale ed ora rinnovato volontariato che riempie gli spazi che lo stato sta lasciando. Questa è la direzione promossa dagli organismi internazionali ed i mezzi di comunicazione di massa quando si allude a questa questione. In questo secondo senso - sebbene configurate disinteressatamente - le azioni non costituiscono un’alternativa al mercato, che continua a strutturare le relazioni sociali. Così semplicemente queste assumono il ruolo di funzioni di compensazione, totale o parziale, di quello che faceva lo stato.

Nella prima direzione, le reti basate nella ri-significazione delle necessità e la costruzione di diritti sociali per mezzo dell’esperienza (Thompson, 2001) possono arrivare a costituire le basi di una società più partecipativa e democratica. Nella seconda direzione, si può arrivare a supporre una forma di controllo sociale rinnovata. Entrambe le prospettive - aperture di spazi di trasformazione sociale e semplice volontariato - implicano orizzonti di sviluppo opposti visto che si tratta di costruire soggettività sociali ben distinte. Entrambe, ciononostante, sono integrate sotto la stessa etichetta di capitale sociale entro la nuova “agenda sociale” degli organismi internazionali che si pongono ovviamente nel secondo formato.

Mito 3: la costruzione di una zona di libero commercio genera una sinergia che rende lo sviluppo possibile

Visto che lo schema di potere attuale che viene chiamato globalizzazione stabilisce limitazioni ancora maggiori all’autonomia dello stato-nazione che sta soffrendo trasformazioni irreversibili nella sua capacità di regolare, alcune analisi trasportano ad uno spazio geografico maggiore, un blocco integrato di paesi, la possibilità di ottenere sviluppo. Tuttavia per l’America Latina questo può essere sia realtà sia finzione, perché dalla nostra prospettiva la costruzione di blocchi od organizzazioni internazionali con caratteri sopranazionali sta fin dalla sua origine in una permanente tensione tra la sua funzionalità ai centri di potere ed il contenimento di quello che viene designato genericamente come “globalizzazione negativa”, e che si associa all’impatto avverso delle forze del mercato globale.


Si può dire che in tale spazio convivono in conflitto due tendenze opposte. Da un lato, il progetto di quelli che traggono beneficio da una contribuzione di basi transnazionali entro il movimento verso la globalizzazione, poiché per esempio si configurano mercati di grande dimensione che permettono una performance più efficiente delle imprese transnazionali. In termini Weberiani, questo significa dire che si tratta della accentuazione di un processo di razionalizzazione spaziale del capitale. Dall’altro lato, appare il progetto di quelli che osservano che costruire un mercato regionale richiede un minimo di protezione consensuale a fronte delle richieste di apertura dell’economia da parte dei centri capitalisti, cosa che porta alla possibilità che una proposta di integrazione regionale possa - eventualmente - costituirsi in una risposta alle potenti pressioni dei centri di potere.

Si può anche dire che il contesto attuale suggerisce che possa darsi una integrazione per mezzo dei fatti messi in atto dagli stati in un senso passivo, o un’altra contraria nella quale gli stati si presentano come agenti attivi nel tracciato di una direzione consensuale. In questo senso Altvater (2000) proponeva di differenziare tra una integrazione “de facto”, guidata dal mercato, con una divisione regionale del lavoro costruita basandosi sulle pressioni per la deregulation ed una integrazione “de jure”, vale a dire premeditata, negoziata, etc. nella quale si intenda mettere in atto mezzi, istituzioni, etc. che diano una direzione.

Secondo la nostra evidenza empirica, senza la istituzionalizzazione di un progetto Mercosur che tenti di tracciare una direzione, continuerà una integrazione “de facto” dell’asse Buenos Aires-San Paolo (Ferrer, 1996, 2000) pero in chiave globalizzatrice del capitale, con una proiezione di massimizzazione dei benefici per alcuni gruppi economici e transnazionali. In tal senso, si può dire che il Mercosur ha funzionato come un insieme di strumenti con alcune potenzialità, che però fino ad ora si sono usate poco o male per evitare l’integrazione “de facto”.

In questo senso si può sostenere, per quanto sembri paradossale, che l’attuale relazione fra integrazione regionale e sviluppo è indeterminata però entro le “limitazioni strutturali” (secondo la terminologia che proponeva alcuni anni fa Eric Olin Wright, 1983) che la determinano. Questo autore dava come esempio di quanto sopra che sebbene la democrazia rappresentativa per suffragio universale era strutturalmente impossibile come forma di stato nel feudalesimo, vi era ugualmente una varietà di altre forme di organizzazione. Questo in sintesi può leggersi come il fatto che le forme possibili della politica sono limitate dalla struttura economica non in un modo rigido o meccanico, ma nel senso che alcune forme sono rese più probabili di altre.

Portato al terreno della integrazione regionale nel caso del Mercosur si può dire che la sua forma e prospettiva non procede lungo un cammino inevitabile. Il Mercosur non è un “dato” della realtà ma una costruzione permanente, perché “fu ed è lo stato delle relazioni di forza nel mercato e le connessioni politiche e tecnoburocratiche degli attori sociali e sopra tutto economici, cosa che ha governato la trama delle successive decisioni concrete del governo” (De Sierra, 2001, p.l4).

Si suppone che un nuovo schema di potere regionale possa permettere la possibilità di uno sviluppo autocentrato nel senso proposto da Amin. Per questo è necessario considerare:

a. Le azioni nate dall’incontro di diversi interessi economici (di corto e medio periodo).

b. La capacità dei governi della regione di sfuggire al pragmatismo dei progetti economici in corso e di espandere l’integrazione verso tutta l’America Latina.

c. La capacità degli attori della società civile, specialmente i movimenti sociali, di generare un nuovo “senso comune” (Souza Santos, 2000) sul significato socio-storico di una integrazione regionale alternativa. Di fatto, Bourdieu analizzava proprio questo quando segnalava la necessità di un “movimento sociale Europeo” (1999).

Più vicino al polo opposto, vale a dire al formato di crescita che esclude, sta il Trattato del Libero Commercio (TLC), in funzione dal 1994 tra Stati Uniti, Canada e Messico. Ovviamente questa costruzione non può essere separata dal tipo di relazione storica di dominio che gli Stati Uniti hanno stabilito con l’America Latina, ed in questo caso è chiaro che il Messico è il socio che nel blocco chiaramente si subordina. Gli Stati Uniti sono la fonte dell’81% delle importazioni del Messico e la destinazione dell’89% delle esportazioni di questo paese. Non serve commentare questa dipendenza commerciale.

D’altro canto, il TLC contribuisce alla mobilità del capitale attraverso l’eliminazione delle tariffe tra i tre paesi in un periodo di quindici anni e la riduzione dei rischi associati con gli investimenti stranieri diretti per mezzo di nuovi diritti per le imprese transnazionali (Robinson, 1996). Tuttavia si tratta di un blocco dove le frontiere interne continuano a pesare specialmente nel senso di evitare l’entrata di persone negli Stati Uniti.

La caccia all’immigrante - che include non solo lo stato ma anche squadre paramilitari tipo l’organizzazione Ranch Rescue - non impedisce, tuttavia, l’ingresso illegale né, contraddittoriamente, che il padronato benefici proprio di tale entrata per mantenere bassi i salari. Per esempio, nelle regioni agricole degli Stati Uniti i lavoratori senza documenti guadagnano in media meno della metà del salario minimo nordamericano. La ONG Human Rights Watch informò a metà del 2000 che centinaia di migliaia di bambini, nella maggioranza Latinos, lavorano nel settore agricolo degli USA in condizioni qualificate come “pericolose ed estenuanti”.

Secondo il censimento statunitense dell’anno 2000, circa 21 milioni di cittadini sono di “origine messicana”, dei quali 8.5 milioni sono nati in Messico. Se aggiungiamo la stima di circa 5 milioni di senza documenti, la cifra supera i 13 milioni. Aggregato poi alla cifra di popolazione statunitense di origine messicana conosciuta come “chicanos”, si tratta di una cifra realmente importante [4].

D’altra parte, l’industria maquiladora (prodotti con componenti esterni) ha compiuto quattro decadi di operazioni nel Messico, ed il TLC ha incentivato tale processo. La ricerca dà conto che l’unico risultato positivo è la generazione di migliaia di posti di lavoro che però hanno un forte grado di instabilità e non concedono respiro alle catene produttive domestiche, visto che il livello di input nazionali utilizzato nei processi produttivi non supera il 3% [5].

Insieme alla Cina il Messico è il primo fornitore di abbigliamento agli Stati Uniti. I grandi centri di produzione passarono proprio a questi due stati che condividono i salari pro capite più bassi del mondo, che vanno da 40 centavos a 15 dollari l’ora rispettivamente. L’industria maquiladora delle confezioni avanza dal Messico verso il Centroamerica ed i paesi caraibici. Si supporrebbe che questo significhi investimenti, tecnologia ed occupazione, però nei fatti porta alla bancarotta l’industria locale e privilegia la deregolamentazione dei lavoratori [6].

Il forte sviluppo della maquila nella zona di frontiera tra Messico e Stati Uniti ed in Centroamerica, si basa su terribili condizioni di lavoro, sebbene si debba enfatizzare che contraddittoriamente essa rappresenta una possibilità di lavoro e non necessariamente di qualità peggiore di quello precedente, per esempio per donne giovani provenienti da zone rurali cronicamente povere. In Messico questo tipo di crescita è stimolato dalla macroregionalizzazione che parallelamente, come segnala John Saxe-Fernandez, approfondisce le divisioni regionali interne al Messico (2001).

I sindacati di entrambi i paesi hanno cominciato da alcuni anni, con difficoltà e spesso con risultati non incoraggianti, una cooperazione vincolata alla regione di frontiera. Un caso conosciuto fu quello della Alianza de Organizaciòn Estratègica creata tra il Frente Autèntico de Trabajadores de Mèxico e la United Electrical, Radio and Machine Workers of America (non affiliata all’AFL-CIO), che perse diecimila affiliati nella decade degli 80 per lo spostamento delle industrie in Messico.A partire dal 1966 in Ciudad Juàrez si creò un centro di formazione come parte di un più grande progetto per dare coscienza ai lavoratori delle maquiladoras (Carr, 1999). Tuttavia, queste reti attraverso la frontiera sono ben lontane dalla capacità di disputare l’egemonia al capitale.

Inoltre, il progetto regionale va oltre il TLC - anche come prova dell’ALCA e va oltre le Maquilas. Imprese transnazionali cominciarono a generare elettricità alla frontiera Nord del paese per rifornire gli Stati Uniti, in quello che costituisce il primo passo di quello che gli esperti cominciano a vedere come la conversione del Messico a “locale macchine” della economia statunitense [7]. D’altra parte, la tematica del rifornimento dei bisogni energetici non si limita al Messico. Comprende uno spazio che include il Centro America ed il così detto Plan Puebla Panamà (PPP). Con questo si tratta di consolidare lo schema di apertura commerciale però gestendo insieme risorse per opere infrastrutturali - visto che la questione dei trasporti nella zona risulta prioritaria per gli USA - e rinforzando ed ampliando i meccanismi istituzionali di concertazione delle politiche.

Il Messico ha così abbandonato qualsiasi strategia propria e rinunciato a qualsiasi autonomia, sebbene la sua storia non fu sempre così, tanto che ebbe scontri importanti con gli Stati Uniti. Certamente, il discorso non corrisponde alla realtà e si ricorre a tradizionali invocazioni allo sviluppo ed al concretamente della integrazione mesoamericana.

Il presidente messicano Fox in una riunione nella quale fu presentato il PPP a circa mille imprenditori, direttori di 780 imprese di 24 paesi, principalmente statunitensi ed europee, indicò che si era “d’accordo nell’accelerare il passo per mettere insieme un’agenda per lo sviluppo umano e la sostenibilità ambientale nella regione mesoamericana... Una parte fondamentale di questo sarà l’intensificazione delle azioni di consultazione e partecipazione della società civile, con enfasi e speciale priorità per i gruppi e comunità indigene della regione, che da ora in avanti formano parte integrante del piano” [8]. Come si può osservare mai sono assenti le invocazioni pubbliche allo sviluppo, anche con la partecipazione della società civile, sebbene a giudicare dalle apparenze si tratta di nulla più di un nuovo mito.

Mito 4: in America Latina la borghesia nazionale costituisce un attore indispensabile per l’ottenimento dello sviluppo

La scommessa che il Mercosur si converta in un progetto di integrazione regionale con una certa autonomia è un processo estremamente complesso che però contiene potenzialità che rendono possibile tale direzione. È chiaro che la vastità ed il costo degli sforzi richiesti fa pensare non solo ad istituzioni statali, sforzi cooperativi o di altri attori della società civile ma anche a borghesie nazionali che abbiano la capacità di sostenere il processo. La nostalgia del vecchio progetto nazionale acquista ora una scala nazionale e le aspettative si specificano in un piano sopranazionale accettato.

In questo breve trattamento non si aspira certamente a risolvere il problema ma solo a metterlo in piedi schematicamente. Ed in primo luogo si deve segnalare che per il caso del Mercosur esistono differenze significative. Si sa che in Brasile esistono gruppi economici locali importanti, e le azioni del governo del Presidente Lula non possono essere separate dagli interessi della borghesia paulista. Proprio il vicepresidente Josè Alencar è un imprenditore con relazioni con la borghesia nazionale paulista.

In questo modo, il Brasile sta riformulando la sua matrice fortemente nazionalista costruita nel secolo XX e che le sue elites hanno riprodotto sostenendo una prospettiva di capacità autosostentantesi per proiettarsi nel mondo. Lo schema precedente è divenuto insufficiente nel suo intento di apertura mondiale. Di fatto, i piani della potente borghesia industriale brasiliana prima basati sull’alleanza commerciale con gli Stati Uniti (e la teoria del satellite privilegiato) e della strategia dei militari ed il loro precedente vincolo con il Pentagono - secondo l’analisi di Sehilling (1978) e la sua denuncia dell’espansionismo brasiliano nella regione - hanno subito cambi.

Per esempio, uno studio presentato alla fine del 2002 dalla Federaciòn de Industria del Estrado de Sao Paulo realizzava una proiezione di quello che si sarebbe perso per anno se si fosse attuato l’ALCA, sostenendo che malgrado l’eliminazione delle barriere doganali e protezioniste, non si sarebbe necessariamente generato un aumento delle esportazioni brasiliane considerando fattori come la capacità produttiva installata.

Questo non significa che esista unanimità di criterio all’interno dell’imprenditoria di questo paese. Per esempio, gli imprenditori del settore calzaturiero assicuravano di poter trarre benefici dall’ingresso nell’ALCA poiché quasi il 700% delle loro vendite sono dirette fuori dei confini del paese ed il loro grande obiettivo è di esportare verso gli Stati Uniti. Nonostante questo, la posizione predominante nella borghesia paulista tende ad essere la preponderante [9].

Frattanto, in Argentina il grado di internazionalizzazione di industria, commercio, finanza e servizi è molto alto a causa delle vendite generalizzate di pacchetti azionari dei gruppi economici locali nella decade dei novanta. La partecipazione del capitale straniero nel valore aggregato delle prime 500 imprese è passata dal 62% nel 1993 al 76% nel 1997. Si è già segnalato che molti industriali dinamici furono espulsi dal sistema per le politiche applicate negli anni 90. In altri casi, si è avuto un rifugiarsi in nicchie economiche sicure dipendenti dalla capacità di esercitare azioni di lobby nei confronti dello stato, come nel caso di Macri (Sevares, 2002).

Uno dei simboli dell’Argentina degli anni 90 in questo senso fu il gruppo Exxel diretto dall’uruguayano Juan Navarro. Questo arrivò a controllare 61 imprese partendo dal suo persuadere fondi di investimento nordamericani a comprare imprese. L’acquisto e vendita di imprese con denaro proveniente da tali fondi fiorì nella decade menemista nell’ambito di una ristrutturazione della classe imprenditrice. In una delle sue dichiarazioni nell’ambito del suo declino come gruppo disse “perché non chiedono agli imprenditori che mi hanno venduto le loro imprese che cosa hanno fatto con tutti quei soldi?”  [10]. La sua domanda appare sociologicamente ed economicamente pertinente.

Insomma, la ricreazione di una “borghesia nazionale” in Argentina con lo specchio del Brasile può essere un progetto strategico però forse illusorio. Non solo per la complessità di questa ricreazione ma anche per le aspettative che si collocano sopra le possibilità effettive. Le imprese che vendono sul mercato interno possono vedersi pregiudicate per l’apertura che l’ALCA imprimerebbe, e questo sembra essere il fattore che muove l’imprenditoria nel suo comportamento congiunturale. Per questo, la cristallizzazione di questo cammino non sembra affatto chiara. Anche se lo fosse, costituirebbe la base di un progetto regionale autonomo?

In tal senso, può un progetto regionale come il Mercosur occupare il posto del progetto nazionale di qualche decennio fa? E se è possibile questo, può voler dire in verità uno sviluppo alternativo? Diceva uno degli intellettuali più brillanti che abbia avuto l’Uruguay, Carlos Real de Azùa, che la tendenza a ipostatizzare la nazione, a personificare con personaggi della realtà elementi, settori, classi, interessi contrapposti è un pericolo. Ricordava che nel nazionalismo classico, a differenza di quello che postulano i gruppi rivoluzionari delle nazioni marginali, l’invocazione alla “nazione”, come in tutto, è sempre il parametro dei concreti interessi di classe e di gruppo che i nazionalisti rappresentano (1996, p.95 e ss.). Nello stesso modo, diciamo noi qui, l’invocazione alla integrazione regionale, al blocco di paesi, può essere un progetto tanto trasformatore quanto ricreatore di interessi settoriali che, ora su di un piano regionale, vengono presentati come quelli di tutta la società.

Alla fine degli anni 60, Ruy Mauro Marini scriveva: “La borghesia industriale latinoamericana evolve dall’idea di uno sviluppo autonomo verso una integrazione effettiva con i capitali imperialisti e dà luogo ad un nuovo tipo di dipendenza molto più radicale di quella che vigeva precedentemente. Il meccanismo dell’associazione di capitali è la forma che consacra questa integrazione, che non solo snazionalizza definitivamente la borghesia locale...” (1969, p. 19). Considerando quel contesto di globalizzazione che abbiamo segnalato all’inizio, si può pensare ad uno schema di cambio tanto sostanziale negli imprenditori latinoamericani da appoggiare un altro progetto? Per il momento lasciamo aperto questo interrogativo.

Come una conclusione: più in là dei miti

Ciò che è determinabile cognitivamente non può situarsi solamente in quello che è dato fino al presente, ma anche nella inclusione di quello che è potenziale in termini di orizzonti possibili, dice il sociologo Hugo Zemelman. Qui si situa anche la problematica, contraddittoria discussione dello sviluppo latinoamericano e della sua relazione con l’integrazione regionale.

Vi sono due logiche contraddittorie che stanno in una situazione di tensione in questi spazi sopranazionali. Da un lato una logica di contributo al movimento verso la globalizzazione e che permette, come abbiamo detto, un più efficiente operare delle imprese transnazionali o addirittura una ri-colonizzazione travestita come espansione a Sud degli Stati Uniti. Dall’altro lato, vi è la logica di un altro schema di potere, una forma di integrazione autonoma (nella prospettiva di autori come Amin) che naturalmente non significa autarchia ma inserimento regionale con capacità di modificare almeno le condizioni negative che impone il dispiego globale del capitale.

Lo sviluppo sociale reale e una società che partecipi a tale processo, fanno a pugni con la prima idea e possono essere possibili con la seconda. Tuttavia si tratta di una possibilità con molti ostacoli. Esplorarla significa esaminare attori e pratiche, e questo implica due direzioni essenziali. Una prima direzione di ricerca implica investigare quello che a volte fu chiamato trasformazione della classe dominante. Una seconda direzione vuol dire investigare la partecipazione di movimenti ed organizzazioni della società civile, però non pensati nella prospettiva del “capitale sociale” di accumulazione ed uso individuale.

Questo significherebbe andare al fondo della possibilità di un nuovo schema di potere regionale. Una delle condizioni di quanto detto ci colloca in un’altra relazione di conoscenza possibile che ha a che vedere non solo con ciò che è costituito ma anche con il costituente, non solo con quello che oggi appare unicamente come fattibile ma anche con l’utopia come invito verso il nuovo, per utilizzare espressioni di Zemelman.

Se si assume che entrambe questi assi di analisi sono chiave per la ricerca su questo tema dalle scienze sociali, in paesi come l’Uruguay, dal quale si scrivono queste righe, ma anche in generale in tutta l’America Latina, si sta piuttosto lontani da questa “agenda” necessaria.


[1] La consultazione popolare promossa dalle organizzazioni sociali, ed in particolare il sindacato dei lavoratori dell’impresa statale di combustibili ANCAP, ed il partito di centro-sinistra Encuentro Progresista - Frente Amplio ebbe luogo il 7 Dicembre ed ottenne risultati di più del 60% contro la legge promossa dall’establishment.

[2] Sviluppo sostenibile è un concetto che si popolarizzò a partire dal così detto “Rapporto Bruntland” del 1987 della Commissione ONU per l’Ambiente e lo Sviluppo.La sua definizione proponeva un consenso tanto ampio quanto diffuso.

[3] Per una visione tecnocratica del capitale sociale si può consultare le pagine web della CEPAL, BID, o della Banca Mondiale, senza con questo voler dire che i tre organismi abbiano la stessa posizione sul tema.

[4] Si veda Canales (1999) e le cifre più aggiornate nel supplemento Masiorare, La Jornada, 30.11.03. Certamente le cifre variano tra autori.

[5] La Jornada, Mèxico 14.04.03.

[6] La Jornada, 08.09.02.

[7] La Jornada, 03.08.03.

[8] La Jornada, 29.06.02.

[9] Per la posizione degli industriali calzaturieri si veda Correio Sindical Mercosur n.136/137 dal 10 al 21/11/02.Rispetto allo studio della Federacion de Industrias del Estado de Sào Paulo, si veda Correio Sindical Mereosul n.143 dal 10 al 21/04/03.

[10] Rivista E Puntos n.289, 09.01.03.