Riforma dei mercati finanziari e crisi industriale permanente

Federico Merola

Quasi un anno fa abbiamo iniziato su Proteo un ragionamento sullo stato del capitalismo italiano partendo dalla punta dell’iceberg: il sistema finanziario. Quando sembrava ormai matura da parte dell’attuale Governo l’intenzione di procedere con l’ennesima riduzione della previdenza pubblica (dopo quelle già realizzate nel corso degli anni ‘90), ci siamo chiesti se ci fossero le condizioni economiche, sociali e finanziare per percorrere ancora questa strada. Non c’erano e la riforma è stata accantonata, anche se ora sembra tornata tra le priorità dell’esecutivo. Accertato che lo scarso sviluppo della previdenza privata complementare (fondi pensione e polizze vita) si traduce già oggi in una prospettiva di insufficiente trattamento pensionistico per milioni di inconsapevoli lavoratori, abbiamo inoltre cercato di capire se alla luce dello stato di efficienza dei mercati finanziari italiani la soluzione dei fondi pensione potesse rappresentare - almeno nell’attuale momento storico - una valida compensazione alla perdita certa di un trattamento previdenziale pubblico in vecchiaia. L’analisi ha sollevato numerose perplessità circa la capacità dei mercati finanziari di intermediare in modo efficace il futuro pensionistico dei lavoratori. Perplessità che, purtroppo, sono state quasi immediatamente confermate dai fatti.

Subito dopo l’uscita dell’articolo, infatti, sono scoppiati gli scandali di Cirio e Parmalat, due eclatanti conferme della crisi strutturale dei mercati finanziari già denunciata da Proteo. Di fronte a questi episodi, scottanti per migliaia di piccoli risparmiatori, ci siamo dunque chiesti in un successivo articolo se la finanza si è limitata a riflettere lo stato di crisi dell’economia reale o ha invece dato un suo contributo “aggiuntivo” che, lungi dall’arginare i limiti del sistema produttivo nazionale, li abbia in qualche modo assecondati e amplificati. Non vi è dubbio, in proposito, che i casi Parmalat e Cirio abbiano numerose chiavi di lettura, riconducibili alla radice stessa del capitalismo italiano. Essi, tuttavia, hanno anche messo in evidenza come l’attuale crisi dei mercati finanziari derivi solo in parte dal negativo andamento dell’economia reale, dipendendo in realtà da una vera e propria crisi delle regole che governano il comportamento degli operatori e i meccanismi di sollecitazione e tutela del pubblico risparmio. Tutto questo ragionamento si è svolto sullo sfondo dei più grandi dissesti industriali degli ultimi 20 anni: non solo Parmalat e Cirio ma anche Fiat, Edison, Alitalia e, a ruota, numerosi altri casi rimasti più defilati rispetto ai “disonori” della cronaca.

In un paese in cui le imprese chiudono i battenti, il potere di spesa dei lavoratori si riduce, i mercati e i piccoli risparmiatori segnano minusvalenze finanziarie e, nonostante ciò, le banche presentano con orgoglio bilanci misteriosamente risanati con utili e fatturati in crescita, sembra arrivato il momento di sciogliere il nodo di ogni contraddizione. Rimanendo sul doppio binario finanziario e industriale, possiamo articolare l’analisi su due importanti novità, il cui esito finale è naturalmente ancora fortemente incerto e sulle quali non ci facciamo troppe illusioni:

• In primo luogo, a seguito ai casi Cirio e Parmalat il Parlamento ha avviato un’inchiesta sul funzionamento dei mercati finanziari e ha messo in agenda una riforma complessiva del settore, in discussione dal 16 giugno. Non si può dare per scontato che questo dibattito darà luogo ad un sostanziale miglioramento della situazione ma certamente è positivo che le criticità denunciate più di un anno fa da Proteo, oggi siano state in qualche modo riconosciute dall’assemblea parlamentare. Una prima valutazione del lavoro che il Parlamento sta portando avanti su questi delicati aspetti sarà oggetto del presente articolo;

• In secondo luogo, ci sembra che si stia finalmente facendo strada una maggiore consapevolezza del fatto che dall’attuale crisi economica si esce solo con un ragionamento complessivo sullo stato del capitalismo italiano, capace di riflettere criticamente sulla struttura industriale del paese e sui cambiamenti degli anni ‘90. Di questo ci occuperemo in un prossimo contributo.

 

2. I punti cardine del dibattito Parlamentare in materia di riordino dei mercati finanziari

Il dibattito che ha condotto alla bozza di disegno di legge sul risparmio attualmente all’esame del Parlamento è stato indubbiamente ampio, controverso e molto spesso sorprendentemente trasversale rispetto ai consueti schieramenti politici. Distinguere tra valutazioni di merito e opportunismo politico è per noi essenziale ai fini di formulare un giudizio sulla reale efficacia delle soluzioni prospettate.

Il primo rilevante aspetto che merita attenzione è, a nostro avviso, quello relativo ai tempi e al metodo seguiti. Di fronte alla portata macroscopica dei numerosi scandali finanziari registrati in Italia, e ai danni che sta producendo tanto per i piccoli risparmiatori quanto per le imprese, una riforma rapida e “bipartisan” sarebbe stata la risposta migliore da parte di un sistema politico realmente efficiente. Purtroppo, la compattezza dimostrata dal nostro Governo nell’elaborare e approvare altri provvedimenti (si pensi ad esempio all’abolizione del reato penale di falso in bilancio, alla riforma del sistema radiotelevisivo o all’approvazione della Legge Cirami sulle rogatorie internazionali) è venuta meno in questo caso. In un contesto di maggioranza parlamentare spaccata, spesso in modo profondo e radicale, sarebbe stato bello poter contare su un’opposizione compatta e unificata. Ma i grandi temi della finanza, che toccano gli snodi cruciali del potere, hanno diviso tutti. E il tutti contro tutti difficilmente conduce a soluzioni rapide e razionali.

A parziale giustificazione di ambo gli schieramenti c’è il fatto che la portata dei temi trattati è ampia e complessa, anche se non vi è dubbio che il Parlamento si sia fatto cogliere sorprendentemente impreparato. Dopo l’approvazione del Testo Unico della Finanza, ormai nel lontano 1998, non si era infatti proceduto ad alcuna significativa verifica e approfondimento di rilievo sul funzionamento dei mercati, nonostante il fatto che temi rilevanti fossero rimasti al di fuori di quella pur importante riforma e che gli anni ‘90 avessero introdotto importanti cambiamenti. Oggi, a distanza di tempo e sotto l’urgenza di episodi che sarebbe stato meglio evitare, le criticità degne di attenzione sono molte. Per semplicità espositiva, possiamo dividere i principali temi inseriti nell’attuale bozza del disegno di legge sul risparmio in quattro grandi tematiche: vigilanza; tutela del risparmiatore; falso in bilancio e corporate governance.

 

3. Il nodo della vigilanza

Per molti versi il tema più importante è senza dubbio quello relativo all’assetto della vigilanza. Abbiamo già sottolineato sul precedente numero di Proteo come la gravità degli eventi verificatisi in Italia negli ultimi anni abbia sollevato il problema della responsabilità e dell’adeguatezza di questo assetto.

Il profilo della responsabilità si riferisce soprattutto alle modalità con le quali, dati gli strumenti attualmente esistenti, le autorità di vigilanza hanno effettivamente condotto la loro azione di prevenzione e di controllo. È, quindi, essenzialmente un giudizio politico circa l’efficacia con la quale i vertici delle autorità di vigilanza hanno saputo interpretare il loro ruolo. Sotto questo profilo, ci sembra di poter dire che al di là delle opinioni personali la portata e la gravità degli episodi verificatisi abbia oggettivamente compromesso l’autorevolezza di Consob e Banca d’Italia agli occhi degli operatori e dei cittadini.

Consob è certamente intervenuta su Parmalat, ma lo ha fatto inspiegabilmente in ritardo. E non sembra essere stata particolarmente efficace nel controllo delle emissioni di Bond da parte della Cirio, in origine riservati ad investitori istituzionali ma poi sistematicamente collocati ai piccoli risparmiatori (anche in fase di emissione), eludendo le disposizioni in materia di sollecitazione del pubblico risparmio. Peraltro, con l’obiettivo manifesto di rimborsare i finanziamenti delle banche in un contesto di crisi aziendale conclamata. La Consob non è apparsa né esente da problemi di efficienza, forse anche per scarsità di risorse, né sufficientemente distante dalla politica. Il che porta immediatamente sul banco degli imputati i criteri di nomina dei propri commissari.

La Banca d’Italia, da parte sua, ha respinto qualsiasi addebito formale. Eppure si è trattato di episodi troppo visibili per non essere stati colti dal principale organismo di vigilanza sul sistema bancario che, sebbene non fosse chiamato ad autorizzare le singole emissioni di titoli, ha un dovere primario di vigilanza sulla stabilità dei mercati. In questo contesto sono emerse con evidenza critiche già da tempo rivolte alla Banca d’Italia ed in particolare:

• Un atteggiamento eccessivamente teocratico ed autoreferenziale, un’inclinazione al governo più che al controllo del settore e una relazione preferenziale con alcuni gruppi rispetto ad altri;

• La presenza di conflitti di interesse nell’assetto societario e talvolta nella stessa azione dell’organismo di vigilanza (ad es. il capitale sociale della Banca d’Italia è detenuto dalle banche controllate mentre la gestione diretta della liquidità dell’istituto o del suo fondo pensione forniscono opportunità di interventi in assemblea che condizionano impropriamente l’attività economica degli operatori);

• L’assolvimento di troppi obiettivi spesso in contraddizione tra loro, come la tutela della stabilità, la salvaguardia dei risparmiatori e il governo del settore.

Ma Consob e Banca d’Italia non hanno solo mancato nella loro attività di vigilanza ispettiva e di controllo. Abbiamo già segnalato nel precedente articolo come la vigilanza sia soprattutto preventiva, attraverso indicazioni informali di “persuasione etica” (moral suasion), la regolamentazione diretta dei mercati e, nei casi in cui questa è riservata ad altri soggetti, la debita segnalazione (soprattutto al Governo e al Parlamento) delle principali criticità emergenti. Da questo punto di vista, l’impressione generale è che gli organismi di vigilanza abbiano dimostrato più attenzione e sensibilità verso il governo del mercato e la salvaguardia degli operatori che non verso la tutela del risparmio, lasciata di fatto alla competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria e delle associazioni di tutela dei risparmiatori.

Un secondo profilo di analisi in materia di vigilanza riguarda invece l’efficacia e la razionalità dell’assetto complessivo, ovvero la sua adeguatezza rispetto all’obiettivo della tutela del risparmio e a quello della stabilità dei mercati. Nel precedente numero di Proteo avevamo già sottolineato quanto fosse positivo il fatto che su questi temi si sia finalmente aperto in Italia un libero dibattito. Il tabù su questo argomento, legato ai noti e spiacevoli episodi della fine degli anni ‘70, ha condizionato il necessario ammodernamento del sistema, messo a dura prova dalle profonde trasformazioni degli anni ‘90. In particolare, dopo il trasferimento del controllo sulla base monetaria alla Banca Centrale Europea e la creazione dell’Antitrust, era arrivato il momento di affrontare il tema di una modernizzazione dell’intera struttura di vigilanza sui mercati e gli operatori finanziari. Inoltre, i numerosi scandali finanziari degli ultimi anni hanno posto un rilevante problema di internazionalizzazione dei controlli. L’esigenza di una riforma era da tempo condivisa da molti.

In termini sintetici, l’attuale sistema di vigilanza italiano è in linea di principio tripartito, con una distinzione per finalità nell’ambito della quale la Consob tutela la trasparenza delle imprese, la Banca d’Italia tutela la stabilità degli intermediari creditizi e dei mercati e ha le competenze in materia di concorrenza nel settore creditizio mentre l’Antitrust tutela la concorrenza, con esclusione del sistema bancario. Non mancano, tuttavia, particolarità e anomalie, tra le quali la presenza di autorità competenti per specifici settori, come la Covip per i fondi pensione e l’Isvap per le assicurazioni, e la non sempre chiara ripartizione di competenze tra Banca d’Italia e Consob su alcuni profili di vigilanza, trasparenza e tutela dei risparmiatori.

Ogni riforma di questo sistema richiede dunque la scelta chiara di un modello tra quelli maggiormente diffusi anche negli altri paesi: ad autorità unica o tripartita per finalità, come quello italiano. Uno sguardo d’insieme mostra che non esiste una soluzione prevalente. In Europa entrambe le soluzioni sono ampiamente adottate, in modo quasi equamente suddiviso. Anche l’analisi teorica non fornisce risposte univoche. Peraltro l’autorità unica è un modello di recente applicazione, sul quale manca quindi la possibilità di una valutazione empirica. Volendo dunque pragmaticamente optare per una soluzione a tre autorità, coerente con l’impianto attuale dell’assetto italiano e con il potenziale beneficio di una certa dialettica tra organismi di controllo, i principi sui quali abbiamo auspicato da tempo un intervento del Parlamento sono i seguenti:

• Mantenere la vigilanza per finalità ma riducendo a tre il numero di autorità;

• Potenziare la Consob (che assorbirebbe Covip e Isvap) - che oggettivamente ha competenze estremamente ampie e articolate - assegnare la tutela della concorrenza bancaria all’Antitrust e eliminando le attuali aree di sovrapposizione o incertezza nelle competenze attribuite alle diverse autorità;

• Garantire la massima autonomia e indipendenza dalla politica a tutte le autorità di controllo;

• Responsabilizzare l’attività di vigilanza (accountability) verso il Parlamento e la società civile (non verso il Governo), con un mandato a termine per il Governatore della Banca d’Italia;

• Eliminare particolari situazioni di conflitto di interesse che coinvolgono le autorità (ed in particolar modo la Banca d’Italia);

• Potenziare il coordinamento internazionale dell’attività di vigilanza, a cominciare da quello Europeo nell’ambito della BCE.

Partendo da queste proposte, il lavoro parlamentare che si è svolto nel frattempo si presenta pieno di luci ed ombre. Scartato il modello unico di matrice anglosassone, l’idea che sembra oggi prevalere è effettivamente quella di mantenere una vigilanza tripartita, con Banca d’Italia responsabile della stabilità; l’Antitrust della concorrenza e una riformata e potenziata Consob a salvaguardia della trasparenza e della correttezza dei comportamenti. La vera novità sta proprio nella proposta di attribuzione all’antitrust delle competenze in materia di concorrenza e nel potenziamento della Consob, denominata Amef e allargata fino a incorporare anche l’Isvap, la Covip e l’Uic (Ufficio Italiano Cambi).

Fin qui, quindi, in una direzione sostanzialmente coincidente con la nostra proposta. Tuttavia, i termini delle attribuzioni all’Antitrust non sono ancora chiari così come l’ampliamento della Consob - che sembra scontato - è ancora indefinito nella sua effettiva portata. Inoltre, l’accorpamento di Isvap, Covip e Uic all’interno dell’Amef sembra assai poco probabile in considerazione del fuoco di sbarramento aperto soprattutto dalle assicurazioni.

Ampio sembra invece il consenso sul mandato a termine per il governatore della Banca d’Italia, che con l’attuale incarico a vita rappresenta il retaggio di una visione monarchica dell’ex istituto di emissione, oltre che espressione di una autarchia della vigilanza che non deve dare conto a nessuno. Meno chiari, invece, sono i principi di responsabilizzazione verso il Parlamento e la società civile che si ritiene di introdurre. In questo ambito, costituisce addirittura un inquietante passo indietro il tentativo di riportare l’attività di vigilanza sotto il controllo diretto del Governo, in aperta contraddizione con il necessario principio di indipendenza dalle maggioranze politiche che ogni seria azione di controllo sui mercati e gli operatori finanziari deve necessariamente mantenere. La proposta del Ministero dell’Economia di istituire un Super Cicr, al quale sostanzialmente gli enti di vigilanza devono riferire e che può a sua volta sollecitare gli enti di vigilanza in una direzione piuttosto che un’altra, è già stata respinta dalla Bce, dall’Antitrust, dall’Abi, dalla Banca d’Italia e dalla stessa Consob.

Il coordinamento internazionale della vigilanza, ragionevolmente condiviso da tutti, va comprensibilmente giocato sul tavolo internazionale e quindi può trovare ben poca soddisfazione nell’ambito del provvedimento nazionale che sarà approvato dal Parlamento italiano. Mentre il tema dei conflitti d’interesse derivanti dall’attività finanziaria diretta della Banca d’Italia e dal suo assetto istituzionale è rimasto in parte sotto silenzio e in parte è finito nel tritacarne dei veti incrociati che hanno vanificato ogni possibile proposta di cambiamento.-----

Abbiamo detto la volta scorsa, e ci sembra giusto ribadire, che un tema come quello della vigilanza dovrebbe avere una valenza di ampio respiro parlamentare, alla stregua delle norme di carattere costituzionale. L’augurio è che eventuali revisioni dell’attuale assetto dei controlli siano realizzate con larghe intese. Non si può pensare di cambiare sistema o modalità di vigilanza ogni volta che cambia un Governo.

 

4. La tutela del risparmiatore

Oltre ad una vigilanza potenziata e razionalizzata, il disegno di legge in Parlamento propone anche nuove forme di tutela diretta del risparmio, attraverso limitazioni all’operatività delle banche e nuovi e più efficaci strumenti di ricorso a disposizione dei cittadini. In particolare, sono quattro le possibili aree di intervento in materia:

• Specifiche limitazioni all’emissione di obbligazioni in presenza di conflitti di interesse (è previsto un periodo di detenzione obbligatoria dei titoli a carico delle banche di almeno un anno, la garanzia di solvibilità in certe condizioni e un potere di decisione in materia di quotazione dei titoli attribuita all’Amef);

• Più efficaci strumenti di difesa dei risparmiatori rispetto ad eventuali comportamenti scorretti da parte di emittenti e intermediari finanziari (in particolare con l’introduzione dell’azione giudiziaria collettiva o Class Action);

• L’introduzione di un fondo speciale di indennizzo e garanzia a beneficio dei risparmiatori eventualmente incappati in gravi ed ampi dissesti finanziari;

• L’approvazione rapida della direttiva UE in materia di abusi di mercato (“market abuse”).

Salvo sull’ultimo di questi quattro punti, per altro ampiamente dovuto, le principali associazioni di categoria si sono rivelate apertamente contrarie a tutti gli altri provvedimenti, giudicandoli poco efficaci per i risparmiatori e troppo penalizzanti per banche e imprese.

Per quanto ci riguarda, invece, si tratta di provvedimenti da tempo invocati che in molti casi, come ad esempio nell’ipotesi di Class Action (che in breve consiste nella possibilità da parte di un risparmiatore di far valere le proprie ragioni in sede di giudizio unitamente agli altri o anche separatamente, ma beneficiando di sentenze relativa a casi simili), si limiterebbero semplicemente a colmare un’inspiegabile lacuna con mercati più evoluti del nostro.

In particolare, affrontare in modo responsabile i rischi posti da operazioni effettuate in conflitto di interesse ci sembra una priorità indispensabile per la crescita di un paese che sta già pagando cara, e ai massimi livelli di governo, la propria tradizionale indifferenza al problema. Ricordiamo in proposito come il giudice americano Elliot Spitzer abbia portato le principali banche del suo paese a rimborsare 1,4 miliardi di dollari ai piccoli risparmiatori truffati grazie ad una legge del 1921, il Martin Act, che inverte l’onere della prova spostandolo dai cittadini o dal procuratore alle banche. In pratica il procuratore non deve dimostrare la volontà degli imputati di frodare il pubblico: è sufficiente produrre in aula i documenti con i quali si prova che si è verificato uno scambio di “favori” tra soggetti che dovrebbero agire come controparti. In pratica, basta dimostrare la presenza di conflitti di interesse.

 

5. Il falso in bilancio

Imbarazzante a dirsi, ma l’ipotesi di reintrodurre il reato penale di falso in bilancio è forse la proposta che raccoglie il più ampio consenso da parte delle associazioni di categoria, Abi e Confindustria in primo luogo. Così uno dei primi e più urgenti provvedimenti adottati dal Governo in carica, in evidente conflitto di interessi con la posizione processuale dell’attuale Presidente del Consiglio, viene di fatto considerato a gran voce un passo indietro per il corretto ed efficace funzionamento di un mercato finanziario moderno. Sarà anche vero che il falso in bilancio perpetrato da Parmalat si è verificato prima di questa modifica normativa, ma certamente non è la depenalizzazione del reato la strada più adatta a scoraggiare pratiche truffaldine di questo tipo. Peraltro, in controtendenza rispetto a quanto è stato fatto in altri paesi, a cominciare dagli Stati Uniti d’America che hanno elevato le pene fino ad oltre 20 anni di carcere, riconoscendo la potenziale gravità del reato per i suoi diffusi effetti negativi a livello di sistema.

 

6. La corporate governance e il problema degli incroci azionari tra banche e imprese

Il dibattito forse più deludente però è stato quello che ha riguardato le regole di governo societario (corporate governance). Su questo fronte i temi di particolare rilevanza sono principalmente tre:

• Le forme di tutela delle minoranze nell’ambito di società ad ampia diffusione azionaria;

• La disciplina delle società estere, soprattutto se operanti in paradisi fiscali;

• Le soluzioni volte a contenere i conflitti di interessi nell’intreccio tra finanza e industria.

Sul primo aspetto, l’unica rilevante forma di tutela delle minoranze che sembra emergere dal dibattito parlamentare è quella della nomina di un numero adeguato di consiglieri indipendenti nei CdA delle società quotate. A parte il fatto che si tratta di una soluzione in qualche modo già prevista e attuata da molte di queste società, che ratifica più un’inutile situazione di fatto piuttosto che introdurre effettivi cambiamenti, l’esperienza storica dimostra che l’indipendenza è un requisito difficile da conseguire allorché la nomina degli amministratori avviene da parte dei soci di maggioranza della società.

Con riferimento al delicato aspetto delle società estere, possiamo dire che la giusta diffidenza per le società offshore va sicuramente affrontata in un contesto di coordinamento internazionale. Farlo nell’ambito di un provvedimento nazionale potrebbe essere inefficace e facilmente aggirabile.

Più grave e delicato è, per molti versi, il terzo ed ultimo aspetto. Quello cioè che affrontando gli intrecci societari tra banche e imprese, arrivando ad uno snodo fondamentale della struttura “consociativa” del capitalismo italiano.

Com’è noto, nell’ambito del processo di privatizzazione e trasformazione del sistema bancario italiano - che ha avuto luogo nel corso degli anni ‘90 - è stato consentito alle imprese non finanziarie di entrare nel capitale delle banche. In base all’articolo 19, Capo III, del Testo Unico delle leggi in materia Bancaria e Creditizia (di seguito “TUB”):

• La Banca d’Italia autorizza preventivamente l’acquisizione di azioni o quote di banche da chiunque effettuata quando comporta una partecipazione superiore al 5% del capitale della banca e, indipendentemente da tale limite, quando comporta il controllo della banca stessa. L’autorizzazione è rilasciata quando ricorrono le condizioni atte a garantire una gestione sana e prudente della banca;

• I soggetti che svolgono in misura rilevante attività d’impresa in settori non bancari né finanziari non possono essere autorizzati ad acquisire azioni o quote che comportano una partecipazione superiore al 15 per cento del capitale di una banca rappresentato da azioni o quote con diritto di voto o, comunque, il controllo della banca stessa;

La Banca d’Italia nega o revoca l’autorizzazione in presenza di accordi, in qualsiasi forma conclusi, da cui derivi durevolmente, in capo ai soggetti indicati nel comma precedente, una rilevante concentrazione di potere per la nomina o la revoca della maggioranza degli amministratori della banca, tale da pregiudicare la gestione sana e prudente della banca stessa.

La possibilità di partecipazione delle imprese non finanziarie al capitale delle banche è stata quindi variamente limitata. Se, per molti versi può essere prematuro mettere in discussione la possibilità di questa partecipazione, non si può tuttavia disconoscere, anche alla luce delle prime esperienze, che essa presenta numerosi inconvenienti.

Innanzitutto l’esperienza empirica dimostra che difficilmente le imprese partecipano al capitale sociale delle banche per svilupparne l’attività e la redditività. Il loro interesse strategico è invece funzionale al proprio sviluppo industriale, attraverso l’ingresso in quelli che in Italia rappresentano importanti centri di potere. In questo modo le imprese si garantiscono il finanziamento della propria attività tipica al di fuori di un’effettiva selezione meritocratica da parte della banca.

Una circostanza già grave di per se ma che evidentemente si arricchisce di ulteriori preoccupanti contenuti in caso di crisi aziendale dell’impresa partecipante o se si fa riferimento non solo al tipico finanziamento bancario, quanto piuttosto all’intera attività di intermediazione finanziaria svolta dalla banca stessa, che include collocamenti azionari e obbligazionari. O, ancora, se si fa riferimento anche all’attività di gestione collettiva del risparmio che, in Italia, è ancora fortemente concentrata nell’ambito dei gruppi bancari.

La possibilità che la banca possa trasferire al “mercato” buona parte del rischio di esposizione - direttamente o attraverso i propri fondi comuni di investimento - è evidente, come anche la grave inefficienza macroeconomica che ne deriva in termini di selezione delle imprese sulla base del relativo merito di credito. Il tutto, peraltro, a fronte di commissioni negoziate “in casa” e quindi di una redditività che può trasferirsi sul mercato generando un aumento dei costi di intermediazione.

Per non parlare, poi, del potere e del vantaggio competitivo che un imprenditore viene ad assumere rispetto ai suoi concorrenti non rappresentati nel Cda di alcuna banca.

Di fronte all’evidenza di questa situazione, occorre valutare da un lato l’efficacia delle attuali forme di tutela del risparmio e della stabilità delle banche e dall’altro la possibilità di introdurre correttivi realistici che, senza penalizzare lo sviluppo futuro del settore, possano anzi rafforzarne l’efficienza, la solidità e la credibilità. Attualmente le principali forme di tutela previste dal TUB e dalla normativa correlata, emanata soprattutto dalla Banca d’Italia, risiedono soprattutto sui seguenti principi:

• Impossibilità del controllo;

• Requisiti di professionalità ed onorabilità;

• Limiti quantitativi ai finanziamenti;

• Vigilanza della Banca d’Italia sul merito della condotta aziendale.

Queste forme di tutela hanno mostrato la loro inefficacia ed anzi, la loro pericolosità, nella misura in cui possono lasciar credere di essere sufficienti senza invece esserlo effettivamente.

La mancanza di un controllo totale della banca non impedisce alla società partecipante di esercitare una sostanziale influenza su eventuali decisioni che la riguardano. Né si può pensare che l’uscita dell’imprenditore dal Cda nel momento in cui viene presa una decisione che lo riguarda possa seriamente costituire una forma di tutela.

I requisiti di professionalità sono stati di fatto applicati con una valenza “universale”, nel senso che un elevato grado di responsabilità nella gestione di impresa è stata ritenuta titolo equivalente ai cinque anni di esperienza diretta in materia “bancaria, finanziaria o assicurativa” richiesti per la partecipazione al Cda di una banca.

In quanto ai limiti quantitativi ai finanziamenti, per le imprese non finanziarie partecipanti al capitale delle banche valgono quelli previsti per qualsiasi altro cliente. Non sono stati introdotti vincoli più restrittivi da parte del Cicr o dalla stessa Banca d’Italia.

Mantenendo un approccio al tempo stesso realista, gradualista e meno dirigista possibile, si può escludere nel breve e medio periodo l’ipotesi estrema di vietare la partecipazione di società non finanziarie nel capitale delle banche. Però, a fronte di queste considerazioni, occorre quantomeno verificare se sono possibili altre soluzioni che, pur essendo in qualche modo sub-ottimali, possano sostanzialmente mettere sotto controllo pericoli degenerativi e evitare che la partecipazione di imprese non finanziarie al capitale delle banche avvenga in contraddizione con gli obiettivi macroeconomici di sviluppo del sistema. Da questo punto di vista può essere utile e necessaria l’introduzione di maggiori e più efficaci forme di tutela nonché specifiche forme di vigilanza, tali da impedire o penalizzare quelle partecipazioni che non fossero in linea con lo sviluppo strategico della banca. Limitatamente ai finanziamenti diretti della banca al proprio socio industriale di minoranza, alcune ipotesi da approfondire potrebbero essere le seguenti:

• Obblighi specifici di comunicazione alle autorità e di trasparenza verso i mercati con riferimento alle operazioni effettuate dalla banca con i propri soci non finanziari (direttamente e indirettamente), all’esposizione complessiva e alle principali condizioni applicate;

• Maggiori vincoli di corporate governance in caso di operazioni di questo tipo, come ad esempio una maggioranza di consiglieri indipendenti nel Cda o anche in Comitati di controllo (caratterizzati da requisiti di professionalità più stringenti e selettivi rispetto a quelli attuali e procedimenti di nomina credibili) o maggioranze qualificate (se non addirittura l’unanimità di consensi) per l’approvazione degli affidamenti ai soci industriali della banca e tutte le operazioni a loro riferibili (collocamenti azionari e obbligazionari, ecc.);

• Limiti quantitativi agli affidamenti diretti e anche alle operazioni complessive che una banca può effettuare (soprattutto verso i propri clienti retail) a beneficio dei propri soci-clienti-imprenditori;

• Maggiore impatto dei finanziamenti a soci non finanziari sui coefficienti patrimoniali delle banche, subordinatamente all’eventuale compatibilità di questa disposizione con gli accordi generali conclusi a livello internazionale.

Resterebbe ancora irrisolto il principale problema distorsivo che deriva dalla partecipazione di soci non finanziari al capitale delle banche: quello di una forte asimmetria concorrenziale sul mercato delle imprese, con soggetti che non solo potrebbero avere più facilità di accesso al credito a prescindere dalla rispettiva redditività, ma che addirittura possono controllare e determinare l’accesso al credito di quelli che, di volta in volta, sono i propri concorrenti.

Evidentemente, la soluzione di questo problema passerebbe esclusivamente per il divieto di partecipazione al capitale delle banche da parte soci industriali o, ad esempio, per soluzioni intermedie come l’obbligo di assumere una posizione subordinata come quella degli azionisti di risparmio o altre figure del cosiddetto “quasi-equity”.

Da un punto di vista generale, non meno intricato e pernicioso è il caso opposto, cioè quello di partecipazione delle banche al capitale di aziende non finanziarie. In Italia, sono previsti limiti estremamente più stringenti di quelli autorizzati dalla normativa UE, per cui quando questa partecipazione non è fatta nell’ambito di logiche di Private Equity, solitamente deriva da casi di crisi aziendale. Nel nostro paese, insomma, la partecipazione delle banche al capitale sociale delle imprese avviene per lo più come conseguenza della conversione in azioni di prestiti che l’azienda non è in grado di rimborsare.

A fronte di ciò, non si possono però ignorare i rischi di pericolose inefficienze sistemiche che, anche al cospetto dei benefici di un salvataggio industriale, dovrebbero essere accuratamente evitate. In particolare, in un contesto di banca universale, l’imparzialità di una banca nell’erogare finanziamenti ad una partecipata industriale, soprattutto se in crisi, è fortemente minacciata dall’obiettivo di evitare perdite. Il che, notoriamente, potrebbe produrne delle altre oppure essere scaricata, attraverso altri meccanismi, sul piccolo risparmiatore. Anche in questo caso, insomma, la banca rischia di perdere quella funzione nobile di selezione degli affidamenti in base al relativo merito di credito degli affidati.

La situazione potrebbe essere persino più grave di quella relativa alla partecipazione delle imprese nel capitale delle banche. Perché in questo caso il pericolo concreto è che la banca possa scaricare grandi rischi sul mercato dei piccoli risparmiatori. Eloquenti, in proposito, sono alcuni recenti fatti emersi alle cronache del nostro paese.

Ancora una volta sarebbe necessario introdurre provvedimenti di salvaguardia volti ad evitare effetti degenerativi. Ma il Parlamento su questo particolare aspetto non sembra avviato ad approvare provvedimenti particolarmente innovativi. Le associazioni di categoria, Abi e Confindustria in particolare, si sono già schierate a difesa dello status quo.

Per capire meglio il perché, è a questo punto indispensabile allargare il ragionamento alla struttura del capitalismo italiano e alle sue attuali caratteristiche. Un argomento del quale ci occuperemo sul prossimo numero di Proteo.