Le classi nel mondo moderno

Alessandro Mazzone

Rappresentazione e concetto (prima parte)

Chi edificò Tebe dalle sette porte?
Nei libri stanno nomi di re.
Furono i re a trascinare i blocchi di pietra?
E Babilonia, distrutta più volte,
Chi la rifabbricò, altrettante volte?
Dove abitavano i costruttori in Lima splendente d’oro?
E la sera, in cui fu terminata la muraglia cinese, dove andarono
I muratori? La grande Roma
È piena di archi di trionfo. Chi li eresse? Su chi
Trionfavano i Cesari? E Bisanzio tanto celebrata
Aveva soltanto palazzi per i suoi abitatori? Perfino nella leggendaria Atlantide
Nella notte in cui il mare la inghiottì, urlavano ancora
Annegando, per chiamare i loro schiavi.

Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare vinse i Galli.
Non aveva con se almeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, sentendo che la sua flotta
Era andata a picco. Non pianse pure qualcun altro?
La guerra dei Sette Anni fu vinta da Federico secondo. Chi
Vinse, oltre a lui?

A ogni pagina, una vittoria.
Chi preparò il banchetto?
Ogni dieci anni, un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?

Tante notizie.
Altrettante domande.

Bertolt BRECHT: Domande di un operaio che legge.

 

1. In un certo senso la nozione delle classi, in cui le società umane si dividono, è antichissima. Nella legislazione e nella poesia mesopotamica, essa è documentata almeno dal 2° millennio a.c.. Nei bassorilievi e nei papiri dell’antico Egitto, inservienti e schiave sono raffigurati come assai più piccoli dei potenti cui stanno a fianco. Gli schiavi compaiono come normale elemento della vita associata nella Bibbia, in Omero, in Esiodo. Per non parlare della Grecia classica e di Roma antica [1].

In tutti questi testi e documenti storici, come in quelli del Medioevo e poi dei secoli più vicini a noi, è presente e onnipervasiva la gerarchia sociale, il rapporto di comando e di servizio, il carattere strumentale dei ceti inferiori, l’ossequio tributato a potenti e padroni, l’ “ordine” sociale che in tutto questo si manifesta e vige, la sporadica rivolta e la sua repressione [2]. Chi volesse espungere la presenza dell’”alto” e “basso”, del “padrone” e del “servo” nella storia, poesia, arte dei millenni che conosciamo (perché appunto tramandarono di sé memoria storica, documentale, non soltanto archeologica) dovrebbe cancellare tutti i documenti di 5 o 6 millenni, o mutilarli fino a renderli incomprensibili.

Vi è stato un certo idealismo ingenuo delle scuole, di cui i più anziani di noi si ricordano (ma forse ce n’è ancora..): quello per cui la storia dello spirito umano, o della civiltà, o della cultura, si riassumeva tutta nelle creazioni dell’arte, poesia, letteratura, filosofia, scoperte scientifiche, mentre scompariva nello sfondo la vita della stragrande maggioranza, di coloro che procuravano col lavoro la riproduzione del corpo sociale e quindi anche della cultura, arte ecc., e di chi poteva dedicarsi a queste. Ora, questo idealismo ingenuo è diventato impossibile dopo l’Illuminismo e l’Anti-illuminismo.

L’Illuminismo aveva fatto vedere, già nel ‘700 [3], che la società civile - il mondo del lavoro e della produzione, dell’affinamento e moltiplicazione dei bisogni, dello sviluppo della sensibilità (“estetica”), delle abilità, dell’intelligenza, dell’incivilimento [4]- è l’oggetto effettivo della conoscenza storica, della indagine sociale, della critica, e poi della pratica ragionevole per migliorare la vita collettiva [5].

Quanto allo Anti-illuminsimo, che oggi appare dominante, esso ha in Friedrich Nietzsche il suo maggiore e più esplicito e lucido profeta (ma un Anti-illuminismo è cominciato prima di lui, come romanticismo controrivoluzionario all’epoca della Rivoluzione Francese). Nietzsche, però, ha messo in chiaro per chi sa e vuol capire che l’idea di eguaglianza in qualunque forma (filosofica, religiosa o socialista che sia), e dunque la diffusione della riflessione, la cultura razionale di massa, sono, per chi domina, follia: non solo la cultura - pensiero, arte, nobile raffinatezza in ogni senso - è elitaria, ma deve volere esserlo e volere fondarsi sulla soggezione e l’ignoranza delle masse. “Chi vuole cultura, deve volere schiavi”. E s’intende da sé che democrazia in ogni senso, partecipazione, autogoverno, discussione razionale dei problemi comuni, è altrettanto follia: tutto questo infatti presuppone, non solo e non tanto una cosiddetta “naturale” eguaglianza degli individui umani, ma lo sviluppo delle potenzialità effettive di ciascuno e di tutti, nella e attraverso la vita associata [6]. Idea esplicita nel Manifesto comunista del 1848, idea esecrabile per la borghesia divenuta classe dominante nell’’800, idea assurda e opposta all’ ordine “naturale” e senza tempo delle cose - secondo questa filosofia, che tantissimi oggi ripetono e balbettano senza conoscerla [7], e credendo magari di essere così “veri” innovatori (“postmoderni”, ecc. [8]).

Ma la fine dell’idealismo ingenuo non riguarda soltanto i libri di scuola! Essa, al contrario, è l’indice di un fondamentale fatto sociale, e perciò di cultura. Eccolo. Non è più possibile governare contando sull’acquiescenza di masse analfabete, più o meno superstiziose, ma soprattutto abituate da secoli a un “ordine” che si riproduce di generazione in generazione, e che appare perciò immutabile. Perciò il consenso, o almeno l’assenso dei governati, deve essere conquistato o prodotto sempre di nuovo, attivamente, e può essere perduto. - Questo fatto, questo grande cambiamento rispetto a un passato millenario, ha una duplice radice - obiettiva e soggettiva.

La radice obiettiva è nello sviluppo secolare della produzione capitalistica, che ha rotto gradualmente, ma per sempre, la circolarità sempre uguale delle opere e dei giorni (dei contadini, artigiani tradizionali.) - “La borghesia è una classe altamente rivoluzionaria. [Essa...] non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali...Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese fra tutte le altre...” [9]. Perciò l’età capitalistico-borghese, l’ età nostra, è quella in cui in linea di principio, “gli uomini sono... costretti a considerare con gli occhi liberi da ogni illusione [religiosa, mistico-sacrale, politica, o altra] la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci...” [10].

La radice soggettiva è nella tradizione di due secoli di lotte democratiche, rivoluzionarie, poi socialiste. Nell’eredità della Rivoluzione francese e della Rivoluzione russa, di tutta la storia del Movimento operaio, anzi in generale, di tutta la storia della democrazia nei nostri Paesi. Questo è l’elemento che l’avversario di classe mira consapevolmente e sistematicamente a obliterare, a distruggere. E questo è l’obiettivo cui mira la manipolazione di massa, che va molto al di là della “propaganda”televisiva o altra, e attacca ormai la percezione di sé, lo sviluppo delle facoltà, della sensibilità, emotività, intelletto dei manipolati [11].

L’avversario opera a ragione con queste armi e su questo terreno. Esso sa che, nonostante le vittorie ottenute contro i lavoratori negli ultimi decenni, nonostante la fine del protosocialismo in Europa orientale, le povere parole d’ordine lanciate dai suoi cantori, “ufficiali” o no, (“nuovo ordine mondiale”, “fine della storia” ecc.) poco valgono a mascherare i giganteschi contrasti e problemi del capitalismo globalizzato, dell’ imperialismo moderno [12]. Esso conosce e comprende praticamente la necessità di ridurre le popolazioni del c.d. “primo mondo” a esseri non-pensanti, e così a non-cittadini, per poterle dominare, come quelle dello ex-”terzo mondo” e dei Paesi già socialisti. Da parte nostra, bisogna riconoscere che è ancora soltanto agli inizi la comprensione di questa strategia non più solo oscurantista e anticulturale, ma di vera e propria paralisi e atrofia di capacità umane primarie. Molto resta da fare. Ma conta tener fermo, qui, che continuano ad operare, nel tardo capitalismo, le due radici dell’impossibilità di governare come nel “buon tempo antico”. La produzione capitalistica continua più che mai a rivoluzionare sé stessa e tutti i rapporti sociali. L’esperienza di due secoli di lotte continua a vivere, benché obnubilata, e dà frutto quotidiano nella intelligenza, ancorché mutilata e parziale, dei nuovi fenomeni, delle nuove esperienze di chi lavora.

L’assurdo della fame, della guerra endemica, delle lotte etnico-identitarie in un mondo in cui ormai, obiettivamente, ci sono risorse per tutti gli uomini e c’è posto per tutti, non può essere mascherato - occorre che non sia percepito (o percepito soltanto come fatalità, o come incubo). L’irrazionalità crescente dell’ “ordine” vigente, delle politiche dei suoi padroni e governanti, deve essere celata ad ogni costo - e si può farlo, solo abolendo nei fatti quel “tribunale della ragione umana”, cui la borghesia allora progressiva, tre secoli orsono, nella fase illuministica, aveva proclamato doversi sottoporre ogni tesi, ogni affermazione, ogni certezza dogmatica, ogni istituzione sociale. Di qui l’importanza decisiva del “fronte culturale” nelle lotte di oggi. Perché il “tribunale della ragione” non è più costituito da una minoranza illuminata di uomini colti (i philosophes, allora), in mezzo a un mare di analfabeti, ma, proprio grazie allo sviluppo del mondo borghese (e delle lotte operaie in esso) quel “tribunale” si può ora allargare fino a diventare giudizio, ragionevolezza, critica di massa. Questo (a mio parere) è l’oggetto della lotta di classe, oggi, sul terreno culturale - che, come detto, non è ormai soltanto quello del “sapere” (in ogni specificazione e dimensione), ma, altresì, quello della sensibilità, della percezione, dello sviluppo - o dell’avvizzimento - di tutte le facoltà potenzialmente presenti in ogni bambino, ogni donna, ogni uomo.

2. La rappresentazione millenaria dell’ “alto” e del “basso”, dei “servitori” e dei “padroni”, diffusa nelle coscienze, onnipervasiva, presente nel linguaggio, e poi nei documenti e monumenti giunti fino a noi, è essa stessa oggetto di ricerca storica - linguistica, appunto, iconografica, di storia delle idee, e di qui di storia letteraria, filosofica ecc. - È giusto che sia così, perché questa rappresentazione, anzi le numerose e diverse forme di rappresentazione cosciente, religiosa, ideologica, artistica ecc., di un fatto fondamentale della vita umana associata come la divisione in classi, apre la via a intendere e conoscere la costituzione interna, i modi di vita, e attraverso ciò, il rapporto tra le “idee” degli uomini e il loro modo di produrre e riprodurre se stessi, nella natura, mediante il lavoro [13].

Ma due cose sono evidenti.

Primo: per comprendere il tessuto di attività, produzioni, idee, in cui nacque e si inserisce per noi un’opera passata (p. es.: le strade romane, o la poesia di Orazio), devo avere un’ipotesi sul rapporto di produzione fondamentale in cui, nel tempo dato, gli uomini producevano e riproducevano sé stessi.

Secondo: la rappresentazione (millenaria, diffusa, multiforme, onnipresente) delle classi è una cosa. Il concetto di “classe sociale” è un’altra. Che ci siano “sempre stati” (nella storia documentalmente tràdita) “alto” e “basso”, “signori” e “servi”, ecc. ecc., non mi dice ancora nulla sulla maniera in cui la cosa funzionava - nonostante fosse, come s’intuisce, fondamentale. (Anche “intuizione” non è concetto!)

Così dobbiamo abbandonare il lato per cui le “classi” sono, e sono state presenti, evidenti, rappresentate, intuite, in forme e modi diversissimi, nelle lingue, opere, monumenti a noi tramandati dai millenni -e domandare che cosa intendiamo veramente quando parliamo di “classi” e di “rapporti di produzione” [14]. Del resto, il pregiudizio che le classi “si vedano” più o meno immediatamente, è, lui sì, immediatamente confutato da uno sguardo anche superficiale alla società in cui viviamo [15]. Al massimo, “si vede” ancora e sempre l”alto” e il “basso”, il ricco e il povero, il potente e chi è dominato. Una constatazione vecchia quanto il mondo, e che non mi fa saper nulla di nuovo. [16]-----

3. Le “classi”: un tentativo di lettura. Per andare al di là della mera constatazione, conviene passare dal luogo concettuale e sistematico, nella teoria del Modo di produzione, in cui esse emergono appunto come “classi”

Al livello della teoria del Modo di produzione capitalistico [MPC] le “classi” non sono un dato, né una collezione di individui (con o senza tuta, con o senza contratto di lavoro, nel doppio senso di “lavoratori con partita IVA” o di caporalato e lavoro nero.) Le “classi” sono un concetto, e anzi un universale. Possiamo dire, ricordando che le Forze produttive [FP] [17] non avrebbero esistenza senza i RP in cui operano e si sviluppano, che “classi”, astrattamente preso, significa: modi di esistenza delle forze produttive nel loro sviluppo.

Per avanzare oltre questa astrazione, dobbiamo tener presenti i concetti di

- rapporto di produzione (v. nota 13); e di

- forma di movimento [18]

Nell’architettonica della teoria elaborata da Marx, il primo rapporto di produzione è - il valore. Esso è già una forma di movimento, quel moto che permette la deduzione del “denaro”, uguale a “circolazione delle merci” (Titolo di Capitale I, cap. 3!)

Con questa forma di moto di producenti di merci, “privati, autonomi e indipendenti” (non producono per se stessi, ma per vendere, vendono per comprare ecc.), hai la prima determinazione concettuale del valore. Rapporto di produzione tra quei (puramente ideali) producenti-di-merci, il valore

1. eguaglia i loro lavori;

2. scarta l’inutile o non comprato;

3. riduce permanentemente la quantità di lavoro al socialmente necessario;

4. rialloca permanentemente il lavoro complessivo secondo gli scambi effettivamente avvenuti (misurazione e “forma di prezzo”). Queste funzioni del valore rimarranno, modificate e sussunte, nel “modello” della produzione capitalistica. Ma qui, nella circolazione semplice, hai: 1. che il lavoro di ciascuno è lavoro produttivo, sia di beni (valori d’uso di merci), che di valore, misurabile e rimisurabile nei successivi scambi [il loro lavoro è qui wertsetzend, cioè creatore di valore quantitativamente misurato, mentre NON lo sarà quello dei salariati]; 2. che, tuttavia, non c’è ancora, concettualmente, produzione. È soltanto presupposto che i nostri individui “privati autonomi e indipendenti” abbiano prodotto, ciascuno, la sua brava merce: noi però li “vediamo”, o meglio, li concettualizziamo, solo mentre la portano a scambiare: vendono, poi comprano quel che gli occorre, e se lo portano a casa, dove non c’è più merce, ma solo un bene, consumato, o anche lasciato marcire.

Una volta che il denaro è sviluppato, è “signore”, compra tutto quello che gli sta di fronte e possa esser comunque venduto, diventa pensabile la “generalizzazione della circolazione delle merci” - ma a una condizione: che la forza-lavoro, il “lavoro vivo” che è in potenza, e diventa in atto unicamente entro il processo di capitale, sia separato dalle condizioni di produzione (mezzi e oggetti di lavoro), e perciò - pena la morte - si offra come merce [19].

Non importa da dove vengano questi “lavoratori liberi”  [20]. Essi sono “lavoro senza oggettività”, che può estrinsecarsi soltanto in quanto “fuoco del lavoro vivo” sul morto, i mezzi e oggetti di lavoro - i quali hanno ora, però, la forma di capitale. Questo lavoro vivo è dunque integrato nel processo di capitale. E lo è materialmente [stofflich], come concreta attività specifica, di volta in volta, di questo lavoratore, con questi mezzi di lavoro ecc., su questi oggetti che elabora; e nello stesso tempo, valoralmente, poiché è solo grazie al lavoro vivo che il capitale (non già “cosa”, ma rapporto e processo) può valorizzarsi. [21]

Qui c’è del nuovo. Entriamo in un modo di produzione peculiare, e dunque in un nuovo RP. Resta fermo che abbiamo producenti di merci, e che merce è solo quello che viene prodotto per esser venduto. Dunque, una sfera della circolazione (“ovvero...denaro”, ricordiamo) che ora anzi precede e segue ogni atto di produzione, e che tende a generalizzarsi, estendendosi non solo a sempre nuovi rami o settori, ma a ogni sfera di vita che sia riducibile a produzione-e-vendita di merci, ossia “mercificabile” [22]. Con ciò resta fermo anche, per l’esposizione del modello concettuale più astratto del MPC (“processo di produzione del capitale”, accumulazione, circolazione del capitale” [23]), l’assioma-base di ogni teoria dello scambio di merci, quello che si scambino equivalenti. Ma con una limitazione decisiva. Per clausola di astrazione, e “poiché i veri produttori di merci” prodotte capitalisticamente sono “i capitalisti” [24], si continua per ora a presupporre che acquisti e vendite dei produttori-capitalisti avvengano “normalmente”, ossia che ogni capitale realizzi sempre il valore e plusvalore prodotto (“scambio delle merci al valore” [25]). Ma, fin d’ora, ciò non vale affatto per l’apparente scambio tra lavoro e capitale, espresso nel “salario”. Non si tratta affatto, almeno per Marx, di una semplice questione quantitativa. No! lo “scambio” stesso è apparente, “si tratta di tutt’altra categoria!” [26] Nella circolazione di merci, il “valore d’uso” della merce acquistata è dell’acquirente, certo, che ne fa quel che vuole, lo consuma o distrugge a suo piacere - il bene consumato o distrutto è fuori dalla circolazione e dalla produzione. Nell’acquisto di mezzi di produzione (da parte del “vero produttore di merci”, il capitalista) hai che il valore di quelli (che compare nel calcolo aziendale come elemento dei “costi di produzione”),viene trasferito pro tanto nell’unità di merce prodotta, (rispettivamente: deve essere calcolato come costo unitario senza cambiamento quantitativo.) [27] Orbene: in superficie, sembra un normale scambio: denaro contro merce (forza lavoro), e l’uso della merce è del compratore. Ma il “valore d’uso” di questa merce è - il lavoro - il “fuoco del lavoro vivo” che solo permette ai prodotti passati, al “lavoro morto”, qualunque forma abbiano, di tornare in società come ingredienti della produzione, invece che andarsene in natura come rottami, rifiuti e ruggine. Quel lavoro, nei termini marxiani, che appunto produce neovalore - una sola parte del quale è equivalente alla sussistenza storica media del lavoratore. Non c’è scambio, né qualitativamente, né quantitativamente (nel senso del postulato dello scambio di equivalenti, inerente allo scambio di merci.)

E allora? Allora, il salario è una figura di parvenza. Parvenza necessaria, si noti: non è concepibile riproduzione umana in forma capitalistica senza acquisto di mezzi di produzione e di lavoro salariato (comunque fissato in forme legali, o “nere”, o camuffato). E parvenza nella quale sono “impigliati tutti gli agenti della produzione di merci” [28]. Alla fin fine, la lotta per la (grandezza del) salario o per la sua riduzione, per una parte “giusta” del costante incremento di produttività, per il salario globale e differito, per i connessi aspetti normativi e legislativi, è stata (ed è) una lotta per istanze di civiltà, entro il MPC. Riguarda l’aspetto quantitativo? Sì. Ma, posto il rapporto di capitale, è inevitabile che vi sia anche questo aspetto.

Resta però l’altro aspetto, quello qualitativo. Fin qui, non avevamo ancora il processo di produzione nel suo movimento specifico, “nel suo nesso complessivo... cioè come riproduzione” e accumulazione del capitale. Basta sviluppare questo nesso, per vedere che i lavoratori non sono pagati affatto. Essi ricevono dei “buoni, sotto forma di salario”, su una parte del valore, e del prodotto (valore d’uso di merci) già creato dal loro lavoro (I, 21). Perciò è corretto parlare di “schiavitù salariata”, e ricordare che ogni conquista del movimento operaio, da una parte resta “solo un acconto” rispetto all’autogoverno del corpo collettivo, o sociale, secondo razionalità e libertà, dall’altra non è definitiva mai, ma soggetta all’andamento alterno dei rapporti di forza.

Ma ora: il “lavoro” esiste sempre di nuovo in potenza, negli esseri umani che lavoreranno, se e in quanto il capitale li metterà all’opera, secondo le sue esigenze di valorizzazione. Questo in potenza è non solo corporeità, ma anche abilità, e capacità dei lavoratori, in ogni istante. Essi si producono e riproducono in un ciclo vitale che è inseparabilmente ciclo sociale - questo ciclo ogni volta, in questa società, con questo grado di sviluppo sociale complessivo, di cultura ecc. - Non lo fanno “grazie” al salario e alle merci che mediante il denaro-salario possono comprare! Non si mangia (beve, veste, studia...) salario! Si mangia (veste, studia, socializza, sviluppa sé stessi...) medianteuesyta società

beni, questo sì, che in generale sono tutti prodotti di lavoro umano (“materiali” o “immateriali” che siano: per es., sanità, istruzione, ecc.). Ma, in quanto hanno forma di merci, i beni esistono solo per la domanda solvente. Perciò la ricchezza (= capacità di soddisfare bisogni umani, e sviluppo di questi, non “materiale” ma storico-sociale) viene costantemente prodotta, sì, ed è tutta frutto di lavoro. Ma il rapporto proporzionale tra questa reale ricchezza e la valorizzazione del capitale è via via decrescente, e tende a scomparire, con lo sviluppo storico, epocale, del MPC. Di qui, non solo il conflitto tra “capitale e lavoro”, ma anche e soprattutto l’evoluzione tendenziale della base del conflitto. Astrattamente, esso ha sempre per oggetto la modalità della riproduzione associata di uomini. Ma per non restare nella cattiva astrazione, che è cieca di fronte allo sviluppo delle cose e del processo sociale, dovremo vedere (a grandissime linee) come questa riproduzione associata si sviluppi, nelle forme e configurazioni del MPC, attraverso tutto il corso del suo sviluppo generale, epocale, fino ad oggi.

4. Ma non anticipiamo. È qui, quando abbiamo il MPC che si muove secondo la sua legalità interna, e pone sempre di nuovo le sue stesse condizioni [29], che abbiamo gli elementi per pensare concettualmente, non solo la esistenza in genere delle due classi fondamentali, capitalisti e lavoratori salariati, ma il modo in cui esse producono e riproducono sé stesse. “Modo di esistenza di forze produttive”, si è detto, sono le “classi” astrattamente. Qui l’astrazione può finalmente concretizzarsi: le due classi-base producono e riproducono sé stesse come forme di esistenza del processo di produzione capitalistico - cioè specifico, quello e non un altro, con le sue proprie leggi interne, il suo sviluppo epocale, le sue forme di movimento.

Resta da vedere ancora non poco:

a) come le due classi-base si modifichino e risentano del moto del capitale sempre ancora nel semplice “processo di produzione del capitale”:

- attrazione e repulsione di lavoratori, creazione permanente di una sovrappopolazione lavoratrice, “esercito industriale di riserva”, disoccupazione ed esclusione - dalla parte dei lavoratori;

- concentrazione e centralizzazione del capitale, tendenza all’oligopolio - dalla parte del capitale stesso e delle sue “maschere caratteristiche” (i capitalisti, semplici “agenti”, “personificazioni” del moto del capitale stesso - secondo Marx);

b) come si producano le “figure di superficie”: salario come “prezzo del lavoro”, poi lo stesso profitto, nelle quali restano “impigliati tutti gli agenti della produzione di merci” (Capitale I,1,§4);

c) come le classi in lotta agiscano sullo stesso Modo di produzione, attraverso l’imposizione di leggi (“volontà politica”, Stato) che regolano in parte il moto “spontaneo” della produzione capitalistica (qui Marx espone, naturalmente, fenomeni dell’età sua).

Ma prima di sospendere, gettiamo ancora uno sguardo al cammino percorso. Il concetto di classe, a rigore, pur elaborato e svolto nei predecessori di Marx (e in particolare nell’Economia politica classica, tra ‘700 e primo ‘800), nasce con il Capitale. Esso è secondo, concettualmente, rispetto a quello di Modo di produzione. Tutta la teoria marxiana è - si può dire - teoria dei modi di produzione, e in particolare del Modo di produzione moderno, capitalistico. Per questo essa è “critica dell’economia politica” - e con lei, critica dell’enciclopedia borghese delle scienze sociali, che affianca, in dipartimenti separati, economia, sociologia, storiografia ecc. ecc. Ed è in fondo per questo che essa parla a noi, oggi: la teoria del processo storico-sociale in quanto concezione di uno sviluppo epocale, nelle sue forme di movimento peculiari, rende possibile (ma soltanto possibile!) portare avanti l’impresa avviata dalla ragione illuministica: intendere il processo in cui gli uomini associati producono e riproducono sé stessi, le loro forme di vita, le loro istituzioni, anzi anche le loro abilità, capacità, facoltà.

Per questa via, tornerà possibile anche progettare razionalmente una “politica saggia e illuminata” che serva a migliorare, con le nostre condizioni di vita, noi stessi e i nostri figli. Ma non senza la diffusione della ragione nelle c.d. “classi subalterne”. Non senza, certo, un lavoro lungo e lotte difficili. La teoria delle classi è parte essenziale di tutto questo.


[1] La schiavitù era tanto ovvia, che è anzi documento della grandezza filosofica di Aristotele il fatto che essa diventi per lui problema: egli si chiede se schiavitù sia “per natura” o “per convenzione”, senza decidere la questione.

[2] La storia delle rivolte e insurrezioni si estende nei secoli. Qualche grande episodio è ricordato generalmente: dalla crocifissione dei combattenti di Spartaco lungo la via Appia nell’ 71 a. C., alle jaqueries periodiche dei servi della gleba in Francia e Inghilterra fino a tutto il ‘300, alla Guerra dei Contadini in Germania (1525-6), alla rivolta di Pugaciov in Russia sotto la zarina Caterina II (1773-4).

[3] P. es. con la storiografia: G.B. Vico, Montesquieu,Voltaire, Gibbon, Ferguson, Hume mettono fuori gioco definitivamente, nel ‘700, la “storia” come “storia” dei re, delle loro battaglie e conquiste, ecc., per una storia delle “nazioni”, dei loro costumi, istituzioni, modi di vita.

[4] È il termine italiano in cui tutto questo si riassume, oggetto delle ricerche del maestro di Melchiorre Gioia e Carlo Cattaneo, a cavallo tra ‘700 e Risorgimento, G.D. Romagnosi (1751-1835) - un termine che già di per sé contiene la nozione di un processo e di un avanzamento, e che vale la pena di rimettere in uso!

[5] E (non a caso) nello stesso periodo nasce la economia politica come scienza della Ricchezza delle Nazioni, della sua origine (nel lavoro senz’altro - Adamo Smith, 1776), del suo sviluppo, del suo possibile incremento grazie a una politica economica saggia e illuminata.

[6] L’uguaglianza, nella Rivoluzione Francese come nella Costituzione della Repubblica italiana, non è una “verità immediatamente evidente” (preambolo della Dichiarazione d’ Indipendenza americana, 1776), ma un dover essere: un obiettivo da realizzare attraverso tutte le istituzioni della vita sociale, ovvero un “compito della Repubblica”.

[7] Ma che è ripresa con spirito di sistema nel maggior teorico della neorazzista “identità culturale”, il francese A. de Benoist, a partire dall’opera Vue de droite, 1977, tradotta in più lingue.

[8] Quel che più conta non sono, qui, le teorizzazioni di intellettuali che riescono a “sfondare”, ma la cosa di cui essi si fanno più o meno malinconici cantori: cioè, la manipolazione di massa, la spoliazione fin della sensibilità più elementare (acustica, visiva, emotiva), l’invasione e occupazione delle menti e dei cuori con una diffusa e in-traguardabile, permanente alluvie di “messaggi” sempre indifferenti, perché sempre di nuovo immediati, e perciò non-elaborabili, impermeabili allo sforzo di dare un senso alle proprie esperienze, ai propri rapporti, alla propria vita - questa è la messa in pratica grandiosa, su scala quasi planetaria, della produzione di dominio mediante una sorta di assenso muto, inarticolato e inarticolabile, e però di massa, in quelle parti del mondo capitalisticamente unificato in cui i lavoratori si sono già una volta organizzati, riconosciuti come classe, e hanno posta la questione dell’ egemonia - e potrebbero tornare a farlo, elaborando una strategia adeguata alla figura attuale del potere imperialista.

[9] K. MARX, F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, Londra 1848.[Cito dalla tr. di P. Togliatti, Roma 1949, p. 31].

[10] Ibidem.

[11] Come ha mostrato tra gli altri Th. METSCHER, da ultimo nello studio Società civile e coscienza postmoderna, in: AA.VV. Gescheiterte Moderne?[Sull’ideologia del Postmodernismo], Edition Marxistische Blätter, Essen 2002.

[12] Rimando per questo al mio saggio Conoscere l’imperialismo moderno, e agli altri studi apparsi nel vol. Il piano inclinato del capitale. JacaBook, Milano, 2003. V. ora anche E. DAL BOSCO, La favola della globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2004; J. ARRIOLA e L. VASAPOLLO, La dolce maschera dell’Europa, JacaBook, Milano 2004.

[13] Un corpo collettivo umano si riproduce anche bioticamente, s’intende: riproduzione sessuata. Questa esso ha in comune con buona parte del regno animale. Gli enti che chiamiamo comunemente “uomini” sono perciò biplanari: entrano nella vita e nella società, con la sua precedente storia, alla nascita, e d escono da entrambe solo con la morte. La loro attività sociale lascia però tracce indelebili - piccole o grandi (non foss’altro per il modo in cui hanno trasmesso ai figli tipi di attività lavorativa, di linguaggio, ecc.).

[14] Una volta per tutte. Chiamiamo “Rapporti di produzione” [RP] i rapporti di e tra uomini in quell’attività peculiare loro (il lavoro), con cui, producendo oggetti qualisivogliano (“materiali” o no), in definitiva riproducono la loro vita, e dunque sé stessi.

[15] Che un certo signor B., a tutti noto, sia straricco e assai potente, si “vede” immediatamente - e non porta da nessuna parte...

[16] Mi sbaglio! Perfino questa banalità si vorrebbe obliterare “linguisticamente”. Così è denominata “gerarchia piatta” (un bell’ossimoro) quella vigente in certi oligopoli, dove è norma darsi tutti del “tu” e chiamarsi col nome di battesimo - e, vigendo per lo più rapporto di lavoro precario, si è poi messi fuori senza complimenti da un “gerarca piatto” che decide al riguardo.

[17] La “forza produttiva” primaria sono sempre gli esseri umani: che lavorino con la cazzuola o col computer, dipende dalla “base tecnica” raggiunta in un determinato stadio del Modo di produzione. Ma questi stadi sono interni al MP stesso (capitalistico,nel nostro caso), e modalità del suo sviluppo intrinseco, della sua peculiare forma di movimento.

[18] La forma di movimento più semplice è quella meccanica (il moto dei corpi celesti, la caduta dei gravi, ecc.); più complesse sono quelle chimiche, organiche, e finalmente quelle dei corpi sociali. Tutti questi sono processi, (non: “cose”), e hanno leggi interne del loro insorgere, svilupparsi, estinguersi. In quanto queste leggi sono peculiari, specifiche di un processo o di un tipo di processi, parliamo di rispettive forme di movimento (o forme di moto). La produzione di valore e plusvalore è la forma di movimento specifica, fondamentale, del MPC (“produzione” significa già “processo”!) Di lei sono poi fenomeni, p. es., il salario, il profitto, l’interesse del capitale, ecc. (Un’analogia, per quello che può valere: i “segni” di buon funzionamento - “salute”, o cattivo - “malattia”, che la semiotica medica riconosce e classifica, sono aspetti fenomenici delle forme di movimento proprie di quel sistema di sistemi che è l’organismo vivente.)

[19] Pena la morte, sì: perché non puoi pensare produzione e riproduzione umana, sociale, se non hai uomini vivi, e per esser vivi, concettualmente, devono mangiare. “L’uomo si nutre “ è una determinazione universale astratta, un momento del concetto “uomo”, comune per questo lato a tutti i viventi. Che poi Alessandro Mazzone, per esempio, crepi di fame, non cambia nulla alla determinazione concettuale, che resta vera, sebbene universale-astratta.

Invece la proposizione “tutti gli uomini possono ormai esser nutriti, allevati ecc., grazie allo sviluppo epocale della produzione in forma capitalistica” - se la dimostro, cioè concettualizzo quello sviluppo epocale nella sua dinamica propria, e di lì tiro le conseguenze, esprime un universale concreto, una possibilità reale apertasi nel processo [nella “realtà in atto”], che ha per noi la forma del dover-essere, ma non è semplice aspirazione soggettiva, bensì obiettiva possibilità.

[20] Nel capitolo sulla cosiddetta “Accumulazione originaria” Marx dà larga documentazione storica dei metodi extraeconomici, violenti, con cui contadini e artigiani vennero “separati” dai loro mezzi di produzione, durante quattro secoli. Ma questo, se fu una precondizione della produzione capitalistica e operò poi nel suo espandersi, non è modello concettuale sussunto nel più ampio e concreto modello successivo - quello del MPC come produzione e accumulazione “immediata”. È altro, descrizione di pre-condizioni, appunto, anteriori e logicamente distinte dal “modo di produzione capitalistico vero e proprio”, quello in cui il capitale (con la “produzione del plusvalore relativo”), pone esso stessoisuoipresupposti,ecamminasulle sueproprie gambe.

[21] Questo punto - essenziale - non solo è e indifferente al capitalista, il quale “vede” solo il prezzo di costo e l’incremento da aggiungervi in base al tasso del profitto medio, che per lui è un dato (base, ancor oggi, del calcolo economico aziendale). Ma è “scomparso” agli occhi di tutti gli “agenti della produzione capitalistica”, i quali - per un lato almeno - vedono e non possono non vedere sé stessi che come “individui dello scambio”. Anche i lavoratori? Certo! “Io ti do il mio lavoro-merce, tu mi dai in cambio il salario, con quello - altro scambio di denaro/merci - mi compro quel che posso pagare, ecc.. Certo, i lavoratori sono “doppi”, come vedremo: “individui dello scambio”, o “persone” nel senso liberale e borghese - fino all’attimo in cui entrano in produzione, e dopo che ne sono usciti. Dentro la produzione (qui non importa proprio se “materiale” o “immateriale”) NON vige la “proprietà, libertà, uguaglianza...” del mondo della circolazione semplice, ma il comando dispotico sul lavoro altrui, e la appropriazione dei frutti di quello. (I lavoratori poi sono “doppi” anche in un secondo senso, v. infra.)

[22] Oggi, alla produzione di uomini anche in senso stretto, biologico-sociale. Dalla c.d. “procreazione assistita”, fenomeno per ora di scarsa diffusione, alla nutrizione dei nuovi nati, alla produzione del loro mondo attuativo (giochi) e immaginativo, alla “privatizzazione” dell’insegnamento ecc. - Queste novità non devono tuttavia distrarre dal carattere essenziale della Riproduzione sociale complessiva, che è sempre produzione e riproduzione di esseri umani, in ogni Modo di produzione: e nel MPC, mediante prodotti di attività umana che hanno forma di merce, mentre l’attività acquista progressivamente la forma di lavoro salariato.

[23] Nell’esposizione tràdita: il I e II libro del Capitale di Marx, dove la doppia clausola di astrazione stabilita esplicitamente all’inizio di Capitale I, sez. VII, (“in un primo momento consideriamo l’accumulazione astrattamente... come semplice momento del processo immediato di produzione... [e] presupponiamo che il capitale percorra il suo processo di circolazione in maniera normale”) permetterà intanto di esporre le determinazioni dell’accumulazione e concentrazione del capitale, poi la “influenza che l’aumento del capitale esercita sulle sorti della classe operaia”; poi, nel secondo libro, dove hai una molteplicità di capitali interconnessi tra loro, anche i cicli del capitale, la rotazione e la sua azione sulla composizione organica, gli schemi di riproduzione complessiva. Ma molteplicità non è ancora interazione attiva di enti individuali, ciascuno dei quali opera di fronte a e su tutti gli altri secondo le leggi della sua interna costituzione. Per trattare questo, le clausole di astrazione dovranno esser levate, e ciò avviene nel Capitale III, dove si tratterà di una “media ideale” del “processo complessivo della produzione capitalistica”.

Non però ancora, come dichiara esplicitamente l’Autore, del “moto reale della concorrenza”, cioè delle varie vicende della produzione capitalistica nel corso del tempo.

[24] L’espressione virgolettata è in Capitale III, prima pagina. Per la clausola di astrazione, v. nota prec.

[25] Per una lucidissima esposizione della portata di queste clausole di astrazione, e del significato dell’espressione “scambio di merci al valore” nei tre Libri tràditi del Capitale, cfr. R. FINESCHI, Ripartire da Marx. Napoli, Città del Sole, 2001.

[26] È nel Manoscritto 1857-8 [Grundrisse], che Marx “scopre”, sotto la parvenza della circolazione di merci, l’insostenibilità del c.d. “scambio” tra capitale e lavoro, e prorompe nell’espressione ricordata. L.cit., p. 22 del Quad. II, = p. 186 dell’ed. in MEW, vol. 42.

[27] Marx non si fa certo illusioni sulla probità delle “maschere caratteristiche” dei rapporti economici. Ma non trovo, nella teoria del MPC come tale, l’arte di falsificare i bilanci...

[28] I,1,4 (Feticismo della merce); ma cfr. il più ampio e complesso feticismo del capitale in III, 48 e 49.

[29] “Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione (corsivo mio), non produce...solo merce, non produce... solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra il lavoratore salariato.” (Capitale I, cap. 21, in fine)