L’imperialismo globale e le leggi “naturali” dell’accumulazione capitalistica (Seconda parte)

Ernesto Screpanti

Un meccanismo disciplinare molto efficace è quello che passa per la “libera” concorrenza. “Vinca il migliore” e “chi sbaglia paga” sono degli slogan che esprimono con precisione, sebbene un po’ eufemisticamente, il meccanismo di fondo con cui la competizione assicura l’efficienza economica: pesce grosso mangia pesce piccolo. Dal punto di vista del capitale efficienza vuol dire capacità di produrre profitti: più alto è il saggio di profitto, maggiore l’efficienza produttiva. Ma il profitto è il carburante e lo stimolo dell’accumulazione: più alto è il saggio di profitto, maggiore la capacità e l’incentivo alla crescita.

È bene chiarire che la libera concorrenza di cui godono le grandi imprese multinazionali moderne non è quella di cui parlano i tradizionali libri di testo. Imprese atomistiche, libertà d’entrata, flessibilità dei prezzi, tanto per dirne alcune, sono caratteristiche che non si riscontrano nei grandi mercati industriali globali. Come ho già accennato, la forma prevalente nei mercati moderni è quella della concorrenza oligopolistica. C’è oligopolio perché le imprese multinazionali, in ogni industria, sono poche e grandi. Inoltre, a causa dell’esistenza di alti costi d’entrata e d’uscita i loro mercati sono scarsamente contendibili e quindi non opera neanche la concorrenza potenziale di eventuali nuove imprese. I prezzi sono piuttosto rigidi in virtù di un sistematico ricorso a pratiche collusive e interazioni strategiche tra imprese. E tuttavia c’è anche concorrenza. In effetti la competizione tra le imprese esistenti è piuttosto forte. Ma è una competizione che passa attraverso l’innovazione, il marketing e la pubblicità piuttosto che attraverso le guerre dei prezzi.

Innovazione, marketing e pubblicità sono tutte pratiche che richiedono grandi dimensioni. Le imprese piccole sono inevitabilmente perdenti in queste attività, perché non hanno a disposizione le enormi quantità di capitali necessarie per finanziare la competizione-non-di-prezzo. Così le grandi imprese godono di vantaggi competitivi sistematici nei confronti delle piccole, vantaggi che assumono la forma di economie dinamiche legate appunto al progresso tecnico. Inoltre le imprese che fanno sistematico ricorso a tecnologie avanzate devono usare mano d’opera specializzata e personale tecnico e scientifico dotato di un elevato “capitale umano”. Ciò presuppone un ambiente sociale e culturale sviluppato del tipo che si dà oggi solo nei paesi capitalistici avanzati. Si può parlare in questo caso di economie esterne sociali.

Per tutti questi motivi i paesi del Nord del mondo, quelli in cui risiedono le teste pensanti e in cui si raccolgono i profitti delle grandi multinazionali, godono di un sistematico vantaggio competitivo nei confronti dei paesi del Sud, nonostante gli enormi differenziali salariali. La ricerca si fa nel Nord. I suoi prodotti sono difficilmente accessibili ai paesi del Sud, sia perché si devono pagare alte royalties, sia perché le applicazioni industriali richiedono quelle economie esterne sociali di cui i PVS sono scarsamente dotati.

Tali paesi si devono quindi specializzare nelle produzioni tecnologicamente meno avanzate, materie prime, prodotti agricoli, manufatti semplici, componentistica e beni di consumo standardizzati, e pagare salari molto più bassi di quelli pagati al Nord, oltre che imporre condizioni di lavoro molto peggiori. Questo tipo di specializzazione produttiva e di distribuzione del reddito non favorisce l’investimento nel “capitale umano” e lo sviluppo di una cultura dell’innovazione, e quindi non promuove il superamento del divario tecnologico. È in funzione una vera e propria trappola del gap tecnologico: il divario di produttività è causato dall’arretratezza sociale e culturale, la quale è a sua volta è alimentata dall’arretratezza economica determinata dal divario tecnologico.

Ma non basta. Collegata alla trappola del gap tecnologico ce n’è un’altra che colpisce i paesi produttori delle cosiddette commodities, i prodotti della terra, sia agricoli che minerari. Un’antica teoria liberista afferma che ogni paese dovrebbe specializzarsi nell’esportazione dei beni per la cui produzione è relativamente meglio dotato. Così i PVS dovrebbero orientarsi verso la fornitura di materie prime, generi alimentari e manufatti a bassa intensità di capitale, scelta che in realtà è stata già effettuata da lungo tempo dai paesi colonialisti e che viene continuamente ribadita dalle multinazionali moderne. I problemi causati da questo tipo di specializzazione sono principalmente due, uno è di lungo periodo e uno di breve. [1] Nel lungo periodo accade che il trend della domanda relativa di commodities da parte dei paesi industrializzati è decrescente, sia pur attraverso ampie oscillazioni. La conseguenza principale di questa tendenza è che il prezzo reale delle commodities (definito come prezzo relativo rispetto a quello dei prodotti esportati dai paesi industrializzati) è sceso in media dello 0,6% l’anno a partire del 1900, essendosi più che dimezzato nel 1992. Le ragioni della tendenza sono molteplici: diminuzione del peso delle industrie pesanti nelle economie industrializzate, aumento del peso dei settori che producono beni immateriali, sostituzione delle materie prime tradizionali con nuovi prodotti di sintesi, miglioramento delle tecniche di recupero, aumento dei consumi di lusso rispetto a quelli necessari, sovvenzionamento statale della produzione agricola nei paesi industrializzati.

Così accade che i paesi che si sono specializzati nell’esportazione di commodities devono fronteggiare una tendenza al peggioramento sistematico delle ragioni di scambio: devono produrre sempre di più per avere in cambio sempre di meno; devono esportare i propri beni nel Nord del mondo a prezzi decrescenti per importare i prodotti industriali a prezzi crescenti. Più avanti spiegherò il modo in cui tale tendenza contribuisce ad attivare un’altra micidiale trappola, quella del debito estero. Per ora mi limiterò a trarre una conclusione generale sul funzionamento di questo meccanismo di sottosviluppo. I produttori di commodities semplicemente non riescono, con l’esportazione dei propri prodotti, a generare quei sistematici surplus delle Bilance dei Pagamenti che sarebbero necessari per avviare un processo di decollo industriale, e quindi sono condannati a restare intrappolati nella loro specializzazione. La storia ha dimostrato che la famosa teoria dei vantaggi comparati dovrebbe essere ridenominata “teoria degli svantaggi comparati”.

Ma ci sono anche problemi di breve periodo. Poiché le commodities sono in genere caratterizzate da bassa elasticità della domanda rispetto al reddito, la loro produzione non riesce a usufruire in pieno della crescita economica dei paesi avanzati durante le fasi di boom. Si aggiunga che questi beni sono anche caratterizzati da basse elasticità della domanda e dell’offerta rispetto ai prezzi. Ciò comporta che oscillazioni delle quantità domandate o offerte tendono a generare oscillazioni dei prezzi ancora più forti. In altri termini i paesi produttori di materie prime e generi alimentari sono molto sensibili al ciclo economico, molto più dei paesi industrializzati. Una lieve recessione delle economie europee e nordamericane può produrre effetti devastanti nei paesi del Sud del mondo.

Si aggiunga infine il fatto che le produzioni più profittevoli dei PVS sono spesso controllate dalle grandi multinazionali e dall’intermediazione commerciale internazionale, cosicché gran parte dei profitti in esse ottenuti vengono incamerati da imprese che li spendono nel Nord del mondo. Si calcola ad esempio che del prezzo di un kilo di banane e di un kilo di caffè non più del 12-13% torna ai paesi produttori; il resto va al Nord.

In conclusione i paesi del Sud del mondo, benché godano di un alto saggio di sfruttamento della loro forza lavoro, non riescono a produrre tutto il plusvalore di cui avrebbero bisogno per avviare il decollo industriale. Per di più non riescono neanche a trattenere quello che producono. Questo bel risultato d’efficienza è ottenuto in semplice virtù delle leggi del mercato. E si capisce che i paesi del Nord premano molto per spingere quelli del Sud ad abbattere le barriere protezionistiche e liberalizzare i propri mercati. È in realtà il grande capitale globale che preme per l’abbattimento di ogni barriera al libero movimento dei capitali, e quindi all’indebolimento dei poteri dei (piccoli) stati nazionali. Il grande capitale ama la libertà (e i sentimenti di fraternità da essa secondati) non per ragioni contingenti, ma per via di principio:

“Signori, non vi lasciate suggestionare dalla parola astratta di libertà. Libertà di chi? [...] È la libertà che ha il capitale di schiacciare il lavoratore. [...] La fraternità che il libero scambio stabilirebbe fra le varie nazioni della terra non sarebbe più fraterna. [...] Tutti i fenomeni di distruzione che la libera concorrenza fa sorgere all’interno di un paese si riproducono in proporzioni più gigantesche sul mercato mondiale” (Marx, 1971, pp. 175-176)

Tra gli organismi internazionali quelli che più efficacemente lavorano per l’espansione della libertà sono il WTO, l’IMF e la WB, i tre principali strumenti politici per l’apertura del mondo alla penetrazione del capitalismo.

Il WTO è stato precipuamente costituito con lo scopo di favorire l’espansione del commercio mondiale. Ed è stato dotato di efficaci strumenti disciplinari nei confronti dei paesi recalcitranti, sanzioni economiche, ritorsioni, multe etc. Molto importante è il ruolo che il WTO si è assunto nell’ambito degli accordi TRIPS e GATS. I primi mirano a regolare gli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale. In pratica servono a difendere l’intangibilità della proprietà sui prodotti della ricerca scientifica e tecnologica e quindi a garantire la redditività del loro uso. I brevetti, che sono depositati esclusivamente nei paesi capitalistici avanzati, non possono essere usati dai PVS se non pagando i prezzi stabiliti dalle imprese multinazionali che li posseggono. [2] Il GATS invece riguarda il commercio dei cosiddetti “servizi”, dall’istruzione alla sanità, dalle telecomunicazioni ai trasporti, dalle assicurazioni alle banche, dall’ambiente alla fornitura dell’acqua. Molti di questi “servizi” sono beni comuni, pubblici o meritori, oppure sono beni di necessità vitale. In quanto tali, tradizionalmente venivano forniti o regolamentati dalle autorità pubbliche nazionali. Ebbene il WTO, con la scusa di rendere competitivi i mercati dei “servizi”, lavora alla loro privatizzazione e alla penetrazione delle multinazionali anche in questi settori.

Il WTO è forse lo strumento politico più potente del capitale globale. Non a caso le imprese multinazionali sono intervenute pesantemente, in modo diretto e indiretto, sulla formazione e la definizione degli accordi internazionali di libero scambio, specialmente il TRIPS e il GATS.  [3] Il WTO ha in parte sostituito le cannoniere. Attraverso di esso il grande capitale si apre la strada all’espansione e all’accumulazione su scala mondiale; e per di più lo fa con il consenso dei paesi sfruttati.

Quanto all’IMF, questo monte di pietà dei paesi sfigati, è arrivato ad assumere una funzione liberatrice per rispondere alle critiche sollevate contro le sue tradizionali politiche di aggiustamento “strutturale”; le quali in passato, in ossequio all’ottica keynesiana del sistema di Bretton Woods, imponevano restrizioni dal lato della domanda aggregata. Con l’affermarsi dell’ideologia monetarista il termine “strutturale” è stato ridefinito con riferimento alle politiche dell’offerta e privilegiando una visione di lungo periodo, piuttosto che di breve. Così, a partire dal 1979, l’IMF ha cominciato a imporre politiche strutturali mirate al “rilancio dello sviluppo”. E queste, nell’ideologia liberista, si riducono alla deregolamentazione e alla liberalizzazione dei mercati. Dunque: abbattimento dei dazi ed altre forme di protezionismo per aumentare la concorrenza, liberalizzazione dei prezzi per curare l’inflazione, deregolamentazione dei mercati del lavoro per favorirne la flessibilità, deregolamentazione dei mercati finanziari per incoraggiare la mobilità del capitale, privatizzazione delle imprese pubbliche per riequilibrare i conti pubblici ed estendere la concorrenza. È stato osservato che in questo modo l’IMF svolge la funzione di una ruspa che prepara il terreno all’ingresso del capitale nei paesi sfigati. Lo prepara in modo che l’ingresso sia più profittevole possibile: fa abbassare i salari e il costo delle materie prime, rende flessibile il lavoro, fa svendere le imprese pubbliche a costi di realizzo, fa abbattere le barriere protezionistiche.

La WB infine gioca un ruolo più sottile, ma non meno efficace, nell’assicurare l’espansione della libertà. Essa offre aiuto ai PVS sotto forma di finanziamenti agli investimenti nelle infrastrutture necessarie per il decollo industriale, ovvero per la penetrazione del capitale multinazionale. Ma, come l’IMF, non dà nulla gratis. In particolare, come condizione della concessione dei suoi finanziamenti, impone l’abbattimento delle barriere protezionistiche. Molti paesi sono indotti ad aderire al WTO e ad accettare i suoi diktat per poter usufruire degli aiuti allo sviluppo offerti dalla WB e, più in generale, dal capitale del Nord del mondo.

 

2. La disciplina monetaria

Negli anni ‘70 molti PVS trovarono conveniente indebitarsi. I tassi d’interesse erano bassi e i prezzi delle materie prime crescenti. Si pensava che sarebbe stato facile finanziare a basso costo l’industrializzazione, il potenziamento degli eserciti nazionali e l’arricchimento delle classi dominanti. Per di più si aveva la fiducia di poter ripagare il debito con crescenti introiti dalle esportazioni di materie prime. Fu così che il debito estero del Sud del mondo nei confronti del Nord aumentò enormemente.

Negli anni ‘80 però le cose cambiarono. Le spese di riarmo di Reagan, unite a un micidiale mix di politiche fiscali espansive e politiche monetarie restrittive, trascinarono il mondo verso un rapido e drastico rialzo dei tassi d’interesse. Nello stesso tempo, le politiche restrittive che tutti i paesi industrializzati, specialmente l’Europa, adottarono in reazione alle spinte inflazionistiche, determinarono un rallentamento della produzione e del commercio mondiali che ebbero, tra le altre conseguenze, una riduzione della domanda mondiale di commodities. Si verificò così una riduzione dei prezzi delle materie prime proprio mentre quelli dei prodotti industriali andavano alle stelle: le ragioni di scambio peggiorarono enormemente per i paesi del Sud del mondo.

I quali si ritrovarono dunque a dover pagare tassi d’interesse crescenti sui loro debiti e a incassare prezzi decrescenti sulle loro esportazioni: un aumento del costo del debito proprio mentre diminuiva la capacità di pagamento. Questi paesi furono perciò costretti a chiedere nuovi prestiti solo per far fronte al pagamento degli interessi su quelli vecchi.

Il problema fu aggravato dai soccorsi offerti dal Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione preposta all’aiuto finanziario per i paesi in difficoltà nei pagamenti internazionali. Il Fondo concedeva prestiti, ma a condizione che i paesi debitori accettassero i suoi piani d’aggiustamento strutturale, i quali, in ossequio alle politiche d’aggiustamento strutturale cui ho accennato sopra, prevedevano normalmente l’adozione di politiche di: riduzioni salariali, svalutazioni monetarie, aumenti delle tasse, riduzioni della spesa pubblica, aumenti dei tassi d’interesse, sfruttamento delle risorse migliori per le esportazioni. Queste politiche non sono il prodotto di menti particolarmente malefiche, bensì il risultato di una solida visione ragionieristica della gestione monetaria: chi presta i soldi vuole accertarsi della capacità del debitori di ripagare il debito.

Le politiche d’aggiustamento del Fondo mirano tra l’altro a ridurre i consumi e quindi le importazioni dei paesi indebitati, possibilmente ad aumentarne la produzione e le esportazioni. In tal modo verrebbe creato l’avanzo della Bilancia dei Pagamenti con cui generare i fondi necessari per ripagare il debito. Se non ché quando la ricetta viene imposta a molti paesi, e più in generale quando l’economia mondiale ristagna, gli effetti complessivi diventano perversi. La riduzione delle importazioni di tutti comporta una riduzione delle esportazioni per tutti. Perciò l’aumento dell’offerta di beni esportati, soprattutto materie prime, fa diminuire ulteriormente il loro prezzo. La conseguenza può essere un peggioramento, invece che un miglioramento, delle bilance dei pagamenti. E comunque accade che il Sud si trova ad aumentare il volume delle proprie esportazioni vedendone diminuire i ricavi.


Come rimediare a questa situazione? Come fa una famiglia a ripagare i propri debiti quando non è capace di farlo col proprio flusso di reddito? Deve intaccare il capitale, deve vendere i gioielli di famiglia. A questo si riduce il famoso Piano Brady, il quale, ridotto all’osso, funziona così.

Una parte dei crediti delle banche private viene convertita in obbligazioni a lunga scadenza, previo abbattimento del loro valore e/o riduzione del tasso d’interesse. Le obbligazioni sono garantite dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale. Queste istituzioni inoltre concedono nuovi prestiti ai PVS, rifornendoli così di una quantità di moneta che viene usata per ripagare parte del debito verso le banche private. Un’altra parte viene ripagata attraverso un cammino più tortuoso. Le banche vendono una quota dei propri crediti sul mercato secondario a prezzi scontati. Le grandi imprese multinazionali li acquistano e li convertono nelle valute nazionali dei paesi debitori. Così il debito estero diventa debito interno. I PVS possono ripagare questo debito con beni immobili nazionali. In tal modo, mentre le banche private alleggeriscono la loro esposizione riducendo i loro crediti verso i PVS, le grandi multinazionali riescono a comprare a prezzi stracciati imprese e risorse naturali di quegli stessi paesi. Con il debt-equity-swap il debito viene ripagato cedendo la proprietà delle imprese, mentre la cessione di vaste riserve di risorse naturali passa per il dispositivo cosiddetto debt-nature-swap. Questo meccanismo di esproprio non è stato inventato dal ministro del Tesoro americano Nicholas Brady, il cui piano in realtà non ha fatto altro che sancire e regolarizzare un meccanismo di mercato che già funzionava così: le banche vendevano i propri crediti sul mercato secondario a prezzi molto bassi, le multinazionali li compravano e poi li usavano per comprarsi dei pezzi dei PVS indebitati. Vediamo qui operare al meglio quel processo di “accumulazione per espropriazione” [4] che il capitale globale riesce ad attivare usando gli aiuti ai PVS invece che le cannoniere.

In conclusione è accaduto che, durante gli anni ‘80 e i primi anni ‘90, i flussi di capitale dal Sud al Nord del mondo per il servizio del debito hanno superato i flussi degli investimenti internazionali dal Nord verso il Sud. I paesi poveri hanno finanziano i paesi ricchi. Per fare ciò hanno dovuto “stringere la cinghia”, cioè hanno dovuto impoverirsi ancora di più. Nello stesso tempo è accaduto che una quota crescente di risorse del Sud del mondo è stata appropriata dalle multinazionali del Nord. I paesi poveri si sono dovuti svendere a quelli ricchi.

La trappola del debito dà vita a una sorta di ciclo lungo del debito estero. Ci sono fasi in cui gli investimenti esteri verso i paesi assoggettati aumentano, anni ‘20, ‘50, ‘70, seguite da fasi in cui esplode il problema del rimborso del debito. Negli anni ‘90 il flusso di investimenti esteri nel Sud del mondo ha ricominciato ad aumentare, specialmente in conseguenza dei bassi tassi d’interesse prevalenti nel Nord. Questa volta si tratta soprattutto di capitali privati di tipo speculativo, i quali hanno già prodotto effetti devastanti, ad esempio nelle crisi valutarie del Messico (1994), dell’Est e Sud-Est asiatico (1997) e dell’Argentina (2002).

La disciplina del credito è una trappola inesorabile che è regolata dalla pura e semplice logica economica. Non c’è bisogno di un tiranno imperiale, non serve una regina Vittoria, per attivarla e farla funzionare a dovere. Bastano i mercati e i ragionieri delle banche, pubbliche, private e internazionali. Chi resta impigliato in questa trappola non ne esce se non accettando di sottostare a un processo di impoverimento e sfruttamento sistematico, lo sfruttamento dei paesi debitori da parte dei creditori. L’altra via d’uscita sarebbe la via politica, quella che passa per la rottura della logica della partita doppia: la via dell’annullamento del debito. Ma la mentalità del dono, o meglio, della restituzione del maltolto, è estranea alle leggi “naturali” della concorrenza e dell’efficienza economica.

Non c’è solo L’IMF a prendersi cura del buon funzionamento della trappola. Ci sono anche i cosiddetti “mercati finanziari”. Com’è noto, la liberalizzazione dei movimenti di capitale ha portato a una superfetazione delle transazioni speculative a livello globale. Gli speculatori, senza saperlo, svolgono un ruolo essenziale nell’attivazione della disciplina monetaria.

Quando un PVS ha un deficit nella Bilancia dei Pagamenti la speculazione può aspettarsi una svalutazione della valuta nazionale. Se questa aspettativa comincia ad affermarsi, si avvia la speculazione sui cambi, che è un tipo di speculazione con notevoli capacità di autorealizzazione: se tutti vendono il Peso argentino, nell’attesa che si svaluti, esso si svaluterà come semplice conseguenza dell’aumento delle vendite. I capitali fuggiranno dall’Argentina e ciò farà peggiorare ulteriormente la Bilancia dei Pagamenti. La svalutazione inoltre farà aumentare il valore delle importazioni, e la Bilancia dei Pagamenti peggiorerà ancora di più. Può darsi che il deficit iniziale della Bilancia dei Pagamenti non fosse strutturale, né particolarmente grave. Se però la speculazione si convince che lo è, lo diventa.

La vittoria della speculazione non è priva di effetti reali anche molto seri. I tassi d’interesse aumentano in seguito alla svalutazione e all’aumento del cosiddetto “rischio paese”. Possono aumentare ancor di più se il governo cerca di resistere, ad esempio tentando di difendere la stabilità del cambio alzando appunto i tassi d’interesse. Inoltre il governo potrebbe prendere provvedimenti restrittivi sulla spesa pubblica e l’offerta di moneta al fine di migliorare la Bilancia dei Pagamenti. Questo tipo di politica innesca la recessione economica. In effetti è solo così che riesce a migliorare i conti esteri. In sintesi, mentre gli speculatori-predatori si arricchiscono, il paese-preda s’impoverisce. Le rendite speculative sono il prezzo pagato per la lezione ricevuta.

La teoria economica seria, quella con cui si vincono i concorsi per diventare dirigenti delle grandi istituzioni monetarie internazionali, dice che la speculazione svolge un ruolo positivo nel disciplinare le politiche economiche nazionali: accelera i processi d’aggiustamento punendo le politiche “sbagliate”. Spesso ammaestra i governi riottosi anticipando le raccomandazioni dell’IMF. Anzi la disciplina imposta dagli speculatori può essere più efficace di quella imposta dal Fondo, perché può agire ante factum, laddove l’IMF agisce solo post factum.

 

3. La disciplina terroristica

Ora siamo in grado di capire meglio quali sono le “sperequazioni” che lo sviluppo capitalistico su scala globale tende ad acuire. Sono le sperequazioni tra il Nord e il Sud del mondo, tra capitalismo dominante e capitalismo dominato. Ora siamo in grado di capire che le disuguaglianze di reddito che si vengono a creare e ricreare continuamente non sono fatti anomali e contingenti. Si tratta invece di una tendenza sistematica, una tendenza causata dallo sfruttamento. È dunque facile capire che molti paesi del Sud del mondo possono reagire male. E i tipi prevalenti di reazione negativa sembrano essere due.

Alcuni paesi hanno assimilato la logica dell’accumulazione capitalistica, rifiutando però di sottostare ad almeno alcune delle leggi della libera concorrenza. Sono considerati paesi “opportunisti”. Non hanno abbattuto le barriere protezionistiche, non hanno liberalizzato i movimenti di capitale, non hanno rinunciato alle politiche industriali. Alcuni dei paesi che hanno scelto questa strada sono riusciti ad avviare efficaci processi di decollo industriale, a sostenere tassi di crescita della produzione molto alti, a ridurre la povertà assoluta e il divario di reddito col Nord del mondo. Il caso più esemplare è la Cina moderna, un paese in cui l’accumulazione capitalistica sta dando il meglio di sé.

Altri paesi invece hanno reagito con una fuga regressiva dal capitalismo. Hanno rifiutato la cultura “occidentale” e si sono chiusi nell’esaltazione integralista di valori religiosi tradizionali, nella tipica reazione della volpe di fronte all’uva. Questi sono i paesi “recalcitranti”. Il termine scientifico è “paesi canaglia”.

L’imperoglobalepuò attivare diverse forme di disciplina nei confronti dei paesi opportunisti e recalcitranti. Rispetto ai primi si usano ad esempio le organizzazioni internazionali, come il WTO e la WB, per comprare il loro adeguamento alle leggi della concorrenza. A volte si interviene più pesantemente, decretando sanzioni economiche che mirano proprio a far inceppare i processi di decollo industriale autonomo. Spesso si va giù in modo più pesante, cercando di destabilizzare il paese in modo da indurre un ricambio di classe politica. Ma lo strumento più efficace resta la speculazione. Le iene dei mercati finanziari attendono pazienti, pronte ad entrare in azione non appena un paese “opportunista” dia segni di debolezza. Appena si manifesteranno difficoltà della Bilancia dei Pagamenti, scatterà la trappola della speculazione internazionale.

Vorrei che fosse chiara la natura di tale tipo di disciplina. Anche in questo caso non c’è una mente perversa che pianifica tutto. La speculazione non la comanda nessuno. Né si deve credere che la CIA e il Pentagono controllino anche il WTO e la WB, sebbene... [5] La reazione è organica, spontanea. Ed è una reazione complessa in cui moltissimi soggetti decisionali, compresa la CIA stessa, agiscono autonomamente perseguendo obbiettivi eterogenei, contribuendo però ad innescare processi che si risolvono oggettivamente, “naturalmente”, in un’azione punitiva.

Diverso è il meccanismo disciplinare che agisce sui paesi recalcitranti. Qui la speculazione e il WTO possono poco, visto che i “valori” capitalisti sono scarsamente efficaci. Qui viene attivata la disciplina del terrore, la guerra, la devastazione fisica del paese. Alla base di questo meccanismo sta una sorta di feed back positivo della psicologia collettiva. La repressione militare e l’impoverimento economico induce consistenti strati delle popolazioni recalcitranti a scivolare nel terrorismo. Questo, a sua volta, spinge i paesi “civili” a reagire col terrore bellico. Anche qui è in atto una trappola, ma ora, trattandosi di un feed back positivo, l’effetto è destabilizzante, come infatti deve essere. La trappola deve condurre a una resa dei conti finale in cui il bene trionfa sul male. Dopo si potranno togliere le sanzioni, aprire i mercati, costruire gli oleodotti.

In casi del genere non c’è dubbio che la mente perversa c’è, se non altro nella veste del presidente del grande paese che dà l’ordine di attaccare. Ma si deve capire che questa mente agisce all’interno di un processo psico-politico piuttosto complesso che rende le sue reazioni necessarie. All’interno di tale processo anche fenomeni apparentemente anomali acquistano significato. Alcuni osservatori, ad esempio, sostengono che la dittatura e l’occupazione militare israeliana in Palestina sia in curiosum, un fatto non funzionale alla logica dell’imperialismo globale, e che neanche il sostegno americano a Israele si possa spiegare funzionalmente. Sembrerebbe che la spiegazione andrebbe ricercata nella potenza della lobby ebraica americana piuttosto che nella logica dell’accumulazione del capitale. In realtà, anche questa anomalia svolge una sua funzione disciplinare: serve ad innescare la logica del terrorismo con cui i paesi arabi, cioè quelli che controllano gran parte delle riserve petrolifere mondiale, sono tenuti sotto schiaffo. Né sembra si possa dire che qualcuno l’abbia pensata proprio con questo scopo.

Un’altra cosa importante che bisogna chiarire intorno al significato dell’intervento militare nei paesi recalcitranti riguarda il ruolo del gendarme del mondo. Come ho già rilevato, sarebbe un errore credere che il moderno imperium globale sia espressione del trionfo di un impero nazionale americano. Qui è in azione in realtà il dominio mondiale del capitale multinazionale e quindi dei paesi capitalistici avanzati nel loro complesso. Ciò si capisce non solo e non tanto dal fatto che comunque gli interventi bellici degli USA sono sostenuti e integrati dalle forze armate di altri paesi del Nord del Mondo. Si capisce meglio osservando che gli interventi bellici sono mirati a perseguire gli interessi economici collettivi del capitale. Sono puntati ad esempio sui paesi che controllano risorse strategiche, come l’Iraq, o canali di traffico strategici, come l’Afganistan. In altri termini, il gendarme del mondo agisce per conto del capitale-mondo, non del capitale americano. Che poi esistano delle “contraddizioni” inter-statali è un fatto. La Francia neo-gollista, la Germania “social-democratica” o la Cina “comunista” possono fare attrito. Ma sono contraddizioni non essenziali e possono essere più o meno facilmente appianate. Certamente non sono contraddizioni inter-imperialistiche del tipo da cui Lenin si aspettava la fine del mondo.

Quanto alla logica politica dell’intervento militare, sembra essere basata sul modello “sheriff and posse”: [6] Come il vecchio sceriffo del far west radunava una banda di cittadini armati per dare la caccia a Chato, l’indiano ribelle, così l’odierno sceriffo del far east raduna una banda di nazioni armate per disciplinare l’arabo recalcitrante. L’azione non è svolta solo nell’interesse dello sceriffo e dei cittadini armati. Serve invece gli interessi dell’intera comunità di multinazionali che si sente minacciata da Chato: lo sceriffo e le nazioni armate sono solo dei funzionari del capitale globale.

La cosa importante comunque è un’altra e vorrei ribadirla. Bush potrà anche essere sinceramente convinto di portare la libertà in Iraq. E non lo metterete in difficoltà richiamando i suoi interessi petrolieri, quelli dei suoi ministri e quelli delle lobby che il imbeccano. Dopo tutto il perseguimento dei due fini, la libertà e il petrolio, porta allo stesso risultato. E potrà anche accadere che il risultato atteso venga raggiunto. Ma ciò che veramente conta è che Bush alla fine avrà contribuito a raggiungere un fine che poteva non essere in cima alle sue intenzioni: portare in Iraq la vera libertà, la libertà di movimento del capitale globale.

 

4. La disciplina ideologica

Il più potente degli strumenti disciplinari è anche il più sottile, quello che opera nelle menti umane. Capire come funziona può essere utile se non altro per evitare di cadere nell’abbaglio delle visioni cospirative dell’impero.

In un mondo complesso come quello di oggi non si può spiegare la subordinazione della politica alle esigenze dell’accumulazione con l’idea dell’”unione personale” del capitale con il governo. Come si spiega allora che praticamente tutti i soggetti che prendono decisioni rilevanti le prendono in modo da far funzionar bene le leggi “naturali” dell’accumulazione? Non ci si può aspettare che i dirigenti dell’IFM, del WTO, della WB, della Federal Reserve, della Banca Centrale Europea etc. prendano, tramite Bush, gli ordini trasmessi dal signor “capitale”. Il punto è che in effetti non prendono ordini: sanno da soli cosa devono fare. E lo sanno perché hanno le menti devastate dall’ideologia dominante.

Il pensiero liberale moderno è tutt’altro che “unico”. Anzi è caratterizzato da tali e tante sfaccettature, differenze, contraddizioni, che sarebbe azzardato volerlo sintetizzare nella forma di una filosofia sistematica. Ciononostante, è possibile almeno tratteggiarlo a grandi linee enucleando due dei più importanti dogmi su cui è fondato e alcuni loro corollari politici.

Dogma I (efficienza della libertà): il mercato alloca le risorse in modo efficiente, tanto più quanto più libera è la concorrenza.

Corollario I.1: le imprese pubbliche devono essere privatizzate.

Corollario I.2: le barriere protezionistiche devono essere abolite.

Dogma II (potenza della moneta): l’inflazione è causata degli eccessi di offerta di moneta.

Corollario II.1: i bilanci pubblici devono tendere al pareggio.

Corollario II.2: le banche centrali devono essere autonome dai governi.

Entrambi i dogmi sono infondati, [7] ma non mi metterò a dimostrarlo qui. Né mi metterò a descrivere i processi psico-sociali e mass-mediali attraverso cui un’ideologia basata su palesi falsità può diventare egemone. [8] Quello che invece più mi preme è mostrare come accade che tutti gli agenti decisionali attraverso la cui azione opera l’imperium prendano sempre spontaneamente le decisioni giuste... se hanno fede in quei due dogmi.

I corollari I.1 e I.2 stanno alla base delle politiche seguite dalla Banca Mondiale e dal WTO. I finanziamenti vengono concessi ai PVS purché servano a sostenere gli investimenti privati. Spesso si impone come condizione la privatizzazione delle imprese pubbliche e l’abbattimento delle barriere protezionistiche. In questo modo - gli si dice - si stimola l’investimento e l’afflusso dei capitali esteri e quindi si favorisce il processo di sviluppo. Il libero scambio è la via maestra al decollo industriale - gli si racconta. E si dimentica di dirgli che tutti i principali paesi capitalistici avanzati hanno avviato il loro decollo usando il protezionismo. [9]

I corollari II.1 e II.2 servono a disarmare i governi nazionali. Infatti l’autonomia delle banche centrali, alle quali viene assegnato il compito di tenere a bada l’inflazione, comporta che il governo non possa più usare la politica monetaria per regolare l’economia. D’altra parte l’imposizione del vincolo di bilancio fa sì che i governi non possano più usare nemmeno la politica fiscale. I governi nazionali non devono fare alcuna politica economica discrezionale, devono lasciar fare il mercato. Altrimenti potrebbero contribuire a compromettere l’efficienza economica: il movimento verso la piena occupazione potrebbe far aumentare eccessivamente il costo del lavoro. In virtù del corollario I.1, poi, devono cercare di privatizzare le imprese pubbliche.

Ora, mettete queste “idee” in testa agli speculatori. Se un governo vuole fare politica economica, ad esempio espandendo il deficit pubblico per curare la disoccupazione e/o espandendo l’offerta di moneta per ridurre i tassi d’interesse, non può che causare disastri: farà crescere l’inflazione, spiazzerà gli investimenti privati con la spesa pubblica, farà crescere eccessivamente i consumi e le importazioni, fino a spingere la Bilancia dei Pagamenti verso il deficit strutturale e quindi la moneta nazionale verso la svalutazione. Appena i “mercati” finanziari cominciano a sospettare una tale scivolata verso il socialismo scatterà la disciplina monetaria. Spesso non ci sarà neanche bisogno che il governo avvii quelle perverse politiche, basta che le annunci. La speculazione sulla moneta di quel paese la farà svalutare prima ancora che si verifichino le condizioni strutturali che tutti paventano. Così il governo apprenderà la dura lezione già prima di commettere l’errore. In altri termini, o il governo si comporta liberamente come vogliono i “mercati” o i “mercati” lo costringono a comportarsi come vogliono loro.

Ma perché devono volere così? Per alcune ragioni molto semplici: che libertà di mercato vuol dire libertà d’accumulazione e di sfruttamento, espansione del mercato vuol dire espansione delle opportunità di accumulazione e di sfruttamento, abolizione delle politiche macroeconomiche discrezionali vuol dire che la disoccupazione si assesterà al livello che garantisce l’equilibrio di sfruttamento, abolizione delle politiche industriali e privatizzazione delle imprese pubbliche vuol dire espansione delle opportunità di investimento e sfruttamento. Insomma dietro quei ridicoli dogmi si nasconde un interesse ben preciso: l’interesse generale del capitale globale alla valorizzazione; o meglio - come dice la scienza economica - l’interesse generale all’efficienza. Se i funzionari e gli speculatori ci credono, il sistema funziona.

 

 

Bibliografia

 

 

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[1] Vedi Adda (2000, pp. 39-44).

[2] La conferenza di Doha del 2001 ha definito un parziale correttivo di questa nefandezza contemplando la pratica della “licenza obbligatoria”. La quale, nei casi di interesse pubblico, abuso di brevetto e uso governativo non commerciale, consente la produzione locale di farmaci generici senza pagare royalties sui brevetti. Se nonché i paesi che hanno più bisogno dei medicinali a basso prezzo non hanno le capacità tecnologiche e organizzative per produrli. A questo inconveniente si è cercato di far fronte con un accordo siglato il 30 agosto 2003 nella sede del WTO a Ginevra, accordo in virtù del quale i medicinali a basso prezzo possono essere importati se i paesi che ne hanno bisogno non sono in grado di produrli da soli. Verranno prodotti da alcuni paesi emergenti come India e Brasile. Le multinazionali farmaceutiche hanno fatto un po’ di resistenza, ma alla fine hanno ceduto caritatevolmente dopo essere stata assicurate del fatto che i medicinali a basso prezzo non potranno essere esportati nel Nord del Mondo. Dopo tutto i mercati dei paesi poveri non sono poi così ricchi. Quello che conta è impedire alla concorrenza internazionale di intaccare i profitti monopolistici mietuti nei mercati del Nord.

[3] AA.VV. (2002, pp. 41-46).

[4] Harvey (2003, p. 49).

[5] Uno dei presidenti più prestigiosi della WB fu Robert McNamara, ex segretario alla difesa USA all’epoca della guerra nel Vietnam.

[6] Foster (2003, p. 7).

[7] In un duplice senso: 1) che i teoremi nella cui forma prendono corpo sono stati dimostrati validi solo sotto ipotesi molto restrittive, irrealistiche e in definitiva assurde; 2) che l’esperienza reale li smentisce sistematicamente.

[8] Ma a uno di questi meccanismi voglio accennare perché mi sembra particolarmente efficace: quello che potrebbe essere definito “il potere persuasivo del terrore”. Pensate a quanti piccoli Ceaucescu nostrani si sono convertiti all’americanismo dopo la trista fine di quello Rumeno. E pensate a quanti dittatorelli medio-orientali diverranno feroci liberisti dopo la liberazione dell’Iraq. Il meccanismo funziona in base a quel teorema brigatista che dice: “puniscine uno per educarne molti”.

[9] La Germania, gli USA, il Giappone, per dirne tre scelti a caso, hanno pesantemente e a lungo usato il protezionismo in difesa le industrie nazionali nascenti, per poi diventare libero-scambiste una volta completato il processo d’industrializzazione.