Disuguaglianza o povertà? Analisi, limiti e prospettive del reddito di cittadinanza regionale

Dario Stefano Dell’Aquila

L’idea di reddito di cittadinanza, o comunque di un sistema che separasse il reddito di un individuo dalla sua capacità di lavoro, ha radici antiche. Il concetto ha trovato nel corso del tempo differenti definizioni, revenue d’existence, assegno universale, reddito minimo garantito, reddito vitale, cui sottostanno diverse filosofie ispiratrici. In comune l’esigenza di assicurare ad ogni individuo un reddito che gli consenta di vivere superando la fase del bisogno e della necessità. Volendo ridurre, costretti alla sintesi, potremmo dire che una concezione più legata ad un impostazione solidaristica intende il reddito come forma di sostegno di fasce deboli o bisognose, o comunque di precari, disoccupati ed inoccupati; altri lo intendono come diritto universale e quindi concedibile tout court. È certo impossibile riassumere un dibattito lungo e complesso, ma non crediamo di incorrere in un grave errore se diciamo che da un lato c’è chi vede nel reddito una misura di lotta alla disuguaglianza, dall’altro chi la vede come una forma di lotta alla povertà [1].

Se il dibattito teorico, sulla spinta di movimenti di lotta e di opinione, ha sempre mantenuto un livello di ampio respiro, meno si può dire delle pratiche. Il reddito di cittadinanza infatti, nelle sue rare esperienze pratiche si è sempre considerato inserito nello schema delle politica sociale, non un male assoluto, sia chiaro, ma una scelta che è lontana dalla filosofia del provvedimento. Come direbbe Zygmunt Bauman, “il valore della proposta si riduce notevolmente se il reddito minimo garantito viene presentato come ‘misura di politica sociale’ [...] Cambierebbe radicalmente la natura della comunità politica: la trasformerebbe da guardiana della legge e dell’ordine e da unità anitcrisi in un bene comune e nell’arena in cui gli interessi individuali e di gruppo sono convertiti in questioni pubbliche di interesse comune” [2].

La breve esperienza italiana, quella del reddito minimo di inserimento, si è certo mossa lungo l’asse delle politiche sociali, raccogliendo le critiche di alcuni dei più autorevoli sostenitori del provvedimento del reddito di cittadinanza nel nostro paese. Certo che anche le altre esperienze europee, attive sin dagli anni ‘80 hanno dato risultati contrastanti.

Il reddito di cittadinanza della Regione Campania si ispira per contenuti ed organizzazione del provvedimento al reddito minimo di inserimento [3] e la sua applicazione si inserisce a pieno titolo nel settore delle politiche sociali. Si legge infatti nella relazione che ha accompagnato il testo in aula che “la Regione Campania, nelle more di una più compiuta definizione di compiti e risorse, constatando la situazione di povertà ed esclusione di una parte significativa della cittadinanza, propone quindi l’istituzione dello strumento di integrazione del reddito come misura regionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, tesa a favorire condizioni efficaci d’inserimento lavorativo. La regione con ciò definisce una possibile linea di intervento”.

Una misura di contrasto alla povertà, quindi, che consapevolmente, in un territorio dalla aspre ed ampie povertà, riguarderà solo una piccola fascia della popolazione povera. Nel Mezzogiorno la percentuale di famiglie povere è stata del 23,6%. È a partire da questo dato che gli estensori della legge hanno ipotizzato una stima di 452.352 famiglie povere (su un totale di 1.820.000) famiglie [4].

Come ipotizzano gli stessi esperti regionali “si tratta di una stima per difetto poiché in Campania, presumibilmente, l’incidenza della povertà è più elevata della media del Mezzogiorno, per la maggiore presenza di famiglie numerose e di una vasta area metropolitana. Si tratta di famiglie in condizione di povertà relativa, che cioè non realizzano uno standard medio di consumi”.

Da un’ipotesi di partenza di 219.840 famiglie sicuramente povere, con consumi inferiori all’80% della linea di povertà, la stima delle famiglie al di sotto della linea di povertà assoluta [5] si attesta intorno alle 18.000 unità, cioè il 10% circa delle famiglie in povertà assoluta presenti in tutto il meridione.

La previsione del legislatore, considerate le risorse stanziate, è quello di coprire appunto questa ultima fascia di famiglie, ipotizzando una gamma di beneficiari compresa tra le 20.000 e le 30.000 famiglie.

Nel dettaglio il reddito di cittadinanza così come previsto dalla legge regionale della Campania (legge regionale n. 2, 19 febbraio 2004) consiste nell’erogazione monetaria di 350 euro mensili per nucleo familiare (ciascun componente può accedervi per una parte della somma), ed in una serie di ulteriori interventi miranti all’inserimento scolastico, formativo e lavorativo, di cui possono beneficiare tutti i componenti delle famiglia. Per averne diritto bisogna essere residenti in uno dei comuni della Campania da almeno 60 mesi e disporre di un reddito inferiore ai 5.000 euro annui.

La legge riconosce il reddito di cittadinanza come un diritto sociale fondamentale dei cittadini, e lo attribuisce ai livelli essenziali di prestazioni sociali da garantire nell’ambito delle politiche di inclusione e coesione sociale promosse dall’Unione Europea.

Lo spirito della norma è esplicitamente di contrasto alla povertà. Il testo infatti parla del reddito come misura di contrasto alla povertà e all’esclusione e di strumento teso a favorire condizioni efficaci di inserimento lavorativo.

Questo in sintesi il contenuto della norma, alla quale possono accedere anche i cittadini extracomunitari purché in possesso di regolare permesso di soggiorno. Ed è forse la possibilità di accesso ai migranti [6] uno degli aspetti più innovativi di una legge che pur presenta molte incertezze.

Nella sua iniziale stesura la norma prevedeva un’erogazione di 300 euro, alla quale poteva accedere solamente il capofamiglia. Una concezione patriarcale e anacronistica che si scontrava tra l’altro con l’impostazione cattolico-familistica che alcune parti del centrosinistra avrebbero voluto dare al provvedimento. Successivamente l’erogazione è stata aumentata e si è stabilito che ciascun componente della famiglia potrà fare richiesta del reddito, fermo restando che il tetto massimo per ciascun nucleo familiare non potrà superare i 350 euro.

Nessun limite è invece previsto per gli interventi attivi miranti all’inserimento scolastico, lavorativo, culturale, formativo e abitativo. Anche in questo caso solo nella fase successiva si è aperto il dibattito che ha portato ad ampliare l’offerta di queste misure che, in base all’art. 6, comma 2 della legge, prevedono la gratuità dei libri di testo, l’accesso a percorsi di integrazione e formazione, il recupero dell’obbligo scolastico, l’assegnazione di risorse per i trasporti, le facilitazioni per l’accesso alle manifestazioni culturali, priorità nelle politiche di contrasto all’emergenza abitativa, emersione dal lavoro irregolare.

Il reddito familiare è stimato con l’utilizzo dell’indicatore ISEE (Indicatore Situazione Economica Equivalente) [7]. La gestione della procedura di ammissione è affidata ai Comuni nell’ambito dei piani sociali di zona (legge 328/00). Sono i comuni che provvedono alla pubblicizzazione della misura, all’accoglimento e alla selezione delle domande, alla verifica delle condizioni degli aventi diritto, alla progettazione degli interventi, d’accordo con l’ASL, i Centri per l’impiego e le altre istituzioni. I comuni trasmettono le domande ai comuni capofila e provvedono all’erogazione del reddito.

Le risorse saranno ripartite a livello regionale, nel primo anno della sperimentazione, secondo tre criteri: a) i dati INPS relativi ai nuclei familiari con reddito ISEE inferiore ai 5.000 euro, b) la popolazione residente, c) un indicatore composito basato su dati demografici associati ad elementi di disagio [8].

Nella fase della sperimentazione il reddito avrà erogazione triennale e i beneficiari ne usufruiranno per tutta la durata della sperimentazione, salvo nel caso vengano meno i requisiti previsti per accedervi.

Per accedere al reddito di cittadinanza bisognerà presentare domanda presso il comune di residenza, che istruita la pratica la trasmette a quello capofila. Le graduatorie dei beneficiari saranno dunque articolati per ambiti territoriali, a seconda di ciascun comune capofila.

I Comuni sono obbligati ad effettuare un controllo diretto su un campione di almeno il 10% delle domande accolte. In caso di irregolarità spetta ai Comuni capofila procedere alla sospensione del beneficio, così come è loro la competenza per accogliere e valutare eventuali ricorsi. Ciascun comune capofila è poi tenuto a trasmettere una relazione annuale all’Osservatorio del Consiglio regionale sul reddito, istituito dalla stessa legge e che, nella fase di sperimentazione, sarà formato dai componenti della Commissione affari sociali del consiglio e svolgerà la sua attività di concerto con il settore politiche sociale della giunta e con l’ORMEL (Osservatorio Regionale Mercato del Lavoro).

L’Osservatorio avrà il compito di effettuare verifiche dirette degli aventi diritto e presenterà una relazione annuale al Consiglio. Regionale.

È chiaramente presto per dare un giudizio complessivo sulla legge della Regione Campania, anche solo per sapere se risponderà più ad un bisogno di lotta alla povertà o di lotta alla disuguaglianza.

Certamente, al di là delle impostazioni culturali, si apprezza lo sforzo di un ente regionale che per la prima volta si cimenta con un provvedimento che per tipologia e contenuti non può che essere di competenza statuale. Infatti la portata innovativa dello strumento, quello di un ente proponente regionale, ne costituisce in parte anche alcuni dei limiti principali.

In primo luogo, per le risorse relative al finanziamento della misura, si è fatto ricorso ad un’entrata straordinaria proveniente dalla cessione di alcuni cespiti e beni immobili di appartenenza regionale. È un problema di programmazione che può essere superato attingendo a risorse ordinarie con alcuni limiti. Le Regioni non hanno una propria autonomia impositiva diretta e allo stato attuale le loro entrate dipendono fondamentalmente da alcune imposte sui consumi e da trasferimenti nazionali e dell’Unione europea. È cioè, in altre parole, difficile poter attuare un meccanismo di redistribuzione delle risorse equo (un aumento delle aliquote regionali sui consumi colpirebbe tutti in maniera indiscriminata), che permetta di raggiungere tutte le persone potenzialmente aventi diritto. Ci si scontra insomma con i limiti dell’autonomia federalistica, dove le regioni più bisognose, proprio in quanto tali dispongono di minori risorse proprie per contrastare le proprie povertà. La ridotta disponibilità finanziaria crea anche una forzatura sul piano giuridico. Se si riconosce che ciascun individuo ha diritto ad un reddito che gli consenta di vivere degnamente, tale diritto non può che essere individuale, mentre il ragionamento in termini di famiglia ne fa un diritto condizionato e affievolito [9]. La scelta di ragionare sulla base dei dati familiari non risponde solo ad una tradizione culturale, che nel nostro paese influenza anche la raccolta di dati statistici, ma ad un’esigenza di “spalmare” in maniera più ampia le risorse disponibili.

In secondo luogo, per la parte che riguarda le misure non monetarie c’è da dire che l’elenco appare significativo e comprensivo di molti aspetti fondamentali per il potenziamento delle capacità [10], ma che il testo non stanzia risorse specifiche per questi interventi, limitandosi a stabilire una previsione futura. In effetti la parte di interventi monetari se ben articolata potrebbe costituire una componente importante del reddito di cittadinanza. Molti degli interventi previsti sono già stati messi in essere e rientrano nella programmazione ordinaria regionale effettuata con fondi del P.O.R. Non costituisce quindi un nuovo sforzo da parte della Regione, ma solo un’ipotesi aggiuntiva di lavoro, con una riserva per i beneficiari del provvedimento del reddito.

Terzo elemento di fragilità del provvedimento è nella struttura amministrativa che lo attua. In un certo senso obbligata, la scelta di utilizzare i comuni, nello schema della legge 328/00, carica le amministrazioni locali di una mole di lavoro che, allo stato attuale, molto difficilmente riusciranno a sostenere con competenza e celerità. Ai comuni infatti spetta l’obbligo di calcolare il reddito di chi presenta domanda e di istruire gli atti, quello di effettuare controlli e verifiche, un carico di lavoro che presumibilmente sarà a carico dei servizi sociali, per i quali non sono previste risorse per questo nuova mole di lavoro che sarà certamente consistente, visto che le domande di ammissione saranno di gran lunga superiori a quelle ammissibili. Agli stessi comuni è affidata l’individuazione dei percorsi di accesso alle misure non monetarie e sembra francamente difficile che le strutture comunali, pur tenendo noi in grande considerazione il lavoro degli operatori, siano in grado di fare fronte a questa esigenza così delicata.

La costruzione poi di un sistema di graduatorie per ambiti territoriali e non di una unica graduatoria regionale, se da un lato ha il pregio di assicurare una distribuzione diffusa della misura, creerà disparità tra persone aventi gli stessi requisiti, ma residenti in ambito territoriale differente.

In questo senso l’essersi ispirati all’applicazione della legge alla precedente esperienza del RMI non sembra essere una scelta ottimale, considerato che del RMI e dei suoi risultati non è stato mai fatto un vero bilancio e che, da una prima lettura dei dati, emergono alcune anomalie che fanno dubitare della bontà del lavoro di verifica di alcuni comuni [11].

In conclusione, sembra possibile affermare che l’attuale legge ha in comune con le proposte che da tempo si discutono, più il nome che il contenuto. Essa ha certamente il merito di avere aperto una discussione, anche se a livello regionale, che ha coinvolto istituzioni, partiti e movimenti, in un contesto territoriale difficile, dove molte pressioni per l’approvazione del provvedimento sono giunte strumentalmente da ambienti legati alla destra nazionale. Eppure, al di là di considerazioni di opportunità politica, quello che emerge è anche che, in una regione in un complessivo stato di difficoltà, era fortemente sentita l’esigenza di una misura a favore delle fasce meno abbienti. Non bisogna dimenticare infatti che questo provvedimento giunge quasi a fine legislatura regionale, dopo un quadriennio in cui, di fatto, la spesa regionale si è concentrata più altri settori che in quello delle politiche sociali. E comunque rappresenta un trasferimento di 4.200 euro annui a nuclei familiari che ne guadagnano meno di 5.000 l’anno.

Sarebbe stato sicuramente possibile lavorare su indicatori migliori di quello ISEE prescelto e cercare indici più sensibili, da adeguare comunque al contesto territoriale. Ma non bisogna dimenticare il carattere sperimentale del provvedimento. Anche per questo il suo monitoraggio, se non sarà meramente cartaceo e formale, potrà dare molti elementi e spinti per una discussione futura da avviare al termine dei tre anni di sperimentazione.

Nell’attuale contesto politico-economico, una legge del genere rimarrà sempre incompleta, approssimativa e insufficiente a combattere disuguaglianza o povertà. Se invece sarà inserita in un sistema diverso, potrebbe rappresentare quel tassello in più che potrebbe rafforzare, anche sul piano finanziario, un provvedimento di carattere nazionale.


[1] Sul differente approccio tra povertà e disuguaglianza e sulle conseguenze che implica anche nell’analisi economica cfr. S.M. Miller, M. Rein, P.Roby e B. Cross, Poverty, Inequality and Conflict, in Annals of American Academy of political science, 1967. Sul dibattito europeo sul reddito di cittadinanza cfr. Aa.Vv., La democrazia del reddito Universale, ed. Il Manifesto, 1997; R.Martufi, L.Vasapollo, Profit State, redistribuzione dell’accumulazione e reddito sociale minimo, La Città del sole, 1998.

[2] Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, 2000, pp. 184 e ss.

[3] L’istituto del Reddito Minimo di Inserimento, è stato introdotto in via sperimentale con il decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237, che dava attuazione alla legge 27 dicembre 1997, n. 449, (legge finanziaria). L’istituto veniva definito all’art. 1 come “una misura di contrasto della povertà e dell’esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economiche e sociali delle persone esposte al rischio della marginalità sociale ed impossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al mantenimento proprio e dei figli”. Lo stesso articolo aggiungeva che il reddito minimo di inserimento “è costituito da interventi volti a perseguire l’integrazione sociale e l’autonomia economica dei soggetti e delle famiglie destinatarie attraverso programmi personalizzati e trasferimenti monetari integrativi del reddito”.

[4] Dati Istat, elaborati dalla Commissione di indagine sulla esclusione sociale.

[5] Reddito mensile inferiore ad 1.055.000 per una famiglia composta da due persone.

[6] Un riferimento più formale che sostanziale considerato che i 60 mesi previsti lasciano fuori tutti gli immigrati regolarizzati con l’ultima sanatoria. Nella prima stesura il testo prevedeva solo 24 mesi di residenza necessari.

[7] La formula utilizzata è X( 1,35 (Utel+Uel+UgasA+M+AB)/S dove X è il reddito stimato, U il valore dei consumi di telefono, elettricità e gas, A il valore dei consumi relativi alla proprietà di automobili, M quello relativo a motocicli, AB il valore dei consumi presunti in relazione all’abitazione in cui si vive, S il valore del parametro della scala di equivalenza che dipende dal numero dei componenti il nucleo familiare.

[8] Numero di famiglie composte da cinque o più componenti, numero di famiglie con uno o più componenti over 65, numero di famiglie monoparentali.

[9] Una riflessione che va tenuta presente è quella della distribuzione del reddito all’interno della famiglia e del peso che le culture patriarcali hanno sull’autonomia della donna. Come ricorda Amartya Sen “la possibilità di divari di benessere tra i differenti membri della famiglia non è soltanto una bizzarria teorica” ( A. Sen, Risorse valori e sviluppo, Bollati Boringhieri, 1992, p. 196).

[10] Gratuità dei libri di testo, recupero obbligo scolastico, misure di autoimpiego ed emersione del lavoro nero, contributo all’emergenza abitativa, facilitazione per manifestazione culturali ed accesso ai trasporti.

[11] In alcuni comuni della Campania il numero dei beneficiari delle RMI ha raggiunto il 50% dei residenti (!), con conseguente aumento di consenso elettorale per i sindaci, responsabili apicali dell’applicazione della misura.