Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (seconda parte)

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Sabino Venezia

Dal conflitto permanente alla “partecipazione” concertata

Questo lavoro costituisce una prima bozza di discussione che la redazione di PROTEO presenta ai propri lettori dalle cui osservazioni ci proponiamo non solo di “imparare” su un argomento storico-economico tutto aperto, e in cui sicuramente non siamo specialisti, ma anche di prender spunto per le eventuali correzioni di impostazione e gli ulteriori approfondimenti.

1. L’”autunno caldo” e gli antefatti economico-sociali

L’ondata di lotte operaie, che ha “nell’autunno caldo” del ’69 il suo apice, fu preceduto dalla contestazione studentesca del ’68 ma resta inquadrato in un clima di profondo squilibrio di sviluppo che trova origine nelle spinte dell’autonomia di classe del ’65 - ’66, ma già si sentori si hanno nei primi anni ’60, come risposta ad una crescita economica disuguale e ad un modello di sviluppo industrialista squilibrato.

Il periodo viene caratterizzato da profondi conflitti sociali; gli aspetti che contraddistinguono questo quadro sono, da una parte la crescente forza delle organizzazioni sindacali, e dall’altra l’alternarsi delle strategie politiche volte a mitigare l’impatto sindacale e a ripristinare l’egemonia padronale. Il rafforzamento del sindacato si traduce nel 1962 in crescite salariali e in considerevoli conquiste in campo normativo, che nel 1970 culminano con la nascita dello Statuto dei lavoratori.

La grande industria, al contempo, si presenta, nei primi anni sessanta, forte per l’espansione della domanda globale (sia interna che esterna), per le agevolazioni finanziarie alle imprese e per la grande manodopera disponibile, rendendo dicotomico e squilibrato lo sviluppo del Paese.

Le cause che portano al peggioramento dell’economia italiana e successivamente agli scontri sociali della fine degli anni sessanta, sono molteplici e di diversa natura; nazionale e internazionale e partono proprio dai primi anni ’60.

Nel 1962 vengono compiute due scelte fondamentali per garantire lo sviluppo: la programmazione economica e la rinuncia alla politica dei redditi [1], che si riveleranno inefficaci.

L’idea di fondo è quella che la spinta proveniente dal boom economico degli anni ’50 sia inarrestabile, sottovalutando il fatto che i consumi privati, “opulenti”, crescono in maniera eccessiva rispetto a quelli sociali. Conseguenza di ciò, le 14 riforme politico-economiche degli anni 1966-70 si rivelano completamente fallimentari. Tali misure producono l’unico risultato di aggravare il già squilibrato saldo della bilancia dei pagamenti, provocando una diminuzione degli investimenti (-15% nel solo biennio 1964-1965), e contribuiscono ad aumentare, fortemente, il tasso d’inflazione [2].

Le cause che determinano il crescere dell’inflazione [3] sono dovute a diversi altri fattori. Principalmente, gli imprenditori, pressati dall’aumento dei salari, cercano di difendere gli utili accrescendo i prezzi di vendita. Infatti, se per le grandi imprese l’aumento salariale ha determinato la riduzione delle possibilità di auto-finanziarsi e la necessità di ricorrere a crediti esterni, per la piccola impresa tale aumento ha compromesso i bilanci aziendali. Quindi, gli imprenditori, a fronte di un aumento della domanda globale, proprio per l’accresciuta propensione al consumo, aumentano i prezzi sui mercati interni.

C’è da dire però che quello che è possibile sul mercato interno, risulta irrealizzabile nei mercati esteri. Infatti, il sistema internazionale dei pagamenti è basato sul principio dei cambi fissi e da una forte stabilità monetaria. Il padronato italiano si trova, quindi, stretto in una morsa: da una parte le rivendicazioni salariali hanno aumentato i costi di produzione, dall’altra i mercati esteri non permettono di aumentare i prezzi di vendita.

In questa situazione avviene l’inevitabile, ossia, l’inflazione interna e l’aumento della domanda globale, sono accompagnate da un disavanzo crescente della bilancia commerciale, che di fatto rompe l’equilibrio nei conti con l’estero raggiunto negli anni del boom economico. Dopo lunghe discussioni politiche, si decide di tentare di arrestare l’inflazione attraverso un operazione di compressione della domanda, con il risultato di far seguire alla manovra inflazionistica una crescente depressione. Si prepara così l’era della stagflazione.

Al contempo, i nuovi orientamenti della politica economica trovano applicazione anche nel settore della politica monetaria. L’impatto di questa nuova linea è quello di aggravare ulteriormente la situazione. Infatti, la violenta stretta creditizia, ad opera della Banca d’Italia, decisa nell’estate del 1963, comporta nell’immediato una caduta degli investimenti [4]. Comunque, indipendentemente dalla causa iniziale, il crollo degli investimenti risulta preoccupante: nel 1963, gli investimenti nel solo settore industriale superano i 2500 miliardi, nel 1964 scende a 2000 miliardi (con una contrazione del 20%), fino ad arrivare a 1500 miliardi nel 1965.

Di fatto le autorità sembrano più intenzionate a prolungare che non a porre termine a questa situazione; la bilancia dei pagamenti registra un passivo che non risulta dovuto a massicce importazioni di merci, ma unicamente a grandi esportazioni di capitali finanziari. Questo perché, imprenditori e finanzieri ritengono vantaggioso comprare titoli esteri, così da sfuggire al fisco italiano (cioè muoversi su un terreno che diventerà peculiare e intenso come scelta del capitale italiano, favorito dai vari governi centristi, dagli anni ’80, cioè l’evasione fiscale su grande scala e la finanziarizzazione dell’economia) optando per la rendita finanziaria e possibilmente introitare guadagni nell’ipotesi in cui (non troppo remota) la lira venga svalutata. Gli unici interventi politico-economico effettuati per arginare “la fuga di capitali” vengono effettuati solamente nel 1970 e nel 1974, di fatto non impedendo il dilagare di questo fenomeno.

2. L’“operaio massa”

La figura dell’“operaio massa” riesce definitivamente a porsi come punto di riferimento per gli altri movimenti che si esprimono nella società, non ultimo quello studentesco, lasciando ipotizzare una “possibilità di sviluppo di una strategia rivoluzionaria globale” [5] che ben presto darà vita ad importanti teorie sul nesso fabbrica e società e che lascerà il posto ad una nuova figura, quella “dell’operaio sociale” solo verso la metà degli anni settanta.

Il movimento operaio non accetta più di subire il modello di produzione tayloristico nè l’autoritarismo delle gerarchie aziendali ma decide di intervenire sulle strutture del lavoro per modificarle; è questo il “senso di maturazione” della classe operaia, sintetizzato dalle avanguardie di classe con lo slogan e la pratica operaia della “lotta per il potere”.

“Le lotte contrattuali, inframmezzate da agitazioni per la casa, assegnarono al ’69 un primato in numero di giornate di lavoro perdute per scioperi, pari a quasi 38 milioni, mai più eguagliato. Nei sette anni compresi tra il 1952 ed il 1958 erano state perse per sciopero in media 3.390.000 giornate l’anno; nei sette anni tra il 1969 e il 1975, la media salì di oltre cinque volte, a 21 milioni” [6].

È la lotta contro il cottimo la prima, vera, reazione alla linea sindacale tradizionale che vedeva tale istituto come una necessità, semmai da correggere, ma anche le questioni dell’ambiente di lavoro e delle nocività cominciano a rappresentarsi come elementi da discutere, “infine, per ciò che concerne la classificazione delle categorie lavoratrici, si fanno strada, (soprattutto per impulso degli operai comuni) rivendicazioni <egualitarie>, come il passaggio in massa a qualifiche superiori, o aumenti in cifra fissa uguali per tutti” [7].

A grandi linee questo è il quadro in cui versa l’Italia già a partire dalla metà degli anni ’60. Nel complicato intreccio politico-economico intervengono, a caratterizzare fortemente questi anni, i sindacati, le masse di lavoratori e le lotte di classe.

Il grande sviluppo industriale degli anni ’50, come si è detto, determina negli anni successivi lo spostamento di un gran numero di lavoratori dal Meridione verso il Nord, sia per la mancanza di occupazione stabile nel Sud Italia, sia per la possibilità di un salario migliore. I flussi migratori interni creano un processo dirompente che porta a realizzare l’unione di masse rurali con antichi nuclei operai. Ne consegue che negli scontri volti a ottenere migliori condizioni retributive e lavorative, è determinante la partecipazione dei lavoratori meridionali.

Nel triennio 60-62, la conflittualità operaia nell’industria manifatturiera aumenta fortemente rispetto al triennio precedente, mentre le ore perdute passano da 16.000.000 a quasi 58.000.000. Una prima conseguenza è che, cosa mai avvenuta prima, l’Intersind stipula un accordo separato dalla Confindustria; tale accordo, anche se ha un contenuto prettamente applicativo, per la prima volta riconosce la contrattazione aziendale. Nei mesi successivi tale accordo viene esteso anche ai cottimi, ai premi di produzione e ad altri aspetti. Infine, con lo sciopero del febbraio 1963, anche la Confindustria è costretta ad accettare la contrattazione aziendale. I vantaggi di queste lotte, poi, si concretizzano con degli aumenti salariali, anche se marginali rispetto ai profitti dell’azienda.

3. Il post ’68 e gli strumenti dell’autonomia di classe

Ma il periodo più “caldo” e che al contempo segna anche una svolta nella lotta sindacale, è senza dubbio il 1969. In quest’anno le trattative per il rinnovo dei contratti collettivi avviano degli scontri violentissimi, decisamente superiori a quelli avvenuti nel 1962. A esempio le ore perdute per sciopero nel 1969 superano i 200 milioni. Tra le cause che hanno provocato le proteste dei lavoratori non compare la mancanza di occupazione. Infatti in questo periodo il tasso di disoccupazione risulta sostanzialmente basso (5,6% media nazionale; 3,2% al Nord-Ovest). La novità sostanziale che delinea questo nuovo scontro, è data dagli ulteriori obiettivi sulle condizioni di vita dei lavoratori: non soltanto l’aumento salariale (che poteva essere facilmente vanificato dall’aumento dell’inflazione), ma altre rivendicazioni quali la riduzione dell’orario di lavoro, il miglioramento delle condizioni lavorative, la democrazia economica e del lavoro, la partecipazione reale alle decisioni di impresa, del sociale e del Paese, ecc....

Questi nuovi contenuti rivendicativi hanno bisogno di un tipo di organizzazione estremamente capillare e capace di rispondere ad ogni sollecitazione, un tipo di organizzazione che non corrisponde a nessuna di quelle tradizionali e nemmeno alle articolazioni di queste in fabbrica (Commissioni Interne e SAS). Questo vuoto viene colmato dal continuo ricorso alle assemblee, luogo per eccellenza del “potere operaio”, dove svaniscono le differenze di affiliazione sindacale e dove si supera il confine tra iscritti e non iscritti grazie ad una identità comune di interessi. [8]

Tali processi, definiti di auto-organizzazione, nasceranno come spinta dal basso con il proposito di combattere l’opportunismo ed il “collaborazionismo” di sindacati tradizionali e dei partiti. I processi di democrazia di classe saranno gli unici ad interpretare fattivamente la crisi di rappresentanza operaia e del sistema di relazioni industriali; essi si caratterizzeranno in maniera diversa:

- I Comitati di Lotta [9] nascono come organismi di massa, hanno una concezione per così dire leninista del rapporto partito-masse e si presentano con funzione di direzione della classe, sono diretti da operai spesso militanti di partito, e la loro azione è caratterizzata dal consenso della “base”.

La caratteristica principale di questa forma di fare sindacato risulta tuttavia a volte estremamente rigida, cadendo spesso nel massimalismo, e trova facile terreno di sviluppo in quelle realtà industriali dove è poco radicata la presenza dell’“operaio-massa” [10], e dove quindi, una lotta a livello sovrastutturale e sociale staccata dalla lotta in fabbrica, appare priva di senso.

Si lotta per un sistema nuovo di rappresentanza ma soprattutto contro il sistema di CGIL-CISL-UIL ed il loro collateralismo con il padrone, tale specificità li vedrà strumento di riferimento sia per i vecchi operai sindacalizzati che per le nuove leve.

I Comitati di Lotta si struttureranno addirittura nell’Unione Sindacale dei Comitati di Lotta ed arriveranno anche a produrre piattaforme rivendicative, come nel caso dei metalmeccanici.

- I Comitati Unitari di Base [11] nascono in quelle grandi industrie, specie del Nord, dove è più numerosa la presenza dell’“operaio-massa” e più difficile il rapporto di questo nel contesto di fabbrica e sociale. Di fatto i Comitati Unitari di Base sono elemento di aggregazione proprio per questo tipo di operaio, spesso giovane, sovente meridionale, che vive tutta la sua rabbia nello spontaneismo, talvolta inizialmente senza alcun riferimento ideologico preciso. Quello dei CUB è lo sviluppo di un processo culturale e politico che muove dall’analisi di classe del marxismo e si basa prevalentemente sulle dinamiche della singola azienda o fabbrica, dove i rappresentanti CUB, avanguardie individuate dalla base, non hanno altra direzione se non la base che rappresentano. Nel corso di pochi anni si svilupperanno anche strutture di coordinamento su ambiti più ampi (ad opera di una struttura politica esterna), ma l’ingerenza esterna ed il carente studio di strategie di crescita, allontaneranno la realtà dai principi fondativi, tra cui l’indipendenza [12] e ne decreteranno la pressoché totale involuzione.

Il venir meno proprio di uno dei principi fondativi dei CUB, l’indipendenza, produrrà addirittura alla Pirelli due CUB diversi, uno vicino al gruppo extraparlamentare di Avanguardia Operaia e l’altro, a Potere Operaio. Il CUB della Pirelli nasce nel ’68 a Milano ad opera di alcuni operai comunisti e psiuppini. Politicamente molto composito, il CUB, nonostante l’innegabile successo iniziale che fa registrare massicce adesioni fra i lavoratori, entra rapidamente in crisi per l’emergere dei conflitti insanabili fra l’ala ormai orientata verso Avanguardia Operaia e quella più vicina a Potere Operaio. Il dissenso culmina in una scissione nel ’70, l’ala filo A.O. manterrà la sigla CUB, proseguendo per anni nelle sue attività, l’ala filo PotOp conoscerà ulteriori frammentazioni, prima passando attraverso l’esperienza dell’Assemblea Autonoma, poi per il passaggio di alcuni suoi esponenti ad esperienze più estremiste. “Dopo una fase in cui i CUB raccolsero quasi tutta la sinistra di fabbrica, si trasformarono prevalentemente in organismi collegati ad Avanguardia Operaia che cercò di generalizzare l’esperienza anche nelle situazioni dove essi non erano sorti spontaneamente. Naturalmente non tutti i CUB furono espressione di A.O. in alcuni casi essi erano collegati al Manifesto, mentre in altri erano promossi dalla IV Internazionale. Così come va ricordato che non tutti i CUB furono organismi di fabbrica: numerosi furono i CUB studenteschi. Avanguardia Operaia promosse diversi convegni nazionali dei CUB ma, con la svolta del ’74, che portava A.O. ad accettare l’entrismo sindacale, i CUB andarono esaurendosi (in genere i loro militanti aderivano al sindacato e facevano parte dei Consigli di Fabbrica, mantenendo comunque la sigla per qualche volantino o qualche giornale)” [13].-----

Solo verso la fine del decennio degli anni ’70, grazie alla riproposizione del contesto politico e sindacale che ne aveva determinato la nascita e grazie anche alla corretta individuazione degli elementi che ne avevano decretato la fine, si svilupperanno modelli simili di sindacalismo di base che faranno dell’indipendenza dai partiti la strategia di lunga durata e della coerente rappresentanza della base lo strumento di lotta quotidiana.

Coordinamento Macchinisti Uniti (COMU) e Rappresentanze Sindacali di Base (RdB) (oltre ad una innumerevole galassia di realtà territoriali che al loro modello si rifanno) nasceranno nelle fabbriche ma ben presto si svilupperanno anche tra i lavoratori del Pubblico Impiego, con dinamiche diverse. Successivamente nasce l’esperienza della realtà sindacale della Confederazione di Base della Scuola (COBAS Scuola, poi estesa a vera Confederazione).

Le RdB, dall’esperienza del precariato (L. 285/80), si affermano poi come realtà sindacale consolidata, con strutture di federazione radicate su tutto il territorio nazionale, fortemente caratterizzata da una attenta analisi e da una corretta strategia che ne legittima il peso sullo panorama sindacale nazionale. Le RdB sapranno coniugare gli elementi portanti dell’esperienza dei sindacati di base del decennio precedente (l’indipendenza dai partiti e il costante rapporto con la base) adeguando costantemente le strategie alla fase politica di riferimento, con un occhio sempre attento (dalla base) all’involuzione delle dinamiche sociali frutto del capitalismo neoliberista ed un altro vigile sullo scenario internazionale. Le Rdb saranno elemento indispensabile per la costruzione della Confederazione Unitaria di Base (CUB), da alcuni anni unica realtà di base tra le Confederazioni maggiormente rappresentative presenti nel Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL).

I COBAS si sviluppano come soggetto politico-sociale che si serve anche dell’azione sindacale come strumento di alternativa e antagonismo alle politiche liberiste,

- Quaderni Rossi (QR) [14] è la prima rivista di operaismo a cimentarsi in una analisi politica del movimento operaio attraverso una indagine sociologica specifica: l’inchiesta operaia.

L’indagine parte dalla FIAT e per la prima volta si analizzano concretamente le condizioni di vita e di lavoro nella fabbrica; lo studio non si ferma alla FIAT e il modello di inchiesta viene esportato in altre fabbriche del Nord. Il risultato è significativo già nel fatto che si individuano due tipologie di operaio:

- operai con anzianità di lavoro medio / alta, ben integrati nel tessuto sociale di riferimento, iscritti prevalentemente al PCI ed alla CGIL con un profondo attaccamento al lavoro ed alla propria azienda

- operai giovani, prevalentemente immigrati dal Centro-Sud e difficilmente integrati nel contesto sociale, spesso non iscritti a PCI/CGIL,con una bassa qualifica, addetti alla catena di montaggio e con salari molto bassi; è questa la figura dell’“ operaio massa”.

La rivista si occuperà prevalentemente dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali insistendo sul concetto di autorganizzazione operaia nelle fabbriche. Il gruppo dei Quaderni Rossi avvierà percorsi politici strutturando momenti permanenti di analisi a Torino, Milano, Ivrea, Biella, M. Carrara, ecc. Molte strutture della sinistra tradizionale (che avvertono la necessità di comprensione della fase) si dimostreranno sensibili all’iniziativa: la FIOM a Torino, la sezione università del PCI a Roma, i giovani del PSIUP a Bologna. Successivamente questi gruppi si incontreranno sempre più con gli operai politicizzatisi con le lotte del 68-69 ed anche da queste aggregazioni prenderanno vita alcuni dei più importanti movimenti della nuova sinistra: Lotta Continua e Potere Operaio per primi [15].

4. Il sindacato cavalca la protesta, i padroni la reprimono

La forte crescita economica degli anni ’60 ha prodotto ingiustizie nel mondo del lavoro. Alla fine di questo decennio, l’Italia sarà un paese industrializzato e competitivo rispetto agli altri Paesi, e la classe operaia sarà costretta a pagare un prezzo altissimo in termini di sfruttamento e di bassi salari.

“Si considerino, innanzitutto, i dati relativi all’incremento della produttività. Nel periodo 1959 - ’68, nel complesso dell’industria italiana la produttività del lavoro è aumentata del 61,8%. Nell’industria manifatturiera, invece, tale aumento è stato ancora superiore: esattamente del 76,6%. Incrementi della produttività tanto rilevanti come questi non si riscontrano nella evoluzione economica della stragrande maggioranza dei paesi capitalistici.

La filosofia dell’efficienza, che ha sorretto il processo di ristrutturazione tecnico produttivo e finanziario avviato nel momento stesso in cui esplodeva la congiuntura favorevole, ha comportato infatti un tipo di investimento la cui caratteristica fondamentale è consistita nella combinazione di radicali innovazioni nell’organizzazione del lavoro e di relativamente modeste introduzioni di nuovi beni capitali. Da ciò una impressionante e intollerabile intensificazione dello sforzo fisico e psichico richiesto ai lavoratori, che ha finito per dare tanto rilievo ai problemi della salute e della loro tutela fisica. Tutto questo peraltro è stato favorito dalle condizioni generali di larga sottoutilizzazione della forza - lavoro disponibile, che continuano a caratterizzare il mercato del lavoro in Italia e che influenzano, quindi, pesantemente la condizione operaia in modo sia diretto (perché il lavoratore quando non è sfruttato è disoccupato) che indiretto.

La dinamica salariale estremamente contenuta che ha caratterizzato nell’insieme questo periodo è stata anch’essa il riflesso della vasta disoccupazione presente nel mercato del lavoro, in Italia”  [16].

Questo particolare periodo di fermento politico e sociale, alla fine degli anni sessanta, si caratterizza con le lotte per il rinnovo dei contratti; CGIL CISL UIL proseguono nella logica unitaria forzati in senso rivendicativo da una ormai consolidata voglia di nuovo che viene dal movimento operaio; le piattaforme stesse sono realmente innovative, complici anche i “riscoperti” strumenti partecipativi che costringono il sindacato confederale ad osare prepotentemente.

Da parte loro i sindacati, per non perdere il consenso operaio, proprio perché questi scontri erano avvenuti su base autonoma [17], avvia altri cicli di lotte, volti a modifiche di carattere prettamente normativo. Si delinea, così, un doppio ciclo di proteste, i primi provenienti dalle fabbriche, mentre gli altri dai vertici sindacali per tentare di recuperare il consenso di classe. Tale lotta, condotta in alcuni casi valicando i limiti della legalità avviene anche lontano dai confronti strettamente contrattuali, coinvolgendo tutto il Paese.

La reazione padronale sarà dura, il muro delle negazioni darà il via ad una serie di manifestazioni che troveranno lo Stato impreparato e rigidamente incline alla repressione, complice anche una destra spesso silente ma sempre pronta ad approfittare dei momenti di difficoltà per sviluppare strategie golpiste. Le risposte alle lotte per il rinnovo dei contratti e alle battaglie sociali che hanno già caratterizzato gli anni immediatamente precedenti, renderanno più esplicita quella “strategia della tensione” che vedrà nelle bombe del 12 Dicembre del ’69, il primo momento di sintesi tra la connivenza di alcuni settori repressivi dell’apparato dello Stato e il prepotente squadrismo fascista, mai combattuto dallo Stato e da sempre al soldo della borghesia; quello squadrismo spontaneamente utilizzato durante la contestazione studentesca, debolmente organizzato nel florido periodo dello sviluppo della sinistra extraparlamentare e strutturalmente funzionale nelle “stragi di Stato” che segneranno, da quel 12 Dicembre, piazza Fontana, l’intera vita del Paese.

In questo contesto il sindacato italiano rischia per la prima volta di perdere il ruolo da protagonista a vantaggio dei lavoratori; ovunque, nelle assemblee, si registra una crescente insofferenza rispetto ad organismi, personaggi e metodi del sindacato tradizionale, rifiutato spesso per la sua inadeguatezza.

Le Commissioni Interne, sovente usate dal sindacato confederale per giustificare la distanza degli organismi dalla base, non assolvono la necessità di partecipazione dei lavoratori che le scavalcano, nonostante la strenua difesa delle direzioni, e che cominciano a sperimentare i Consigli dei Delegati, organismi “di democrazia diretta che, dunque, è estremamente complicato controllare; sono organismi di democrazia operaia, non sindacale, dunque, ancora più difficili da tenere al guinzaglio perché rappresentano tutta la classe, non soltanto i tesserati, e perché si pongono su un terreno molto più ampio, generale, schiettamente politico e, quindi, con un potenziale tendenzialmente dirompente” [18].

Si strutturano, di fatto, organismi democratici che privilegiano la dialettica interna, il confronto delle idee e delle proposte e dove l’appartenenza ad un sindacato è irrilevante ai fini della rappresentanza.

I Consigli di Fabbrica, semplice coniugazione del precedente in ambito industriale, rappresenteranno la più “gramsciana” forma di sindacato di classe mai esistita, saranno il sindacato in fabbrica e non la base del sindacato confederale in fabbrica, anzi saranno costantemente denigrati e delegittimati dalle centrali sindacali che tenteranno sempre di ricondurli a propria struttura di base. Lo sviluppo di tale importante esperienza, poco approfondita e studiata per essere ridimensionata a semplice casualità della fase politica, porterà fuori dalle fabbriche, là dove è indispensabile cogliere le necessità, i bisogni del territorio ed i riflessi del lavoro nella vita sociale e politica, sperimentando la capacità e la forma attraverso la quale la classe operaia garantisce la sua direzione, non solo in fabbrica ma anche sulla società. A tali organismi, i Consigli di Zona, sarà riservata lo stesso ostruzionismo dei CdF fino a ricondurli nelle “leghe territoriali” e quindi sotto il controllo dei sindacati confederali.

Sul versante sociale, il biennio ’68-’69 caratterizzò la spinta verso la democratizzazione attraverso la messa in discussione del concetto di autorità.

Il datore di lavoro non deve essere più il “padrone”, come si diceva allora e si era sempre detto, e i lavoratori non devono essere i suoi “sudditi”, bensì collaboratori in una struttura organizzativa di cui il datore di lavoro è il “dirigente”, il “coordinatore”.

Lo Statuto dei lavoratori, approvato nel maggio del 1970 sotto la spinta del famoso “autunno caldo” del ’69, fornì le condizioni per la realizzazione di quel sogno.

Il sogno di un lavoratore con una propria dignità, libertà e consapevolezza dei propri diritti.

La norma fondamentale fu certamente l’art. 18, nei confronti del quale oggi rischia di realizzarsi il sogno contrario degli imprenditori, la sua abrogazione o per ora sospensione.

L’art. 18 consente, nelle imprese con più di 15 dipendenti, un’effettiva tutela del lavoratore licenziato ingiustamente. Non più solo il risarcimento dei danni, ma la “reintegrazione” nel posto di lavoro: il datore di lavoro è cioè obbligato a riammetterlo in azienda e a farlo lavorare.

È una rivoluzione!

Prima dell’introduzione dell’art. 18 erano pochissime le cause di lavoro introdotte durante il rapporto e lo stesso avviene ancora oggi per le imprese fino a 15 dipendenti.

Infatti, senza lo scudo dell’art. 18, di fatto il lavoratore non faceva valere i propri diritti, né individuali nè collettivi, nel corso del rapporto per paura di essere licenziato ed era quindi soggetto a qualsiasi abuso da parte del datore di lavoro.

La norma consente quindi l’effettivo esercizio dei diritti del lavoro, senza paura di eccessive ritorsioni.

Un altro articolo dello Statuto, d’altra parte, vieta qualsiasi atto o patto discriminatorio (art. 15, che troverà poi un’importante conferma nella legge del 1977 per la parità tra uomini e donne nel lavoro): l’imprenditore non è più il dittatore dell’impresa!

Il sindacato non è più una presenza quasi segreta, cospiratrice, ma entra a pieno titolo nella vita dell’azienda, può fare proseliti e raccogliere contributi alla luce del sole, può affiggere comunicati ed organizzare referendum ed assemblee e l’imprenditore deve assicurargli bacheche e locali, ha diritto a permessi, anche retribuiti, per i suoi rappresentanti, è tutelato in modo efficace e rapido contro i comportamenti antisindacali dell’imprenditore.

Lo Statuto tutela, inoltre, il lavoratore sotto ogni profilo, garantendo la dignità e la libertà di manifestare il proprio pensiero, vietando l’uso di impianti per il controllo a distanza e gli accertamenti sanitari diretti, limitando le visite personali di controllo, regolando il procedimento disciplinare e consentendo soprattutto al lavoratore di difendersi prima della sanzione, vietando la dequalificazione (spostamento a mansioni peggiorative), anche con il consenso del lavoratore.

All’acme della parabola il lavoratore sembra davvero definitivamente diventato persona anche dentro l’azienda” [19].

Gli anni ’60 si chiudono all’insegna della lotta con una vittoria sostanziale del mondo del lavoro e con un ruolo nuovo dei lavoratori sulla scena politica. Gli aumenti salariali, la riduzione dell’orario di lavoro e la conquista delle ore di assemblea sindacale, saranno il sintomo concreto di una nuova fase rivendicativa in termini di diritto che segnerà il suo momento più alto con l’approvazione dello “Statuto dei Lavoratori” e con esso delle regole che ricollocano: il lavoratore come soggetto attivo della propria salute e il mondo sindacale nelle condizioni di trasformare profondamente la sua presenza sui luoghi di lavoro [20].

Se le lotte per le riforme ottengono dei risultati che saranno apprezzati soltanto nel tempo, le battaglie per le conquiste normative portano dei riscontri immediati. Infatti, vengono abolite le cosiddette “gabbie salariali”, ossia quello strumento che manteneva differenziali di costo del lavoro tra le diverse aree (8), vengono concesse ai lavoratori dell’industria 150 ore annuali per attività formative, vengono istituite apposite tutele di natura procedurale nei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro. Come si è detto raggiungendo l’apice nel 1970 con l’emanazione dello Statuto dei Lavoratori.

Sul versante più propriamente politico la tensione resta altissima, al fianco degli operai migliaia di studenti si uniscono alla lotta attratti dal desiderio di cambiamento che pervade la gioventù di tutto il mondo, e accanto ad essi ampi settori di classi intermedie e di intellettuali a legittimare un percorso verso il progresso, permanentemente mobilitati ed attenti ai risvolti sociali, economici e politici in campo nazionale e internazionale. -----

Questo nuovo momento di incontro fra culture si presenta con precise caratteristiche e grandi potenzialità:

1) il nuovo rapporto si configura come una stretta connessione e non come una semplice e tradizionale alleanza in cui non vi era l’emergere di nuove funzioni intellettuali ma semplicemente un patto (per esempio la lotta antifascista),

2) il nuovo rapporto classe operaia-intellettuali pone su nuove basi il problema dell’autonomia degli intellettuali e dei tecnici, da questi vissuta come una differenza specifica delle categorie intellettuali rispetto alle classi sociali (ideologia della differenza) e come autonomia di funzioni. Di fatto questa nuova aggregazione risolve il problema dell’organizzazione del lavoro intellettuale, essenzialmente legato alla trasformazione del processo di conoscenza, all’uso sociale dei suoi risultati, in uno dei luoghi naturali fondamentali della conoscenza e della ricerca: la fabbrica. Un nuovo scenario che obbliga le istituzioni ad un confronto serrato ed accorto e che costringe le organizzazioni sindacali a meglio adeguare le politiche di unità.  [21]

Tale obiettivo, mai abbandonato negli ultimi anni, trova però facili resistenze in quelle componenti della CISL e della UIL particolarmente legate ai partiti di riferimento (DC e PSDI) e saranno ancora una volta gli operai metalmeccanici, da sempre sensibili alla necessità di unità sindacale, a dar vita alla più importante esperienza di sindacato unitario, la Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM).

La risposta operaia è sintomatica dell’opportunità che si intravede, forte delle lotte passate e del livello di coscienza ormai radicato nella categoria, ma la controffensiva del Governo filo padronale e di significativi settori presenti in CGIL, CISL, UIL non tarda a venire.

Una nuova fase della politica conservatrice, che pur si era assopita negli ultimi anni, viene riproposta dai repubblicani: dapprima parte rilevante nell’elezione di G. Leone a Capo dello Stato e poi, dopo la caduta del Governo di centro-sinistra, con il Governo Vanni (Segretario Repubblicano della UIL) che dichiara impossibile l’unità sindacale. Dopo alcuni mesi, l’azione di contenimento di quelle politiche che avevano determinato nel biennio ’69-’70 un arretramento della borghesia italiana, determinerà una svolta conservatrice attraverso l’elezione di un Governo di centro-destra a guida Andreotti, ostile al movimento sindacale e in aperto contrasto con ogni ipotesi di trattativa e/o di accordo politico. I conseguenti dissapori all’interno della CISL, che vedrà crescere prepotentemente la componente conservatrice e filo-DC, si tradurranno presto nella fuoriuscita anche di questa confederazione dal processo di unità sindacale, processo che, da quel 1972, non si riproporrà più se non nella logica del patto federativo.

5. Gli anni ’70: il contesto socio-economico

In questi anni, l’economia italiana si regge esclusivamente sull’esportazione [22] di beni (oltre che di capitali) - in virtù del fatto che la valuta nazionale risulta debolissima -, e sui crescenti consumi privati.

Alla contrazione del sistema economico italiano contribuiscono principalmente due fattori di carattere internazionale: la crisi del petrolio (1973) e l’affacciarsi sul mercato mondiale di nuovi paesi industrializzati [23].

Lo shock del petrolio ha inizio nel 1973, quando, con dichiarazione unilaterale i paesi produttori di petrolio quadruplicano il prezzo del greggio, innalzandolo dai 2/3 dollari ai 12 dollari per barile. Un secondo shock si ha nel 1979, quando il prezzo del petrolio viene quasi triplicato e raggiunge i 32 dollari al barile. La diretta conseguenza di questa azione è un forte incremento della domanda di “greggio” e una contrazione dell’offerta. L’aumento del prezzo del petrolio rappresenta un trasferimento di risorse a carico dei paesi importatori a vantaggio dei paesi produttori.

La reazione dei paesi importatori non è uniforme. Paesi come la Gran Bretagna riescono a ottenere che i paesi produttori di petrolio depositino i maggiori profitti presso il proprio sistema bancario. Ciò ha la conseguenza di mitigare l’aumento del costo del petrolio, compensato da maggiori importazioni di capitali, tutto questo è reso possibile grazie ai tradizionali rapporti coloniali e neocoloniali di questi paesi con il mondo arabo. Altri paesi, invece, come il Giappone, riescono ad aumentare le proprie esportazioni verso i paesi produttori o verso altri paesi. Questo porta ad evitare una caduta dell’occupazione. In ultimo altri paesi, quali la Germania, riducono le importazioni di petrolio, sostenendo una contrazione, oltre che del reddito nazionale, anche della produzione e dell’occupazione.

Ma mentre la Germania riesce comunque a conservare in attivo la propria bilancia dei pagamenti per l’alto sviluppo tecnologico e industriale, ciò non accade in Italia dove non potendo praticare la prima soluzione, si arriva a comprimere le attività produttive.

A creare difficoltà ulteriormente alla situazione economica italiana contribuisce la sviluppo di nuove realtà industrializzate, quali a esempio la Spagna, il Portogallo, Singapore, etc... È controverso quale sia il fattore scatenante che rende possibile il veloce sviluppo di questi paesi, ma è determinante che questi nuovi paesi industrializzati hanno di certo messo in difficoltà l’industria italiana.

Quindi a rallentare e poi ad arrestare la crescita economica del nostro Paese contribuì la crisi petrolifera dell’inizio degli anni ’70.

Verso gli inizi degli anni ’70 per tentare di risolvere la crisi di efficienza e di competitività della grande impresa, una parte dei nuovi capitalisti italiani emergenti diedero vita a un modello [24] denominato a industrializzazione diffusa (o decentrato) caratterizzato dalla presenza della piccola impresa con un decentramento che ha aumentato i divari già esistenti con il ben noto dualismo Nord-Sud; infatti l’industrializzazione nel mezzogiorno, è avvenuta più per diffusione di impianti costruiti da imprese del nord, che da aziende vere e proprie sorte nell’area in questione.

In questi anni c’è una forte crescita delle aziende di piccola dimensione presenti sia nel settore industriale, sia quello dei servizi. La struttura produttiva e di specializzazione del sistema economico italiano, si fonda sul ruolo delle imprese di piccole e medie dimensioni. (cfr. Tab.)

Pur essendo questi anni caratterizzati da una serie di interventi pubblici di carattere sociale (la legge sul divorzio, sull’aborto, la riforma del diritto di famiglia, il sistema pensionistico nazionale, ecc.) dal punto di vista economico si ebbe una significativa regressione con una grave crisi sia del settore industriale sia di quello agricolo.

Il 65% delle aziende agricole era considerato ai margini della sussistenza e l’80% della superficie coltivata era suddivisa fra due milioni e mezzo di aziende delle quali più di due milioni con dimensioni minori a 5 ettari.

La forte inflazione, la riduzione del potere di acquisto dei salari e la insufficienza delle infrastrutture come trasporti, ospedali, case, ecc., aggiunte alla crisi petrolifera e al quasi totale abbandono del settore agricolo, hanno aggravato oltre ogni limite la crisi economica nel nostro Paese.

Il tasso di occupazione è diminuito negli anni che vanno dal 1973 al 1979 dello 0,3% nel settore industriale ed ancora più danneggiato risultò essere il settore agricolo.

Questa situazione ha dato l’avvio ad una grande stagione di lotte operaie e studentesche che hanno visto la loro maggiore espressione nel movimento del ’77, degli studenti e delle nuove figure marginali e precarie del mondo del lavoro che ha caratterizzato la fine degli anni ’70.

È interessante notare quale sia stata negli anni che vanno dal 1971 al 1977 la percentuale degli iscritti ai sindacati confederali (CGIL e CISL).

La crisi economica degli anni ’70 ha generato un enorme deficit nella spesa pubblica; nel 1988 infatti si arrivò a 110.000 miliardi di vecchie lire e nel 1990 si è arrivati a 130.000 miliardi di vecchie lire.

Inoltre, per fronteggiare la crescente inflazione, i sindacati reagiscono chiedendo e ottenendo una revisione del meccanismo della scala mobile, con l’introduzione nel 1975 del cosiddetto punto unico di contingenza. Con questo sistema l’indennità di contingenza viene pagata in misura uguale a tutti i lavoratori dell’industria; il risultato è che, per la prima e unica volta in Italia, la maggioranza dei lavoratori nel settore industriale beneficia di una totale copertura contro l’inflazione.

6. I sindacati storici non interpretano la nuova fase del conflitto sociale

Se gli anni ’70 sono segnati, come si è detto, da notevoli turbamenti internazionali, (e due crisi del petrolio, la sospensione della convertibilità del dollaro e il progressivo abbandono del sistema di Bretton-Woods), il fronte interno è segnato da significativi rivolgimenti politici. Infatti, l’atteggiamento moderato del PCI facilita l’avvicinamento del partito al governo. Tale atteggiamento porta anche il sindacato ad assumere una linea più morbida. La conseguenza successiva, ma già interna alle scelte consociative dei vertici sindacali a partire dai primi anni ’70, è che, nell’Assemblea dei Delegati Confederati del gennaio del 1977 le confederazioni dichiarano, non solo di essere disposte a contenere le richieste salariali, ma anche ad accettare una maggiore mobilità operaia in relazione alle esigenze di ristrutturazione dell’industria e in considerazione della situazione drammatica nella quale sembra che il Paese versi.

Un governo di centro-destra, naturale successore della strategia stragista, un “rinnovato” ruolo della massoneria (ed un particolare collateralismo dei servizi di sicurezza) [25], saranno gli elementi di fondo contro i quali il sindacato italiano stenterà a reagire. In poco tempo la crisi economica (figlia della più vasta crisi petrolifera internazionale) si risucchierà quella parte del capitale, sottratto alla borghesia con la lotta e ricollocato nei salari degli operai; non da meno sarà la svolta sul livello occupazionale, con una politica dei licenziamenti che durerà ben oltre la pur irresponsabile necessità di ristrutturazione capitalistica e che, al pari dell’incapacità del sindacato di investire nella grande forza operaia accumulata nelle lotte, aprirà il fianco ad una estrema pratica di contestazione (la lotta armata) che, dalle fabbriche, invaderà ampie fasce di proletariato, coinvolgendolo, a tratti, più sui contenuti che sulla pratica militarista.

D’altro canto si trattò spesso di un proletariato fatto di manodopera precaria e inoccupata, legata spesso al lavoro nero, che apprezzava la lotta degli operai ed il grande movimento che essi erano riusciti a determinare pur esprimendo criticità sul fatto che i vantaggi sarebbero stati solo per la classe operaia di fabbrica e non per l’intera classe operaia. Un proletariato che pagava materialmente l’assenza di uno strumento di tutela, vista la latitanza dei partiti (anche il PCI) e dei sindacati (per concezione a tutela dei lavoratori e non dei disoccupati o sotto-occupati). Un proletariato fatto di giovani - studenti - operai che non apprezzeranno il tentativo di egemonizzazione del movimento che più tardi il PCI e la CGIL cercarono di imporre e che ebbe la massima espressione nella “cacciata di Lama” dell’Università di Roma [26].

Un proletariato che nella Napoli degli anni ’70 (ma anche in altre realtà come ad esempio Roma) darà vita al movimento dei “disoccupati organizzati” come strumento extra fabbrica per consolidare il ruolo delle avanguardie nei quartieri popolari già caratterizzati da una forte presenza di strutture marxiste-leniniste.

Ieri mattina a Napoli la polizia ha caricato un corteo di disoccupati che chiedevano lavoro. Ecco come il governo risolve i problemi di Napoli... questa è la situazione al Sud, dopo 20 anni di promesse di riforme: DISOCCUPAZIONE, FAME, INONDAZIONI, COLERA! Le Confederazioni e i riformisti promettono ancora riforme...Proletari, contro la disoccupazione, contro la fame e il colera che attanagliano il Sud, battiamoci per il SALARIO MINIMO GARANTITO di 150.000 Lire al mese per tutti gli operai, occupati e disoccupati. Rifiutiamo lo straordinario e lottiamo per le 36 ore alla settimana” [27].

L’esperienza, che si concretizzerà con la costruzione di una serie ripetuta di “liste di lotta”, approderà fin dentro i più alti livelli del potere, tra la più totale avversione dei sindacati tradizionali, da sempre contrari ad organizzare il “mondo del non lavoro” (vista anche la mancanza di risposte da poter dare ai licenziati dopo gli accordi sui tagli) e tra l’indifferenza dei partiti politici, anche di sinistra, che demonizzavano chiunque fosse organizzato da strutture extraparlamentari, da sempre catalogate come scuole di estremismo.

L’assenza di un organismo di tutela di queste classi, rappresenterà un ulteriore stimolo al consolidamento delle esperienze di sindacalismo di base della fine degli anni ’70.

A pochi anni da quel fatidico ’69 il ciclo delle lotte operaie inizia il suo declino, “lo spettro della recessione economica, che diventa palese con la crisi petrolifera, funziona da pesante arma di ricatto per far passare una nuova ristrutturazione produttiva” [28]. Il Governo riscopre il ruolo di sostegno degli investimenti di capitale delle imprese attraverso i finanziamenti, la politica fiscale, al pari del ruolo di garante dell’ordine pubblico e della democrazia ed il sindacato viene definitivamente scavalcato dai partiti nello svolgimento di quel ruolo politico e di mediazione sociale che ormai non è più in grado di garantire. A riprova di ciò il PCI del ’76 si conferma un partito di solide basi operaie e, in parallelo alla costituzione di un Governo di “non sfiducia”, il sindacato, di fatto, registra una diminuzione della conflittualità e resta relegato alla strenua difesa delle conquiste del decennio passato. I vertici sindacali accentuano, peraltro, la distanza dai lavoratori che registrano, nella “linea dell’EUR”, un modello difensivo attraverso il quale si deve tener conto delle compatibilità economiche del Paese, con la “politica dei sacrifici” barattandola con una aleatoria promessa, mai mantenuta, di investimenti e occupazione, soprattutto nel Meridione.

Negli anni passati il sindacato aveva “cavalcato la tigre” delle mobilitazioni operaie, finendo per far proprie alcune proposte come l’egualitarismo e non frenando la conflittualità in fabbrica, che era divenuta ormai eccessivamente scomoda per gli industriali. Con la conferenza dell’Eur il sindacato accetta di frenare la conflittualità in fabbrica e fa propria la politica dei “sacrifici”, cioè di moderare le richieste di aumenti salariali in cambio della promessa di incrementare l’occupazione.

...l’obiettivo di interesse generale di quegli anni fu il lavoro, la difesa e la creazione del lavoro, attraverso un massiccio e razionale trasferimento di risorse” [29].

È la svolta; per la prima volta nella storia del movimento operaio dal dopoguerra, il sindacato storico si presta a sperimentare un modello di relazioni sindacali che non lascerà più. Un modello che riproporrà, sempre i sindacati confederali come elemento del consociativismo, fino a che con complici i Governi di centro-sinistra (già nel ’93, per favorire le politiche europeiste, e più recentemente nel 2004, sugli sviluppi della crisi del modello economico contemporaneo), saranno addirittura i fautori della “Concertazione”, nelle sue diverse sfumature ma sempre con l’obiettivo di comprimere il conflitto sociale, distruggendo così conquiste operaie e costringendo sempre più i lavoratori sulla difensiva, in un’opera di demolizione dell’autonomia di classe.-----

La nuova politica sindacale non sarà accettata dai settori operai più radicali, che in primavera terranno al Teatro Lirico di Milano un’assemblea operaia autoconvocata.

Forse è dalla vittoria del PCI del 1976, con la sua involuzione di compromesso consociativo, che inizia la vera crisi del sindacato che con la politica dei sacrifici prima, della concertazione poi, non vuole più assolvere al compito di trasformare le lotte in fabbrica in conquista/cambiamento sociale. Questa svolta involutiva sul piano anche delle conquiste della democrazia operaia passa attraverso la ristrutturazione (nella quale il sindacato tradizionale è parte attiva dalla “svolta dell’EUR”) che permette al capitalismo italiano di liberarsi dell’“operaio massa” a vantaggio di una nuova categoria, teoricamente dedotta e prefigurata, l’“operaio sociale”: “dinanzi alle imponenti modificazioni provocate - o in via di essere determinate - dalla ristrutturazione, il corpo di classe operaia si distende e si articola in corpo di classe sociale[...]. Dopo che il proletariato si era fatto operaio, ora il processo è inverso: l’operaio si fa operaio terziario, operaio sociale, operaio proletario, proletario” [30].

Sul finire degli anni ’70, il sindacalismo italiano registrerà fratture insanabili con il movimento operaio, in un contesto che va:

- dal consolidarsi dell’esperienza della lotta armata di fabbrica a quella di contesto “diffuso”, fino al progetto del “colpire al cuore dello Stato” [31]

- al “compromesso storico”

- alla “svolta dell’EUR”, [32] che segnerà un capovolgimento radicale nella strategia sindacale

- al rapimento e all’uccisione dell’On. Moro [33]

- alla conclusiva disfatta della trattativa FIAT dell’80.

7. Gli anni ’70 e la politica in fabbrica: il ruolo della sinistra operaia modifica il sistema aziendale sul piano delle relazioni industriali

Le lotte degli anni ’60 avevano mandato in crisi gli assetti aziendali e modificato l’organizzazione del lavoro: non era più pensabile un regime “militare” in fabbrica, pena lo sciopero improvviso di un reparto o di una squadra; non erano più tollerabili i sistemi di cottimo perché incompatibili con le varie forme di protesta (dallo sciopero del rendimento alla autolimitazione dei ritmi); la dinamica salariale non accettava soste e gli stipendi erano in ripresa. In conseguenza di tutto questo, l’aumento delle politiche repressive fu immediato: dall’uso punitivo della Cassa Integrazione alle denunce verso chi partecipava a cortei interni o picchettaggi, dai licenziamenti disciplinari alla sospensione del salario a quanti avevano partecipato a varie forme di protesta. Ma anche la risposta operaia non scherzava: il conflitto permanente divenne una costante, anche nei presunti periodi di tregua post-contrattuale, conflitto permanente che vide spesso lotte dure in contrapposizione a CGIL-CISL-UIL ma sempre al fianco della sinistra operaia.

Fu proprio in questo contesto che la sinistra di classe, mai maggioranza tra i movimenti, riuscì ad esercitare una sorta di egemonia politica fino a farsi “inseguire” dal sindacato.

si è già visto che il punto di forza della sinistra di fabbrica, ed in generale di tutto il movimento, era la dimensione aziendale. I Consigli erano eletti su base aziendale, la sinistra di fabbrica si articolava, essenzialmente, per CUB o Collettivi di Azienda, più o meno coordinati tra loro, le forme di lotta avevano la loro massima efficacia nei confronti della singola azienda. Dunque non stupisce che la contrattazione aziendale rappresentasse il punto critico dell’intero sistema di relazioni industriali. In quella sede il sindacato subiva al massimo l’iniziativa del movimento essendo costretto, il più delle volte, ad inseguire la sinistra operaia sul suo terreno. Viceversa, la contrattazione nazionale di categoria (e più ancora i negoziati a livello confederale) rappresentavano il momento di massima autonomizzazione del sindacato dal movimento. Divenne quindi essenziale distruggere il ruolo politico della contrattazione aziendale per sottrarre alla sinistra del movimento il suo terreno di scontro più favorevole. Una serie di materie vennero quindi riportate in sede di contrattazione nazionale (molteplici aspetti della contrattazione sull’organizzazione del lavoro, sull’orario, e, ovviamente, sulla normativa) mentre essa veniva sostanzialmente svuotata dei suoi contenuti salariali. Proprio in quegli anni, infatti, si concludeva l’accordo sul punto unificato di contingenza (’75) e si ampliava la gamma di automatismi salariali (scatti di anzianità, passaggi automatici di categoria, ecc.). In particolare l’accordo sul punto unico di contingenza otteneva una serie di effetti: da un lato esso diveniva un potente fattore di appiattimento retributivo (in pochi anni i differenziali crollarono), dall’altro esso finì per assorbire quasi per intero la dinamica salariale. Infatti l’infuriare della spinta inflattiva fece scattare a ripetizione i punti di contingenza con l’effetto di rivalutare maggiormente i salari più bassi rispetto a quelli più alti. Naturalmente, essendo le categorie più basse le più numerose, ogni scatto finiva con il costare alle aziende in modo più che proporzionale. In questo modo i margini di dinamica salariale finivano per essere assorbiti in buona parte dalla contingenza, mentre un’altra parte veniva assorbita dagli altri automatismi, una terza infine, dalla contrattazione nazionale. Per la contrattazione aziendale non restò che una parte irrilevante.

Lo svuotamento della contrattazione aziendale, il rafforzamento dell’apparato sindacale, gli effetti della ristrutturazione finirono per avviare il declino dei Consigli, sempre più abitati da “delegati a vita” e sempre meno in grado di esercitare un reale ruolo politico e sindacale”37.

Successivamente, quindi, il padronato attenua la politica repressiva (per un po’ di tempo) tentando una manovra “su più binari” e, contro ogni aspettativa, apre il fianco al sindacato, accentuando, fra l’altro, il dissenso ormai alto tra Organizzazioni Sindacali tradizionali e lavoratori.

Vengono aumentati distacchi, aspettative, presenze istituzionali e soldi (che in vari modi arrivavano al sindacato) il che permise a molti delegati “in forza” alla sinistra operaia, di essere cooptati nelle fila del sindacato confederale e nelle strutture di apparato. La sinistra di fabbrica, ormai relegata al ruolo di contestatrice, finì per rinunciare al ruolo antisindacale e molto spesso consentì ai propri militanti l’iscrizione alle OOSS e la candidatura nei Consigli di Fabbrica.

La crisi della sinistra operaia è forte perché è forte tra i lavoratori il senso di sfiducia verso il sindacato confederale e di inadeguatezza delle alternative sindacali e la scelta ricade verso l’imminente appuntamento politico anche istituzionale- elettorale; la sinistra operaia si organizzerà, allora, sostanzialmente in tre filoni:

- PRIMO FILONE: finito il PSIUP e nato il PdUP (che si aggregherà con il Manifesto) si incomincia a pensare seriamente ad una forma di aggregazione. Avanguardia Operaia ripensò all’antisindacalità come strategia politica e fece confluire i CUB nel sindacato tradizionale (anche se in effetti molti CUB non si sciolsero mai), pensando che il progetto di società socialista poteva realizzarsi con un governo delle sinistre e varie strutture di contropotere popolare (Consigli di Fabbrica e Comitati Unitari di Zona).

- IL SECONDO FILONE: LOTTA CONTINUA che tentò di aggregare alcuni pezzi di sinistra operaia e del movimento studentesco per strutturarsi come partito.

- IL TERZO FILONE: AUTONOMIA OPERAIA, nata dalla crisi di Potere Operaio e Gruppo Gramsci, (oltre che gruppi minori di area marxista-leninista e ex Manifesto) ereditò una parte importante dell’operaismo italiano, l’operaio massa, teorizzando una nuova dimensione e figura di classe: l’operaio sociale, ed una nuova strategia: il rifiuto del lavoro e l’organizzazione territoriale del conflitto sociale a partire dalle lotte del nuovo proletariato metropolitano.

Nel ’76 però la maggioranza della classe operaia si orientò verso il PCI e la sua strategia di alleanza con la DC nel governo della “non sfiducia”, per realizzare le tanto attese riforme, e la sinistra di fabbrica si modificò di conseguenza. Finisce, dopo poco, l’esperienza di Lotta Continua, si scinde/scioglie il PdUP e nasce Democrazia Proletaria che riattiva la vecchia rete dei CUB e convoglia una parte di LC.

L’ipotesi di un organismo unitario tra settori dell’autonomia di classe e DP (Opposizione Operaia) non durò molto;

per l’area DP il tentativo era quello di costruire un partito che unificasse stabilmente i movimenti di opposizione al sistema politico (studenti,sinistra operaia, marginali, ecc.), facendo leva sulle consuete forme di lotta (scioperi articolati, picchettaggi, ecc.), sulla struttura organizzativa dei Consigli di Fabbrica e su una pratica articolata fra presenza nei conflitti sociali e momento istituzionale. In questo senso, massima importanza era data alle usuali scadenze contrattuali, mentre si cercava di proseguire in una azione interna-esterna al sindacato (in questo senso venne fatto qualche tentativo di recuperare la sinistra sindacale che, invece, preferì restare indipendente tanto da DP che dal PdUP).

L’area dell’Autonomia partiva invece dalla convinzione del completo esaurimento del ruolo di strutture come i Consigli di Fabbrica, dal rifiuto di ogni pratica istituzionale o di entrismo sindacale,dal tentativo di superare le precedenti forme di lotta con pratiche che, pur senza giungere all’ipotesi militarizzata delle Brigate Rosse, si caratterizzassero per un diffuso utilizzo di forme di lotta violente (minacce ai capi reparto, gambizzazioni, sabotaggio della produzione, incendi alle auto dei dirigenti aziendali, ecc.) [34].

8. Il ’77 e il nuovo proletariato giovanile metropolitano

Si accentua intanto, fuori dalla fabbrica, il dissenso tra il proletariato giovanile e la “politica istituzionale”, rappresentata dal PCI e dalla CGIL.

Forte traspare il senso di tradimento del PCI: il governo delle astensioni, la filosofia dell’austerità e dei sacrifici, il compromesso storico, ed altrettanto pesante la responsabilità del sindacato che è riuscito a farsi scippare le conquiste della fine degli anni ’60.

Mentre comincia a farsi concreta la strategia della “politica dei sacrifici”, il sindacato non si accorge, e quindi non intercetta, il dissenso crescente che si accumula negli strati più ribelli e politicizzati del movimento giovanile; un movimento fatto spesso di studenti che hanno una condizione di lavoro e sociale precaria, marginale, con frequenti rapporti con il mondo del lavoro nero. Un proletariato giovanile metropolitano che colpevolizza la sinistra istituzionale ed il sindacato andando a costituire un nuovo soggetto, il “lavoratore marginale”.

È in questo contesto che Lama arriva all’Università (occupata) di Roma il 17 Febbraio ’77. La provocazione è eclatante e scontata: la CGIL tenta di appropriarsi di un luogo che non gli appartiene, l’università; di una lotta che non gli appartiene, quella dei “marginali” e tenta di farlo con la prepotenza e con la forza della provocazione: un servizio d’ordine di edili che fin dalle prime ore aveva provveduto a cancellare dai muri le scritte e che si era schierato a difesa di un palco montato su un camion e dotato di una amplificazione assordante. Nello scontro che ne seguì “il sindacato ed il PCI ti venivano addosso come la polizia, come i fascisti. In quel momento era chiaro che c’era una rottura insanabile tra noi e loro. Era chiaro che da quel momento quelli del PCI non avrebbero avuto più diritto di parola dentro il movimento [35]. E fu rottura completa che sancì la quasi totale adesione del movimento alle tesi dell’autonomia di classe non organizzata e ad alcuni settori dell’Autonomia organizzata.

9. Repressione, crisi del movimento e la “risposta” armata

L’attenuarsi dell’iniziativa politica del movimento del ’77, dovuta anche alla grande repressione giudiziaria e sociale che, con la complicità attiva di settori della sinistra storica e del sindacato, realizza un completo controllo coattivo delle lotte, porta come conseguenza alla ripresa di una forte iniziativa delle Brigate Rosse e delle organizzazioni armate. È quindi chiaro che è proprio il contesto repressivo e la militarizzazione del territorio che induce molti militanti del nuovo soggetto giovanile politicizzato ad una sorta di delega vedendo spesso nella “risposta armata l’unica possibilità di opposizione reale, coinvolgendo il movimento in uno scontro frontale perdente” [36].

Ma in realtà la battaglia “contro il terrorismo” viene usata per altri fini, per sconfiggere la protesta sociale animata dalla sinistra rivoluzionaria ed in particolare per sconfiggere l’insubordinazione operaia che aveva reso ingestibile il comando capitalistico in azienda imponendo le determinanti dell’autonomia di classe.

Dopo la crisi dei movimenti seguita al caso Moro, la sinistra di fabbrica registra la spallata finale. Il terrorismo fornisce l’alibi ai diversi apparati coercitivi dello Stato per reprimere quanto si muove al di fuori della sinistra parlamentare e la borghesia industriale, sempre attenta, sfrutta il contesto e alza il tiro. Nell’“Ottobre ’79, la FIAT licenziava 61 militanti delle sinistra operaia per una serie di addebiti disciplinari. La debole reazione dell’intera classe operaia dell’azienda (agli scioperi partecipò una percentuale molto modesta di lavoratori) consentì il successo dell’operazione. ... La comparsa di un articolo di Amendola su Rinascita, nel quale si delineava l’equazione fra sinistra operaia radicale e terrorismo” [37]. Per la sinistra di fabbrica e per la soggettività dell’autonomia di classe, unico vero elemento di stimolo per il movimento sindacale, fu isolamento completo; ricorda a tal proposito Luciano Lama: “avevamo fatto quadrato sulla vicenda dei sessantuno. E facemmo quadrato anche dopo. Non so se fosse davvero una sorta di prova generale della FIAT. Un rapporto ci può essere nel senso che avremmo dovuto cogliere quel segnale per andare più a fondo nella situazione della FIAT. Questo non l’abbiamo fatto. Fu un errore politico, quindi” [38].

Lo sciopero di protesta contro il licenziamento dei 61, indetto dalla Flm, fallisce, segno che qualcosa sta cambiando nelle fabbriche; c’è una esigenza di ritorno all’ordine anche da parte degli operai vicini al Partito Comunista, dopo anni di martellante propaganda dello Stato e del PCI “contro il terrorismo”; che significava reprimere la sinistra di classe per sconfiggere il progetto dell’autonomia di classe.

Un anno dopo il sindacato capitola; 40.000 capi reparto e dirigenti manifestano contro lo sciopero e CGIL - CISL - UIL accettano sostanzialmente il licenziamento dei 23.000 della FIAT [39] ammettendo, di fatto, una debolezza strategica che non avrà uguali se non negli anni della concertazione.

10. La fine degli anni ’70 e la ristrutturazione capitalistica

Nonostante le difficoltà oggettive e soggettive del sistema Italia nel periodo 1963-1980, c’è da dire, però, che l’andamento dell’economia italiana è decisamente superiore a quella media degli altri paesi (Germania e Francia). Il vero neo rimane quello di non riuscire ad occupare tutta la forza lavoro. Infatti, la disoccupazione è in lento, ma costante aumento (passa dal 3,9 del 1963 al 7,6 nel 1980). Preme sottolineare, considerando anche la forte compressione dei margini di profitto, che gli investimenti e le imprese italiane non ne risentono: la loro quota sul prodotto interno lordo rimane in linea con quella delle maggiori nazioni industrializzate e ciò grazie agli incrementi di produttività non ridistribuiti a salario. Cambia, però, la tipologia di investimento: si riducono gli investimenti nei nuovi insediamenti produttivi, ma aumentano sensibilmente quello destinato a macchinari e impianti; questo con il fine di aumentare l’efficienza in modo da risparmiare sia lavoro che energia.

Se le grandi industrie escono malconce da questo periodo di pressioni politico-sindacali, i distretti industriali, di fatto estranei allo scontro sociale e di fabbrica, ritrovano in questi anni un nuovo vigore. Infatti, le economie dei distretti iniziano a manifestare tutte le loro potenzialità, anche perché più facilmente adattabili alle mutazioni del mercato. A dimostrazione di ciò la struttura dell’Industria italiana presenta caratteristiche nettamente diverse dai due decenni precedenti. Negli anni che vanno dal il 1971 e il 1991, la percentuale di aziende presenti nella classe 1-9, è pari all’86%; la percentuale è molto alta nel settore dei servizi.

La crisi petrolifera del 1973, l’abbandono del settore agricolo e la crisi valutaria del nostro Paese hanno provocato una battuta di arresto nella crescita economica dell’Italia che era arrivato in pochi anni a divenire il settimo paese più industrializzato al mondo.

E questa situazione è continuata anche negli anni ’80 anche se dal 1984 si è avuta una moderata ripresa economica.

Riprende a crescere il peso dell’occupazione nelle imprese di piccolissime dimensioni e contemporaneamente cala l’occupazione nelle medie e grandi imprese con una riduzione pari a 11 punti percentuale in venti anni.

C’è da dire, però, che la rinascita dei distretti non avviene simultaneamente in tutta la penisola, ma solamente nelle regioni centro-settentrionali. Va sottolineato, inoltre, che la maggior parte dei distretti di questi anni sono “nuovi”; dei vecchi, infatti, solo il 16% sopravvive.

11. La “svolta dell’Eur”: l’abbandono del terreno di classe e la “politica dei sacrifici”

Se gli anni ’70 passeranno alla storia come gli anni della “democrazia dei Consigli”, gli anni ’80 registreranno un carattere verticistico del sindacato e la conseguente perdita di democrazia interna, fino al baratto degli interessi dei lavoratori con quelli del sindacato. Al pari del ventennio fascista, che vedeva il sindacato come strumento di consenso per il regime [40], negli anni ’80 il consenso è verso le imprese che lo utilizzano per meglio sviluppare il nuovo modello capitalistico, in una fase, quella post-keinesiana, che sarà il preludio dello smantellamento dello stato sociale nel decennio successivo. L’impotenza del sindacato di fronte alla necessità di cambiamento è reale, al pari della perdita di consenso che si registra nelle maggiori confederazioni.

Man mano che si riduce l’area dell’operaio massa e la struttura della forza lavoro e del mercato del lavoro si frammentano e si cristallizzano secondo linee di rigida gerarchia professionale, sociale e di reddito, il sindacato perde i suo potere come forza della società ed è spinto a restringere la base dei consensi organizzati per occupare un’area sempre più prossima a quella delle istituzioni pubbliche, traendo da ciò nuova legittimità per un nuovo tipo di potere” [41].

Il sindacato può solo impegnarsi ad indirizzare i lavoratori verso una politica di sacrifici costringendo il salario a diventare una variabile dipendente dal sistema economico del Paese. E, su questa linea, il sindacato concertativo perde pesantemente rappresentatività e funzione nel mondo del lavoro, specie in quello operaio, tanto da fallire miseramente la trattativa FIAT (autunno ’80) sulla cassa integrazione, per sette giorni a 78.000 dipendenti, trattativa che Romiti interrompe per annunciare 14.469 licenziamenti prima e, a Governo Cossiga praticamente caduto, la cassa integrazione per 23.000 operai del settore auto. È la “lotta dei 35 giorni” e dei 23.000 cassintegrati della FIAT. La risposta del sindacato è forte ma inconcludente. Il 14 Ottobre, mentre è in preparazione una manifestazione sindacale al Teatro Nuovo di Torino e la fabbrica è presidiata dai picchettaggi, alcuni capi squadra e operai entrano nei reparti e attivano le catene di montaggio, contemporaneamente 40.000 “colletti bianchi” in corteo sfilano per la città. Molti operai e impiegati vanno al Teatro Nuovo a contestare i sindacati: con le loro critiche, coi loro insulti e con una pioggia di monetine che solo dopo molti anni si ripeterà verso quel livello di degenerazione della politica che coinvolgerà molti esponenti di governo nella fase di “tangentopoli”.

Alla fine degli anni ’70, quindi, il sindacato, tragicamente in crisi con la propria base sociale, accetta di essere cooptato nei centri decisionali dalla classe industriale e dalle istituzioni governative, rivendicando un ruolo istituzionale-consociativo da sempre perseguito ed anche fattivamente praticato nel dopo guerra.

la crisi economica rendeva certamente difficile pretendere troppo per i lavoratori, ma il sindacato andò oltre, si fece carico della “compatibilità economica” e del “quadro di insieme”, allo scopo di arginare la reazione e di salvare i posti di lavoro anche a costo di rinunciare a qualche tutela.

Giusto o sbagliato che fosse in teoria, ciò contribuì in pratica, insieme alla crisi economica e all’irrompere delle parole d’ordine del liberismo, all’inizio di un arretramento dei diritti dei lavoratori, all’inizio della parabola discendente” [42].

L’umiliazione più pesante avverrà però nell’autunno dell’80 quando gli industriali imporranno la sconfitta anche del sindacato-istituzione e, complice lo Stato, si prospetterà, ultima ratio, la rottura definitiva del sindacato con la logica della rappresentanza sociale e la trasformazione in una soggettività facilmente integrabile nell’apparato dello Stato e nel sistema delle imprese.

La fase della “democrazia autoritaria” che ne consegue è fatta da rapporti alterati tra lavoratori, Consigli e sindacati; è fatta di ratifica, di assemblee dove tutto è già deciso dal vertice, della palese negazione di un ruolo specifico ai delegati; una forma di autorità che si sviluppa in assenza di regole certe, di elezioni democratiche, contribuendo alla sopravvivenza di una classe sindacale dirigente ormai da tempo inadeguata.

Come se non bastasse si apre ulteriormente il capitolo della repressione:

Dei 61 lavoratori licenziati dalla FIAT perché accusati di violenze, 5 saranno poi condannati per banda armata; è un segnale forte, il padronato non è più disposto a tollerare la provocatoriamente definita violenza ed estremismo in fabbrica. La repressionesi rivolge non solo e non tanto contro i militanti delle organizzazioni armate, ma contro le centinaia di avanguardie protagoniste delle lotte di fabbrica e dell’insubordinazione operaia. Secondo la Fiat, nel ’78 più di 40.000 ordini erano rimasti inevasi a causa della conflittualità e della resistenza operaia contro la produzione intensiva.

La polemica di quegli anni sul costo del lavoro fece emergere, all’interno del sindacato, un gruppo dirigente che, accettando gli elementi di criticità offerti dal padronato, costruiva una linea di strategia sindacale che aveva come obiettivo la mediazione delle diverse posizioni attraverso il discorso della ripresa produttiva, della professionalità, del maggior utilizzo (sfruttamento) della manodopera e degli impianti cioè la “linea dell’EUR”.

Vedremo come nel 1993 si rispolvereranno questi concetti (mai rinnegati) attraverso nuove parole d’ordine (flessibilità, concertazione, ecc.) e non cambieranno nemmeno i fruitori di questa “rinnovata” strategia rivendicativa (imprenditori del Made in Italy - Confindustria - poteri forti).

Nella piattaforma - della FLM e di CGIL CISL e UIL del’ 79 come del resto in quella dell’83 - tutto o quasi viene indirizzato verso la lotta per l’occupazione (sono ormai 1.700.000 i disoccupati iscritti), e questo giustifica tutto, scaricando così di fatto le responsabilita’ accumulate in decenni di rapine contro la classe operaia dal padronato e dalla D.C..

L’aumento dello sfruttamento della manodopera occupata (basta vedere le statistiche dell’ultimo periodo: calo dell’occupazione = aumento della produttività), invece di produrre nuovi posti di lavoro ha prodotto un maggiore arricchimento per i padroni che a loro volta hanno “sapientemente” nascosto, ed in quei casi di accordo che li impegnava ad assumere manodopera o ad investire, i maggiori guadagni, per la costruzione di nuove fabbriche nel Sud oppure, gestire la “mobilità” contrattata con i sindacati.I risultati sono sotto gli occhi di tutti: Gioia Tauro non si fa in Calabria ma in Brasile!!; il nuovo stabilimento dell’ALFASUD, l’APOMI 2. (costato ai lavoratori dell’Alfa dure lotte e centinaia di ore di sciopero) probabilmente non si farà più e gli operai sono costretti alla lotta per far mantenere le “intenzioni”di costruirlo!!!; migliaia di lavoratori ex UNIDAL ancora aspettano, dopo un anno, un posto di lavoro; dopo 2 anni 1.000 operai dell’INNOCENTI sono ancora in Cassa Integrazione; le fabbriche chimiche nel Sud dei vari gruppi: SIR, LIQUICHIMICA, ANIC e MONTEDISON, o sono occupate dai lavoratori o sull’orlo della chiusura con migliaia di licenziamenti.

Ci sarebbero ancora molti casi che stanno a dimostrare cosa significa per i lavoratori “voltare pagina” e “nuova strategia sindacale” e la conseguente POLITICA DEI SACRIFICI!!

Dopo questi fatti, la rottura della “rigidità operaia”, il rifiuto di alcuni concetti di lotta dei precedenti contratti, smorzare la carica anticapitalistica degli operai, ecc.....è chiaro che occorre al sindacato ed al PCI una FIGURA SOCIALE ben definita per poter reggere questa svolta.

Una figura di “OPERAIO MODELLO” che lavora, non è assenteista, non protesta troppo, anzi aumenta la produttività e quando occorre fa anche lo straordinario senza pesare eccessivamente sui costi aziendali cioè: uno che “ si fa carico dei problemi nazionali” come dicono i “signori” che capiscono tutto e costruiscono modelli di comportamento per i prossimi decenni per i lavoratori. Ma per questo serve anche un sostegno politico e sociale certo e controllabile, il sindacato ed il PCI (smanioso di dimostrare la propria capacità di governo) con le loro teorie si prestano ben volentieri all’operazione.

Il controllo della forza lavoro, sia in termini rivendicativi che antagonisti, diviene un elemento strategico per far marciare le linee sindacali e politiche di collaborazione di classe.

Il discorso che si fa nella piattaforma dei metalmeccanici sulla professionalità, non è altro che il tentativo di creare (attraverso il controllo sociale e politico degli operai specializzati e dei tecnici, cioè le 5°, 5°s, 6° categorie dell’industria, i capi e capetti di linea) un blocco sociale interno alle fabbriche che porta avanti le linee della “ripresa” e si scontra con chi non è d’accordo. All’UNIDAL lo scontro è stato sostenuto dagli operai delle “celle frigorifere” tutti specializzati, super
 pagati e super - garantiri iscritti al PCI, sono loro che hanno permesso che l’accordo sulla “mobilità” passasse “menandosi” per otto ore con gli operai “esuberanti
”  [43].

Il sindacato di inizio anni ’80 si concentra sulla linea della “svolta dell’EUR” e comincia a frequentare le stanze di Palazzo Chigi non più per discutere di programmazione e riforme, bensì di compressione di costo del lavoro, mentre il padronato si concentra sulla sua sfida: far regredire sensibilmente le conquiste dei lavoratori che si sono susseguite fino alla metà degli anni ’70, con il rifiuto di attivare le procedure di rinnovo dei contratti e, preludio dell’avvento del neoliberismo, a partire dalla disdetta della scala mobile.

Il potere del capitale, in crescita, si scontra con il movimento operaio sul costo del lavoro, cioè proprio sul tema della redistribuzione del reddito che è da sempre a radicamento del potere contrattuale del movimento sindacale e questo, mai realmente unitario, si divide ulteriormente: “Ci siamo divisi prima su quale contributo dare alla lotta all’inflazione, poi su tre-quattro punti di scala mobile, lasciandoci condizionare da una politica con il fiato corto, anziché misurarci su una alternativa reale alla recessione, alle pratiche monetaristiche,[...] all’aumento incontrollato della spesa pubblica...” [44].

La ristrutturazione capitalistica è di fatto passata nelle fabbriche, senza che si determinassero elementi di opposizione, attraverso l’utilizzo della “politica dei sacrifici”che ha portato a non contrastare il decentramento produttivo sviluppando così di fatto l’espandersi del lavoro nero e sottopagato,l’uso massiccio dello straordinario, ecc. ecc. ... Si comincia così a sviluppare la cosiddetta “economia sommersa”, l’economia marginale, preparando il terreno alla precarizzazione del lavoro e del vivere sociale, classica della cosiddetta fase neoliberista-postfordista.

Dall’“operaio massa” siamo così passati all’“operaio sociale”, che non si è ancora pienamente manifestato, fino al “lavoratore immateriale”, in una società post-industriale che piace anche agli intellettuali operaisti, molti dei quali ora postmodernisti, postmarxisti e veri revisionisti, ai quali sembra confermata la vecchia idea della fabbrica che permea la società fino a scomparire nel mito della fine del lavoro. Ma queste sono solo le strambe idee di qualche intellettuale da tavolino. La realtà neoliberista che si affaccia prepotentemente già dagli anni ’80 trova una sinistra politica e i sindacati storici che, nella migliore delle ipotesi, non sono in grado di interpretarla, spesso sono consociativi e cogestori delle politiche antioperaie. Si terziarizza il sistema produttivo; la controffensiva padronale attacca violentemente il costo del lavoro, i diritti, le garanzie; muta la composizione di classe e la sua autonomia è attaccata e svenduta dalle organizzazioni storiche del movimento operaio. La sinistra storica politica sceglie il consociativismo contro il conflitto sociale, i sindacati confederali scelgono la politica dei redditi e la concertazione contro le conquiste e l’autonomia del movimento dei lavoratori; ma nasce e si sviluppa un nuovo e conflittuale sindacalismo di base. Ma di ciò discuteremo nella prossima puntata.


[1] F. Galimberti - L. Paolazzi, Il volo del calabrone, Ed. Le Monnier, Firenze, 1998, pag. 176.

[2] Oltre il 20%.

[3] La crescita dell’inflazione, a fasi alterne, si protrarrà fino alla metà degli anni ‘90, per riprendere, anche se a tassi ancora “sopportabili”!, in questi ultimi anni.

[4] Ricerche successive hanno messo in luce che la caduta degli investimenti industriali è iniziata un paio di anni prima del concretizzarsi dell’intervento governativo.

[5] R. Panieri, “Spontaneità e organizzazione” a cura di S.Merli, BFS Edizioni, Pisa 1994, pag.54

[6] S. Musso, “Storia del lavoro in Italia”, Marsilio Editori, Venezia 2002, pag. 229 e seg.

[7] A.Forbice, R. Chiaberge, “Il Sindacato dei Consigli - Autonomia Operaia..”, Bertani Editore, Verona 1975, pag.88

[8] Idem pag. 91. per approfondimenti vedi anche: G. Sartori, “il potere del lavoro nella società post-pacificata” in «Rivista Italiana di Scienza Politica» III 1973 e P.Del Turco, “una tipologia delle forme di lotta oggi in Italia” in «Quaderni di Rassegna Sindacale» VIII, 1970

[9] Per approfondimenti: S. Garavini, “Strutture dell’autonomia operaia sul luogo di lavoro” in «Quaderni di rassegna sindacale» VII 1969 e P.Perulli, “Note sui delegati” in «Contropiano» 1970 n°2.

[10] Dell’operaio massa si comincia a parlare nei primi anni ‘60.

[11] Per approfondimenti: AA.VV. “I CUB - Comitati Unitari di Base”, Coines, Roma 1971 e G.Pellicciari
 P.Bellasi “I CUB: autogestione delle lotte e sociologia della partecipazione” in «Studi di sociologia» 1970.

[12] Per approfondimenti: “IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate - Roma, Maggio 1988 pag.163

[13] “IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate - Roma, Maggio 1988 pag.164

[14] Nel 1961 esce il 1° numero di Quaderni Rossi caratterizzati per tutto il corso della loro esistenza dalla attenzione costante alla condizione operaia, allo scontro di fabbrica,per la conquista continua e graduale di potere operaio, poiché “nella grande fabbrica, quando nasce la coscienza di classe, l’operaio avverte con esattezza la potenza organizzativa e tecnica del capitalista, sa che è lì che si decidono le cose, impara che il potere di decisione del padrone sul suo lavoro è anche di decisione della sua vita e quella dei suoi compagni...”. V. Foa, “Lotte operaie nello sviluppo capitalistico”, in “Quaderni Rossi”, 1961, 1, pp.10-11.

[15] Per approfondimenti : www.xs4all.nl/cronologia.htlm www.cronologia.it www3.iperbole.bologna.it/asnsmp/index.htm

[16] E. Peggio, “Capitalismo Italiano Anni ‘70” Editori Riuniti - Febbraio ‘70, pag. 71 e seg. Eugenio Peggio nel 1966 è stato segretario del CESPE - il Centro Studi di Politica Economica del PCI.

[17] Risalgono a questo periodo la nascita dei CUB (Comitati Unitari di Base), dei Consigli di Zona e dei Consigli di Fabbrica. Quaderni Cestes, n.9, anno 2002.

[18] S. Manes, - “Questione sindacale ed esperienze extraconfederali negli anni ‘60” - oggi in Quaderni CESTES n.9 pag. 78

[19] G. CANNELLA (magistrato di Corte d’Appello) pubblicato su “D&L, Riv. crit. dir. lav.” 4/2001, p.873. L’articolo, che è pubblicato anche su Omissis (www.omissis.too.it), e sul numero monografico di marzo 2002 della rivista “Il Ponte” intitolato “Quale governo quale giustizia”, riproduce la relazione introduttiva per l’assemblea pubblica e dibattito dal titolo “No al lavoro senza diritti”, organizzata a Roma il 14/12/01 dal Forum Diritti-Giustizia (Social Forum Roma-Antigone, Cred, Giuristi democratici, Progetto diritti, Camera del lavoro e del non lavoro, Cobas, Rdb, Avvocati progressisti italiani, Magistratura democratica romana).

[20] Per approfondimenti: D. Francisconi - “Lavoratori e Organizzazione Sanitaria” - De Donato Editore - Bari 1978.

[21] Per ulteriori approfondimenti vedi: Kunth - “Appunti su una esperienza di nuovi rapporti tra classe operaia e tecnici” - Movimento Operaio /46 DeDonato editore - Gennaio 1978

[22] A esempio per il periodo 1960-1980: le calzature in pelle passano dal 2,7% al 3,9%, i gioielli passano da 0 a 2,2%, le ceramiche da 2,3% a 4,7%, etc...

[23] New Industrial Countries (NIC) sono variamente distribuiti sotto il profilo geografico: Europa meridionale (Grecia, Portogallo,...), America Latina (Brasile e Messico) e i più aggressivi sul piano mondiale in Estremo Oriente (Corea del Sud, Hong Kong, Singapore...)

[24] In un lavoro di Tassinari, in cui elabora lo sviluppo occupazionale tra gli anni ‘70-’80, si nomina tale modello.

[25] Per maggiori approfondimenti vedi G. De Lutiis, “Il lato oscuro del potere” Editori Riuniti, Roma, 1996

[26] Per approfondimenti: “Intervento al dibattito su Lotta Continua del 17 Settembre di un gruppo di compagni del Movimento Romano” a cura di P.Bernocchi, E.Compagnoni, R.Mordenti, M.Scalia ed altri, oggi su www.tmcrew.org/movime/mov77/rcfutur.htm

[27] Tratto da: “Lotte Operaie”, supplemento murale al Bollettino Sindacale dei Comunisti Internazionalisti (la Rivoluzione Comunista) aderenti alla CGIL n°28 del 23/9/1973.

[28] M. Turchetto, “Dall’Operaio Massa all’imprenditorialità comune: la sconcertante parabola dell’operaismo italiano” oggi su: www.intermarx.com/temi/oper1.html

[29] L. Lama, “Cari Compagni”, EDIESSE, Roma, 1986, pag. 56.

[30] A.Negri, “Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico”Feltrinelli, Milano 1976, pag. 9

[31] 25 gennaio 1971, a Milano, nello stabilimento della Pirelli, le Br incendiano 8 autotreni, acquisendo con questa azione notorietà nazionale. Le Br rivendicano l’attentato lasciando vicino agli autotreni incendiati un foglio di carta con la scritta “Della Torre-contratto-tagli della paga-Mac Mahon-Brigate Rosse”, facendo riferimento ad un operaio licenziato della Pirelli, alla lotta per il contratto in quella fabbrica ed alle occupazioni di case in via Mac Mahon. In questa prima fase di vita delle Br, fase che durerà fino al sequestro Sossi nel ‘74, le Br hanno una linea politica operaista-guerrigliera inserendosi direttamente nelle dinamiche del conflitto di classe. Per approfondimenti vedi: www.cronologia.it www3.iperbole.bologna.it/asnsmp/index.htm

[32] Per approfondimenti vedi: www.cronologia.it www3.iperbole.bologna.it/asnsmp/index.htm

[33] 16-MARZO 1978, con un blitz fulmineo, le brigate rosse uccidono tutti gli uomini della scorta, e rapiscono il Presidente Moro, uomo simbolo della D.C. e dello Stato.. Per approfondimenti vedi: www.cronologia.it www3.iperbole.bologna.it/asnsmp/index.htm

[34] “IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate
 Roma, Maggio 1988 pag.114

[35] “IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate - Roma, Maggio 1988 pag.118)

[36] P.Moroni, N.Balestrini “L’orda d’oro” SugarCo, 1988, oggi su: www.complessoperfoma.it/77WEB/77-33.HTM

[37] “Assemblea dei lavoratori di Radio Città Futura” 15/9/’77, Archivio CESTES-RDB.

[38] “IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate - Roma, Maggio 1988 pag.119.

[39] L. Lama, “Cari Compagni”, EDIESSE, Roma, 1986, pag. 121.

[40] Per approfondimenti: L. Lama, “Cari Compagni”, EDIESSE, Roma, 1986.

[41] Per approfondimenti vedi I. del Biondo - dalla crisi dello stato liberale all’avvento del fascismo”- ora in Quaderni CESTES n. 9 pag. 107. A. Pepe, “Il sindacato nell’Italia del ‘900,” Rubbettino Editore, Catanzaro, Dicembre 1996, pag. 236.

[42] GIOVANNI CANNELLA (magistrato di Corte d’Appello):pubblicato su “D&L, Riv. crit. dir. lav.” 4/2001, p.873.

[43] Per approfondimenti vedi “documento sul contratto del ‘79” del COMITATO OPERAI METALMECCANICI oggi in archivio RdB, CESTES - PROTEO

[44] L.Lama, “Cari Compagni”, EDIESSE, Roma, 1986, pag.122.