La crisi economica e il capitalismo italiano alla ricerca di una nuova identità

Federico Merola

1. Il “governo” delle aspettative come strumento di politica economica

Era l’ottobre del 1929 quando il neo eletto presidente degli Stati Uniti d’America, Herbert Clark Hoover (repubblicano come G.W.Bush), annunciò pubblicamente agli americani l’imminenza di uno dei periodi più prosperi della loro storia. Pochi giorni dopo, ebbe luogo quel crollo fatidico che mise in ginocchio l’economia e si diffuse a macchia d’olio in tutti i paesi industrializzati. Con una certa similitudine, nel 2001 il neo eletto Governo italiano ha annunciato all’Italia un immediato e forte rilancio dell’economia che, è stato fatto intendere, dipendeva unicamente dalle nostre forze e dalla capacità di formulare le giuste politiche economiche. In coerenza con il messaggio del nuovo governo, all’inizio del 2002 il Governatore della Banca d’Italia - un tempo figura tecnocrate ma ormai divenuto attore politico di primo piano - annunciò pubblicamente e ufficialmente agli italiani che il paese era “alla vigilia di un nuovo boom economico”. Non sappiamo su quali elementi (diversi da quelli politici) il nostro Governatore fondasse quella previsione. Sappiamo, però, che cos’è successo: abbiamo dovuto fronteggiare una delle crisi economiche più lunghe e difficili del dopoguerra. Una crisi a lungo negata o sminuita dal mondo politico e istituzionale, troppo spesso sedotto dall’idea che lo sviluppo economico si possa creare solo governando le aspettative, anziché il paese.

2. Si può negare una crisi?

Può sembrare strano che si possa negare l’esistenza di una crisi economica o non ci si metta d’accordo sulla sua natura, congiunturale o strutturale. La crisi dovrebbe in qualche modo essere un fatto oggettivo. O c’è o non c’è. Eppure non è sempre così facile ed evidente. Innanzitutto perché si ha a che fare con problemi complessi, come l’identità e l’evoluzione del tessuto produttivo di un moderno paese industriale. Peraltro multiforme e disomogeneo nel caso dell’Italia. Aggiungiamo a questo anche il fatto che la maggior parte dei dati macroeconomici di cui disponiamo derivano da informazioni solo parziali e campionarie. Insomma, il lavoro di analisi è complesso di per sé. A rendere le cose ancora più difficili, però, ci si mette spesso la politica. Quando un tema diventa centrale nel dibattito sulla “cosa pubblica”, finisce inevitabilmente per arenarsi nelle secche della retorica elettorale e della logica di potere, altrimenti detta “real politick”. Solo in questa particolare ottica diventa comprensibile il dibattito pubblico italiano degli ultimi anni, che in materia di “crisi economica” ha proposto un contraddittorio accademico e istituzionale tanto accanito quanto confuso e spesso incerto persino nell’ufficializzare formalmente agli italiani quelle difficoltà che le loro tasche quotidianamente gli suggerivano. Fino al momento in cui, finalmente, il contraddittorio sul “se” è definitivamente tramontato, mortificato non solo - e forse non tanto - dall’innegabile serie storica negativa inanellata dai dati macroeconomici nazionali o dalle crescenti difficoltà quotidiane di milioni di cittadini quanto, piuttosto, dal crollo dei simboli.

3. Il crollo dei simboli

La cronaca degli ultimi anni ha proposto all’attenzione di tutti noi episodi ai quali forse mai avremmo immaginato di assistere. Il crollo della Fiat, azienda simbolo del capitalismo italiano anche se negli anni ’90 ha ricevuto dallo Stato trasferimenti “pubblici” esattamente pari ai dividendi distribuiti ai propri azionisti “privati”. E che dire della Parmalat, esempio luminoso della laboriosità emiliana e del successo del capitalismo familiare, uno dei marchi nazionali più noti all’estero anche grazie alla costante presenza sulle magliette di tanti trionfi sportivi del paese. Non è stato da meno, sotto il profilo simbolico, neanche il fallimento del più giovane gruppo Cirio, soprattutto in ragione della sua appartenenza al settore agroindustriale - nel quale gran parte del paese ancora si identifica - e del suo radicamento sportivo nel campionato di calcio italiano, sul quale molti italiani misurano l’andamento reale del paese. Ma per molti versi il culmine simbolico lo si è raggiunto con la crisi dell’Alitalia, compagnia “di bandiera” - come si usa dire - classico esempio di orgoglio italico permanete affermativo e senza ambizione. Analogo, potremmo dire, a quello di ipertrofica affermazione dell’Io di un bambino nei confronti degli adulti dai quali dipende.

Casi come questi possono essere esaminati sotto diverse prospettive. Lo abbiamo sottolineato in un precedente articolo. C’è il capitalismo pubblico o familiare italiano, più incline a comandare che a governare le aziende. C’è la crescente dimensione globale dei gruppi, industriale e finanziaria, che favorisce la “distrazione” di fondi dal processo produttivo e la realizzazione di falsa contabilità. C’è la struttura collusiva e marcatamente domestica del nostro sistema economico e creditizio, che mantiene il paese confinato nel proprio provincialismo senza ambizione. C’è l’inafferrabile rete dei conflitti di interesse: tra banche e imprese, imprese e società di revisione, banche e piccoli risparmiatori e persino tra autorità di vigilanza. C’è la commistione più deteriore tra affari e politica. C’è una struttura di vigilanza “sacralizzata” nel tempo, e quindi rimasta indietro rispetto alle nuove sfide poste dai cambiamenti degli anni ’90. C’è un sistema di regole inadeguato, che non ha ancora fatto i conti con l’innovazione tecnologica e la globalizzazione dei mercati. Ma soprattutto c’è l’inefficienza di manager e azionisti che spesso hanno radicalmente sbagliato strategie di gestione e posizionamento.

In ogni caso, il crollo a catena di questi simboli ha probabilmente contribuito più di qualsiasi altra cosa alla presa di coscienza collettiva della profonda crisi economica che attraversa il paese. Non solo sul fronte della grande impresa ma anche e soprattutto in quella dimensione produttiva piccola e media meno presente sulla prima pagina dei giornali. Questo perché esiste una sorta di dipendenza psicologica inerziale dal paesaggio che ci circonda, bello o brutto che sia. Un moto dell’animo che produce negli uomini turbamento quando il sottofondo quotidiano si trasforma improvvisamente e radicalmente. Qualcosa di simile sembra verificarsi nei confronti dei riferimenti economici o istituzionali della nostra identità. Di fronte ad un impatto emotivo così forte, negare la crisi economica è diventato impossibile. Molto meglio puntare su qualcosa di diverso. Sulla sua identificazione con uno sfortunato fenomeno congiunturale (l’11 settembre, la guerra, il terrorismo, e chi più ne ha più ne metta) che, stringendo i denti, presto passerà.

4. Una crisi veramente congiunturale?

Che l’Italia stia vivendo una drammatica crisi congiunturale è fuori di dubbio. Tutti i dati, per quanto imprecisi e indicativi possano essere, lo confermano. Che la crisi dell’Italia si risolva in una crisi congiunturale, invece, è assai opinabile. Per capirne di più, cominciamo ad esaminare il prodotto interno lordo in termini reali (PIL con base 1995), cioè il principale indicatore della produzione di beni e servizi di un paese. Nel 2003 il PIL reale italiano è cresciuto appena dello 0,3%. In altre prole è rimato fermo, a fronte di una previsione iniziale del governo di crescita dell’1,8%. Nel corso dello stesso anno il PIL reale mondiale è aumentato del 2,7%; quello degli USA del 3%; quello cinese del 10% e quello europeo nel suo complesso dello 0,4%. Il sostanziale allineamento della crescita italiana a quella europea, tuttavia, ha l’aria di essere solo una accidentale coincidenza. Nel 2002, infatti, il PIL reale del nostro paese era cresciuto dello 0,4%, a fronte di quasi l’1% dell’Unione Europea. E le cose non sembrano destinate ad andare meglio nel 2004. Per l’anno in corso, infatti, le previsioni di crescita del PIL reale formulate dal FMI sono del 3,5% per gli USA, del 2% per l’Ue e dell’1,2% per l’Italia (previsione ora accolta anche dal Governo italiano che invece nella manovra di fine 2003 aveva indicato una crescita dell’1,9%). Dopo due anni di stagnazione, quindi, la crescita prevista per il PIL nazionale è pari alla metà di quella europea e ad un terzo di quella americana. Nel suo outlook di maggio, peraltro, l’OCSE ha ridimensionato ancora queste già modeste aspettative, attribuendo all’Italia una crescita del PIL reale dello 0,9% per l’anno in corso. Previsione in parte confermata dall’Istat, che a sua volta prevede una crescita del PIL reale italiano non superiore all’1,1% (contro il 2% della Ue, il 3% degli USA, il 9% della Cina, il 3,7% della GB, l’1,7% del Giappone e il 2% di Francia e Germania).

Secondo l’Istat, nel 2003 “il rallentamento dell’attività produttiva riguarda tutti i principali settori, ad eccezione delle costruzioni, cresciute ancora ad un ritmo significativo. Risulta in flessione il valore aggiunto del comparto agricolo, in forte caduta per il quarto anno consecutivo, e, in misura più contenuta, quello dell’industria in senso stretto. Il contributo alla crescita del settore dei servizi rimane positivo, segnando tuttavia un’ulteriore riduzione”. Un aspetto particolarmente sfavorevole della crisi del 2003 “è costituito dalla dinamica negativa del processo di accumulazione del capitale. Dopo essere aumentati dell’1,2% nel 2002, gli investimenti fissi lordi diminuiscono nel 2003 del 2,1% (il risultato peggiore dal 1993)”. (Rapporto annuale 2003 - Dati sintetici).

Il riflesso di queste tendenze sull’occupazione non ha mancato di farsi sentire. Sempre secondo i dati forniti dal principale istituto di statistica nazionale, in un solo anno, tra maggio 2003 e maggio 2004, le grandi imprese hanno perso circa 16.000 posti di lavoro. È vero che nel 2003 il numero di occupati in Italia è aumentato dell’1% (+225 mila), ma “l’incremento ha riguardato le fasce d’età più anziane a causa di fattori demografici e del progressivo innalzamento dei requisiti di età e di contribuzione per l’accesso alle pensioni di vecchiaia o di anzianità”. Nel complesso, il tasso di occupazione italiano (56% con riferimento alla popolazione tra 15 e 64 anni) rimane ampiamente al di sotto della media europea mentre il tasso di disoccupazione, sceso nel 2003 all’8,7% (era il 9,0% nel 2002), è rimasto per anni cronicamente introno al 9-10%, contro una media europea sempre ampiamente inferiore, anche se nell’ultimo biennio ha raggiunto questo stesso valore.

Le cose non sono andate meglio sul fronte dei prezzi dato che l’indice nazionale al consumo per l’intera collettività ha registrato nel 2003 un aumento del 2,7% (2,5% nel 2002), contro l’1,8% dell’area Ue (nel 2003 il differenziale d’inflazione con gli altri paesi europei è salito allo 0,9% contro lo 0,4% del 2002). L’effetto Euro, quindi, ampiamente additato come responsabile dell’inflazione, non spiega pienamente il differenziale accumulato rispetto agli altri paesi aderenti alla moneta europea. Per quanto riguarda l’anno in corso, il dato di luglio 2004 per l’Italia è di un aumento dei prezzi su base annua (luglio 2003 - luglio 2004) del 2,2%, contro il 2,3% della media europea (mentre l’obiettivo di inflazione programmato dal Governo è dell’1,6%). Questo valore, però, ha risentito di favorevoli elementi contingenti (nell’anno in corso si è avuto il più basso livello di consumi dal 1996) e rischia di essere presto smentito dall’andamento del prezzo del petrolio. Con un PIL reale stagnante, le contestuali pressioni inflazionistiche richiamano lo spettro della cosiddetta “stagflazione” (stagnazione + inflazione), con cui abbiamo già avuto tristemente a che fare negli anni ’70.

Al cospetto di questo andamento dei prezzi, la dinamica salariale ha segnato nel 2003 una moderata accelerazione nominale, nell’ambito della quale gli incrementi più elevati riguardano la pubblica amministrazione. In generale, tuttavia, dal 2001 ad oggi gran parte dei lavoratori italiani ha subito una forte riduzione del potere d’acquisto reale del proprio salario dovuta al sistematico ed ampio differenziale tra il tasso di inflazione programmata dal Governo (Tip), utilizzato per gli adeguamenti annuali delle retribuzioni, e il tasso effettivo d’inflazione.

Un altro elemento fondamentale per valutare lo stato di salute della congiuntura economica è la situazione dei conti pubblici. L’Italia ha di recente evitato l’avvertimento formale dell’Ue solo grazie ad una manovra d’emergenza di entità tale come non la si vedeva da almeno 7 anni, quando il paese aveva dovuto affrontare la sfida dell’euro. Quella che il governo presenterà in autunno è una manovra ponderosa sia per la sua entità (24 mld di Euro, ai quali occorre aggiungere le risorse necessarie a finanziare gli sgravi fiscali, pari al 1,2-1,4% del PIL) sia per la sua composizione (17 mld di Euro sono misure strutturali di taglio delle spese). Una manovra in assenza della quale, secondo l’OCSE, a fine 2004 l’Italia avrebbe registrato un rapporto deficit/PIL pari al 3,1%, contro il 2,9% previsto dal Governo (il tetto fissato dalla disciplina Ue è del 3%). E che secondo le stesse previsioni della ragioneria generale del Ministero dell’Economia sarebbe arrivato al 4,4% nel 2005, rimanendo sopra il 4% fino al 2008 (le previsioni si fermano lì). Sul fronte del rapporto debito / PIL le cose vanno meglio solo in apparenza, nonostante la riduzione dal 108% del 2002 al 106,2% del 2003. Infatti il debito pubblico italiano registra ancora il livello assoluto e relativo più elevato in ambito Ue (solo Grecia e Belgio superano col debito il 100% del PIL). Inoltre, il contenimento del debito rispetto al PIL ha avuto luogo ad una velocità notevolmente inferiore a quella degli anni ’90. Una ricostruzione storica consente di inquadrare meglio l’evoluzione di questo particolare indicatore. Il debito pubblico italiano nel 1982 era il 64% del PIL mentre 10 anni dopo, alla vigilia di tangentopoli, era passato al 111% circa, con il deficit annuale pari al 10% del prodotto interno (il massimo è stato toccato nel 1985 con il 12,3%). Nel corso degli anni ’90 il rapporto deficit/PIL è diminuito costantemente (con la sola parentesi, statisticamente rilevabile, del breve governo Berlusconi del 1994 - 1995) arrivando al 7% del 1997 e al 2,7% del 1998, in linea con il parametro di Maastricht per l’ingresso nell’Euro. Nel 1999, con il centrosinistra che girava la boa dell’ultimo anno di governo, il rapporto deficit / PIL era arrivato all’1,9% (con una riduzione di 7,5 punti percentuali in 5 anni, dovuto all’aumento dell’avanzo primario e alla riduzione della spesa per interessi). Per quanto riguarda il rapporto debito / PIL, nei 5 anni di governo del centro - sinistra (1996 - 2001) si è passati dal 125% al 110%, con una riduzione del 15% (3% l’anno di media). Dal 2001 ad oggi, invece, il contenimento realizzato è stato pari al 3%, che potrebbe diventare a fine 2004 il 4% (con una media dell’1% l’anno) se il Governo riuscisse ad effettuare 20 mld di Euro di privatizzazioni per dicembre. In uno scenario di riduzione della pressione fiscale “centrale” (quella locale è aumentata del 178% in dieci anni), il Governo ipotizza di portare il rapporto debito/PIL sotto il 100% in 4 anni, grazie però ad un piano di privatizzazioni di circa 100 mld di Euro [1].

Ma anche indicatori più complessi non annunciano nulla di buono. Secondo il superindice messo a punto dall’OCSE per misurare lo stato di salute e l’evoluzione delle economie dei paesi membri, la maglia nera della prima metà dell’anno 2004 spetta proprio all’Italia, in fase negativa da 8 mesi consecutivi, in controtendenza con la Ue e i vicini paesi di Francia e Germania.


Un quadro congiunturale più vicino alle imprese industriali lo si ricava dalla consueta indagine di Mediobanca relativa all’andamento delle prime 1.945 imprese italiane. Il 2003 risulta un anno di totale ristagno, con una crescita complessiva nominale del fatturato del 3% (poco più dell’inflazione) nonostante nel medesimo anno le grandi imprese abbiano pagato il 30% del reddito in tasse contro il 42% dell’anno precedente. Anche gli utili non sono andati benissimo per l’industria italiana, che ha segnato perdite complessive per 4 miliardi di euro, contro i 9 miliardi di utili del terziario e i 5 delle utilities (acqua, luce, gas, energia).

Infine le esportazioni, un dato rilevante per un’economia trainata dalla domanda estera come la nostra. Nel 2003 il commercio mondiale è cresciuto del 4,5% ma in Italia entrambi i flussi dell’interscambio commerciale con l’estero hanno registrato una variazione negativa. Il valore delle esportazioni ha subito una contrazione enorme, pari al 4% (era stato -1,4% nel 2002), mentre le importazioni si sono ridotte dell’1,6% (-1% nel 2002). Il calo delle esportazioni di merci è più accentuato sui mercati dell’Ue (-4,6%), per i quali non c’è problema di cambio, che su quelli extra-Ue (-3,4%). Il surplus della bilancia commerciale ha quindi subito un’ulteriore riduzione, a causa dell’ampliamento del disavanzo nei confronti dei paesi Ue e del ridimensionamento dell’attivo verso i paesi extra-Ue.

Questo è il quadro congiunturale che da ormai quasi tre anni viene negato, sminuito, interpretato, giustificato e, infine, riconosciuto ma come in rapido e sicuro superamento. Per capire di più, tuttavia, i dati congiunturali non bastano. Devono essere incrociati con almeno altri tre elementi fondamentali: 1) le dinamiche di lungo periodo; 2) la politica economica del governo in carica; 3) la politica economica degli ultimi dieci anni.

5. Licenziare i padroni: il declino industriale dell’Italia

Per salvare l’Alitalia sarà probabilmente necessario licenziare qualche decina di migliaia di lavoratori. Non farlo, viene chiaramente detto, è contrario alle “leggi dell’economia” e incoerente con la situazione generale dell’azienda, che rischia il fallimento (ovvero il “tutti a casa”) e la perdita di indipendenza. Oggi, probabilmente, tutto questo è vero. Perciò lo Stato italiano, azionista di controllo dell’azienda, ha approntato un prestito-ponte di 400 milioni di Euro che la Ue ha approvato a condizione che l’Alitalia venga privatizzata per almeno il 50% del capitale sociale. L’attuale presidente dell’Alitalia, Giancarlo Cimoli, ha detto che la situazione è grave e che presenterà dei documenti “non negoziabili” sul riassetto organizzativo del personale, con riduzione del costo del lavoro e l’introduzione di maggiore flessibilità. Sempre Cimoli ha chiarito che occorre “mettere in campo tutte quelle operazioni strutturali che sono state rimandate nei tempi passati”. In Italia, quando si parla di “operazioni strutturali”, raramente si fa riferimento all’aumento dei ricavi. Più spesso ci si riferisce a tagli e riduzioni di personale, da realizzare in condizioni di emergenza. Soluzioni che magari riportano i conti in ordine, ma molto raramente riescono anche a rafforzare la capacità competitiva dell’azienda. Il caso dell’Alitalia è, sotto questo profilo, eloquente. È vero, infatti, che dopo l’11 settembre 2001 tutte le compagnie aeree hanno dovuto fronteggiare una profonda crisi (tanto che in alcuni paesi, come quello della Svizzera, non esiste più la compagnia di bandiera). Ma l’Alitalia è uno splendido esempio, se comparata ai propri concorrenti, di come la battaglia sia stata persa sul fronte dei ricavi e della capacità di competere e creare sviluppo. Non su quello del costo del personale. Appena pochi mesi fa, del resto, l’ex amministratore delegato dell’azienda Francesco Mengozzi ha denunciato pubblicamene che il problema per il risanamento della compagnia non è stato tanto il sindacato quanto l’azionista!

Per molti versi quella dell’Alitalia è una storia che si ripete. Analoga a quella della Fiat, della Parmalat e, se vogliamo andare oltre i confini nazionali, della Enron. I lavoratori pagano gli errori di manager e azionisti che, spesso, si sono però speculativamente arricchiti con l’azienda. Nel caso dell’Italia, sembra qualcosa di più di un problema contingente. Appare, piuttosto, come l’ennesima evidenza di un declino che si trascina da tempo. Negli anni ’50 e ’60 il PIL reale pro-capite italiano è cresciuto al ritmo incredibile del 5% medio annuo. Il ritmo di crescita dell’economia italiana rallenta poi negli anni ’70 (+3,6% medio annuo di crescita del PIL reale nazionale) e ’80 (+2,2%). Dopo la crisi di tangentopoli, che ha visto nel 1993 il PIL reale addirittura ridursi dello 0,8%, la crescita degli anni ’90 (1994 - 2000) è stata del 2% circa, ma inferiore a quella dell’Ue che, a sua volta, ha perso colpi rispetto agli USA. Dal 2001 al 2004 l’aumento medio annuo del PIL nazionale è inferiore all’1% (+0,875%). Nel complesso, il PIL pro-capite, dato significativo quale indicatore di qualità della vita, vede l’Italia davanti solo a Spagna, Grecia e Portogallo nell’ambito dei 15 paesi originari dell’Ue. Ma il dato forse più importante che riguarda l’ultimo decennio, è che anche quando il PIL è cresciuto, l’occupazione ne ha beneficiato solo minimamente rispetto al passato.

Gli anni ’90, quindi, hanno posto ciascuno di noi di fronte all’innegabile evidenza di una crisi economica straordinariamente lunga e complessa. Questo, almeno, ci dicono i dati statistici esaminati in serie storica. Indubbiamente, cogliere gli elementi di una crisi strutturale è decisamente difficile. Dato che le economie sono in costante trasformazione, alcuni cambiamenti negativi dei quali ci rendiamo conto potrebbero essere controbilanciati da elementi positivi che sfuggono alla nostra osservazione, magari ancorata a parametri di valutazione e giudizio divenuti col tempo inadeguati a cogliere la nuova realtà. Del resto la storia insegna che un paese non può declinare velocemente. E, tuttavia, un paese come il nostro - che importa modelle e calciatori ed esporta scienziati - qualche domanda ha il dovere di porsela sulle proprie prospettive di medio-lungo periodo. Cominciando da un dato sempre poco richiamato per quanto evidente. Il declino della grande industria manifatturiera in Italia.

L’elenco delle prime 1000 società del mondo per valore di mercato pubblicato da Business Week all’inizio di agosto sui dati 2004, è abbastanza eloquente in proposito. La vetta della classifica è dominata da società industriali: General Electric, Microsoft, Exxon-Mobil e Pfizer. Tra le prime 50 società, ben 36 sono industriali. Il primo gruppo italiano in classifica è l’ENI, al 37° posto (nel 2003 era 50°). Una società ancora controllata dallo Stato che ha una posizione di monopolio naturale sul nostro territorio. Tra l’86° e il 105° posto seguono Enel (ancora controllata dallo Stato), Tim e Telecom Italia. Tutte società che erogano servizi in regime di quasi monopolio. Per trovare le prime imprese industriali italiane operanti in effettivo regime di concorrenza occorre arrivare al 750° posto con Edison, che potrebbe diventare presto francese, e Luxottica. La Fiat è all’841° posto mentre la Finmeccanica (pubblica) è all’850°. Immerse tra una serie di società che non appartengono ai primi paesi industrializzati del mondo (messicane, tailandesi, ecc.). Insomma, tra le prime 1000 società del mondo c’è un solo imprenditore privato italiano che non beneficia di rendite di posizione: Leonardo Del Vecchio (primo produttore di occhiali al mondo). Che però ha un fatturato 17 volte inferiore a quello della Fiat! Nel complesso, tra le prime 1000 società del mondo ne abbiamo 23, ma solo 9 sono industriali (le altre sono finanziarie, come le Generali, ed hanno in gran parte un’operatività ancora largamente nazionale). Meno del 50% dunque, a differenza di GB, Francia e Germania. Per di più, di queste 9 società industriali, 4 sono tra le prime 100 e le altre 5 in fondo alla classifica, dietro centinaia di società appartenenti a paesi meno sviluppati dell’Italia. Analogamente, se prendiamo la classifica delle prime 500 società del mondo ordinate per fatturato 2003 anziché per valore di mercato 2004, pubblicata dalla rivista americana Fortune, la musica non cambia di molto. Su 500 società, l’Italia - che resta la 7° economica del mondo - ne ha solo 8 di cui appena 4 industriali. Con le riserve espresse su Eni, Enel e Telecom Italia, l’unica società industriale che appare, dunque, è la Fiat, che meno di un anno fa era sull’orlo del fallimento. E questo elenco di società italiane è da circa 20 anni sempre lo stesso. La differenza appare evidente con gli anni ’50 e ’60, quando l’Italia era invece ben posizionata in tutti i principali settori industriali: macchine per ufficio e informatica (Olivetti che fino a metà degli anni ’80 contendeva a Compaq il primato della produzione di PC); automobili (Fiat); chimica e farmaceutica (Montedison); aeronautica civile (Finmeccanica); e così via. Anche se siamo sempre rimasti fuori da comparti importanti come l’elettronica di consumo e l’high tech, negli altri settori avevamo un ruolo importante. Si potrebbe argomentare che questo è l’effetto della terziarizzazione dell’economia, per cui è normale che all’industria si sostituiscano i servizi. Ma qui le statistiche possono essere fuorvianti perché la terziarizzazione dell’economia si è dimostrato un processo funzionale all’industria, che ha espulso funzioni e processi prima svolti internamente, anziché indipendente da essa. Per cui la crescita dei servizi non riesce a sostituire l’industria che, invece, può accompagnare [2]. Né si può onestamente dire che ai vecchi settori di sviluppo industriale l’Italia abbia saputo sostituirne dei nuovi. Al contempo, la dimensione media ridotta delle nostre imprese le rende vulnerabili, spesso poco competitive a livello internazionale e poco inclini all’investimento in ricerca, sviluppo e innovazione. Non è quindi un caso se nel 2001 l’Eurostat ha dovuto registrare l’Italia al 12° posto su 15 paesi per numero di domande di brevetto per milione di abitanti presentate all’European Patent Office (Epo). Sono state, precisamente, appena 74 contro le 366 della Svezia, le 337 della Finlandia, le 309 della Germania, le 242 dell’Olanda, le 211 della Danimarca, le 174 dell’Austria, le 151 del Belgio, le 145 della Francia e le 133 del Regno Unito. Per non aggravare ancora la situazione, tralasciamo volutamente le classifiche che misurano la dotazione infrastrutturale di ogni paese, che vedono l’Italia in declino da ormai 15 anni anche rispetto a molti paesi di nuova industrializzazione.

Come nota Luciano Gallino, “non è un’impresa da poco aver lasciato scomparire interi settori produttivi nei quali si è stati tra i primi nelle classifiche internazionali (...).Tale complessa operazione è stata condotta da imprenditori, top manager, uomini politici affiancati dai loro consiglieri economici”. Di fronte alla vastità di questi problemi, che invocano a gran voce il ripristino di un’azione lungimirante di politica industriale, il paese si trova invece immerso in uno scenario di politica economica alquanto distante dai temi di ampio respiro che abbiamo richiamato.

6. Il presente come storia: la “supply side economics”

Era il 1979 quando il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, Ronald Reagan, sotto l’ombrello culturale dei liberisti-monetaristi della scuola di Chicago, lanciava la cosiddetta “supply side economics” o economia dal lato dell’offerta. Il paradigma di questo nuovo credo ideologico era semplice. La crisi economica di fine anni ’70 non dipendeva, come quella del ’29, da una scarsità di domanda ma da una serie di strozzature che impedivano all’offerta di espandersi. Semplice l’analisi, semplice la ricetta. Detassazione (per favorire i consumi privati), deregolamentazione e liberismo a piene mani (per favorire l’offerta) e risanamento del bilancio pubblico (per limitare lo piazzamento dei mercati finanziari). Una ricetta che ricorda nella sua sostanza, e nelle sue contraddizioni, quella annunciata e seguita dall’attuale maggioranza di governo italiana. Sappiamo bene, oggi, come finì la “supply side economics” americana. La riduzione delle imposte produsse un sistema fiscale sostanzialmente regressivo, divaricando la distribuzione del reddito tra classi o ceti sociali. E poiché la propensione al consumo si riduce con l’aumentare del reddito, l’effetto positivo sui consumi privati non ha assunto una dimensione effettivamente percepibile per l’effettivo rilancio del paese. Per questo il Governo presieduto da Reagan produsse un deficit pubblico colossale che solo l’attuale governo americano, forse, riuscirà a superare. Non solo e non tanto per effetto della riduzione delle imposte. Quanto, piuttosto, perché sotto mentite spoglie mise in atto una delle più classiche e mastodontiche politiche keynesiane “dal lato della domanda” che si siano mai viste. Insomma, un rilancio della domanda interna a scapito del bilancio pubblico, con deficit e debito in crescita verticale. Quanto alla deregulation, anche se il termine è senza dubbio seducente e molto spesso evoca provvedimenti utili per l’economia, sappiamo com’è finita. L’estremismo con cui fu attuata negli anni ’80 ha reso necessario negli anni ’90 un processo di re-regulation la cui onda lunga è arrivata fino a noi, oggi, con le nuove leggi volte a limitare i conflitti di interesse emersi con lo scandalo Enron e a quelli legati all’attività delle banche. Insomma, la storia ha dato ragione a Tobin, premio Nobel per l’economia, il quale diceva dei monetaristi che volevano “sostituire alle vecchie teorie e politiche economiche [cfr quelle Keynesiane], nuove 50 anni fa, delle nuove teorie e politiche economiche, già vecchie 50 anni fa”.

Nonostante la lezione della storia, l’attuale governo di centro - destra sembra aver rispolverato per l’Italia una ricetta analoga a quella suggerita dalla “supply side economics”. Infatti ci è stato spiegato durante l’ultima campagna elettorale che una diminuzione delle tasse, un risanamento del bilancio pubblico [3], una deregolamentazione dell’economia e una devolution politico-amministrativa avrebbero rilanciato l’economia dal lato dell’offerta. Il rilancio dell’economia avrebbe finanziato la riduzione delle tasse e il risanamento del bilancio pubblico. E la riduzione delle tasse avrebbe anche favorito i consumi. Purtroppo, però, il nostro Governo, a differenza di quello americano degli anni ’80, non ha potuto fare ricorso alla spesa pubblica (come pure avrebbe voluto). E si è accorto strada facendo che la ripresa di un paese votato all’esportazione come l’Italia dipende molto da quello che succede nel resto del mondo. Così, ci è stato ampiamente spiegato perché non è stato possibile ridurre subito le tasse (il fantomatico “buco” lasciato dal centro-sinistra) e perché non è stato possibile farlo affatto (la guerra e la crisi economica internazionale). In questo scenario, il principale strumento di politica economica del Governo è stato ancora una volta quello delle aspettative (ovvero l’invito pubblico ai cittadini a consumare e alle imprese a investire). Abbiamo visto quanto un simile “provvedimento” possa essere di per sé efficace. Purtroppo va anche registrato che al contempo l’opposizione non è riuscita a spostare l’attenzione su temi di maggiore spessore e rilevanza ed in particolare uno su tutti: quale forma di capitalismo si può prefigurare per il nostro paese.


7. Capitalismo contro capitalismo

Dopo il crollo del muro di Berlino, nel 1989, mentre una parte del mondo celebrava la “fine della storia”, i rapidi cambiamenti che ne sono scaturiti hanno portato alla luce la nuova forza motrice del futuro: la competizione tra diverse formule e visioni del capitalismo. Sparita la seconda “via” di organizzazione sociale ed economica e, con essa, anche la ricerca di una “terza”, forse mai nata, il capitalismo è rimasto nello scenario mondiale l’unico modello di riferimento. Ma a quel punto ci si è accorti contemporaneamente di due cose importanti, prima celate alla coscienza collettiva dalla contrapposizione est-ovest. Innanzitutto che il capitalismo non è un modello unico ma, anzi, al proprio interno consente molte interpretazioni diverse che possono dare luogo a società profondamente differenziate. Ogni paese, quindi, può scegliere la propria formula ideale purché non risulti perdente nel confronto con gli altri. La seconda “scoperta” è stata che i paesi industrializzati occidentali, alleati militarmente, sono tra loro in un duplice e controverso rapporto di cooperazione - competizione, che li pone a seconda dei casi in linea o meno rispetto a paesi terzi nonché, al proprio interno, alleati e antagonisti di volta in volta, l’uno con l’altro.

Il dibattito su scelte di fondo così importanti è però rimasto decisamente secondario nell’angusto scenario politico italiano degli anni ’90, dominato dall’uscita (o la non uscita) da tangentopoli e la necessità di recuperare gli squilibri ereditati dal passato. Lasciando la sensazione che l’intera classe politica, da destra a sinistra, non abbia in realtà maturato né una propria visione delle cose né, di conseguenza, una convincente proposta di governo. Insomma, trainato dall’emergenza più che dalla strategia e gestito da tecnocrati, il paese è andato avanti a tentoni.

8. Privatizzazioni e concorrenza sullo sfondo dell’emergenza

Tra il 1993 e il 2003 lo Stato Italiano ha realizzato un piano di privatizzazione di circa 100 miliardi di Euro [4], concentrato soprattutto nel triennio 1997-1999 durante il quale si è posto in essere oltre la metà del programma. Si tratta di un valore pari a circa il 20% dell’attuale PIL nazionale che, peraltro, esclude le privatizzazioni avvenute a livello locale. Uno sforzo che non ha eguali negli altri paesi industrializzati, almeno in un periodo così ristretto di tempo. E non sembra ancora finita. Nonostante l’intensa privatizzazione dell’economia, infatti, nel 2003 il 70% degli utili dei 20 maggiori gruppi italiani è andato nelle casse pubbliche. Inoltre, l’attuale patrimonio dello Stato è stimato in circa 1.771 miliardi di Euro, di cui il 40% è stato dichiarato dall’attuale Governo “disponibile” per prossime privatizzazioni, da realizzarsi entro il 2008. Si tratta di circa 700 miliardi di Euro, pari ad oltre il 136% del PIL. Un programma sette volte superiore a quello già realizzato in dieci anni, che dovrebbe avere inizio con la prima tranche da 100 miliardi di Euro nel biennio 2004-2005 (in un po’ più di un anno, cioè, si vuole fare quanto si è fatto in precedenza nel corso di dieci anni). Difficile dire, in queste condizioni, chi sarà al vertice del sistema industriale italiano alla fine del primo decennio del XXI secolo. E come ci sarà arrivato. Di sicuro questo ulteriore programma di privatizzazione sarà importantissimo nel delineare il futuro profilo del nostro sistema economico. La lezione del decennio appena trascorso è in questo senso per molti versi amara. L’Italia, infatti, è sembrata avviarsi verso un capitalismo che potremmo sinteticamente definire “delle pari opportunità e della concorrenza”, nel quale il soggetto pubblico mantiene le funzioni di programmare e regolare ma perde ogni diretto coinvolgimento nella gestione di aziende. E nel quale diventa illegittima ogni posizione monopolistica, oligopolistica e dominante. Non sembra, tuttavia, che in concreto questo modello - appena abbozzato e mai spiegato pienamente agli italiani - sia stato effettivamente perseguito fino in fondo nel corso degli anni ’90, se non nell’istituzione di autorità (antitrust, autorità di controllo per le Telecomunicazioni, per l’energia, ecc.) che ogni giorno trovano maggiori difficoltà ad esercitare le loro prerogative istituzionali. In realtà è mancata un’effettiva visione politica di indirizzo del paese. Certamente, l’entrata nell’Europa monetaria è stato un obiettivo necessario, voluto e perseguito con determinazione e chiarezza dai governi di centro-sinistra. Ma la scelta di un modello di capitalismo è stata rinviata, come anche quella del rilancio di un’effettiva politica industriale. Le privatizzazioni sono state gestite in gran parte con una logica di cassa, che solo di rado, e marginalmente, ha effettivamente comportato la liberalizzazione di un settore economico. Più spesso si è semplicemente sostituito un monopolista pubblico con uno privato e una rendita monopolistica (o oligopolistica) pubblica con quella privata. Fino al paradosso estremo, che qualcosa vorrà pur dire, di un paese governato da un imprenditore monopolista, in un contesto in cui, oggettivamente, non si può imputare al capo del Governo di essere una mosca bianca. Il che, però, ha creato nuove tensioni nel corpo sociale italiano, derivanti dal tradimento di quell’implicito patto sociale sottoscritto con i cittadini e i lavoratori all’inizio degli anni ’90.

9. Il patto sociale tradito e il riformismo aprioristico

Dopo tangentopoli, è stato sottoscritto in Italia un patto sociale implicito tra Governo e corpo sociale. Semplicisticamente, i lavoratori hanno accettato aumenti salariali pari all’inflazione programmata dal governo, anziché pari a quella effettiva, in cambio - attraverso la liberalizzazione dell’attività economica - della prospettiva di un maggiore sviluppo e di una diminuzione dei prezzi nonché, per questa via, di un aumento del loro salario reale. Purtroppo, le privatizzazioni senza liberalizzazioni hanno comportato un ampio e generalizzato aumento reale dei prezzi e delle tariffe, soprattutto nel comparto dei servizi e dell’energia. I recuperi di efficienza sperati stentano a manifestarsi e il tenore medio di vita sembra essersi, nel complesso, ridotto. L’inflazione da Euro e da “caro-petrolio”, in questo contesto, è solo il cappello congiunturale di un fenomeno endemico. Uno scenario di questo tipo ha poi fatto da sfondo ad un certo riformismo aprioristico, che giudica positivi alcuni provvedimenti anche a prescindere dal contesto più ampio di politica economica e dei redditi nel quale vengono proposti e realizzati. Con il rischio di provocare una reazione, a sua volta aprioristica, di netto e radicale rifiuto di riforme che in qualche caso potrebbero anche essere utili o necessarie. Così è stato, ad esempio, con la riforma delle pensioni (improponibile nell’ambito dell’attuale politica dei redditi e senza che abbia ancora trovato sviluppo il secondo pilastro dei fondi pensione) oppure con l’aumento della “flessibilità” del lavoro (contrabbandata come urgente in un paese che già conosceva ben 30 diverse tipologie di contratto). Ma in un contesto del genere il riformismo forse più pericoloso è certamente quello istituzionale, che riguarda cioè le stesse regole costituzionali della nostra democrazia.

10. La proiezione istituzionale dell’economia: democrazia senza libertà?

Tra le conquiste del pensiero filosofico ormai comunemente accettate c’è l’idea che le strutture di governo di un paese riflettano in modo particolare la struttura dei rapporti di produzione. Il che significa, per dirla in parole semplici, che la democrazia è solo la proiezione istituzionale e politica del capitalismo liberale (non liberista) fondato sulla libertà di iniziativa, le pari opportunità e il divieto di costituire monopoli, oligopoli o posizioni dominanti [5]

. Il capitalismo, insomma, non basta di per sé a preservare la democrazia. Quello che serve è un “certo” tipo di capitalismo, aperto e concorrenziale, capace di valorizzare la dialettica tra le forze sociali nonché contrario alla logica del trust e della concentrazione di potere economico. In questa particolare ottica, la concentrazione di potere economico non solo distrugge valore “sociale” per la sua relativa inefficienza economica, ma è negativa anche in quanto produce una concentrazione di potere politico che rischia di far saltare la democrazia e la qualità della vita che essa comporta. L’allarme sull’argomento è stato recentemente lanciato in molte circostanze e da voci autorevoli, non necessariamente con riferimento all’Italia. Perché gli anni più recenti sono stati in molti paesi, Stati Uniti inclusi, abbastanza favorevoli alla rendita monopolistica privata. Un costituzionalista americano, Fareed Zakaria, ha proposto le sue perplessità sull’attuale sistema americano in un testo dal titolo (e dal contenuto) altamente significativo: “democrazia senza liberta”. Nel nostro piccolo, anche noi italiani stiamo sperimentando un calo vistoso della dialettica democratica, il cui culmine è rappresentato dalla concentrazione della possibilità di espressione mediatica. Con la prospettiva, peraltro, di assistere presto ad una formale ratifica della riduzione di democrazia attraverso l’approvazione di una riforma costituzionale da parte delle sole forze del Governo in carica. Come dire, che le regole del gioco vengono scritte solo da una parte dei giocatori e non da tutti, come la logica vorrebbe. Con il rischio che ogni maggioranza di governo si metta a cambiare le regole del gioco, provocando una instabilità istituzionale inefficiente e pericolosa. Il contesto generale, anche europeo, potrebbe indubbiamente venire in nostro soccorso ancora una volta. Ma salvaguardare i nostri interessi, la nostra qualità di vita, le nostre ambizioni dipende soprattutto da noi. E in modo particolare dalla nostra capacità di comprendere che nessuna legge elettorale o struttura costituzionale, per quanto abile possa essere il costituzionalista che la propone, può risultare realmente efficace nel preservare il gioco democratico, in assenza del necessario propellente fornito da rapporti economici adeguatamente dialettici. Non c’è democrazia politica, insomma, in assenza di un’effettiva democrazia economica.

Bibliografia

Albert Michel, “Capitalismo contro capitalismo”, Edizioni Il Mulino (1993)

Gallino Luciano, “La scomparsa dell’Italia industriale”, Giulio Einaudi Editore (2003)

Gallino Luciano, “Se tre milioni vi sembran pochi”, Giulio Einaudi Editore (1998)

Martufi Rita - Vasapollo Luciano, “Vizi privati ... senza pubbliche virtù”, Edizioni Media Print (2003)

Mucchetti Massimo, “Licenziare i padroni????”, Editore Feltrinelli (2004)

Nardozzi Giangiacomo, “Miracolo e declino: l’Italia tra concorrenza e protezione”, Editori Laterza (2004)

Turow Lester, “Testa a testa”, Arnoldo Mondatori Editore (1993)

Zakaria Fareed, “Democrazia senza libertà”, Rizzoli Editore (2003)

 


[1] Anche l’avanzo primario dello Stato (surplus tra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi) ha subito negli ultimi anni un duro colpo, passando dal 5% del 2000 a meno del 2,5% del PIL.

[2] In un recente documento sulla “Politica industriale in un’Europa allargata” persino la Commissione della Comunità Europea denuncia la “diffusa ma erronea convinzione che nell’economia basata sulla conoscenza e nella società dell’informazione e dei servizi, l’industria manifatturiera non svolga più un ruolo essenziale”.

[3] L’ex Ministro dell’Economia Tremonti affermò che se non fosse riuscito a pareggiare i conti dello Stato entro il 1° gennaio 2004 si sarebbe dimesso.

[4] Al dato 2003, indicato dalla Banca d’Italia, si dovrebbero aggiungere altri 16 miliardi di Euro relativi alle cessioni di quote di ENLE, ENI, Poste e Cassa Depositi e Presiti realizzate nel 2004.

[5] E in quanto tale non può essere esportata con la forza e innestata in sistemi economici e sociali di qualsiasi tipo.