“Se la Gran Bretagna abbandonasse il sistema coloniale si libererebbe dalle spese d’amministrazione e potrebbe fare dei trattati commerciali con le ex colonie (...). Questo gesto ci favorirebbe molto nella guerra come nel commercio, di modo che le colonie smetterebbero di essere dei sudditi turbolenti e si trasformerebbero nei nostri alleati più fedeli, affezionati e grati...”
Adam Smith, La ricchezza delle Nazioni. Ricerca sulla sua Natura e sulle sue Cause, 1776.
Per un’economia politica internazionale, preoccupata per le strutture storiche di lunga scadenza, il mondo vive ancora la circostanza inaugurata dalla crisi monetaria e geopolitica del potere americano, durante il decennio del ’70. Non c’è dubbio che ci fu un taglio netto negli anni ’90, con la fine dell’Unione Sovietica e la vittoria nord-americana nella Guerra Fredda, con l’accelerazione del processo di globalizzazione finanziaria e con la crescita quasi esclusiva dell’economia nord-americana. Fu il periodo nel quale il mondo liberale commemorò la sua vittoria politica e economica, e qualcuno addirittura pensò che fosse arrivata l’ora della “pace universale”. Dopo, all’inizio del nuovo secolo, svanì la “bolla finanziaria”, l’economia americana perse energia e il potere e la guerra tornarono al centro del sistema mondiale. Ed ora, nel 2004, il mondo e anglo-sassoni sono perplessi di fronte alla stagnazione di quasi tutta l’economia mondiale e di fronte all’impotenza e all’impreparazione dimostrata dagli Stati Uniti, rispetto alle sue nuove responsabilità imperiali, in Afghanistan e nell’Iraq.
I primi segnali della crisi economica già venivano dalla fine degli anni ’90, ed il cambiamento della politica estera americana già si cominciò ad annunciare con l’entrata in carica del presidente Bush, nel gennaio del 2001. Ma non ci sono dubbi che gli attentati dell’11 settembre, e le due guerre posteriori accelerarono i fatti, provocando una rottura tale che oggi, “l’era Clinton” già sembra un passato remoto, una vera epoca di illusionismo collettivo, cullato dall’utopia della globalizzazione e della pace universale dei mercati. Forse per questo, Condolezza Rice ha affermato, dopo gli attentati di New York e di Washington, che il mondo stava vivendo un “momento di trasformazione”, uguale a quello che ci fu tra il 1945 e il 1947, quando furono negoziate e stabilite le basi economiche e politiche dell’ordine mondiale posteriore alla II Guerra. Ma se questo fosse vero, chi sta partecipando a questa negoziazione e quale sarà la nuova geometria mondiale del potere e della ricchezza?
Una buona pista può essere trovata in un episodio recente: la Guerra in Iraq, che si è trasformata - fin dalla divisione degli antichi alleati, nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU - in una specie di sintesi di tutte le incognite della circostanza mondiale.
A prima vista, non si allontana da una qualsiasi guerra coloniale, del tipo classico, come tante del secolo XIX, riguardando due grandi potenze e uno stato situato fuori dal nucleo centrale del sistema.
Ma quando si guarda con un po’ più di attenzione, ciò che sorprende è che questa guerra si è trasformata in un vero conflitto “mondiale”, una specie di “guerra egemonica”, coinvolgendo tutte le Grandi Potenze. La cosa più probabile è che l’America stia svolgendo, di fatto, un ruolo che trascende le sue proprie dimensioni locali, al riproporre sul tavolo, un’agenda di negoziazioni tra le Grandi Potenze cosa che doveva essere già accaduto, alla fine della Guerra Fredda, o alla fine della Guerra nel Golfo. In questo senso, nonostante il paradosso, si può dire che questa nuova guerra è parte di un “Accordo di Pace”, che non è mai esistito, nel quale si sarebbero definiti i nuovi spazi e territori da essere occupati da ognuno dei vincitori. Visto che l’accordo di pace non ci fu, i regolamenti dei conti si fecero molto lentamente a partire dall’inizio degli anni ’90.
Non è difficile capire, per esempio, la logica secondo la quale si sono occupati i territori dell’Europa dell’Est, dalla vittoria del 1991 e come è accaduto questo processo continuo di occupazione che culminato con la presa di Bagdad. Il movimento seguì una linea abbastanza chiara: cominciò dal Baltico, attraversò in pace, l’Europa Centrale, l’Ucraina e la Bielorussia, si trasformò in guerra nei Balcani, e dopo aver confermato l’alleanza con la Turchia, arrivò fino all’Asia Centrale e al Pachistan, con la guerra in Afghanistan, e fino a Bagdad e alla Palestina, con l’ultima guerra in Iraq.
Pertanto, con l’eccezione della Siria e dell’Iran, gli Stati Uniti regnano oggi, sovrani, in quasi tutto il “Rimland”, l’area geografica più importante del mondo, per l’esercizio del potere globale, secondo Nicholas Spykman, il grande geopolitico nord-americano della prima metà del secolo XX.
Dopo la guerra, non è difficile vedere su una mappa delle basi militari nord-americane, in tutto il mondo, gli Stati Uniti hanno già costruito una “cintura di sicurezza”, separando la Germania dalla Russia, e la Russia dalla Cina.
È chiaro, pertanto, che se non accade nessuna grande novità, i suoi nuovi concorrenti strategici, a parte la Cina, continueranno ad essere gli stessi dell’Inghilterra, dal Congresso di Vienna, e soprattutto dopo la nascita della Germania, nel 1871. Da questo punto di vista, il messaggio più importante di questa ultima guerra è stato diretto al club delle Grandi Potenze, dove si trovano tutti gli antichi alleati americani, della Guerra Fredda e della Guerra del Golfo. Sono loro i maggiori produttori di armi di distruzione di massa e i principali destinatari della nuova disciplina Bush, che prevede e difende con attacchi preventivi.
In realtà, gli Stati Uniti già hanno fatto uso di questo “diritto” in innumerevoli occasioni, durante i secoli XIX e XX, ma quasi sempre contro paesi piccoli o periferici, o sotto gli auspici della Guerra Fredda. La novità non sta in questo punto, sta nell’annuncio chiaro ed inequivoco che l’obbiettivo ultimo della nuova dottrina è impedire la comparsa, in qualsiasi luogo, e per un tempo indefinito, di qualsiasi altra nazione o alleanza di nazioni che entri in rivalità con gli Stati Uniti. Una strategia di “contesa”, come quella suggerita da George Kennan e adottata dagli Stati Uniti, nei confronti dell’Unione Sovietica, dopo il 1947, solo che adesso si mira ad un potere globale coadiuvato da una cosiddetta prevenzione permanente e universale. Anche nei confronti dei suoi antichi alleati, inclusi i due maggiori “protettori militari”, decisivi per il successo economico mondiale del dopo-II Guerra Mondiale: la Germania e il Giappone. Da questo punto di vista, ciò che stiamo vedendo è soltanto l’inizio di una nuova fase d’intensificazione della competizione e dei conflitti nel club delle Grandi Potenze.
Per questo, è corretto prevedere che gli Stati Uniti affronteranno difficoltà maggiori sempre nel mantenere la loro presenza nelle varie mappe geopolitiche del mondo, e nell’amministrare le relazioni con la maggior parte delle Grandi Potenze. Non è possibile che questi problemi siano l’inizio di una crisi terminale della supremazia americana.
La cosa più probabile è che le Grandi Potenze stiano vivendo una situazione che ricorda l’inizio del secolo XX, quando Kautsky e Lenin discussero del futuro dell’ordine politico ed economico mondiale.
Uno, credendo nella possibilità di una coordinazione “ultra-imperialista” tra gli Stati ed i capitali delle Grandi Potenze, l’altro, credendo nell’inevitabilità delle guerre. In questo momento, per esempio, è possibile identificare segnali chiari di “ultra-imperialismo”, nella strategia adottata in comune dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, nella riunione della OMS a Cancun, di fronte alle rivendicazioni dei paesi in via di sviluppo; come anche è possibile identificare segnali “leninisti”, nelle divergenze tra le Grandi Potenze, nel caso della guerra come in tutte le discussioni posteriori sulla ricostruzione dell’Iraq.
Infine, la conduzione della guerra e la mancanza di un progetto chiaro di occupazione del territorio iracheno, indicano un altro problema centrale nell’agenda delle divergenze tra le Grandi Potenze, su che cosa fare con il “resto del mondo”.
Negli anni ’90, la rapida crescita economica americana e l’aumento del flusso internazionale di capitali, fecero rinascere la fiducia in una convergenza di interessi tra i paesi sviluppati ed il resto del mondo, anche se non era stato pattuito un “nuovo ordine economico internazionale”. Dopo il 2000, la stagnazione mondiale, il ritorno della guerra e della politica di potere al centro del sistema internazionale, insieme alla bassa crescita dei “mercati emergenti”, ricollocarono nell’agenda delle Grandi Potenze una questione in sospeso dalla fine della Guerra Fredda: che fare in questo nuovo millennio delle ex-colonie e degli Stati che esse “inventati” in America, in Medio Oriente, in Asia ed in Africa? Come mantenere “l’ordine”, ed amministrare le loro crisi economiche? Come dividere i costi di questa amministrazione?
Oggi esistono nel mondo centonovantatre stati nazionali, centoventicinque dei quali ex colonie diventate indipendenti in due momenti della storia moderna: il primo, all’inizio del secolo XIX, quando si separarono dall’Europa quasi tutti gli attuali Stati americani; e il secondo, dopo la II Guerra Mondiale, quando nacque la maggior parte degli Stati africani e asiatici.
Al formarsi in America dei primi stati nazionali indipendenti, nati fuori dall’Europa, già era molto tempo che le elite intellettuali e politiche europee discutevano sulla necessità e sul futuro delle loro colonie.
In grandi linee, è possibile identificare due posizioni fondamentali, in questo dibattito economico e strategico. Da un lato, Adam Smith e quasi tutta l’economia politica classica, convinti che il potere economico dell’Inghilterra, alla fine del secolo XVIII, già dispensava l’uso di monopoli coloniali e di conquiste territoriali, sempre più ad alto prezzo e poco lucrative. Sostenevano la tesi che la superiorità economica inglese - accentuata dalla Rivoluzione Industriale - era sufficiente per indurre la specializzazione “primaria - esportatrice” delle economie che diventassero indipendenti e si trasformassero in “periferia” politico - economica degli stati più ricchi e forti. In una posizione opposta, si trovavano tutti i politici e intellettuali conservatori che - nella seconda metà del secolo XIX - appoggiarono le idee colonialiste di Benjamim Disraeli e di Cecil Rhodes, il primo a sostenere che il cammino della pace universale passava necessariamente dalla sottomissione del “resto del mondo” alle leggi anglo-sassoni.
Se la posizione di Adam Smith predominò nella prima metà del secolo XIX, le posizioni di Disraeli e di Cecil Rhodes si imposero a partire dal 1870. Ma è importante comprendere, che questa non fu una vittoria intellettuale, o politica; fu molte volte il risultato dell’applicazione della propria ricetta di Adam Smith. È esemplare, in questo senso, la storia della conquista e colonizzazione di quasi tutti i territori appartenuti all’antico Imperio Ottomano. In quasi tutti i casi, questa storia cominciava dalla firma (molte volte imposta con la forza) di Trattati Commerciali che obbligavano i paesi firmatari a eliminare le loro barriere commerciali, permettendo il libero accesso delle merci e dei capitali europei. Questi trattati furono stabiliti con paesi di quasi tutto il mondo, che finirono con lo specializzarsi nell’esportazione delle materie prime necessarie all’industrializzazione europea. Con l’apertura delle loro economie, quasi tutti i governi dovettero indebitarsi con le banche private Inglesi e francesi, per coprire le risorse perse con lo smantellamento delle tasse di frontiera. Per questo, nei momenti dei tagli ciclici delle economie europee, questi paesi periferici affrontavano, invariabilmente, problemi di bilancio di pagamenti, essendo obbligati a rinegoziare i loro debiti esterni o a dichiarare moratorie nazionali. Nel caso dell’America Latina, i debiti e le moratorie furono organizzate attraverso rinegoziazioni con i creditori e il trasferimento di questi costi alle popolazioni nazionali. Nel resto del mondo, la storia fu diversa: la copertura dei debiti finì col giustificare l’invasione e dominazione politica di molte di queste nuove colonie, create nel secolo XIX.
Durante il secolo XX, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica ebbero una grande importanza nell’indipendenza di queste colonie, situate soprattutto nei continenti afro-asiatici. Già alla fine della Prima Guerra Mondiale, Wilson e Lenin difesero il diritto all’auto-determinazione dei popoli, e a partire da allora USA e URSS assunsero la leader-ship nella difesa del diritto allo sviluppo economico nazionale. Nel decennio seguente, il socialismo - visto come una strategia d’industrializzazione - e lo sviluppo si trasformarono in utopia o speranza di questi popoli e in strade alternative per la realizzazione di uno stesso obiettivo: lo sviluppo economico, la mobilità sociale e la diminuzione delle asimmetrie di ricchezza e di potere nel sistema mondiale.
Alla fine degli anni ’70, intanto, lo sviluppo già aveva perso forza nella maggior parte dei paesi periferici, così come il socialismo, che presto perdette la sua forza attrattiva come strategia di riduzione del ritardo economico. In questo momento, l’establishment della politica estera nord-americana cominciò a rivedere la sua politica internazionale e il suo appoggio finanziario ai progetti di sviluppo nazionali. Una risposta che fu quasi immediata alla “crisi dell’egemonia americana” e alla crisi economica mondiale degli anni settanta. Ma fu anche un’alternativa davanti alla sfida lanciata nel 1973 dal successo della strategia della OPEP in relazione al controllo dei prezzi internazionali del petrolio, e alla comparsa del Gruppo dei 77 e della loro proposta di riforma radicale e creazione di un nuovo ordine economico internazionale, approvato nel 1974 dalla Sesta Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Inizialmente, la tendenza della nuova politica americana era di dare appoggio selettivo a pochi progetti nazionali di sviluppo. Ma in seguito, negli anni ottanta, dopo la crisi dominante degli indebitamenti esteri e delle moratorie polacca e messicana, la nuova strategia per la periferia del sistema assunse una forma più precisa, in sintonia con le idee base della grande “restaurazione liberal-conservatrice” dell’era Reagan /Thatcher. In America Latina, negli anni ’70, il nuovo modello di politica economica fu sperimentato in Cile da Pinochet. Tuttavia, è stato nella seconda metà degli anni ottanta che si generalizzò per tutto il continente, nel contesto della rinegoziazione dei debiti esteri della regione. Per tutti i paesi indebitati la negoziazione è stata una sola: in cambio di migliori condizioni nel pagamento dei debiti, si esigevano mercati regolarizzati, economie aperte, stati non intervenzionisti e abbandono radicale di qualsiasi tipo di progetto di sviluppo nazionale. In un primo momento, sembrava si trattasse di un semplice cambio congiunturale di una politica di crescita per una politica di stabilizzazione di tipo ortodosso. Negli anni novanta, tuttavia, si costatò che la politica di stabilizzazione si andava trasformando in un punto chiave dell’utopia globale, offerta ai paesi periferici del sistema mondiale. A partire d’allora, come nel secolo XIX, la promessa di sviluppo e la speranza di mobilità nella gerarchia di potere e ricchezza internazionale passavano dall’accettazione delle regole libero-cambiste e della politica economica ortodossa proposta o imposta dalle grandi potenze, come al tempo della Regina Vittoria.
Nel 1996, l’assessore internazionale di Tony Blair, Richard Cooper, pubblicò un piccolo libro, the Post-Modern State and World Order [1] dove spiegava con chiarezza le direttrici strategiche di questo nuovo progetto anglo-sassone per il “resto del mondo”. Cooper parte dal riconoscimento dell’esistenza di una relazione diretta e necessaria tra il processo della globalizzazione finanziaria, le politiche economiche liberali del decennio del ’90, ed il progetto di costruzione di “un nuovo tipo di imperialismo accettabile dal mondo dei diritti umani e dai valori cosmopolita”. Le Grandi Potenze “sono diventate oneste e non vogliono più lottare tra loro”, tuttavia, continuano ad essere obbligate ad “esportare stabilità e libertà agli altri paesi”.
Da queste relazioni gerarchiche nescerebbero le tre forme attuali di imperialismo esistenti nel mondo. Un “imperialismo cooperativo”, che regolerebbe le relazioni tra il mondo anglo-sassone ed il resto dei paesi sviluppati; un “imperialismo basato sulla legge della foresta”, proprio delle relazioni tra questo gruppo di paesi che “sono diventati onesti” e gli “stati pre-moderni” o “fracassati”, incapaci di assicurare i loro territori nazionali; ed in fine, “l’imperialismo volontario dell’economia globale, gestita da un consorzio internazionale di istituzioni finanziarie come il FMI e la Banca Mondiale”, proprio per i paesi che adottano “la nuova teologia dell’aiuto, che enfatizza la governabilità e difende l’appoggio agli stati che si aprano ed accettino pacificamente l’interferenza delle organizzazioni internazionali e degli stati stranieri”. In sintesi, un progetto di “ultra-imperialismo” tra le Grandi Potenze, la “legge della giungla” per gli stati “pre-moderni” e l’imperialismo del “libero commercio” per i paesi che Adam Smith chiamò i “nostri alleati più fedeli, affezionati e grati”.-----
L’era Bush non ha abbandonato questo progetto di un nuovo imperialismo “accettabile dal mondo dei diritti umani”. Al contrario, nell’attaccare l’Afghanistan e l’ Iraq, inglesi e nord-americani hanno dimostrato che sono disposti ad applicare la “legge della giungla” con gli stati “pre-moderni” o fracassati. Ed in tutti gli sforzi internazionali o multilaterali, hanno insistito, con forza crescente, nella difesa del libero commercio e della deregolamentazione e apertura delle economie nazionali dei paesi in via di sviluppo, enfatizzando la necessità che i loro stati si aprano ed accettino la tutela degli organismi internazionali. E stato così, negli accordi con l’FMI, come nella maggior parte delle negoziazioni multilaterali sul tema del commercio e degli investimenti stranieri, come si è visto nel Giro di Ruota Doha di Negoziazioni dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, e più recentemente, nella sua Riunione di Cancun, realizzata a settembre del 2003.
Il problema, in relazione al “mondo della giungla”, è che gli Stati Uniti non sanno che fare con i paesi bombardati e occupati... In campo politico-militare, aumentano di giorno in giorno le difficoltà americane in Afghanistan, dove non esiste praticamente governo centrale fuori da Kabul, e in Iraq, dove le truppe americane sono attaccate e il governo degli Stati Uniti sembra perplesso, senza poter rifiutare né sapere dove avanzare, resistendo al cammino di una politica coloniale esplicita.
Vorrebbero ripetere in Iraq la stessa strategia adottata dopo la II Guerra Mondiale, in Germania e in Giappone. E qualcuno già è arrivato a sognare un rifacimento dell’Unione Europea. Ma in pratica, si trovano ogni volta più compromessi in un progetto coloniale poco nitido e che non conta sull’appoggio della maggior parte delle potenze.
D’altra parte, nel mondo “dell’imperialismo volontario dell’economia globale”, i numeri e gli indicatori economici non lasciano nessun dubbio: la promessa della convergenza della ricchezza non si è compiuta, i tassi di crescita sono stati molto bassi e la rendita è concentrata ancora di più nei paesi che hanno accettato e adottato la “nuova teologia dell’aiuto”. Oltre a ciò, le crisi finanziarie si sono succedute in Argentina, in Messico, nell’Est Asiatico, nella Russia, in Brasile, e di nuovo in Argentina.
All’inizio del nuovo secolo pochi credono ancora nelle virtù delle ricette politiche del “consorzio mondiale degli organismi finanziari” guidato dall’FMI. E ancora, gli Stati Uniti guardano con sfiducia ai paesi che hanno avuto successo economico, perché non hanno seguito i cammini “volontari” dell’economia globale. Come dice John Mearsheimer, “la politica degli Stati Uniti in Cina è orientato male, perché una Cina ricca non sarà un potere che accetti lo status quo internazionale. Al contrario, sarà uno stato aggressivo e determinato a conquistare un’egemonia regionale. Non perché la Cina diventando ricca debba avere degli istinti malvagi, ma perché il modo migliore per qualsiasi stato di massimizzare le sue prospettive di sopravvivenza è di diventare egemone nella sua parte di mondo. Quindi, se è interesse della Cina essere egemone nel nord-est dell’Asia, non è interesse dell’America che questo succeda”. (2001; p.402) [2]
La tesi di Mersheimer è sulla Cina, ma può essere applicata all’India e a tutti i paesi che non appartengono al “mondo della giungla”, ma che non sono disposti ad accettare le regole imposte “dall’imperialsmo volontario dell’economia globale”. Sarebbe una quarta categoria di imperialismo, nella classifica di Richard Cooper. In questi casi, ciò che si proporrebbe sarebbe una specie di “attacco preventivo”, di natura economica, con l’obiettivo di bloccare lo sviluppo dei paesi che si propongono di cambiare la loro posizione nella gerarchia mondiale della ricchezza e del potere.
Questo progetto sintetizzato da Cooper e Mersheimer, può non essere stato appoggiato esplicitamente dalla maggioranza delle potenze economiche, ma già è in corso da qualche tempo. In questa nuova geometria proposta dagli anglo-sassoni, sono chiaramente definiti gli spazi che saranno occupati dai paesi che non appartengono al club delle Grandi Potenze. O essi accettano le premesse e le conseguenze “dell’imperialismo volontario dell’economia globale”, nonostante il suo reiterato fracasso, o affronteranno una lotta durissima nelle loro nuove negoziazioni internazionali, con gli organismi finanziari, e nei fori e organizzazioni multilaterali. Uno scenario ancora più difficile per paesi come il Brasile, che non hanno mai avuto una posizione di distacco nella geopolitica delle Grandi Potenze, ma che hanno un enorme potenziale di crescita e di mobilità, nella gerarchia geo-economica del sistema mondiale.
Oggi lo spazio mondiale che può essere occupato dal Brasile è soprattutto economico, ma ciò non sarà possibile senza un rafforzamento della posizione politica e dell’ amministrazione intellettuale ed etica del paese, nello scenario americano e mondiale. Questo presuppone che il Brasile rilegga la storia del suo inserimento mondiale e del suo sviluppo economico e cambi radicalmente la strategia adottata negli anni ’90, molto simile a quella seguita dal Brasile nel secolo XIX, e fino alla crisi del 1930.
Il Brasile forse è stato il Paese pioniere nella sperimentazione della strategia proposta da Adam Smith. Primi furono i trattati di commercio, firmati dalla Corona Portoghese con l’Inghilterra, nel 1806 e 1810, e con la Francia, nel 1816; e subito dopo l’indipendenza, di nuovo con l’Inghilterra, il Trattato di Amicizia, Navigazione e Commercio, nel 1827, seguiti da accordi analoghi con Austria e Prussia, nello stesso anno, e con la Danimarca, gli Stati Uniti e i Paesi Bassi, nel 1829. Dopo il 1841, continuarono ad essere in vigore solo i trattati di commercio con la Francia e l’Inghilterra.
Insieme con gli Stati Uniti, il Brasile e la maggioranza dei paesi latino-americani, sono stati i primi Stati nazionali extra-europei. Al momento dell’indipendenza, nessuno d’essi disponeva di veri stati né di economie nazionali, né avevano o stabilirono relazioni tra di loro che gli permettessero di parlare dell’esistenza di un sistema statale o di un sistema economico regionale. Oltre a ciò, in nessuno dei nuovi Stati latino-americani l’indipendenza politica e la costruzione di una economia nazionale facevano parte di una strategia espansionistica (e bellica, in molti momenti), come nel caso degli Stati Uniti. Al contrario, gli Stati latini solo lentamente monopolizzarono e centralizzarono l’uso della forza, e le loro economie iniziarono a funzionare, sottomesse al libero-commercio e all’indebitamento estero, come produttori specializzati del sistema di divisione internazionale del lavoro, indicato dalle necessità dell’industrializzazione inglese ed europea e imposto dai famosi trattati commerciali lodati da Adam Smith. Come conseguenza, l’America Latina restò emarginata nel sistema interstatale di competizione tra le Grandi Potenze, e poté essere trasformata in un laboratorio di sperimentazione “dell’imperialismo di libero-commercio” praticato dall’Inghilterra, nella prima metà del secolo XIX. I nuovi stati latino-americani non erano di dominio anglo-sassone, come il Canada, l’Australia o la Nuova Zelanda, ma nonostante la loro indipendenza politica, nacquero come appendici o periferia del sistema economico capeggiato dall’Inghilterra.
Nel Brasile, anche dopo la proclamazione della Repubblica,lo Stato continuò ad essere una organizzazione nazionale fragile, con bassa capacità di incorporazione sociale e mobilitazione politica interna, e senza voglia, né pretese espansioniste. La stessa sopravivenza della nuova repubblica, nel momento della sollevazione dell’Armata, nel 1893, dipese dall’organizzazione e protezione della cosiddetta Squadra Legale presente nella Baia della Guanabara e organizzata dagli Stati Uniti con la partecipazione di quattro altre Grandi Potenze. Dal punto di vista economico, la nuova repubblica restò attaccata al modello “primario-esportatore”, per lo meno fino alla crisi mondiale del 1930. In questo periodo continuò ad essere un’economia sottomessa alle regole e alle politiche liberali imposte dal modello-oro, ma la sua crescita e modernizzazione non si limitò alle sue attività e alle esportazioni come in altri paesi latino-americani. In Brasile, l’attività esportatrice aiutò a creare un mercato interno di alimenti, di mano d’opera migrante e una rete di trasporti e commercializzazione che andò al di là della rete classica di esportazione, soprattutto nel caso del complesso delle piantagioni di caffè.
Questa forma di inserimento economico permise al Brasile di crescere fino agli anni 30, grazie alla complementarietà tra la sua economia interna e l’economia mondiale, e grazie all’integrazione del paese con le finanze inglesi che accentuarono il carattere ciclico di dipendenza estera dell’economia brasiliana. Nelle fasi espansive dell’economia mondiale, i banchieri inglesi finanziarono l’economia brasiliana e soprattutto l’espansione delle loro infrastrutture di trasporto e comunicazione. Ma nelle fasi di contrazione dell’economia mondiale, il paese fu obbligato a fare degli aggiustamenti periodici all’economia, o a dichiarare una moratoria, come successe nel 1897.
Tra la crisi economica mondiale del 1930 e l’inizio della II Guerra Mondiale, nel campo aperto dalla lotta tra le Grandi Potenze, il Brasile conquistò qualche spazio di manovra per la sua politica estera, e reagì allo “strangolamento economico” adottando politiche che rafforzarono lo Stato centrale e la sua economia nazionale. Ma la sua autonomia politica durò poco, e nel 1938, il Brasile già si era allineato a lato della nuova leader-ship mondiale nord-americana. Dal punto di vista economico, tuttavia, la risposta alla crisi degli anni 30, obbligò il Brasile ad un protezionismo pragmatico, per affrontare il problema della scarsezza di prodotti, che finì con lo stimolare un processo quasi spontaneo di “sostituzione d’importazioni”. Un processo embionale che diede impulso all’industrializzazione, ma che finì per affrontare limiti chiari ed immediati superati soltanto quando la restrizione esterna diede origine, a partire dal 1937/38, ad un progetto di industrializzazione gestito dallo Stato e indirizzato verso il mercato interno.
Dopo la II Guerra Mondiale, il Brasile non ebbe una posizione rilevante nella geopolitica della Guerra Fredda, ma venne collocato nella posizione di principale socio economico degli Stati Uniti, nella periferia sud-americana. Non ci fu Piano Marshall per l’America Latina, né il Brasile fu incluso nella categoria dei paesi il cui “sviluppo a invito”, (come successe con un “pezzo” di Asia), né fu stimolato fortemente, dall’accesso privilegiato ai mercati nord-americani. Anche così, il Brasile si trasformò in una esperienza originale di sviluppo accelerato ed “escludente”, sotto la leader-ship degli investimenti statali e del capitale privato straniero, proveniente da quasi tutti i paesi del nucleo centrale del sistema capitalista. Durante tutto il periodo di sviluppo, il Brasile mantenne uno dei tassi medi di crescita mondiale più elevato, alla pari dei tassi crescenti di disuguaglianza sociale.
Nonostante l’allineamento forzato per la Guerra Fredda, fu in questo periodo che il Brasile cominciò ad esercitare una politica estera più autonoma, combattiva e globale. Furono momenti importanti di questa nuova traiettoria le proposte dell’Operazione Pan-americana, nel 1958, e dell’Operazione Brasile-Asia, negli anni 1959-60, allo stesso tempo di una maggiore vicinanza dell’Europa e dell’Africa Nera. Nello stesso momento, il governo brasiliano rivedeva le sue relazioni economiche internazionali rompendo il suo Accordo con l’FMI. Non ci sono dubbi che il grande cambiamento accadde all’inizio degli anni ’60, con la politica estera indipendente inaugurata dal governo Janio Quadros, responsabile delle nuove relazioni del Brasile con America Latina, Asia e Africa, ma anche con il mondo socialista e con il Movimento dei Paesi Non-Allineati. Una strategia più autonoma in relazione agli Stati Uniti, più aperta alla maggior parte dei paesi del mondo, e più combattiva sul piano delle negoziazioni commerciali e finanziarie del paese, come fu chiaro dall’appoggio alla creazione dell’ALALC, e alla partecipazione brasiliana nella UNCTAT e nel gruppo dei 77, nei decenni ’60 e ’70. Questa posizione fu mantenuta, in grandi linee, dalla politica estera di quasi tutti i governi militari, a dispetto della loro posizione forte nei confronti della causa anti-comunista, e anche dopo la democratizzazione, con la politica estera del governo Sarney. È stato durante i governi di Fernando Henrique Cardoso che il paese si è allineato incondizionatamente al programma di politiche e riforme liberali che ricollocarono il paese nello spazio e nella posizione che ha avuto durante tutto il secolo XIX, e fino alla crisi del 1930.
A proposito dello sviluppo economico, alla fine degli anni ’60, e durante gli anni ’70, l’abbondanza di credito privato per i paesi in via di sviluppo permise un’accellerazione dei tassi di crescita e nel caso del Brasile, gli permise di avanzare nel processo di industrializzazione iniziato negli anni 50/70, completando la sua matrice industriale con la produzione di beni di capitale. L’altra faccia della medaglia di questo processo, è stato un indebitamento estero oltre le possibilità di bilancio dei pagamenti, essendo responsabile in gran parte per lo strangolamento della crescita, nel momento in cui l’economia brasiliana fu sottomessa - alla fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta - ci sono stati quattro choc fatali: elevazione dei tassi d’interesse internazionali; recessione nell’economia mondiale, deterioramento dei termini di cambio ed interruzione del finanziamento estero dopo la moratoria messicana. Sono stati questi i principali fattori che hanno sottoposto l’economia brasiliana a una grave crisi di bilancio di pagamenti e che hanno obbligato i governi degli anni ’80 a fare una politica di promozione attiva delle esportazioni e di controllo delle importazioni, per dar conto dei servizi dei debiti esteri. Come conseguenza, il paese ha vissuto una recessione seguita da una riduzione del tasso medio di crescita, alla quale si sommarono varie devalorizzazioni cambiali e una accelerazione dell’inflazione. In questo periodo, l’allontanamento dal mercato internazionale di capitali obbligò il Brasile a cercare l’appoggio del FMI e del BIRD, restando soggetto alle loro condizioni che confermano la tendenza stagnante del periodo.
All’inizio degli anni 90, la vittoria americana nella Guerra Fredda, la nuova utopia della globalizzazione e una base di liquidità internazionale hanno creato le basi materiali e ideologiche della nuova svolta liberale delle elite e dello Stato brasiliano. Dal punto di vista geopolitico, in particolare nel periodo FHC, il governo brasiliano, ha contato su un solido allineamento con gli Stati Uniti ed il suo progetto di globalizzazione liberale, accettando l’internazionalizzazione dei centri di decisione brasiliani e la fragilità dello Stato, in cambio di un progetto di governo globale utopico. Dal punto di vista economico, la disponibilità di capitali internazionali ha finanziato l’abbandono della strategia di sviluppo, il ritorno alle politiche economiche ortodosse e al libero-cambismo del secolo XIX. Oggi è assolutamente chiaro che l’onda espansiva degli investimenti esteri, negli anni ’90, non ha avuto lo stesso effetto dinamico del periodo dello sviluppo, perché si trattava soprattutto di capitali incostanti e attratti dalle privatizzazioni, promosse dal governo Cardoso. Come conseguenza, all’inizio del 2000, l’economia brasiliana era già stata riportata alla sua vecchia e permanente “restrizione estera”, una specie di segnale indelebile del Brasile, nell’impero Britannico e Nord-Americano.
Guardando in dietro, si distaccano, in questa storia, alcune “ricorrenze” importanti per il futuro: (I) tutti i grandi cambiamenti di rotta strategica del paese sono avvenuti in momenti di crisi o trasformazioni mondiali; (II) la posizione e l’appoggio dei capitali e governi anglo-americani ha avuto un ruolo decisivo nelle scelte brasiliane; (III) in tutti i casi, la “restrizione estera” economica e la fragilità monetaria hanno pesato sull’autonomia brasiliana e a favore di uno stato debole; (IV) le elite brasiliane non hanno bisogno dell’appoggio popolare per garantire la riproduzione e l’accumulazione della ricchezza patrimoniale o mercantile, che avviene attraverso i circuiti finanziari internazionali. E per questo sono opposte quasi sempre al nazionalismo e alle politiche economiche di taglio mercantilista.
Nel 2003, pochi credono ancora nel mito della globalizzazione, e come già abbiamo visto, la guerra è tornata al centro del sistema mondiale, dove gli Stati Uniti accumulano un potere finanziario e militare indiscutibile. L’asse geopolitico del sistema si mantiene lontano dall’America Latina, e l’economia mondiale oscilla sul precipizio dell’inflazione, se questo avvenisse ad essere globalizzata sarà la paralisi giapponese. La moneta brasiliana continua debole come sempre e la restrizione estera è tornata a bussare alla porta. Dopo otto anni di riforme liberali, lo stato appare, ancora una volta, debole, disarticolato e con bassa capacità di iniziativa strategica.-----
È in questo contesto che è stata eletta una nuova coalizione di forze politiche e sociali guidate da un partito di sinistra con un progetto popolare e nazionale di democratizzazione dello sviluppo. Un progetto il cui successo dipenderà dalla capacità governativa di mobilitare il popolo e costruire una volontà nazionale, obbligando le elite a voltarsi verso la propria terra e gente. Ma questo non accadrà senza che il Brasile assuma una posizione combattiva in campo internazionale, abbandonando la strategia del governo Cardoso e la parte dell’elite brasiliana che ha sempre sperato in una relazione privilegiata con gli Stati Uniti, in una nuova versione del vecchio “sviluppo a invito” del dopo II Guerra Mondiale, dove il paese abdica al suo progetto nazionale e a qualsiasi pretesa egemonica, in cambio di qualche tipo di accesso più privilegiato al mercato interno americano.
L’eccentricità del Brasile in relazione alle principali scacchiere geopolitiche del mondo, e la sua relativa irrilevanza come potenza militare, collocano i temi economici in primo piano nella sua politica estera. Ma in campo internazionale è molto difficile separare la politica dall’economia, ed è poco probabile che un paese riesca ad imporre i suoi interessi economici se non ha, allo stesso tempo, una presenza importante sul campo politico. E, nel caso brasiliano, un paese senza pretese militari né espansionistiche, questa presenza politica può essere basata soltanto su una leadership di tipo intellettuale ed etico, e soprattutto sulla coerenza, consistenza e permanenza delle sue posizioni nello scenario internazionale e dentro ognuna delle organizzazioni multilaterali dove ancora si esercita oggi, nonostante tutto, un governo mondiale basato sulla multilateralità.
A grandi linee, la politica estera di questi primi nove mesi di governo Lula sembra innovatrice e corretta, quando afferma la sua priorità sud-americana e del Mercosur, e stabilisce, a partire da li, e da temi ed interessi specifici, una serie di ponti ed alleanze possibili con Africa e Asia, come accaduto nel G21, nella riunione a Cancun della OMC, e come sta succedendo nelle negoziazioni del G3, con l’Africa del sud e con l’India. O ancora, come sta succedendo nelle nuove compagnie tecnologiche con l’Ucraina, la Russia, la Cina, o con i progetti infra-strutturali con Venezuela, Bolivia, Perù e Argentina. In tutti i casi, ciò che si vede è l’affermazione di una nuova politica estera, attiva, presente, basata sull’interesse nazionale brasiliano, e sull’affinità storica e territoriale del Brasile con il resto dell’America del sud.
Ma non ci sono dubbi che le principali dispute che si annunciano e accumulano all’orizzonte gireranno in torno alle divergenze economiche ogni volta più stridenti che separano le posizioni delle Grandi Potenze e della maggior parte dei paesi avanzati, e gli interessi dei grandi paesi in via di sviluppo. In questo senso, le dispute immediate da affrontare per il Brasile hanno nome e cognome, e si chiamano FMI, ALCA e il Giro di Ruota Doha della OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio). Sono tre gli spazi dove il Brasile sta definendo, nei prossimi mesi, o al massimo fino alla fine del prossimo anno, le coordinate fondamentali del suo futuro economico. Dove sta facendo la sua scelta tra il progetto del governo Cardoso che aderì con entusiasmo “all’imperialismo volontario dell’economia globale, gestito da un consorzio internazionale di istituzioni finanziarie”, e un vero progetto di sviluppo nazionale. Il governo ha seguito fin qui il cammino della seconda opzione, e per questa strada il Brasile affronterà in queste tre negoziazioni enormi difficoltà. Vediamo:
I. In relazione alla Rodada (Giro di Ruota) Doha della OMC. Nonostante il protezionismo agricolo dei paesi avanzati, sono in questione i “nuovi temi di Cingapura”, facendo investimenti, compere governamentali, facilitazioni di commerci, etc. Ancora una volta, in sintesi, la proposta dei paesi ricchi porterebbe alla libertà dei loro capitali e all’arresto delle politiche pubbliche dei paesi in via di sviluppo. E come sempre, la minaccia di vendetta arriva insieme con la promessa dei formidabili benefici che arriverebbero con l’adesione al libero commercio e l’abbandono delle politiche nazionali. Oggi, la Banca Mondiale fa delle previsioni estremamente ottimiste sui vantaggi che tutti avrebbero con le nuove regole proposte dai paesi avanzati. Ma la verità è che la stessa Banca Mondiale fece previsioni analoghe alla fine della Rodada Uruguai, nel 1993, e successe esattamente il contrario durante gli anni ’90. Invece della convergenza della ricchezza delle nazioni, ciò che si ebbe fu un aumento enorme del divario tra ricchi e poveri.
II. In relazione all’ALCA, la prima questione che deve essere chiara è che l’agenda delle trattative è stata formulata interamente dagli USA, e non riguarda soltanto la libera circolazione dei beni, ma anche la fissazione di regole su temi come investimenti, compere statali, proprietà intellettuale, servizi. Regole che se fossero approvate, avrebbero le stesse conseguenze del progetto difeso dall’alleanza USA/UE nella Rodada Doha della OMC: elimineranno lo spazio e bloccheranno la possibilità di qualsiasi tipo di progetto nazionale di sviluppo nazionale. Riassumendo, l’ALCA, nei termini proposti dai nord-americani, significherà la consolidazione definitiva, nella forma di un Accordo Giuridico irreversibile, di tutte le politiche praticate negli anni ’90 dal governo Cardoso, responsabili della crisi e stagnazione vissuta dall’economia brasiliana. E non c’è niente, né nessun argomento capace di dimostrare che il Brasile non possa svilupparsi fuori dall’ALCA, o di un accordo analogo con l’Unione Europea. Al contrario, è probabile che lo riesca a fare in termini migliori, attraverso accordi bilaterali di commercio con i paesi che rispondano agli interessi della produzione brasiliana.
III. Ed infine, in relazione all’FMI, ci sono due argomenti base, a favore della rinnovazione con questo fondo. Il primo ha a che vedere con la vulnerabilità estera dell’economia brasiliana e con la supposta incapacità del governo di organizzarsi da solo e con le sue proprie riserve, davanti ad una situazione critica di fuga di capitali. Il secondo ha a che vedere con la supposta credibilità che l’FMI darebbe forza alla politica economica del governo, attraendo investimenti esteri, nonostante che nei cinque anni di tutela del Fondo Monetario Internazionale, questi, siano stati declinanti. E ciò che è peggio, i dati sull’impegno dell’economia brasiliana, in questo stesso periodo, sono estremamente sfavorevoli. Come nel caso delle previsioni e promesse della Banca Mondiale in relazione ai benefici del libero-commercio internazionale, anche in questo caso, le speranze e promesse non si sono avverate. Al contrario, il tasso medio annuale di crescita, nel periodo in cui il Brasile è stato sotto tutela del FMI, diminuì sensibilmente se confrontato al periodo anteriore e restò nella casa del 1,7% tra il 1999 e 2002, mentre la disoccupazione arrivava alla cifra del 13% e la rendita della popolazione cadeva al 17%. Allo stesso tempo il debito pubblico arrivava alle stelle, e le provviste del paese cadevano a 14,2 miliardi di dollari. Chiunque faccia un’analisi di questi 5 anni dirà che sono stati un disastro, e non c’è ragione per sperare che ci possano essere dei cambiamenti in questo comportamento dell’economia, a meno che il Fondo cambi radicalmente i suoi criteri sui vari punti fondamentali per la crescita dell’economia brasiliana.
Per concludere, la cosa fondamentale in tutte queste trattative è che il governo brasiliano mantenga chiaro quale sia l’interesse principale del paese e che sappia mobilitare a suo favore gli appoggi interni e le forze alleate estere indispensabili, in ognuna di queste arene, per paralizzare ed invertire gli investimenti più truculenti del “blocco ultra-imperialista” che ha sterzato a proposito dell’Iraq, ma che ha attuato di forma unisona nella difesa dei suoi interessi economici, quando richiesi dal “resto del mondo”.
[1] COOPER, R. (1996), THE POST-MODERN STATE AND THE WORLD ORDER, DEMOS, LONDON.
[2] MEARSHEIMER, J. (2001), THE TRAGEDY OF THE GREAT POWER POLITICS, Norton and Company, New York