Immigrazione e diritti, la conciliazione difficile “Volevano braccia, sono arrivate persone” (Slogan del movimento per i diritti degli immigrati)

Paolo Graziano

Rita Castiello

1. Frontiere del privilegio

I recenti accordi bilaterali dell’Italia con la Libia, annunciati con gran pompa da un esecutivo che ha fatto del controllo dell’immigrazione una questione simbolica, non sono altro che l’ennesimo contrafforte eretto a difesa del giardino europeo, prosperato nel vasto deserto delle povertà afroasiatiche.

L’entusiasmo nostrano per la compiacenza del colonnello Gheddafi, cooptato nel consesso dei leader democratici, nasconde soprattutto la soddisfazione per aver costruito un altro affidabile alleato nella gestione proficua dei flussi migratori [1].

Sulla base di una strategia ormai avanzante, che prevede l’esternalizzazione dei conflitti più scoperti e deflagranti generati dalla pressione della massa degli esclusi, la Libia come altri paesi del Mediterraneo o dell’est europeo assume compiti di “prevenzione del contatto”, vagliando, regolando e riducendo l’impatto degli spostamenti umani dai paesi poveri a quelli ricchi. Si tratta, a ben vedere, dell’affidamento in outsourcing dei compiti di gestione delle frontiere, che costituiscono uno degli elementi fondamentali - diremmo identitari - dello stato moderno ma diventano una scomoda incombenza in un mondo globalizzato dove le sicurezze locali sono garantite da ordini economici di gran lunga più vincolanti ed efficaci di quelli politici o militari.

Le frontiere nel nuovo millennio non servono a difendere uno stato da quello confinante, ma a proteggere l’esclusivo club dell’opulenza dalla massa virtualmente apolide dei diseredati. Su queste linee immaginarie si consuma una parte rilevante del moderno conflitto capitale-lavoro, i cui effetti conviene sottrarre alla vista della delicata opinione pubblica occidentale.

Così le frontiere si spostano a sud, a est, alle periferie dell’area del privilegio. Oppure sbarrano il passo in mare, o ancora vengono innalzate in certi non-luoghi di controllo e deterrenza, dove spesso vigono le eccezioni del diritto.

Ma le esistenze recluse nei Centri di Permanenza Temporanea, le carrette del mare su cui qualcuno ogni tanto medita di cominciare a sparare, sono soltanto l’aspetto più evidente di una contraddizione aperta tra lo sfruttamento della forza lavoro e l’espropriazione dei diritti di una crescente massa di individui.

2. Una cattiva globalizzazione

Quanto sia cruciale tale moltitudine per il funzionamento delle economie occidentali lo si comprende leggendo le etichette dei generi di largo consumo: intere categorie di prodotti risultano fabbricati o assemblati alle periferie del pianeta, dove il costo del lavoro è una voce di bilancio trascurabile per le aziende occidentali [2]. Il fatto valga ad affermare un principio tutt’altro che nuovo: il capitale ricerca le condizioni migliori per la propria conservazione e il proprio accrescimento. Nella configurazione del mercato globale, che sdogana merci e denaro tentando nel contempo di confinare gli uomini, tali condizioni si realizzano nella dislocazione delle produzioni in aree estremamente competitive per i costi medi del lavoro.

Il caso ormai paradigmatico è quello delle maquilladores, fabbriche installate da imprese statunitensi appena oltre la frontiera messicana, dove i salari precipitano a cinque dollari al giorno [3]. Quel limite così prezioso per la prosperità occidentale deve tuttavia essere difeso da chilometri di rete elettrificata, eretta contro gli inevitabili tentativi di sconfinamento. Intendiamoci: gli spostamenti quotidiani da un paese all’altro sono frequentissimi e assolutamente funzionali alle economie locali: ogni anno attraversano quel confine 2,8 milioni di Tir, 33 milioni di automobili, 300 milioni di persone, di cui 15 milioni di pedoni. Meno dell’1% di questi passaggi, tuttavia, è rappresentato da migrazioni verso il paese ricco: il sistema della frontiera è governato da un complesso insieme di permessi e controlli che vorrebbero consentire oltre confine soltanto lo svolgimento di “attività di routine quali lavorare, curarsi, acquistare o consumare beni e servizi, visitare i propri familiari”, in un “pendolarismo transfrontaliero di enormi dimensioni” [4]. Rendere impermeabile una border region così intensamente frequentata è tuttavia compito arduo, per cui una piccola quota di latinos riesce a stabilirsi in California, New Mexico, Texas, Arizona, mutando la composizione sociale di alcune zone. Naturalmente quest’eccezione turba i sonni degli americani, che vorrebbero una sorta di frontiera mobile pronta ad aprirsi quando aumenta il bisogno di manodopera e a richiudersi se la sicurezza nazionale o la congiuntura economica lo richiede.

Questo atteggiamento può essere utilizzato, con le dovute modifiche, per rappresentare la strategia neocoloniale delle economie dei paesi ricchi, fondata su due principi apparentemente contraddittori ma in realtà complementari: la deregulation per gli spostamenti e le dislocazioni di merci e produzioni e, dall’altra parte, il ferreo controllo dei movimenti umani. Il confinamento delle persone al luogo in cui esse sono nate, ormai materiale prediletto di nuovi nazionalismi più o meno raffinati, è una condizione necessaria al mantenimento dell’ordine economico prima ancora che sociale, poiché garantisce un bacino di forza-lavoro costretta ad operare nelle condizioni salariali e giuridiche dettate dall’ordinamento socio-economico della periferia di turno, senz’altro conveniente per le multinazionali che spostano intere filiere come pedine su una sconfinata scacchiera.

Le differenze tra i luoghi dello sviluppo e del sottosviluppo non sono dunque accidenti, ma elementi funzionali delle dinamiche economiche globali, che provvedono a mantenerle come sono. Così i processi della globalizzazione si risolvono nell’esatto contrario di ciò che la retorica neoliberista e il termine stesso lascia intendere: una studiata diversificazione delle aree del pianeta in base alle funzioni che esse sono chiamate a ricoprire nel ciclo produttivo. D’altronde le posizioni assegnate a paesi e popoli diversi sullo scacchiere dell’economia mondializzata si chiariscono facilmente con un’occhiata alle cifre, che rappresentano efficacemente non solo la sperequazione delle ricchezze ma anche il flusso delle risorse naturali, artificiali, umane dai paesi poveri a quelli dell’area del benessere: “Dei 31.000 miliardi di dollari del Pil 2001, quasi 25.000 erano concentrati nei paesi industrializzati (oltre 20.000 nei G7); solo 2.000 in America Latina, 860 nell’Europa Orientale, 430 in Africa. Oltre un decennio di neoliberismo incontrastato ci ha consegnato un mondo dove i poveri, sono sempre di più e sempre più poveri. I G7, con l’11,5% della popolazione mondiale detengono oltre il 44% del potere di acquisto, l’Asia con oltre il 52% della popolazione mondiale ne detiene il 23%; infine l’Africa con il 12,4% della popolazione mondiale ne detiene solo il 3%” [5]. Il potere economico dell’Occidente s’incontra felicemente con le povertà del resto del mondo, permettendo l’importazione di beni - prima di tutto di mandodpera - ai costi minimi spuntati dall’aggressione economica dei paesi sviluppati sugli altri.

L’organizzazione delle relazioni tra stati, di cui si forniva un esempio in apertura, si modella su questa esigenza del capitale. Ne deriva l’immagine di un mondo sempre più integrato, dove la divisone del pianeta in sottomondi resta “puramente convenzionale” [6]. Secondo alcuni studiosi, ad esempio, il concetto di Terzo Mondo, che presuppone una contrapposizione almeno virtuale tra interessi delle aree sviluppate e sottosviluppate, è ormai datato [7]: piuttosto esistono mondi connessi e subordinati, secondo gerarchie economiche politiche militari, al modello di sviluppo dominante. Il livello delle contrapposizioni si sposta dal terreno dei rapporti tra stati a quello, più complesso e inafferrabile, delle relazioni tra individui e regimi economici globali.

3. L’espropriazione dei diritti dello straniero

Anche tali relazioni si configurano, inequivocabilmente, secondo la forma della subordinazione. Naturalmente questo non è un fatto nuovo. La novità sta forse nella pervicacia con cui gli indirizzi politici e gli assetti giuridici dei paesi occidentali perseguono i medesimi obiettivi di protezione dell’area del privilegio ed esclusione degli estranei che aspirano a farne parte.

Tale esclusione non può essere realizzata con la semplice chiusura dello spazio nazionale, poiché anche le produzioni che non sostengono le spese per delocalizzare le attività necessitano di manodopera a basso costo [8]. Si mettono in pratica, allora, meccanismi più raffinati di esclusione, fatti di stravaganze giuridiche, eccezioni alla norma, provvedimenti speciali che erigono una frontiera immaginaria tra lo straniero e l’autoctono che, per il resto, fanno il medesimo lavoro, consumano gli stessi beni, abitano case vicine.

L’irrilevanza delle aspirazioni, delle condizioni e delle individualità degli immigrati di fronte alla brutale esigenza di braccia del capitale industriale si registra sin dall’inizio del processo di accoglienza/esclusione, con la pianificazione verticistica degli ingressi ormai adottata dalla gran parte dei paesi ad economia avanzata. Nel caso italiano la programmazione dei flussi, prevista dall’art. 3 del Testo Unico sull’immigrazione, si articola in due momenti: il primo è rappresentato dall’elaborazione di un documento programmatico triennale predisposto dal Presidente del Consiglio, a seguito di concertazione tra soggetti a diverso titolo competenti (le Regioni, le autonomie locali, gli enti e le associazioni che operano “nell’assistenza e nell’integrazione degli immigrati”, le organizzazioni di categoria e i sindacati), approvato dal Governo e trasmesso al Parlamento che si pronunzia su di esso attraverso le commissioni. Al termine di questo iter, il documento diventa decreto del Presidente della Repubblica. All’esecutivo spetta invece la definizione delle quote massime di stranieri da ammettere nel territorio italiano per motivi di lavoro. Tale decisione ha, peraltro, efficacia ultrattiva: vale a dire che in mancanza di un nuovo provvedimento restano vincolanti le quote stabilite nell’anno precedente.

A proposito di quanto detto sul modello attuale delle relazioni internazionali, basate sulla subordinazione politica ed economica delle aree depresse, è interessante notare che una parte di queste quote viene riservata ai paesi non appartenenti all’Unione con cui l’Italia abbia stipulato accordi finalizzati alla regolazione dei flussi migratori (art. 21), cioè con i “bravi alleati” disposti a contribuire al controllo della massa di esclusi che preme alle porte dell’Occidente. Come oggi fa la Libia, appunto.

Nella definizione del tetto annuale degli ingressi giocano molti fattori esplicitamente citati nel documento, tra cui l’andamento del mercato del lavoro interno e il numero di stranieri iscritti nelle liste di collocamento (già presenti, dunque, nel territorio nazionale e in cerca di occupazione). Non ha alcuna rilevanza, invece, l’unico indicatore utile a rappresentare i bisogni delle popolazioni extraeuropee, ovvero il numero degli iscritti nelle liste di prenotazione dell’ingresso per motivi di lavoro in Italia.

L’ingresso, tuttavia, non integra lo straniero nello status giuridico riservato al lavoratore locale - piuttosto funziona il modello inverso, con la precarizzazione avanzante del lavoratore prima tutelato. Ne fornisce un esempio la nuova normativa sul lavoro stagionale, che delinea la figura di un lavoratore strutturalmente non garantito, portatore di diritti ad orologeria, che vengono perduti e acquisiti sulla base dell’andamento del mercato o, ancor peggio, del capriccio del datore di lavoro. A tale regime d’impiego si accede, infatti, su richiesta nominativa o numerica; in questo ultimo caso vengono avviati al lavoro gli stranieri iscritti nelle liste di prenotazione dell’ingresso in Italia. Nel primo caso, invece, è il datore di lavoro ad indicare la persona che desidera impiegare temporaneamente, sulla base di accordi personali di varia natura. Al termine del periodo di lavoro, l’immigrato deve abbandonare il territorio nazionale; se quest’obbligo viene rispettato, egli acquista diritto di precedenza, rispetto ai connazionali che non siano mai entrati in Italia per ragioni di lavoro, per una prossima stagione di lavoro. Ovviamente questo diritto di precedenza scatta soltanto sulle richieste di manodopera stagionale avanzate numericamente; il vero incentivo ad allontanarsi dall’Italia alla scadenza del soggiorno è dunque l’aspettativa - più o meno fondata - di essere richiamati l’anno dopo nominativamente dallo stesso datore di lavoro. In altre parole, il lavoratore che non abbia completamente soddisfatto il padrone perde il treno per l’Occidente.

La possibilità di affrancarsi da questa condizione, dopo averla temporaneamente accettata, è scarsa. Il regolamento attuativo del Testo Unico interpreta infatti in maniera restrittiva la norma secondo cui il lavoratore stagionale può ottenere un permesso di soggiorno stabile se firma un contratto di lavoro subordinato: l’art. 38 comma 7 prescrive che possono avvalersi di tale facoltà soltanto gli immigrati che abbiano ottenuto già un secondo permesso per lavoro stagionale. Sempre secondo la norma regolamentare, la concessione del permesso di soggiorno per lavoro subordinato non stagionale viene, inoltre, condizionata dalle famigerate quote. La ratio della norma di legge viene così tradita: essa è, evidentemente, quella di impedire che il lavoratore stagionale cui venga offerto un lavoro stabile sia costretto - se vuole rispettare la legalità - a tornare nel suo paese d’origine per qui attendere l’autorizzazione a rientrare in Italia con il nuovo visto. Questa attesa oggi può essere vanificata dalla tirannia delle quote. La norma regolamentare riproduce dunque quell’iter paradossale che la legge voleva evitare.

Il meccanismo di sfruttamento ed esclusione, del resto, è più generale: “il combinato disposto fra legge Bossi-Fini e legge n. 30 sul mercato del lavoro produce una discriminazione plurima per i lavoratori immigrati. Infatti la legge 30 liberizza il mercato del lavoro e legittima le forme più varie, flessibili ed estemporanee di prestazioni di lavoro: lavoro a chiamata, somministrato, collaborazioni a progetto ecc... Sono esattamente e quasi esclusivamente queste le forme [...] offerte alla manodopera immigrata [...]. Il lavoratore immigrato non ha scelta ed accetta, ma poi scopre che quel tipo di contratto di lavoro non è considerato idoneo dalla legge Bossi-Fini, ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno” [9]. Allo straniero non resta che tornare a casa. O, più verosimilmente, diventare un clandestino, ancor più debole e ricattabile.

4. Clandestinità e cittadinanza

La condizione del clandestino coincide con la perdita irrevocabile di qualsiasi residuo di diritto, compresi di fatto quelli inalienabili della “persona umana” sanciti nel patrimonio giuridico di qualsiasi società evoluta. Tale condizione rappresenta, dunque, il caso limite di negazione dello straniero, sospeso in un limbo da cui può essere, in qualsiasi momento, brutalmente rimosso con un provvedimento di ordine pubblico che aggira qualsiasi tradizionale iter giudiziario applicato per altri reati. Ma che tipo di reato è la clandestinità? E soprattutto, a quale pena corrisponde? La vaghezza con cui l’assetto giuridico attuale risponde a queste domande rivela la necessità dell’Occidente di mantenere gli stranieri in una situazione di a-legalità, che non intercetta le tradizionali modalità d’azione del sistema giudiziario. “Paradossalmente - osserva Alessandro Dal Lago - il fatto che uno straniero sia non punibile anche se condannato (in quanto espulso prima dell’espiazione della pena) dimostra come la necessità sociale della sparizione sia superiore a quella del diritto formale. Un essere umano giudicato per un reato entra in uno spazio giuridico e quindi, di fatto, nella società di cui quello spazio è espressione formale. Ciò significa che può e deve essere difeso, che può farsi ascoltare, che ha dei diritti, che esiste. Espellendolo prima o dopo la condanna, la società lo fa sparire, dimostrando che l’universalità delle norme giuridiche, che pure è proclamata dalla Costituzione, può non contare granché di fronte alla necessità, comunque determinata, della sparizione”10.

Che tale libertà di gestione dello straniero sia ancora una volta funzionale ai bisogni della produzione è fuor di dubbio. Il clandestino sostiene i circuiti dell’economia informale e risulta il soggetto ideale per l’impiego a nero, poiché non ha strumenti per rivendicare alcun diritto e, svolgendo mansioni profondamente dequalificate, non danneggia la produzione con la sua eventuale sparizione: “negare i diritti civili e politici agli immigrati è fondamentale per allargare il livello di sfruttamento nella società. L’immigrato, ed ancor più, la donna immigrata è, infatti, spesso vittima di tutte le principali contraddizioni della società capitalistica: quella di classe, quella Nord-Sud e quella di genere” [10].

Di fronte alla alterazione e alla cancellazione del diritto predisposta per lo straniero, i movimenti antagonisti non possono che rivendicare, in diverse forme e modalità, la piena proprietà del diritto per l’immigrato giunto nel perimetro dell’Occidente sulla scorta del bisogno o del desiderio di migliorare il proprio stato. Tale condizione corrisponde al concetto di cittadinanza, che è esattamente l’opposto della clandestinità.

Dalla prima metà degli anni ’90, quando il decreto Dini più volte reiterato introduceva “per la prima volta, nell’ordinamento repubblicano italiano [...] un diritto speciale per categorie di soggetti individuati sulla mera discriminante di una diversa cittadinanza” [11], il vasto fronte antirazzista costituito da sindacati, associazioni, gruppi politici preme per la ricostituzione di un sistema sociale coerente ed inclusivo, che associ alle funzioni della manodopera immigrata le garanzie dovute a qualsiasi persona umana. Peraltro l’estensione delle sicurezze ai non garantiti, in un’enclave democratica, può essere praticata soltanto se i già garantiti tendono il braccio, se riconoscono negli altri lo stesso fondamento giuridico che caratterizza la propria esistenza. Per questo lo sciopero della fame a staffetta promosso dagli operatori dell’Arci, nell’ottobre scorso, a sostegno della vertenza del Comitato immigrati in Italia sul rinnovo dei permessi, risulta opportuno in rapporto ad un progetto di società futura [12]. Quella componente del gruppo degli inclusi più vicina alla massa dei non garantiti intuisce, infatti, che sulla questione dell’estensione dei diritti si gioca soprattutto il futuro dei rapporti tra individui e interessi economici di portata ben più che locale.

Può sembrare la lotta di Davide contro Golia, ma il gigante porta già qualche segno della sconfitta. Poiché non è possibile separare senza sbavature i processi di globalizzazione delle produzioni e dei capitali da quelli, conseguenti, del diritto alla speranza. Come hanno presto scoperto gli operai messicani, non esistono frontiere prive di varchi.

Nella congerie di segni e residui del benessere che inevitabilmente il trasferimento delle produzioni porta con sé, non si può impedire che “gli abitatori delle zone meno favorite del mercato mondiale rispondano agli stimoli e ai messaggi che la cultura-mondo rovescia loro addosso. La voglia o l’illusione di uscire dai vincoli dei mercati locali, dalla povertà, dalle mille servitù, angherie o oppressioni di paesi marginali impoveriti o autoritari è il minimo che possiamo aspettarci dai milioni di esseri umani che si muovono negli interstizi del sistema-mondo” [13].


[1] Cfr. Libia - L’altra faccia degli accordi bilaterali. Intervista a Fabrizio Gatti, 15 settembre 2004, http://www.meltingpot.org/articolo3598.html.

[2] Un esempio ormai noto anche all’uomo della strada è costituito dagli articoli sportivi: il 70% dei palloni da calcio utilizzati nel mondo è assemblato da bambini pakistani. Cfr. A. Piñol, Pakistan, cuciti a un pallone, in “Internazionale”, n. 249, 1998.

[3] Cfr. S. Rotella, Twilight on the Line. Underworlds and Politics at the U.S.-Mexico Border, Norton, New York 1998.

[4] F. Maronta, Gli Stati Uniti divisi dai Latinos, in Panamerica Latina, numero speciale di “Limes. Rivista italiana di geopolitica”, n. 4, 2003, p. 137.

[5] S. Fedeli, La rivoluzione del “fare”. Dalla denuncia alla pratica: il contributo della progettualità del mondo non governativo, in “Il Contemporaneo” (fascicolo speciale dedicato all’immigrazione) n. 4, ottobre 2004, p. XI, supplemento a la Rinascita della sinistra, VI, n. 41.

[6] A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999 (nuova ed. 2004), p. 250.

[7] Cfr. J. F. Bayart, Finishing with the Idea of the Third World, in J. Manor (a cura di), Rethinking Third World Politics, Longman, London 1991.

[8] Di questo gruppo è sicuramente rappresentativa la moltitudine di piccole e medie imprese del nord-est, spesso a conduzione familiare, che integrano la manodopera locale con operai extracomunitari. A queste si aggiungano le attività che, per loro natura, non possono essere facilmente delocalizzate, come quelle connesse al comparto agricolo. In tali casi il ricorso al lavoro stagionale, disciplinato con nuova normativa dall’art. 24 del Testo Unico sull’immigrazione e dall’art. 38 del regolamento attuativo, costituisce la norma piuttosto che l’eccezione e crea - come vedremo - nuove condizioni di subordinazione.

[9] P. Soldini, Nuovi lavoratori nell’Europa che invecchia, in “Il Contemporaneo”, cit. p. XIV.

[10] J. Venier, Scontro di civiltà. Premessa della catastrofe, in “Il Contemporaneo”, cit. p. XII.

[11] Documento del Collettivo PuntoZip, http://www.ecn.org/zip/decretodini.htm

[12] “Sesto Potere”, 13/10/2004, http://www.sestopotere.com/index.ihtml?step=2&rifcat=210&Rid=41973

[13] A. Dal Lago, op. cit., p. 251.