Verso quale università?

Annamaria Crescimanni

1. Il sistema universitario e la politica per il suo funzionamento

 

er molti giorni ho cercato un bandolo da cui partire per una riflessione sull’Università e il suo stato di salute. Le mie difficoltà a trovarlo nascono da almeno due motivi. Uno personale: rispetto all’argomento avverto come miei diversi ruoli. La compagna che diffida del vento liberista che spira anche sull’Università, la docente che vede sempre più restringersi lo spazio del confronto nel luogo di lavoro, la lavoratrice de “La Sapienza” che non accetta che fatti gravi di cronaca, di costume e malcostume siano stati presentati come ennesimo risultato della natura di piovra immonda del 1° ateneo romano, ma anche la madre che vede nei propri figli un esempio di cattivo inserimento nell’università (la colpa è mia, loro o del sistema?!!). Appena decido da quale punto di vista partire, avverto il disagio di non cominciare da altro.

Un secondo motivo però, lo ascrivo al Ministro della ricerca scientifica, continua a lanciare parole d’ordine in troppe direzioni: verrà attuata una riforma dell’organizzazione dei corsi e dei titoli di studio, saranno modificati i rapporti tra struttura centrale e sedi universitarie, le facoltà daranno vita a forme contrattuali con i propri studenti, che da discenti diverranno consapevoli contraenti del sapere, scompariranno i mega atenei, causa di ogni male, in futuro oltre all’Autonomia avremo il Campus, il Cub, la Flessibilità, la Valutazione, la Contrattazione....

Il ministro dichiara che “l’università deve riappropriarsi della sua primaria funzione storica: la formazione dei quadri professionali per la società”, (a meno che non sia indicato esplicitamente, tutte le frasi virgolettate nel testo sono tratte da documenti firmati dal Ministro) chi ce l’aveva rubata e cosa abbiamo fatto nel frattempo, noi e il nostro ministro, professore e già rettore, cui non è mai mancata autorità in merito?

Eppure la flessibilità nel sistema formativo universitario e il principio dell’autonomia dei singoli atenei erano già in leggi fondamentali, la legge n.382 del 1980, la n. 168 del 1989 e quella del 1990, la n.341 nota come legge Ruberti; non era meglio, anche per l’immagine della nostra classe dirigente, indicare i punti di continuità e innovazione con quanto già iniziato e non condotto a termine?

A titolo d’esempio di seguito mi riferisco alla questione dei diplomi universitari, i corsi triennali, che senz’altro hanno costituito per il nostro ordinamento un importante punto di svolta. Una questione su cui sia il ministro che i suoi consiglieri sono spesso intervenuti e che credo di conoscere abbastanza bene, anche perché in un corso di diploma insegno.

Rileggendo la 341, si poteva dar vita alla prevista regolamentazione in tema di validità concorsuale del titolo di diploma universitario, volendo si potevano dare le necessarie indicazioni ai Ministeri competenti, in armonia con quanto previsto dall’articolo 9, comma 5 della legge 341.

Tra questi il Ministero della funzione pubblica, visto che i diplomi universitari, pur diretti alla formazione di profili professionali, ancora non trovano una corrispondente definizione negli ordinamenti del pubblico impiego e neppure nella classificazione di quello privato. Ha dato direttive all’ARAN (agenzia che stipula i contratti per la PA) affinché la posizione del diplomato universitario trovi un riscontro negli ordinamenti (carriere e qualifiche) delle amministrazioni pubbliche?

Il Ministro del lavoro ha provveduto affinché in sede di Uffici di collocamento sia contemplata la qualifica professionale corrispondente al diploma universitario?

E infine il Ministro della ricerca scientifica si è fatto carico del problema dell’effettivo inserimento produttivo dei diplomati, prevedendo forme d’informazione in ogni ambito lavorativo? Ma soprattutto, siamo sicuri che tutti i corsi di diploma universitario corrispondano a figure professionali di cui si avverte l’effettiva necessità nel mondo della produzione e nel sistema economico?

Niente di tutto questo, che io sappia; però, in una intervista di cui ho purtroppo perduto la documentazione, il Ministro avrebbe detto che l’esperienza dei Diplomi Universitari è, almeno per ora, fallita. Dove sono le analisi che ci confermano il fallimento di quella che, visto la natura profondamente innovativa dei nuovi corsi “brevi” rispetto la nostra tradizionale organizzazione didattica, è un’esperienza che, nella maggior parte dei casi, non ha ancora avuto il tempo di uscire da una fase di sperimentazione?

Ma veniamo al merito di quanto il Ministro ci propone.

Le dichiarazioni d’intenti, sono esplicitamente presentate in modo non organico, come “somma di principi ispiratori” e non atti di riforma, su cui per altro ci è stata a volte consegnata solo o poco più di una parola d’ordine.

E’ poco per aprire una discussione organica, ma una discussione va aperta comunque vista la riconosciuta centralità del problema universitario per lo sviluppo della società.

Per farlo occorre necessariamente partire da alcune considerazioni di fatto.

 

 

2. Le difficoltà del sistema

 

Parto da un fatto incontrovertibile: circa il 70 % degli studenti iscritti all’università rinuncerà allo studio universitario, dopo un periodo più o meno lungo (e crescente) di permanenza e avendo spesso cercato di superare e qualche volta aver superato esami. Anche il numero di esami superati dagli studenti che abbandonano gli studi è crescente e non credo proprio che si possa dire semplicisticamente che si tratta di ragazzi poco motivati. Chiunque abbia analizzato dati sul rendimento dello studio universitario, non può non essere rimasto impressionato ed essersi almeno chiesto se non fosse necessario approfondire questa specifica questione.

Questo non è il problema di uno o pochi atenei, ma di tutti. Viene spesso indicato come il problema del “disagio studentesco”, sorta di mal sottile di una generazione costituzionalmente debole, forse a causa del buco dell’ozono!!

La situazione non è mai sostanzialmente diversa, tra grandi e piccole sedi, tra grandi e piccole facoltà, non è diversa tra facoltà umanistiche e scientifiche, non è diversa tra Nord e Sud. Una ormai ampia letteratura [1] ci conferma la scarsa efficacia del nostro sistema universitario, tra i meno produttivi dei paesi della Cee. Si potrebbe pensare che il sistema assicuri, sia pure in modo così ingiusto, il necessario numero di laureati, ma non è così, la quota di popolazione attiva in possesso di laurea (il 6% della popolazione tra i 25 e i 65 anni secondo dati Istat del 1995), è sotto la media europea e non corrisponde alle necessità del paese.

Nella figura 1 si può confrontare la nostra situazione con quella di altri paesi industrializzati. Si tratta di dati di fonte OCSE, che non si riferiscono però a situazioni perfettamente corrispondenti, per alcuni paesi, come la Gran Bretagna e la Spagna, si tratta in prevalenza di cicli di studi brevi, per altri come l’Italia e la Germania, di cicli prevalentemente lunghi.

Un luogo comune recita che al Sud sono tutti laureati, ovviamente non è vero, in termini relativi al Sud vi è il 20% di laureati in meno (Stefano Gorelli, vedi nota 2), ma resta il fatto che il grado di efficienza degli atenei è sostanzialmente lo stesso, poco più del 30%; ad essere diverso è il grado della partecipazione dei giovani agli studi universitari, percentualmente minore e non maggiore per i giovani del Sud.

Ma l’informazione, nota, di questa gravissima situazione non viene utilizzata per cercare più adatti ausili didattici, per istituire commissioni d’esperti dell’arte di insegnare. Viene invece richiamata (opportunisticamente) come concausa di una “.. delle ben note anomalie del nostro sistema d’istruzione: la concentrazione della più gran parte degli studenti in alcuni atenei e facoltà sovraffollate”.

Ma essere in un grande ateneo (il più grande d’Europa nel caso della Sapienza) non è solo un guaio per studenti e docenti, è anche un grande vantaggio perché sia il ricercatore che lo studente possono trovare e di fatto spesso hanno trovato, risposta a bisogni di conoscenza relativi a linee di ricerca non approfondite nella propria sede; in ogni facoltà ci sono discipline che non divengono asfittiche proprio grazie alla presenza nello stesso ateneo di centri di elaborazione di quel particolare sapere.

Ovviamente molti di noi sperano di poter operare in un ambiente meno affollato e quindi più vivibile, sarà bene che si risolva il problema dell’intasamento di sedi come “la Sapienza”, ma non è la dimensione dell’ateneo la causa dell’inefficacia dell’insegnamento.

La facoltà in cui lavoro, Scienze Statistiche, la più piccola dell’ateneo romano, ha quasi la stessa percentuale di successi di una delle più grandi, Economia, come si può vedere dalla tabella 1.

Gli indicatori che è stato necessario utilizzare per valutare l’efficacia dei corsi, i valori delle ultime due colonne, sono piuttosto grossolani, i laureati sono rispettivamente riferiti agli iscritti e agli immatricolati dello stesso anno accademico, un’informazione precisa si sarebbe avuta solo considerando quanti degli immatricolati di un anno arriveranno a laurearsi, si tratta di collettivi che devono essere seguiti spesso oltre i 12 anni per conoscere l’esito definitivo.

Le rilevazioni effettuate in diverse sedi, Torino, Padova, Firenze, Pisa, Bologna, Roma, Viterbo, Napoli, Bari, Palermo ed altre ancora (e quindi lungo tutto lo stivale), confermano che analizzando le coorti (studenti che si sono immatricolati, ossia hanno iniziato la carriera universitaria, in uno stesso anno accademico) il risultato è più o meno, ma sempre drammaticamente, negativo.-----

Le coorti di immatricolati mediamente si dimezzano l’anno successivo e il tempo medio di chi si laurea è di 7 anni e sono numerose le presenze di studenti per i quali, dopo 10 anni di iscrizione, ancora non si è in grado di valutare la probabilità di laurea.

Come abbiamo già detto, i risultati della Sapienza sono perfettamente coerenti con i dati di tutti gli atenei italiani e se in alcune facoltà di una sede si hanno risultati peggiori che in altri casi, si può dire che il 60% di abbandoni stia a significare qualcosa di diverso del 50%?

A solo titolo d’esempio, nelle tabelle 2 e 3, si riportano dati dell’università di Pisa e nella tabella 4 dell’università di Torino, in entrambi i casi tratti dal volume di Bottiroli, Camiz di cui alla nota 2.

Alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, degli immatricolati nell’anno accademico 1981-82, a laurearsi entro i primi 12 anni è il 12%, impiegando in media quasi 7 anni ma essendoci un 6% di studenti ancora iscritti alla fine del periodo di osservazione, periodo triplo della durata legale del corso. Non è migliore la situazione degli studenti dell’ateneo di Pisa, dove a restare iscritto, dopo 3 anni dall’immatricolazione è intorno al 50% degli studenti, con un numero medio di esami superati che non da certo garanzie per quanti risultano ancora iscritti.

Tanto per completare il quadro, nella tabella 5, si riportano i dati retrospettivi (di fonte ISTAT) che mostrano l’evoluzione dell’università italiana, dall’anno accademico 1936-37 al 1993-94. Nelle ultime tre colonne sono riportati tre rapporti indicatori del livello di efficacia nel tempo, ottenuti rapportando il numero dei laureati rispettivamente agli iscritti in totale, agli iscritti al primo anno contemporanei dei laureati e (anche come indicatore di costo) al numero di professori utilizzati per ottenere il risultato.

 

 

3. L’innovazione dei corsi di studio... sarà il risultato del disegno autonomistico degli atenei

 

La soluzione di tutti i problemi, la sostanza di tutte le riforme, ci viene detto, è nell’autonomia didattica, ”il disegno autonomistico degli atenei condizione e punto di approdo della riforma universitaria” è un processo che dovrà impegnare la comunità universitaria.

Nel febbraio del 1997 è stato istituito un “Gruppo di lavoro su Autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio a livello universitario e post-universitario” presieduto dal sociologo, prof. Martinotti. Alla fine di ottobre dello stesso anno il gruppo di lavoro ha reso pubblico un documento che è, a detta dello stesso, conclusivo di una prima fase dei lavori, svoltisi dal 14 febbraio al 3 ottobre del 1997 (per la lettura del testo si veda l’indicazione bibliografica della nota n.3).

Ho riportato il decreto istitutivo della commissione perché mi sembra interessare evidenziare come la commissione abbia ritenuto di invertire l’ordine delle esigenze da soddisfare. Come può una commissione, cui sia stato affidato il compito di verificare lo stato di attuazione di normative importanti, di valutare i fabbisogni formativi e di proporre “dei criteri generali” per l’attuazione dell’autonomia didattica delle università, cominciare non dal primo ma dall’ultimo dei suoi impegni. Come si può proseguire sul cammino intrapreso, magari modificando la strada, senza valutare la qualità dei risultati conseguiti?

Si tratta di un documento che ha avuto una certa risonanza all’interno del mondo accademico, anche se la sua lettura non è sempre agevole.

Vi domina una parola d’ordine, che è appunto autonomia. Sono convinta anch’io che l’autonomia organizzativa e finanziaria potrà favorire l’iniziativa della parte più vitale dell’accademia e che da ciò potrà poi derivare un miglioramento di tutto il sistema, ma solo a fronte di una politica attiva; è troppo semplicistico e generico dire che è “uno strumento per ottenere un deciso miglioramento qualitativo dell’insegnamento e delle condizioni di funzionamento dell’università italiana”, sembrerebbe che questa fiducia discenda dalla convinzione che l’uomo è naturalmente buono.

“Il processo di autonomia delle università, iniziato da alcuni anni, giungerà al suo completamento, almeno da un punto di vista giuridico, con l’emanazione dei decreti previsti dalla legge 127/97, ma non potrà dirsi realizzato senza un complesso e graduale processo di revisione dell’intero sistema universitario, di carattere sia strutturale che culturale, che pur ne tuteli i numerosi aspetti positivi”, tutto quello che ci viene proposto sarà fatto “nella prospettiva di una università aperta al territorio, in grado di offrire una didattica di qualità e di preparare i giovani alla competizione che li attende nel mondo del lavoro nazionale ed internazionale.”

Tutte le frasi virgolettate sono, come le precedenti, del Ministro e sono usate a presentazione o a difesa del documento all’interno di pubblicazioni [i] dirette al mondo accademico e quindi non per informare una popolazione poco coinvolta o poco a conoscenza della natura dei problemi, si poteva essere più precisi circa le azioni positive, così entrare nel merito è difficile, ho l’impressione che prevalga una generica volontà e una ancora più generica proposta di mutamenti.

Qui non si vuole certo contestare l’intenzione di rendere le strutture didattiche più autonome. L’autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile delle Università è sancita e ha trovato regolamentazione nelle leggi, la 168 del 1989 e la 341 del 1990. In queste leggi sono contenuti i principi fondamentali delle successive leggi 537 del 1993 o 127 del 1997, finalizzate, non tanto ad innovare ma, come recita la n.127, a snellire l’attività amministrativa e i procedimenti di decisione e di controllo.

In realtà lo spirito innovativo, efficientista, in alcuni casi ha portato a decisioni molto discutibili perché hanno rimesso in discussione proprio quella autonomia in altri casi enfatizzata.

Si sa, la democrazia non è sempre comoda, qualche volta decisioni accentrate potrebbero essere più efficienti, perché fatte nel superiore, comune interesse, ma questo non giustifica un drastico ridimensionamento delle istanze di rappresentanza. Questo però è proprio quello che si è fatto.

Innanzi tutto si è attuato un forte ridimensionamento di organi elettivi come il Consiglio universitario nazionale (CUN), organo di rappresentanza delle istituzioni autonome universitarie, che si è visto ridimensionato nel numero e, quel che è peggio, nelle competenze. E’ vero che nel CUN in qualche caso ha prevalso l’imposizione di interessi assolutamente di parte, ma la medicina ha ucciso il malato!

Inoltre, con l’intento dichiarato (e in sé corretto) di evitare finanziamenti a pioggia si è in realtà rinviato ad un piccolo gruppo di saggi, cinque in tutto, la delicata decisione sulle ricerche da finanziare da parte del Ministero della Ricerca Scientifica e Tecnologica.

Oltre a ciò è stato decurtato il finanziamento pubblico che, almeno rispetto alla Sapienza, sembrerebbero non coprire neppure le esigenze per le retribuzioni del personale dell’ateneo. Questi fatti forse vogliono invitare gli Atenei ad una maggiore attenzione alle leggi del libero mercato. Ma niente paura, anche se l’accademia sarà occupata a far soldi per pagarsi lo stipendio, la scarsa efficacia del sistema sarà risolta... col principio della contrattualità tra studenti e ateneo.

 

 

4. Studente - contraente

 

Sembrerebbe che la constatazione della parziale inefficacia del nostro lavoro induca la classe docente nel suo insieme a mettere più in discussione il senso del ruolo dello studente piuttosto che quello proprio.

Lo studente viene a volte assimilato ad un cliente e infatti in questionari di facoltà, per misurare il loro grado di soddisfazione vengono utilizzate le tecniche di valutazione della soddisfazione del consumatore; chiedendo loro ad esempio se ritengono che il professore abbia svolto compiutamente il programma, piuttosto che limitarsi a chiedergli qual è la percentuale della lezione risultata chiara o quante delle lezioni previste sono state effettivamente svolte o quanto sono stati utili gli strumenti didattici utilizzati.

Un punto chiave, indubbiamente nuovo, sviluppato dal gruppo di lavoro per l’autonomia è quello del “principio di contrattualità, cioè la trasformazione dell’attuale meccanismo di iscrizione in cui studentesse e studenti sono poco più che passivi soggetti d’imposta, in un accordo trasparente mediante il quale entrambi i contraenti si obbligano a una serie di prestazioni i cui contenuti in termini di obblighi e diritti sono trasparenti e verificabili da entrambe le parti”.

Mi sembra che la proposta evidenzi la presenza di una certa confusione circa la natura del rapporto docente (che insegna) - discente (che apprende). Alla voce studente, il vocabolario dell’enciclopedia Treccani, dice semplicemente: giovane che segue con regolarità un corso di studi. Il problema non è dunque di attribuire un nuovo ruolo (da soggetto di imposta a contraente) ma di capire perché il corso di studi è divenuto così impervio e poi intervenire con azioni concrete, tra cui anche semplicemente lo snellimento dei programmi e riconsiderando le forme di didattica.

Ma andiamo a vedere più da vicino cosa si intende fare col “principio di contrattualità”.

Se l’ipotesi di riforma sarà attuata, non solo il docente, anche lo studente deciderà se essere tale a tempo pieno o a tempo definito, il tempo sarà inserito nel suo titolo di studio e un titolo temporalmente più breve costerà di più di uno lungo.

Ma la commissione risolve anche un altro grave problema, quello che, da quando è stato eliminato l’obbligo di seguire un percorso formativo, gli abbandoni degli studi avvengano sempre più spesso dopo aver superato un certo numero di esami.

Si prevede infatti l’istituzione del c.u.b. (certificato universitario di base), che non sembra essere nulla di diverso dell’attuale certificato degli esami sostenuti, cui però verrebbe riconosciuta la dignità di titolo. Si tratta dell’attestazione che lo studente ha acquisito un certo numero di competenze, finalizzate singolarmente a professionalità, in campi diversissimi e dunque ha svolto attività globalmente non professionalizzante. Il cub è una specie di premio di consolazione per chi ha messo insieme un certo numero di esami e una certa quantità di attività, variamente affastellati e costituenti credito didattico.

Volevamo che tutti i giovani diplomati della scuola media potessero accedere all’università e così è stato, li abbiamo fatti venire quel tanto che bastasse per pagare meno le tasse dei giovani più aderenti al modello cui abbiamo continuato a riferirci nell’organizzazione della didattica. Ora, presi dallo scrupolo, rilasceremo ricevuta.

La cosa non è di secondaria importanza perché con questa bella idea assicuriamo la risalita della nostra efficacia di docenti. Non siamo salvi solo noi, è la nazione ad essere salva, il numero delle persone con titolo universitario corrisponderà a quello degli altri paesi della comunità.-----

Autonomia, flessibilità, competizione, il tutto trova chiarezza d’intenti nel “sistema di valutazione nazionale.. strumento di misura che permetta un confronto obiettivo ed affidabile tra le diverse parti del sistema”, strumento su cui per fortuna nulla si dice nel documento.

Mi sembra davvero che ci sia molto bisogno di dialogo, non un dialogo tra interlocutori privilegiati, come quello virtuale attivato dal ministero in un apposito sito Internet, un dialogo reale tra tutti quanti hanno interesse all’argomento. Mi si dirà che in realtà il dialogo è alto se a discutere sono solo i gruppi elitari, gli esperti?!

In passato l’Università ha sempre saputo trovare i luoghi per discutere di se stessa, non so se sia sempre stata una discussione “alta”, certo è stata spesso una discussione focosamente partecipata, anche se trasformata a volte in un tremendo tormentone (basti pensare alla questione del docente unico e trino). In questo momento invece, certo anche per la condivisione delle responsabilità governative della parte maggioritaria della vecchia sinistra, si salta totalmente la fase del dialogo e addirittura scompaiono pressoché totalmente i luoghi tradizionali della discussione.

In questa fase dei patteggiamenti entro e fra le coalizioni, patteggiamenti che a volte vengono realizzati spiazzando l’antagonista con lo scavalcarne le posizioni, è addirittura ovvio che a risentirne sia anche la politica dell’istruzione.

E’ indubbio infatti che quello dell’istruzione dovrebbe essere, ma non è, un punto nodale di attrito tra le diverse culture che in questa coalizione governativa si sono unite.

La soluzione migliore sarebbe forse mettersi quieti ed aspettare visto che ..ha da passà la nottata, ma purtroppo l’ansia di rinnovamento del nostro Ministro e dei suoi consiglieri non si concede soste.

Vogliamo un ultimo brevissimo esempio? Senza che, al contrario di quanto accadeva ai tempi bui della 1° repubblica, nell’Università di Roma si aprisse mai un dialogo o si trasmettesse informazione, il 4 settembre si è siglato l’accordo tra il Governo, nella persona del Ministro Berlinguer, e il senato accademico della Sapienza sulle modalità di decongestionamento dell’ateneo più grande d’Europa. La Sapienza non sarà più un mega ateneo ma un CAMPUS.

Ma cos’è un campus? “Un ateneo a rete” o meglio “un sistema di atenei su base federativa”. È’ il ministro che parla, in un’intervista al Messaggero del 5 settembre 1998 e bisogna convenire che, se è una federazione, è sicuramente in linea con i tempi.

Il Ministro ha assicurato che il campus resterà pluridisciplinare, ma contemporaneamente ha detto che “Ingegneria si è candidata come campus autonomo e Architettura sta prevedendo qualcosa del genere”(e i colleghi di Giurisprudenza che devono ancora applicare la riforma del 1980, che cosa faranno?).

Ogni campus sarà dotato di senato accademico e di un apparato amministrativo, ma non avranno libertà d’azione, al vertice della federazione vi sarà una snella ed efficiente commissione centrale, ovviamente “scientifica”, non si sa da chi nominata, che distribuirà le risorse tra i campus; sono stata membro della commissione scientifica del mio ateneo e ho buon motivo di temere un ruolo troppo rilevante per una commissione con questo nome.

 

 

DM istitutivo del Gruppo di lavoro

su Autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio

di livello universitario e post-universitario

 

 

IL MINISTRO DELL’UNIVERSITà E DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA

 

VISTA la legge 9.5.1989, n. 168, la quale all’art. 1, nell’istituire il MURST, gli attribuisce compiti di indirizzo e coordinamento nei confronti delle università e degli enti di ricerca:

 

RAVVISATA l’esigenza di nominare un gruppo di lavoro finalizzato a:

1. verifica dello stato di attuazione della legge 341/1990 di riforma degli ordinamenti didattici universitari, delle esperienze realizzate e dei problemi emersi con particolare riferimento ai diplomi universitari, nonché delle ragioni che hanno determinato il tendenziale allungamento dei corsi di studio;

2. analisi e previsione del fabbisogno formativo di livello universitario e post-universitario e proposte per il riordino complessivo dell’istruzione terziaria, con particolare riferimento alle esigenze di innovazione e diversificazione della didattica, nel quadro della prevista autonomia didattica degli atenei, al fine soprattutto di ridurre il tasso di abbandono degli studi universitari;

3. individuazione dei “criteri generali” per l’attuazione dell’autonomia didattica delle università, con particolare riferimento alle esigenze di assicurare l’omogeneità del livello culturale della preparazione universitaria e professionale sul territorio nazionale, la mobilità degli studenti tra gli atenei, il rispetto della normativa e delle equipollenze in ambito comunitario, nonché la più ampia informazione sugli ordinamenti degli studi.

 


[1] Jannaccone Pazzi R., Ribolzi L., 1991 Università flessibile, Etas libri, Milano; Università degli studi di Firenze, Osservatorio studenti, 1992, Tasso di laurea ed abbandono precoce, Firenze; Gorelli S., 1996,La formazione universitaria: accesso, percorsi, esiti, facoltà di Economia, Università della Tuscia ; Bottiroli, Civardi M., Camiz S., 1997, La popolazione studentesca e le Università italiane: indagini, modelli e risultati, CLEUP editrice, Padova.

[i] Università Ricerca, Notiziario bimestrale del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, n.6 anno 1997 e n.1 anno 1998