Il significato della guerra:una prospettiva eterodossa

James Petras

Introduzione

Questo articolo discute le cause sociali, politiche, economiche, psicologiche ed ideologiche e gli impatti della guerra nella storia contemporanea. Non possiamo ovviamente esplorare in dettaglio tutte queste dimensioni; ci concentreremo invece su quello che consideriamo le dimensioni più importanti di queste categorie generali. La prima questione che richiede chiarificazione è “quale guerra”? Ci sono almeno quattro tipi di guerra che hanno un significato globale. Le prime nell’ordine e le più significative in termini della configurazione presente e futura delle relazioni tra stati sono le guerre imperialiste - come l’invasione della Yugoslavia, dell’Afghanistan e dell’Iraq, che portano alla imposizione di poteri coloniali diretti ed indiretti, di basi militari e all’appropriazione di risorse strategiche e/o di vie di comunicazione acquatiche o terrestri. Il secondo tipo di guerra è costituito dai “conflitti etnici e separatisti”, tipo la presa da parte albanese del Kosovo yugoslavo, o la conquista kurda del nord Iraq. Mentre i conflitti separatisti sono praticati entro la più vasta cornice delle strategie imperialiste, i partecipanti locali adducono i propri “diritti storici” per giustificare la loro guerra contro i governi centrali esistenti. Il terzo tipo di guerra è quella “coloniale-territoriale”, il cui miglior esempio è l’espulsione israeliana dei palestinesi, l’appropriazione arbitraria di terre e risorse, il diniego all’auto-governo e la colonizzazione ebrea di terre palestinesi presa per mezzo delle forze armate. Il quarto tipo sono le “guerre regionali”, che si trovano principalmente in Africa ed in Asia, dove regimi aggressivi invadono paesi confinanti e si annettono territori che di solito contengono metalli preziosi. Questo è quanto accade nella parte meridionale dell’Africa, ove il Rwanda ha occupato una fetta importante del Zaire dell’est. Mentre ciascuna di queste guerre ha le proprie specificità, la questione che affiora è se esse siano legate ai progetti di costruzione imperiale degli USA, dell’UE o di altri poteri imperiali emergenti. La risposta è complessa e connessa al livello di analisi al quale il problema è posto. Molti di questi conflitti risalgono a tempi anteriori agli sforzi correnti di costruire l’impero USA. In molti casi le elite locali visualizzano la guerra come una fonte di arricchimento personale, di classe o nazionale. Possiamo immaginare che conflitti di questo tipo continueranno in un distante futuro post-imperiale, con i tentativi da parte di satrapi locali di annettersi frammenti di un impero mondiale declinante. Nondimeno, qualsiasi siano i “diritti storici” e gli interessi locali, tutte queste guerre contemporanee sono legate in maniere specifiche con il presente sforzo di costruzione imperiale USA e della UE. Gli Stati uniti hanno coerentemente aiutato movimenti separatisti a base etnica, come l’Esercito di Liberazione del Kosovo e i terroristi Ceceni, per indebolire stati nazionali (Yugoslavia, Russia) che erano presi di mira da Washington. Come conseguenza Washington si assicura un nuovo regime cliente, basi militari e vantaggi strategici in senso geopolitico mentre indebolisce un nemico per le sue pretese unipolari. Gli USA forniscono armi ed aiuti finanziari all’espansione coloniale israeliana ed alla guerra contro i palestinesi ed i paesi arabi. Questo ha indebolito gli stati arabi che si oppongono all’impero USA e provocato grande resistenza di massa. L’influenza ideologica ed il potere politico e finanziario delle organizzazioni pro-Israele e di individui al governo e fuori dal governo hanno rinforzato l’ala più militarista e bellicosa dei costruttori imperiali americani, specialmente nel medio oriente, spesso a spese delle multinazionali americane che cercano invece accordi con i regimi locali. L’imperialismo USA ha una relazione contraddittoria con gli stati separatisti e coloniali: da una parte indeboliscono i nazionalisti anti-imperialisti, e dall’altra le loro richieste territoriali minacciano di indebolire i legami imperiali con i regimi clienti (come nel caso del Kurdistan iraqeno e della repubblica di Turchia). Inoltre la strategia imperialista di dare supporto ai nazionalisti islamici contro le forze laiche di sinistra (come nei casi di Afghanistan e Yugoslavia) ha portato a nuovi violenti confronti tra l’impero e precedenti alleati islamici che Washington tentava di usare per poi sostituirli con più docili regimi fantoccio neoliberisti. In condizioni nelle quali la costruzione imperiale europea ed americana è condotta da una dottrina di guerre permanenti, esistono ben poche, o forse nessuna guerra locale o separatista che rimane locale nelle cause e nelle conseguenze.

1. La forza dietro la guerra: collaborazione e competizione inter-imperiale La chiave per l’accelerazione della costruzione imperiale negli ultimi dieci anni è stata gli “spazi aperti” risultanti dalla caduta degli stati collettivisti (l’URSS, l’Europa Orientale e l’Asia) e delle loro dipendenze nel mondo ed alleati in Africa ed altri luoghi. Sia gli USA sia l’UE hanno incorporato con successo questi paesi “ex-collettivisti” nella loro sfera, militarmente, culturalmente ed economicamente. L’Europa ha preso il controllo di risorse strategiche, di lavoro specializzato a basso costo e di importanti industrie, assorbendo questi paesi come subordinati entro l’Unione Europea. Gli USA si sono assicurati simili vantaggi ma hanno anche creato basi militari e reclutato forze militari mercenarie per le loro invasioni imperialistiche (in Yugoslavia, Afghanistan and Iraq) e collaboratori politici nelle Nazioni Unite. Washington ha appoggiato l’illegale presa del potere da parte di Eltzin ed ha poi fornito aiuto per il suo regime oligarchico corrotto e distruttivo che ha devastato l’economia e la società russa. Nel corso di tale collaborazione il sistema finanziario USA ha ricevuto centinaia di miliardi di dollari in trasferimenti illegali da oligarchi appoggiati dagli USA. L’Europa e gli Stati Uniti si sono uniti in società con gli oligarchi per depredare il petrolio russo e le risorse di gas. La supremazia militare mondiale era assicurata dagli USA, che hanno costruito un “assedio” intorno all’indebolito stato russo per mezzo dei nuovi stati clienti incorporati nella NATO. Dagli stati baltici attraverso l’Europa centrale ed orientale fino ai Balcani ed oltre il Caucaso in Asia centrale e meridionale, Washington ha piazzato eserciti locali e basi militari sotto il comando americano. L’Europa, concentrandosi sulla dominazione economica, ha penetrato le stesse regioni, contando sugli aiuti e finanziando le proprie multinazionali e la corruzione dei nuovi politici capitalisti. La conquista unita e cooperativa da parte degli USA e dell’UE dell’Europa orientale, dei Balcani e dei paesi baltici era basata su “decisioni condivise e divisioni del bottino della conquista”. Tale ri-divisione del mondo tra gli Usa e la UE tuttavia è arrivata alla fine con l’ondata più recente di guerre imperiali, a cominciare con l’invasione americana di Afghanistan ed Iraq. Washington ha deciso di agire unilateralmente per monopolizzare le decisioni e l’occupazione coloniale di questi paesi, relegando l’Europa ad un ruolo subordinato sotto il comando USA e con ben pochi diritti nella divisione del bottino. I due principali poteri europei, la Francia e la Germania, hanno concesso supremazia agli USA in Afghanistan ma si sono impuntati sul monopolio americano della ricchezza petrolifera irachena. Il conflitto USA-UE sull’Iraq illustra la competizione inter-imperialista nella ridivisione della ricchezza mondiale e delle neo-colonie. Gli stati imperialisti dell’UE, contando per lo più sui propri strumenti economici - banche, multinazionali, commercio sponsorizzato dallo stato ed accordi di investimento - stavano sfidando i tentativi USA di stabilire una supremazia regionale e mondiale e la subordinazione dell’Europa per mezzo del monopolio delle risorse energetiche. In Iran, Iraq, Libia, Russia, il Caucaso e l’America Latina, le multinazionali petrolifere UE si sono assicurate forniture di energia di lungo periodo per mezzo di investimenti diretti e accordi tra stati. Gli architetti del potere globale USA hanno deciso di tagliare alla base la forte competizione economica dalla UE contando sui “vantaggi comparati” goduti da Washington nel potere militare - per lanciare unilateralmente l’invasione dell’Iraq per monopolizzare il petrolio iracheno e prepararsi per future guerre del petrolio nel medio oriente (Iran ed altri) ed altrove (Venezuela). La dottrina di Washington sulla guerra permanente era in opposizione strategica alla dottrina UE di “imperialismo economico” e di intervento militare limitato e selettivo. Malgrado le significative differenze nel Medio Oriente, sia la UE sia gli USA ancora hanno spazio per cooperare nell’imposizione delle sfere di influenza congiunta in molti paesi e regioni, in particolare Afghanistan, Haiti ed in Africa. La cooperazione ed il conflitto tra i grandi poteri imperiali nella ridivisione del mondo in sfere di colonizzazione, dominazione ed influenza sono la chiave per capire il significato della guerra negli ultimi anni del secolo XX e nel nuovo millennio. 2. Erosione ed inversione della memoria storica Il riapparire di guerre coloniali e del potere coloniale nel secolo XXI e la crescita dei movimenti di liberazione nazionale e della resistenza anti-coloniale riflette l’erosione della memoria storica nei paesi imperiali, tra gli intellettuali occidentali ed in settori delle masse (specie negli USA) e delle élites. L’erosione della memoria storica era evidente in Europa tra le guerre mondiali, mentre la Germania si riarmava e si preparava a conquistare e colonizzare l’Europa. Il pacifismo tedesco, ed anche la coscienza antimilitarista rivoluzionaria che seguì la prima guerra mondiale durò almeno 15 anni, dopodiche i nazisti furono in grado di lanciare la Germania in un frenetico riarmamento e conquista territoriale. Nel dopo seconda guerra mondiale i sentimenti anti-bellici negli USA che riflettevano gli orrori della morte e delle menomazioni sono stati di corta durata: un breve quinquennio dopo la guerra, per poi lanciarsi nella guerra di Corea (1950-53); seguita da un sentimento anti-bellico nel periodo 1953-1963; l’invasione dell’Indocina ed i dodici anni di guerra (1963-1975) portarono al riemergere di estesi movimenti di massa contro la guerra che sono continuati per 15 anni, fino alla prima guerra del golfo. Durante gli anni ’90 i sentimenti antibellici americani ritornarono appena prima della seconda guerra del golfo (Gennaio-Febbraio 2003) e poi praticamente sparirono, almeno dalle strade. “La memoria storica di massa”, ci insegna la storia, può essere un sentimento temporaneamente potente, capace di imporre una riduzione del lato militarista dell’espansione imperialistica, ma la storia dimostra anche che tale “memoria” può essere erosa e superata con il tempo (in breve o più a lungo) da imperialisti e propagandisti determinati al potere. La memoria storica gioca un ruolo positivo nel limitare le guerre imperiali sotto certe condizioni ed entro un limitato arco di tempo. La memoria di morti su larga scala e di perdite tra i soldati imperiali, le profonde crisi economiche che risultano dalla spesa militare e dalla perdita di mercati commerciali, i profondi conflitti interni e l’instabilità, la demoralizzazione e lo scontento tra i soldati impongono seri confini, sia pur limitati nel tempo, sulla capacità imperiale di fare guerra. La sindrome di massa anti-bellicista è anatema per gli ideologi imperialisti, i policymakers e le multinazionali. Come conseguenza, un deliberato processo di conscia erosione viene messo in moto. La memoria storica viene modificata da un insieme cumulativo di eventi, pronunciamenti ideologici ambigui ed azioni militari di piccola scala che con il tempo conducono ad una resurrezione del sentimento di massa a favore della guerra ed all’eclisse della memoria storica. La memoria storica è più forte tra quelli che hanno esperito più da vicino e hanno vissuto le conseguenze devastanti di una guerra imperialista perdente. Il punto più alto della memoria è il momento che segue immediatamente una costosa e distruttiva guerra imperiale. Susseguentemente la memoria viene erosa mano a mano, mentre emerge una nuova generazione e l’ideologia supera l’esperienza e le convinzioni trasmesse tra le generazioni. L’esperienza americana a seguito della sconfitta imperiale nella guerra indocinese illustra i meccanismi di erosione della memoria. Il primo passo verso tale erosione ebbe luogo appena dopo la fine della guerra del Vietnam, durante la presidenza di Jimmy Carter (1976-1980). Carter sviluppò la dottrina degli interventi umanitari, applicando selettivamente la retorica “umanitaria” per cercare di rilegittimare l’intervento USA in un periodo nel quale le coscienze di massa erano profondamente restie a nuove guerre imperialiste ma rispondevano ad appelli per i diritti umani. In secondo luogo Carter finanziò ed appoggiò una serie di movimenti terroristici surrogati e regimi (Nicaragua, sud Africa ed Afghanistan) che permisero a Washington di continuare la propria costruzione imperiale. In terzo luogo Carter provocò un grosso conflitto con l’Iran dando asilo al deposto ed odiato Shah - e portando all’occupazione dell’Ambasciata americana. Carter usò l’incidente per invertire il declino nella spesa militare. Quarto, l’amministrazione Carter, con l’appoggio finanziario dall’Arabia Saudita ed il supporto logistico del Pakistan, reclutò ed armò decine di migliaia di fondamentalisti islamici unendoli alle forze dei signori della guerra afghani per un attacco al regime laico, riformista e filo-sovietico afghano. L’idea di Carter era di provocare un’assistenza sovietica militare su larga scala al regime, come pretesto per rilanciare una “seconda guerra fredda” - ed accelerare la rimilitarizzazione dell’impero USA. Attraverso mosse propagandistiche e mosse militari indirette, Carter cominciò il processo graduale di ottenimento di aderenti alla guerra imperiale, erodendo sopratutto la potente memoria storica di opposizione alla guerra. Il presidente Reagan estese ed approfondì questo processo accelerando il riarmo, impegnandosi in una guerra mercenaria con il Nicaragua, ed inasprendo le guerre per procura in Afghanistan e Sud Africa. Sotto Reagan e poi Bush padre gli USA lanciarono guerre imperiali contro Grenada e Panama - paesi piccoli e deboli - che Washington riuscì a conquistare con pochissime perdite. Dati i bassi costi in vite americane perdute ed i rapidi successi ottenuti, la coscienza storica di massa fu indotta ad accettare o ad essere acquiescente ancora una volta sull’uso della guerra per stabilire il potere USA, in circostanze specifiche. Eppure la memoria storica era ancora un sentimento maggioritario nel periodo che condusse alla prima guerra del golfo: la maggior parte del pubblico USA era contro alla guerra del golfo nel 1990 fino a che non fu cominciata. Ancora una volta il travolgente trionfo militare e le minime perdite umane cambiarono l’opinione delle masse americane. Il presidente Clinton continuò la guerra aerea contro l’Iraq e l’occupazione militare dell’Iraq settentrionale. La memoria storica si stava erodendo. Clinton non ebbe opposizione alla guerra aerea ma quando mandò truppe americane in Somalia e quasi dodici soldati furono uccisi le “memorie” riemersero e Clinton velocemente ritirò le forze. Uno dei colpi più poderosi alla memoria storica ed un evento che aprì la strada alle susseguenti guerre imperiali contro l’Afghanistan e l’Iraq fu la guerra lanciata da Clinton contro la Yugoslavia. Clinton, aiutata da una campagna di falsificazioni di massa, dichiarò che il governo yugoslavo stava effettuando un genocidio nei confronti dei musulmani bosniaci e degli albanesi del Kosovo. Così la guerra imperiale fu trasformata in un a”guerra umanitaria”. Città, ospedali, fabbriche, stazioni radio e centri di popolazione civile furono bombardati e gli USA/NATO ruppero la Yugoslavia in vari piccoli stati clienti. Ancora una volta ci fu un appoggio pubblico di massa, mentre l’imperialismo umanitario, il piccolo numero di perdite americane ed una vittoria veloce erosero le ultime tracce di memoria storica. La base ideologica e politica per un imperialismo appoggiato dalle masse era a posto. Mancava un evento che desse l’avvio. Gli eventi dell’11 Settembre, 2001 diedero all’amministrazione Bush, composta di militaristi civili estremisti e fanatici sionisti, il pretesto per lanciare la prima di una serie di guerre in Afghanistan and Iraq, e per enunciare le dottrine totalitarie della guerra permanente, della guerra preventiva e dell’extraterritorialità delle leggi imperiali americane. L’evidenza empirica disponibile suggerisce che l’amministrazione Bush era profondamente complice negli eventi dell’11 Settembre che hanno portato alla distruzione finale della memoria storica. Tuttavia, differentemente da altre recenti guerre imperialiste, la guerra dell’Iraq è una guerra popolare prolungata (non ci sono vittorie facili e veloci) risultante in morti su larga scala e perdite di soldati USA, e spese fuori controllo senza alcuna fine in vista. Una nuova “memoria storica” potrebbe essere in corso di creazione, basata sulle nuove realtà in Iraq.

3. Guerra: istituzioni politiche e movimenti sociali La coscienza storica è impersonata da attivisti sostenuti da organizzazioni politiche. Basandosi sulle esperienze storiche possiamo dire che i movimenti sociali hanno una grande capacità di “creare” la memoria nel corso di mobilitazioni dinamiche e di incontri di massa memorabili: ma sono le istituzioni politiche che sosterranno o eroderanno tale memoria. Le principali istituzioni politiche (particolarmente negli Stati Uniti), compresi i mass media, hanno coerentemente lavorato a dissolvere la coscienza storica della morte e distruzione causata dalle guerre imperialiste. Mentre pretendono di onorare i soldati morti essi lo fanno solo per servire l’impero. Il loro eroismo è lodato in quanto hanno sacrificato le proprie vite per estendere l’impero. Il processo elettorale non è usato per avanzare l’agenda anti-militarista ma per eliminare le mobilitazioni di massa indipendenti che agiscono direttamente contro gli strumenti delle guerre imperiali. Intanto l’attività anti-guerra si avvicina alla politica elettorale, è assorbita dai partiti normali e dai loro politici, che opportunisticamente si levano il cappello al sentimento anti-guerra in cambio della diluizione della coscienza anti-bellicistica. Il processo elettorale coinvolge movimenti sociali contro la guerra facendo profondi compromessi con i finanziatori di campagne pro-guerra, con politici che articolano posizioni ambigue ed incoerenti e con partiti politici che hanno lealtà antiche e di largo respiro con le politiche imperiali ed i loro interessi. Tale è l’esperienza in USA ed in altre parti: le istituzioni politiche si piegano abbastanza da mettere in questione una guerra impopolare per attrarre l’opposizione di massa, ed una volta catturata la loro lealtà, tornano a costruire la capacità militare per le guerre imperiali. Il momento nel quale i movimenti si dissolvono nei partiti stabiliti, e competono nelle campagne elettorali per mezzo di politici “dissidenti”, la “coscienza storica” è severamente erosa. L’impeto originale all’azione di massa era venuto proprio dal riconoscimento che i partiti politici esistenti ed i “processi politici normali” sono profondamente corrotti dai loro legami strutturali con gli interessi imperiali. Con il ritorno a queste istituzioni con nuove personalità e slogan la coscienza di massa ha perso di vista le proprie capacità di vedere la natura del potere imperiale. In contrasto la coscienza storica è emersa con grande forza quando le masse di gente hanno preso la via dell’azione collettiva, con iniziative locali e collegando le istituzioni economiche e politiche che dirigono le guerre imperiali. Le azioni e la conoscenza sono cresciute in coscienza anti-militarista collettiva che nel tempo si è evoluta da coscienza della distruzione giornaliera (“coscienza empirica”) a “coscienza storica”, che comprende il sistematico depredare dell’imperialismo nel tempo e nello spazio. I movimenti di azione diretta vanno oltre l’influenza distorcente dei “guardiani politici” (politici convenzionali, ideologi accettati e oratori dei mass media) ed articolano direttamente le idee anti-guerra e gli interessi anti-militaristi della massa della gente. I movimenti hanno agito direttamente contro le politiche militariste che hanno avuto impatti negativi sulle popolazioni - la coscrizione, i servizi forzati di guerra - e contro i politici che mandano centinaia di migliaia di persone alla morte ed alla menomazione. In questo conflitto tra i movimenti anti-guerra e le istituzioni politiche a favore della guerra, la preminenza dei primi è stata evidente in tempi di sconfitta imperiale, di scontento dei soldati, e di leader politici in disgrazia per bugie o promesse non mantenute. Questi sono momenti cruciali, ma sono brevi. Le istituzioni a favore della guerra, che sopravvivono e/o superano la crisi della guerra imperiale si riaggruppano, assorbono i migliori tra i loro avversari nell’opposizione anti-guerra e tornano a perseguire la politica di guerra imperiale - fino alla prossima crisi - asserendo alla fine la propria posizione dominante. La coscienza storica diviene una nota a piè di pagina alla storia convenzionale delle “grandi guerre”. La coscienza storica delle guerre anti-imperialiste mantiene una continuità quando porta a trasformazioni su larga scala e di lungo periodo delle istituzioni politiche. Il processo continuo di lotta unisce generazioni differenti, e la trasmissione delle idee anti-militariste. Questo continuo rinnovamento della coscienza storica dipende in parte dal ruolo attivo degli intellettuali anti-militaristi.

4. Guerra ed intellettuali

Gli intellettuali di sinistra sono stati in generale ferventi critici della guerra, fino a che non hanno dovuto affrontare la realtà del loro paese che entra in guerra - ed allora l’opposizione si trasforma in affermazioni evasive, temporeggiamento morale ambiguo e, anche tra i più coraggiosi, una condanna delle violenze dell’aggressore e delle vittime. Anche peggio, molti intellettuali di sinistra e progressisti hanno argomentato, difeso e propagato la dottrina dell’intervento umanitario (imperialismo). Tale tradimento morale è stato evidente durante l’invasione e distruzione americana della Yugoslavia, e l’appoggio per l’organizzazione terrorista Esercito di Liberazione (sic) del Kosovo e la pulizia etnica di centinaia di migliaia di serbi dal Kosovo, dalla Croazia ed altrove. Gli intellettuali progressisti americani erano notabilmente silenziosi. Gli intellettuali progressisti hanno ripetuto la loro performance fornendo giustificazioni tendenziose per l’invasione di Afghanistan ed Iraq - sebbene in questo ultimo caso fino all’inizio della guerra una minoranza di intellettuali ha condannato la guerra ed il regime vittimizzato. Anche quegli intellettuali progressisti che criticavano le guerre imperialiste hanno rifiutato di appoggiare la resistenza anti-coloniale e molti si sono opposti all’immediato ritiro degli eserciti coloniali. La questione della guerra è della pace è piena di conseguenze. Negli eventi che conducono ad una guerra imperialista tutta la macchina propagandistica viene messa in moto, i mas media drammatizzano la giustezza della causa imperiale e la cattiveria del paese che si sta per attaccare. Legislazione repressiva (“misure di sicurezza”) viene messa in atto da vaste maggioranze parlamentari. Pubblicisti, religiosi di peso, demagoghi, uomini di stato, e rispettabili leaders della società civile trovano le più equivoche ragioni morali per giustificare “questa guerra”. Lo sciovinismo latente delle masse viene eccitato. Gli intellettuali progressisti diventano timorosi; la legislazione repressiva potrebbe rovinare una carriera e le routine quotidiane - le loro classi, seminari e il completamento dell’ultimo articolo o libro. I loro colleghi li guardano con sospetto a meno che non professino apertamente fedeltà - “oltre ogni critica in altri tempi, nel tempo della sopravvivenza bisogna unire le forze” - agli invasori militari. Non è solo per paura di perdite materiali e per la devastazione delle routine quotidiane che i nostri intellettuali abbracciano la guerra o rimangono silenziosi al riguardo, o (è il caso della minoranza più coraggiosa) condannano ambo le parti, ma per il senso di essere lasciati fuori dalla storia nazionale, di essere odiati dai vicini e dai colleghi, di dover accettare le conseguenze di vivere in una civiltà imperiale selvaggia che si nutre di guerra, specialmente di guerre vittoriose. Gli intellettuali progressisti rispondono molto più spesso alla pressione del loro ambiente che alle sofferenze della gente colonizzata. L’impegno degli intellettuali progressisti non è scritto sulla pietra - essi cambiano con le condizioni del loro ambiente e la forza e le fortune del governo imperiale. Con l’occupazione coloniale, e le drammatiche immagini della morte e distruzione nei paesi colonizzati, gli intellettuali progressisti creano argomenti per le missioni umanitarie per correggere gli eccessi della guerra. Addirittura alzano la voce di alcuni decibel davanti agli abusi ed alle torture di certi prigionieri in certe prigioni. Ma raramente osano trasgredire le frontiere coloniali per appoggiare pubblicamente la resistenza anti-coloniale. Essi fingono che impegnarsi per la resistenza metterebbe in dubbio le loro “credenziali morali” con quelli che hanno il potere imperiale moderato. Dalla fine della guerra del Vietnam gli intellettuali occidentali non hanno espresso solidarietà con la resistenza popolare ad alcuna delle invasioni imperiali. Grenada, Panama, Somalia, Yugoslavia, Afghanistan, Iraq, Palestina e Libano: le guerre imperiali sono numerose ma la lista degli intellettuali impegnati è breve. La principale ragione per la quale molti intellettuali si oppongono alle guerre imperialiste è a causa delle perdite alle forze armate USA ed il costo per il Tesoro americano. Vi è un tipo di narcisismo politico nello slogan “portate a casa i nostri ragazzi” nel quale il centro dell’attenzione è sulle truppe invadenti e non sulla resistenza anti-coloniale. Anche in “opposizione” gli intellettuali occidentali derivano la loro politica da una visione etnocentrica del mondo. Ad un livello più profondo questo narcisismo politico è anche una maniera di fare concessioni alla febbre sciovinista che ha preso molti dei loro compatrioti: “Anche noi condividiamo la vostra preoccupazione per il nostro paese imperialista - ma non sprechiamo le vite dei nostri ragazzi per questo”. Naturalmente se e quando i poteri imperiali recluteranno mercenari, regimi clienti e collaboratori locali per uccidere i combattenti della resistenza - niente sarà detto di alcuna conseguenza perché i “nostri ragazzi” saranno a casa in salvo. Il movimento storico degli intellettuali dall’opposizione alla politica a favore della guerra ed al supporto di candidati pro-bellici non è semplicemente una scelta pragmatica del minor male. La trasformazione è il risultato di timore, timore di quelli al potere - anche se in realtà non si è di fronte ad una vera minaccia delle proprie vite, carriere o standard di vita. Ma gli intellettuali immaginano una minaccia, e concepiscono scenari pazzeschi di repressione “fascista” per nascondere la loro codardia morale. Tale timore immaginario è ingrandito dalla possibile minaccia alla propria sicurezza, alla propria proprietà se le forze imperiali vengono sconfitte e quelli al potere “si vendicano” sui critici interni. Appoggiare la guerra o “opporsi ad entrambi” come gli ipocriti preferiscono dire, è un’assicurazione per il futuro. Nel nero mondo fantastico degli intellettuali, quando le immaginarie indagini dello stato hanno luogo, essi possono sempre presentare come prova in loro favore i loro articoli e discorsi che condannano i “barbari morali” che hanno attaccato i “nostri ragazzi”. Ma se c’è una verità universale sui nostri intellettuali progressisti è che essi non “rimangono in un solo posto”, ma si muovono con i tempi - misurano i venti cangianti delle fortune politiche. Quando quelli che soffrono per la guerra, la gente media, diventano anti-guerra, quando il regime imperiale è diviso con conflitti di elite, quando i soldati dubitano dei loro ordini, dei loro ufficiali, della guerra, del presidente e dei generali, allora i nostri intellettuali morali si inventano un nuovo insieme di imperativi morali, aggiungendo le loro voci alle moltitudini che hanno criticato la guerra. Quando non vi è pericolo, una volta che le devastazioni della guerra imperialista perdente hanno strappato il velo delle bugie ufficiali, i nostri coraggiosi intellettuali progressisti si fanno avanti, prendono il centro della scena e proclamano la loro opposizione alla guerra. Gli intellettuali non si vendono mai completamente, si affittano al partito più forte, la nuova configurazione politica in ascesa. Mentre l’opposizione alla guerra imperiale cresce i nostri intellettuali progressisti diventano più coraggiosi. Nella guerra di parole, la guerra ideologica nella sfera culturale, i nostri intellettuali progressisti attaccano i conservatori, espongono le bugie dei mass media, diventano gli autopromossi “volti dell’opposizione” per il mondo esterno, anche se le loro parole hanno ben poco merito. Anche se gli intellettuali danno diagnosi delle origini della guerra, essi tralasciano le configurazioni specifiche e concrete del potere per concentrarsi su obiettivi facili, quelli che non offrono minaccia alle loro carriere professionali ed accettazione intellettuale.

5. Guerra e petrolio

Volgiamoci ad una specifica guerra imperialista, l’invasione ed occupazione coloniale dell’Iraq per illustrare come l’opposizione degli intellettuali progressisti alla guerra sia profondamente influenzata da un particolare insieme di fedeltà politiche. Il senso comune tra gli intellettuali progressisti opina che l’invasione dell’Iraq sia guidata dalle multinazionali del petrolio USA che cercano di controllare le risorse petrolifere di quel paese. Una versione più sofisticata di questa ipotesi argomenta che la guerra è diretta da una strategia politica per monopolizzare il petrolio come arma e perciò dominare i rivali imperiali in Europa ed in Asia. In entrambi i casi, l’ipotesi economica e quella strategica mancano di tenere conto delle fedeltà politiche degli specifici politicanti che hanno progettato la guerra, fatto propaganda a favore della guerra e ne sono divenuti i più fanatici ed influenti esecutori. Pochi, forse nessuno degli intellettuali progressisti hanno esaminato le fedeltà politiche dei principali politicanti coinvolti nella guerra. L’ipotesi che il petrolio e le multinazionali degli idrocarburi americane fossero la forza principale dietro la guerra in Iraq fallisce qualsiasi test empirico. Se esaminiamo le affermazioni politiche delle maggiori multinazionali del petrolio ed i loro portavoce pubblici nei cinque anni che hanno portato alla guerra non troviamo alcuna campagna di propaganda né politica a favore della guerra. Si può guardare invano alle maggiori riviste internazionali specializzate nel petrolio per prove di politica organizzativa pro-guerra. La ragione è che le principali multinazionali del petrolio stavano andando piuttosto bene con lo status quo: i prezzi ed i profitti erano ragionevolmente alti, gli investimenti erano relativamente sicuri, il sentimento anti-imperialista era esteso ma non intenso, e sopratutto opportunità per nuovi investimenti importanti si stavano aprendo in Arabia Saudita, Iran, Libia e forse (per mezzo di terze parti) in Iraq. La guerra americana in Iraq ed in Afghanistan ha invertito il quadro creando un ambiente molto ostile, aumentando i pericoli di attacchi distruttivi di insicurezza del personale occidentale, ed aumentando il potere dell’OPEC contro le principali imprese private americane. Solo poche delle multinazionali che hanno a che fare con il petrolio- Haliburton, per esempio - molte delle quali hanno legami diretti con il Vice Presidente Cheney e possono dirsi beneficiate dalla guerra. Esse sono l’eccezione che prova la regola. L’industria del petrolio come investitore, produttore e venditore non ha veramente avuto vantaggi dalla guerra. Anche dopo l’occupazione coloniale dell’Iraq (ed anche dopo la privatizzazione illegale delle imprese statali del petrolio irachene) il sentimento predominante tra le compagnie petrolifere è almeno ambivalente: mentre opportunità future potrebbero essere aumentate, così sono aumentate le minacce presenti alla fornitura ed al trasporto. La guerra ha creato più grande volatilità favorendo gli speculatori rispetto agli investitori di lungo periodo nell’industria petrolifera. Inoltre i prezzi che salgono pregiudicano la performance totale delle economie imperialiste, aggiungendo costi, aumentando gli sbilanci commerciali, e rendendo le imprese petrolifere vittime dell’ira pubblica. Inoltre l’appoggio incondizionato ad Israele entro l’amministrazione Bush nel contesto della guerra in Iraq ha creato un clima difficile per negoziati ad alto livello tra le imprese petrolifere e i leader arabi con il loro petrolio. Riassumendo, non vi è evidenza empirica che le principali imprese petrolifere abbiano spinto la politica americana prima o dopo l’occupazione coloniale. La seconda ipotesi argomenta che la guerra fosse parte di una politica strategica per monopolizzare l’offerta di petrolio trasformando gli USA nella principale potenza mondiale, e subordinando l’Europa e l’Asia ai suoi voleri. Un corollario di questo argomento è che nel passato recente i trionfi politici e militari USA sono stati accompagnati da una politica di condivisione del bottino delle vittorie imperiali con i loro alleati europei e giapponesi. La nuova dottrina militare americana di guerre offensive unilaterali (eufemisticamente chiamate “guerre preventive”) sarebbe progettata per ottenere vantaggi strategici ed esclusivo controllo sul bottino di guerra: petrolio, basi militari e vie commerciali. I pianificatori strategici imperialisti hanno calcolato male, presumendo una facile vittoria militare sugli “arabi” ed una rapida presa e privatizzazione delle imprese pubbliche con un libero sfruttamento della ricchezza petrolifera. Tale ipotesi ha molti meriti nello spiegare alcune delle motivazioni - specialmente concentrandosi sull’importanza dei decision-makers politici entro l’apparato statale imperiale. Tuttavia vi sono varie importanti debolezze in questa ipotesi. Per esempio vi erano e vi sono acute differenze tra i vari centri di potere nell’apparato statale imperiale ed anche entro ciascun centro. Per esempio, molti dei principali comandanti militari di professione erano contro la guerra, come vari membri del dipartimento di stato. Analisti della CIA non condividevano le assunzioni che i popoli colonizzati avrebbero dato il benvenuto agli eserciti imperiali. Numerosi ex-alti ufficiali militari, funzionari della CIA, ed ispettori delle armi della Nazioni Unite hanno criticato il pretesto dei settori a favore della guerra dello stato imperiale USA che l’Iraq possedesse armi di distruzione di massa e ponesse una minaccia agli Stati Uniti. Se lo stato imperiale stesso era diviso ed alcuni settori non erano convinti della necessità di andare in guerra, quale gruppo è stato capace di superare quella resistenza, superando i canali stabiliti dell’intelligence (e creare il proprio circuito), inventando la propria intelligenza e riuscendo a portare gli USA in guerra? Se la guerra non è stata suggerita dagli interessi delle multinazionali del petrolio USA, ed è contraria alla dottrina militare di combattere due guerre simultaneamente, negli interessi geopolitici di chi era?

6. La guerra e l’ipotesi isreaelo-sionista

L’ipotesi più conforme ai dati in nostro possesso è l’ipotesi Israele - cioè che i principali architetti e teoreti della supremazia mondiale USA ed i principali promotori delle guerre in sequenza, specialmente nel Medio Oriente, siano influenti sionisti negli altri quadri del Pentagono, nel National Security Council ed in centri di ricerca con buone connessioni che “fanno consulenze” al governo mentre agiscono per le mire espansionistiche dello stato di Israele. L’autore chiave della dottrina strategica del potere mondiale americano indisputabile era Wolfowitz, nella prima amministrazione Bush (1991). Egli si unì ad altri influenti sionisti come Richard Perle, Douglas Feith ed un gruppo di estremisti pro-Israele per preparare un ruolo strategico per lo stato di Israele (1996) nel quale i palestinesi dovevano essere fisicamente eliminati dalla Palestina ed Israele doveva essere la potenza regionale del Medio Oriente. Sia Feith sia Wolfowitz all’inizio delle loro carriere furono accusati e puniti per aver trasmesso documenti del governo americano agli israeliani. Per almeno venti anni hanno collaborato con le politiche israeliane e, mentre lavoravano per il governo e no, hanno lavorato intimamente con funzionari israeliani in Usa ed in Israele. Tali influenti sionisti, anche prima di assicurarsi le alte posizioni al Pentagono ed al Dipartimento di Stato, erano forti sostenitori di attacchi militari USA contro gli avversari di Israele nel medio oriente, come il Libano, la Siria, l’Iran, l’Arabia Saudita e naturalmente l’Iraq. La loro idea militaristica era indipendente da come tali attacchi avrebbero influenzato gli interessi petroliferi Usa nell’area, la stabilità regionale, le relazioni con l’Europa, i paesi musulmani o il resto del mondo. I sionisti del Pentagono sono stati tra i primi a connettere gli eventi del 9/11 con l’Iraq, nel tentativo di manipolare l’ira pubblica americana contro lo stato laico iracheno. Essi sono stati responsabili dell’aver inventato la storia che l’Iraq stava importando uranio dal Niger per sviluppare armi nucleari. Wolfowitz ammise di aver promosso il falso pretesto che l’Iraq aveva armi di distruzione di massa per creare un “consenso” alla guerra - e tutti i grossi scrittori sionisti e gli “esperti” hanno sostenuto tale linea. La principale lobby pro-Israele in USA, AIPEC, ha lavorato intensamente e da vicino con lo stato di Israele, ed i sionisti chiave al pentagono con i loro gruppi di consiglieri allo scopo di spingere l’invasione americana dell’Iraq. Le principali organizzazioni ebree ed influenti propagandisti nei mass media hanno promosso la guerra, demonizzando l’Iraq e costruendo storie di imminenti minacce. Il solo maggior beneficiario della guerra è lo stato di Israele: la guerra ha distrutto uno dei principali sostenitori dell’Intifadah palestinese ed Israele ha ottenuto mano libera nella sua colonizzazione terroristica delle terre palestinesi. Gli USA, isolati da quasi tutte le principali potenze europee ed i paesi musulmani, a causa della propria agenda a favore di Israele, hanno preso lo status di pariah del regime clericale coloniale israeliano. Tutte le previsioni e le assunzioni di chi era a favore della guerra e dei sionisti anti-arabi sono state provate sbagliate. Gli arabi iracheni non si sono sottomessi all’occupazione USA - hanno formato una potente resistenza che impegna gli USA in una guerra di attrito sempre più prolungata. L’intervento USA non ha assicurato un monopolio del petrolio; ha messo in pericolo la propria fornitura di petrolio nel medio oriente intensificando l’instabilità in Arabia Saudita. La guerra ha inacidito gli affari petroliferi americani nel Caucaso ed ha prodotto incrementi speculativi dei prezzi del petrolio, aumentando il deficit commerciale USA. È ugualmente significativo che mentre gli USA sono immersi nella guerra in Iraq, l’India ed il Giappone si assicurano contratti strategici per l’olio ed il gas in Asia ed in America Latina. I sionisti avevano torto immaginando che gli USA avrebbero prodotto una serie di guerre di successo con gli altri nemici di Israele nel medio oriente - Iran, Siria, Libano, e Arabia Saudita. L’invasione dell’Iraq ha bloccato la maggior parte delle truppe a terra attive americane in una guerra perdente con gravi perdite, così limitando almeno temporaneamente la sua capacità di cominciare nuove guerre per l’impero o Israele. Questo non ha frenato i sionisti del Pentagono ed i loro alleati dell’AIPEC dallo spingere per nuovi attacchi militari all’Iran o alla Siria. A parte l’Inghilterra, Israele è stato il sostenitore ed alleato principale nella conquista USA dell’Iraq per buone ragioni: essi ne sono i principali beneficiari. I sionisti del Pentagono ed i loro zelanti alleati ideologi hanno indebolito l’economia USA allargando il deficit commerciale (Attraverso i prezzi alti del petrolio) ed aumentando il deficit di bilancio (a causa delle spese belliche). Israele non ha sofferto per niente - al contrario le vendite militari agli USA sono aumentate così come le entrate dal Pentagono per i consigli militari, l’addestramento, le missioni in Iraq ed altrove. La guerra USA in Iraq ha varie particolarità ma anche delle caratteristiche comuni con altre guerre. In primo luogo dimostra come un potente minoranza altamente organizzata, finanziariamente potente ed ideologicamente coerente con pensatori amici ben piazzati nelle alte sfere dello stato imperiale, possano deviare le politiche per favorire i bisogni di una potenza straniera, al di sopra ed addirittura contro degli interessi economici importanti. In secondo luogo le decisioni sulle guerre imperialiste, sebbene di solito servano gli interessi di lungo periodo dei settori dominanti della classe capitalista, sono “fatti” dai politici, che hanno le loro agende, lealtà politiche ed ideologiche che potrebbero o no andare a beneficio (o pregiudicare) la classe al potere. La guerra in Iraq è un chiaro caso nel quale le lealtà degli architetti chiave della guerra erano distinte da quelle della classe al potere, che è stata tenuta in conto pochissimo, e men che meno consultata. L’ideologia di tali architetti era “Israele prima di tutto, e sempre”. Per coprire i piani di guerra centrati su Israele, i sionisti hanno inventato una serie di “minacce” agli interessi USA che erano state fatte per essere parallele a quelle affrontate da Israele: minacce di armi di distruzione di massa, di terrorismo e di fondamentalismo musulmano. Letteratura di odio anti-arabo ed anti-musulmano è circolata nei mass media, in riviste influenti e nei talk shows mentre un esercito di ideologi sionisti si è dato ad una frenetica attività ideologica - influenzando la società americana - e dando luogo ad una ondata di schiuma di vituperio dai cristiani fondamentalisti, gli alleati neo-conservatori, ed i membri liberali del Congresso. L’attacco generalizzato dei sionisti contro gli stati arabi e gli arabi in generale era diretto all’obiettivo strategico di estendere la dominazione israeliana oltre la Palestina (la “Grande Israele”) non per mezzo di colonizzazione diretta ma di una serie di regimi clienti legati agli USA - le cui principali istituzioni di politica estera dovevano essere soggette all’influenza sionista. Le formule ideologiche adottate per promuovere la dominanza USA-Israele sul mondo arabo erano quelle di un “mercato comune del medio oriente” basato su di una campagna per “democratizzare la regione”. Entrambe le formule servivano come base ideologica per la guerra permanente nel medio oriente, l’installazione di regimi fantoccio con doppi scopi, pronti a servire sia gli interessi energetici USA sia la penetrazione di mercato di Israele. La manipolazione da parte di tali ideologi sionisti del “mercato libero” e della retorica “democratica” ha risuonato bene tra i liberali ed i conservatori imperialisti, anche mentre lo stato imperiale USA ed Israele stavano negando ai palestinesi i loro diritti democratici elementari nonché i mercati interni. Le tattiche dei sionisti influenti ed i loro estesi networks negli USA erano diretti a fondere gli interessi espansionistici israeliani con gli obiettivi imperialisti USA, per legittimare la loro sottomissione alle politiche dello stato israeliano - una politica cui ha fatto eco il presidente Bush. Nel mondo vero, tuttavia, mentre gli USA continuano a subire pesanti perdite in Iraq ed il debito di guerra è cresciuto per milioni di dollari al giorno, e mentre i suoi “partner nella coalizione” hanno abbandonato la guerra, gli influenti sionisti dentro e fuori il governo hanno intensificato la loro pressione sugli USA per aumentare l’invio di truppe in Iraq e per cominciare nuove guerre. La prova delle fedeltà sioniste agli interessi israeliani si trova nel fatto che essi hanno perseguito la politica di guerra anche se questa ha indebolito la posizione strategica globale americana, aumentato lo scontento nelle elite militari e civili ed aumentato la probabilità di una crisi economica risultante dai deficit di guerra e da un dollaro sempre più debole. I sionisti al potere sono così appiattiti sulla politica israeliana che sono totalmente tetragoni agli effetti che le loro politiche hanno sull’impero USA, sull’economia interna e sulla società civile. In effetti l’attacco imperiale USA dell’Iraq può essere interpretato come una guerra per procura per conto di una potenza regionale, progettata ed eseguita da policy-makers influenti la cui lealtà primaria è la difesa degli interessi della potenza regionale locale. Gli zeloti sionisti hanno incorporato agli USA lo stesso stile patologico di politica paranoica di massa prevalente in Israele: la politica della minaccia terroristica permanente, della paura continua, di un mondo ostile, di alleati di cui non ci si può fidare... Gli zeloti sionisti hanno condotto l’attacco ideologico avvelenando le relazioni con la Francia ed altri paesi europei che hanno mancato di rispondere favorevolmente alla repressione sanguinosa di popoli occupati. Nessun gruppo politico ha fatto di più per indebolire la sostenibilità dell’impero americano degli zeloti sionisti al governo ed il massiccio network pro-Israele ben finanziato degli USA. Il Congresso, l’esecutivo, i governi degli stati e locali, ed i media nazionali e locali sono finiti sotto l’influenza della lobby ebrea e della loro agenda al punto che nessuno, o solo pochissimi, osano criticare Israele o i suoi rappresentanti in America. Lo spaventoso potere della configurazione pro-Israele ha inevitabilmente provocato una opposizione - principalmente da funzionari non eletti. L’FBI sta preparandosi ad accusare vari funzionari dell’AIPEC per spionaggio a favore di Israele. Quasi tutte la principali organizzazioni ebree si stanno preparando a difendere l’AIPEC e la sua pratica di distorcere la politica americana verso l’agenda “Israele prima di tutto”. Per l’inizio del 2005 era chiaro che la struttura di potere sionista aveva bloccato l’indagine. Numerosi ufficiali militari e della CIA hanno denunciato il potere sionista nel progettare e promuovere gli interessi di Israele al di sopra degli interessi americani. Nel mentre i sionisti insieme ai neo-conservatori hanno effettuato con successo purghe, o “neutralizzato” analisti indipendenti nella CIA, alla Difesa e nel Dipartimento di Stato che criticavano la dottrina delle guerre in sequenza contro gli avversari di Israele nel medio oriente. La seconda amministrazione Bush è completamente controllata da estremisti neo-conservatori e sionisti. La visione comune che percepisce le potenze imperiali mondiali come chi detta la politica delle potenze regionali minori chiaramente non riesce a spiegare le guerre americane in medio oriente. Tale visione è inadeguata in quanto non si occupa di una serie di speciali (almeno nella storia moderna) fenomeni che hanno luogo nella struttura che concepisce le politiche americane - il ruolo attivo di una minoranza privilegiata ed influente profondamente parte della struttura decisionale e la cui prima fedeltà è ad un altro stato. È come se lo stato di Israele avesse colonizzato le sfere principali del potere politico nello stato imperiale. Tali coloni tuttavia non sono esattamente trapiantati o emigranti dalla loro patria. Piuttosto nella maggioranza sono cresciuti e sono stati istruiti nel centro imperiale, dove hanno avuto lucrose carriere ed hanno, nella maggior parte dei casi, appoggiato fortemente l’espansione imperiale USA ed il militarismo. Sono cresciuti influenzando le più alte sfere del potere politico. Non hanno mai subito discriminazioni, né hanno mai sofferto di esclusione politica e sociale. Non sono stati marginalizzati - sono integrati nei centri di potere. Nondimeno si sono isolati dal resto dei cittadini USA e si concepiscono come portatori di una speciale missione - essere i primi ebrei che appoggiano senza condizioni lo stato di Israele e tutte le sue proiezioni di potere internazionali. Come possiamo spiegare questo irrazionale abbraccio di uno stato militarista da un gruppo di individui che condividono il suo destino solo indirettamente?

7. La guerra nel secolo XXI: comportamento atavico Schumpeter nel suo libro L’Imperialismo e la Classe Sociale, scritto poco dopo la Prima Guerra Mondiale, cercò di inquadrare il suo argomento che il capitalismo è opposto alla guerra dichiarando il riemergere dei residui delle tracce “atavistiche”, appartenenti alle precedenti feudali società e guerrieri, come causa della guerra. Mentre non condivido la visione di Schumpeter sulla pacifica evoluzione del capitalismo, sopratutto di fronte di una serie di guerre imperialiste in Asia, Africa, America Latina ed Europa, considero il suo concetto del comportamento atavistico utile nello spiegare l’irrazionale abbraccio di Israele da parte di ebrei ricchi, istruiti ed altamente influenti. Il loro sottomettersi ad Israele non ha certamente ragioni monetarie, sebbene Israele remunerasse spie ebree americane come nel caso di Jonathan Pollard. Che cosa provoca l’esibizione di fanatica fedeltà ad una potenza imperialistica coloniale impegnata in una pulizia etnica da parte di un gruppo di elite moderna o post-moderna? Il movimento sionista ed i suoi sostenitori ricchi ed influenti ed i suoi leaders sono un gruppo altamente coeso e disciplinato che mostra tolleranza zero verso qualsiasi dissidente ebreo o altri critici dello stato guerriero o dei loro sostenitori in tutto il mondo. Cosa spiega l’evidente anomalia di professori, dottori, avvocati, banchieri di investimento, mogol dei media, e affaristi milionari dell’immobiliare, altamente istruiti, che danno un sostegno senza condizioni ad uno stato impegnato in atti di vendetta primitivi, in torture di massa dei prigionieri, di punizione collettiva (distruggendo le case di chi è sospetto di guerriglia, prendendo ostaggi tra i membri della famiglia), distruggendo sistematicamente le coltivazioni e sradicando centinaia di migliaia di agricoltori, comunità vecchie di seicento anni? Essi sostengono antichi diritti e l’umiliazione vendicativa ed il soggiogamento basati su credenze religiose mitologiche. La primitiva credenza in una popolazione “superiore” o speciale viene usata per giustificare crimini di sangue non è che il barbarismo rituale dell’antica giustizia tribale. Tale atavico comportamento è, tuttavia, legato alla più moderna tecnologia militare nelle mani di esperti tecnici altamente capaci. La combinazione della coesione tribale, della mitologia religiosa, di armi high-tech e l’irresistibile desiderio di esercitare il potere per conto di uno stato militare basato sull’esclusività razziale e religiosa è una pozione potente da inalare per i sionisti USA. Vi sono immense soddisfazioni psicologiche nel fare parte di un potente ed esclusivo gruppo con una visione o fantasia del revival di un “regno perduto”, un senso di essere parte di un popolo superiore, membri di una cultura dei sopravvissuti che ha sopportato sofferenze speciali, e perciò possiede il diritto di commettere atti violenti e di usare la propria capacità di colpire gli avversari ovunque senza essere limitata dalle convenzioni internazionali che servono solo a limitare le prerogative di un popolo che “ha diritto”. Le fedeltà tribali hanno regole di condotta strettissime per tutti quelli che vengono considerati membri, sia che siano praticanti attivi della politica sionista o anche critici di Israele - casa del popolo scelto. Le regole tribali sono interpretate in maniera differente da differenti segmenti della diaspora ebrea. Per i presidenti delle principali organizzazioni ebree ed i loro funzionari vi sono cinque comandamenti: (1) Tu non criticherai alcuna azione di alcun leader israeliano in alcun momento, non importa quanto sia terribile il crimine, o quanto spesso sia ripetuto, e per quanto vasto sia lo scandalo nel mondo; (2) Tu non permetterai ad altri di criticare o di agire in maniera contraria agli interessi dello stato ebreo o di organizzazioni che abbracciano l’ideale sionista; (3) Ogni arma, finanziaria, fisica, psicologica, ideologica o economica può essere legittimamente usata per indebolire, isolare, screditare o stigmatizzare i critici della patria tribale o alcuna delle organizzazioni tribali nel mondo; (4) Tu cercherai fondi da qualsiasi fonte (legale o illegale), pubblica, sociale o privata per finanziare la macchina militare dei leaders tribali - tributi ottenuti da “altri” minori devono aumentare la sicurezza e gli standard di vita del popolo scelto; (5) Tu dichiarerai lealtà prima e sopratutto all’identità tribale, poi ai poteri che appoggiano la nostra tribù ed infine a “valori universali”. Malgrado aspre critiche da parte di una minoranza di ebrei dissidenti, sia in Israele sia in Usa o altrove, vi sono certi codici non detti che sono osservati anche dai commentatori più critici. Uno non deve mai criticare o identificare il potere delle organizzazioni ebree negli USA e la loro influenza sul governo I progressisti ebrei de facto negano il potere ebreo nel formare le politiche USA nel medio oriente, e restringono il potere del movimento contro la guerra esonerando uno dei pilastri ideologici della macchina da guerra imperiale. Il secondo codice non detto seguito dagli ebrei progressisti osservanti è la negazione che Israele ha una influenza sulle politiche mediorientali americane per mezzo di lealisti tribali in USA. I progressisti ebrei escludono deliberatamente e sistematicamente alcuna menzione del potere ed influenza ebrea nella politica mediorientale USA per mezzo di una concentrazione esclusiva sugli interessi petroliferi e sugli ideologi neoconservatori (che solo per coincidenza sono appartenenti alle tribù ed ai loro seguaci). In deferenza a o più precisamente a causa del loro condividere una identità con la tribù - rifiutano di includere qualsiasi studio sistematico dell’ovvio ed evidente esercizio del potere in ogni branca del governo, dei processi elettorali e dei media. Come con il medio oriente, Israele è considerata dagli ebrei progressisti uno strumento dell’imperialismo USA anche se lo strumento è a doppio taglio - Israele usa gli Stati Uniti per colpire i propri avversari, per costruire la propria macchina militare e per costruire i propri sistemi di armi commerciali da vendere anche ai competitori degli USA (per es. la Cina). L’emersione di comportamenti atavistici e la sua estensione nell’elite sionista è uno sviluppo relativamente recente (degli ultimi venti anni) e va contro le pratiche universalistiche, laiche e dai valori e pratiche socialisti e le pratiche comunali e religiose e credenze di molte delle comunità durante i secoli precedenti. L’abbraccio del potere imperiale, il movimento dai valori religiosi comunitaristi verso l’appoggio allo stato militaristico di Israele, il passaggio dall’internazionalismo e socialismo verso un abbraccio incondizionato di una meschina ideologia esclusivista ha attivato il latente comportamento atavistico associato con l’uccisione vendicativa degli avversari e la cieca lealtà singolare all’idea della supremazia di Israele nel Medio Oriente. Tradotto nel contesto USA, significa virulenta propaganda a favore della guerra, advocacy dei campi di concentramento per i credenti islamici (come proposto da Daniel Pipes ed altri) e collaborazione con gli agenti del Mossad nella promozione delle strategie militari israeliane e delle loro mete politiche ed economiche, utilizzando tutti gli strumenti del potere entro gli USA e con i clienti internazionali dell’America (la regione Kurda dell’Iraq, per esempio). Il comportamento atavico assicura i propri obiettivi attraverso la astuta manipolazione e il gonfiaggio artificiale di “timori” che emanano dai nemici di Israele. L’idea è quella di creare un supporto di massa negli USA per guerre in nome di Israele. Gli ideologi sionisti USA, basandosi sull’isolamento politico auto-prodotto che lo stato di Israele si è procurato durante la selvaggia distruzione della Palestina araba, hanno elaborato e predicato una visione paranoica del mondo nella quale tutte le organizzazioni internazionali (l’ONU, la World Court, ecc.) ed i forum, i sondaggi internazionali, l’Europa, l’Asia, l’America Latina e l’Africa vengono accusate di anti-semitismo perché riconoscono e condannano la violazione israeliana dei diritti umani e politici dei palestinesi. Più grande la violenza “giustificabile” di Israele, più grande la condanna del suo comportamento, più isterica e stridente l’ira che emana dai principali centri sionisti, più grande lo sforzo comune di screditare le organizzazioni internazionali ed aumentare il supporto per gli USA. Proprio come un immaginario uomo primitivo urlerebbe forte e afferrerebbe una pesante mazza quando gli altri dicessero che ha oltrepassato il loro territorio, così anche i sionisti afferrano la mazza del potere militare USA per martellare chi sfida le trasgressioni israeliane. Il comportamento atavistico non è limitato ai sionisti ricchi. Si può trovare tra i militaristi civili, i sionisti cristiani ed altri fondamentalisti religiosi, che difendono e praticano illimitata violenza e guerre imperiali permanenti. Sotto la maschera dei discorsi civilizzati e dei toni moderati si trova il desiderio a malapena represso del potere illimitato, della guerra totale e della tortura selvaggia senza compromessi. Il comportamento atavistico minaccia sempre più di travolgere la base razionale dei calcoli economici. I militaristi civili che avrebbero potuto essere visti da molti capitalisti come un mezzo tra gli altri per conquistare mercati ed ottenere risorse strategiche hanno gradualmente preso una vita autonoma, subordinando gli interessi capitalisti al loro desiderio smodato di potere illimitato. Comportamenti atavistici sono l’apogeo del potere imperiale USA ed il suo finale ritorno alle epoche buie. Le guerre presenti e future nel medio oriente non possono essere spiegate meramente recitando un inventario di risorse economiche e combinandolo con i progetti strategici imperiali. Questo riduzionismo razionalistico ed economistico manca di considerare specifici determinanti ideologici ed irrazionali che hanno dimostrato di avere un più grande potere esplicativo.

8. Privatizzazione e guerra

Uno degli obiettivi strategici per i politici imperialisti è la privatizzazione delle risorse pubbliche sia come “fine” sia come un mezzo per assicurarsi il controllo politico, sociale, economico e culturale sul paese per rafforzare la costruzione del impero. Le strategie di privatizzazione sono realizzate sia con mezzi politici sia con mezzi militari ed avvengono attraverso invasioni militari o con colpi di stato fatti da giunte militari. La privatizzazione è il primo passo verso la denazionalizzazione e la ricolonizzazione dello stato e dell’economia. La de-nazionalizzazione dell’economia di solito segue l’imposizione da parte di agenzie di prestiti imperiali di strategie macro-politiche denominate aggiustamenti strutturali che comprendono tra l’altro la privatizzazione di imprese pubbliche - specialmente settori strategici come l’energia, il petrolio, i minerali, le telecomunicazione, la finanza, le banche. Il moto verso la de-nazionalizzazione segue uno o due strade - o l’acquisto diretto da parte di multinazionali straniere di beni nazionali o un processo in due fasi, attraverso il quale i capitalisti nazionali prima comprano le imprese pubbliche e poi le rivendono al capitale straniero. Direttamente o indirettamente, la privatizzazione significa controllo estero su decisioni economiche essenziali (investimenti, marketing, trasferimento di profitti, ecc.) in settori strategici dell’economia. Il controllo straniero di industrie strategiche significa potere decisionale su industrie locali e sfruttamento delle risorse naturali. Oltre alle conseguenze economiche, la privatizzazione/de-nazionalizzazione (P/D) è uno strumento politico di costruzione imperiale: 1. Implica il reclutamento di “executives” nazionali, funzionari finanziari, pubblicisti, managers, economisti che diventano una base politica attiva nell’appoggiare e promuovere più profonda ed estesa colonizzazione e sottomissione politica al potere imperiale. 2. I più alti executives delle imprese P/D giocano un ruolo guida nell’influenzare e dirigere le organizzazioni settoriali (manifatture di automobili e parti, associazioni bancarie, consorzi minerari, ecc.), egemonizzando così i capitalisti nazionali entro le associazioni ed assicurandosi la loro acquiescenza in progetti imperiali e coloniali. 3. Le aziende P/D possono lavorare in coppia con lo stato imperiale per fare pressioni su di un regime per fargli seguire le politiche imperiali diminuendo la produzione economica o disinvestendo. Per esempio negli anni ’60 il Dipartimento di Stato ordinò alle raffinerie possedute da americani di lavorare le importazioni di petrolio cubane dalla Russia per rovesciare il regime di Castro. 4. Il governo americano frequentemente installa “agenti” (CIA ed FBI) in multinazionali americane. Queste forniscono una copertura legale per agenti dell’intelligence coinvolti in operazioni di de-stabilizzazione, di spionaggio e reclutamento di businessmen locali e capi sindacali per servire gli interessi imperialisti. 5. Le aziende P/D forniscono ai politici imperialisti forza addizionale per fare pressioni su di un regime per farlo sottomettere alle politiche dell’IMF e per appoggiare il potere coloniale per mezzo dell’ALCA. 6. Le P/D offrono un pretesto per l’intervento e conquista imperiale, usando la scusa che gli invasori stanno proteggendo la proprietà di cittadini USA. 7. Le P/D forniscono una testa di ponte per moltiplicare le privatizzazioni usando alleati locali ed influenza politica, seguendo i takeovers iniziali. Si tratta di un effetto domino che conduce ad un potere cumulativo, da impresa a impresa, da settore a settore, dall’economia ai media, dall’economia ed i media al controllo politico. La P/D ha un effetto catalizzatore nel rafforzare i politici imperiali e forzare la mano di regimi recalcitranti.

9. La dialettica di P/D e la guerra

Le guerre sono motivate da, e risultano in, privatizzazione e de-nazionalizzazione di proprietà pubbliche. Allo stesso modo, le privatizzazioni portano alla guerra per proteggere e prevenire la ri-nazionalizzazione di industrie strategiche. Le privatizzazioni sono di frequente accompagnate o seguite dalla concessione di basi militari, rafforzando così la presenza coloniale e indebolendo la sovranità di stati del terzo mondo. Come minimo le privatizzazioni sono quasi sempre accompagnate da “accordi cooperativi” militari ed “accordi di difesa reciproca” che in effetti permettono la presenza di consiglieri militari americani nei ministeri della difesa, l’indottrinamento e training di ufficiali militari ed una “formula legale” che permette l’intervento militare USA se e quando un regime cliente è minacciato. In altre parole la privatizzazione e de-nazionalizzazione indebolisce gli stati del terzo mondo - priva lo stato di risorse economiche, redditi e leve di potere, mentre restringe severamente la sua sovranità. Clienti indeboliti spesso forniscono soldati mercenari per future guerre coloniali ed imperiali di occupazione come in Iraq, Afghanistan ed Haiti.

10. Guerre coloniali nel secolo XXI

Nel secolo XXI le guerre imperiali, specialmente le guerre coloniali multiple che richiedono occupazione militare di un paese colonizzato, possono solo essere sostenute reclutando soldati mercenari da regimi clienti. Le forze armate imperiali americane sono incapaci di sostenere una occupazione coloniale che debba affrontare una guerra popolare prolungata senza un appoggio mercenario di larga scala da regimi clienti. Ciò è molto evidente oggi in Iraq (ed Afghanistan), dove gli ufficiali coloniali USA ed il loro regime fantoccio stanno cercando disperatamente di mettere insieme un esercito di mercenari iracheni e afghani che si accolli i rischi della sicurezza (la repressione dei popoli colonizzati). L’esercito coloniale USA, in particolare i riservisti dell’esercito, è demoralizzato e sta subendo un forte declino numerico. Dato il coinvolgimento imperialista in due paesi (Iraq ed Afghanistan), Washington si è volta al reclutamento di mercenari dai propri regimi clienti in America Latina per fornire varie migliaia di ufficiali e soldati per sostenere il regime fantoccio di Haiti.Visto che gli strateghi imperiali ed in particolare i neoconservatori ed i sionisti hanno fatto della conquista militare il centro dell’espansione imperiale, paradossalmente l’anello debole della catena imperiale è diventato quello militare, dato che si tratta di attuare guerre imperiali, occupazione coloniale, controllo e predazione economica. Nel passato lo stato imperiale USA rovesciò il regime di Arbenz in Guatemala (1954), quello di Mossadegh in Iran nel 1953, si trovò invischiato nel fallimento dell’invazione di Cuba nel 1961, organizzò attraverso la CIA il colpo di stato in Cile del 1973, la guerra USA-Contra in Nicaragua negli anni ’80, tutti diretti verso la P/D delle economie oltre a servire le strategie geo-politiche imperiali. In anni recenti tuttavia lo stato imperiale ha fatto conto sempre di più sul finanziamento elettorale di politici civili e sulla pressione da parte delle organizzazioni finanziarie internazionali per implementare la P/D. Solo nel medio oriente dove la potenza sionista-israeliana deve essere considerata l’invasione militare è stata la politica che è stata scelta. La fiducia nella guerra per privatizzare e colonizzare continua ad operare dove le strategie elettorali civili finanziate dall’impero hanno fallito. Vengono in mente due recenti casi. La guerra interna USA al Venezuela, dove un colpo di stato finanziato e diretto dagli USA ha brevemente (48 ore) rovesciato il presidente Chavez è un caso tipico. In quel breve periodo di tempo il regime fantoccio di Carmona ha immediatamente interrotto le relazioni con Cuba, si è ritirato dall’OPEC ed ha cominciato a fare piani per privatizzare l’azienda di stato dei petroli prima che il potere popolare rimettesse Chavez al potere e ritirasse i decreti. Il colpo sponsorizzato dagli USA ed il seguente blocco dei capi nell’industria petrolifera erano parte di una strategia di guerra interna progettata per creare una situazione sfavorevole ai fini di manipolare i risultati elettorali. Allo stesso modo in Yugoslavia gli Stati Uniti in alleanza con gli imperialisti europei hanno lanciato una invasione militare non provocata, usando terroristi croati e kossovari per distruggere la nazione yugoslava e mettere su mini-stati nei quali le imprese che prima erano gestite autonomamente sono state P/Dzzate, sono state piazzate grosse basi militare e reclutate truppe mercenarie per le guerre coloniali del medio oriente. La P/D sia quando avviene per mezzo di guerre imperiali sia quando avviene per mezzo di politica elettorale finanziata implica competizione inter-imperialista e conflitto su quale degli stati imperialisti prenderà le lucrose imprese ex-pubbliche. L’esperienza in Europa dell’est ed in America Latina suggerisce che i successi politici USA sono risultati nella presa da parte delle potenze europee delle aziende privatizzate più lucrose nel petrolio, le telecomunicazioni e la finanza. Similmente nella rottura della Yugoslavia gli europei si sono assicurati influenza e controllo sui mini-stati più ricchi, la Croazia e la Slovenia, mentre gli USA hanno colonizzato i più poveri e mafiosi - il Kosovo, la Macedonia, il Montenegro e la Bosnia. La svolta verso guerre imperiali unilaterali riflette questa realtà di benefici ineguali dalle guerre cooperative USA - UE. L’invasione unilaterale dell’Iraq era progettata per massimizzare il controllo americano della privatizzazione e de-nazionalizzazione a venire dell’industria petrolifera irachena e per tagliare alla base i benefici europei dalla “ricostruzione” post-bellica oltre che per privilegiare gli interessi israeliani nel medio oriente. Se l’espansione imperialista è legata alla P/D, la competizione e conflitto tra l’imperialismo Usa e quello UE dà la forma ed il metodo attraverso il quale tale espansione ha luogo. Il ricorso USA alle forme unilaterali ed ai mezzi militari è in relazione con il “vantaggio comparato” americano in termini di armamento militare e la prevalenza di militaristi civili nei luoghi di decisione. Le dottrine della “guerra totale”, della “guerra offensiva”, e la supremazia unipolare del mondo erano tutte progettate ed attuate da una elite speciale di ideologi politici, con un insieme specifico di attributi politici - gli mancano legami diretti con la gerarchia militare tradizionale ed hanno un dimostrato disprezzo per i comandi militari e la loro intelligence. Questi militaristi civili si concepiscono come una elite scelta per mettere in atto la missione di terrorizzare avversari veri ed immaginari internazionalmente e di punire, espellere o mettere a tacere i rivali militari e di intelligence entro lo stato. Il loro militarismo estremista è correlato direttamente alla loro distanza dalla effettiva atrocità delle uccisioni di massa di civili e dalle perdite militari sul campo, ed alla loro vicinanza allo stato di Israele. La loro arroganza nell’esercizio del potere è uguale alla loro abietta ignoranza delle condizioni economiche e politiche e delle conseguenze delle loro decisioni. Tale cieca sottomissione al servizio degli interessi di Israele li ha portati a mal calcolare il massiccio grado di opposizione irachena alla guerra ed all’occupazione. La loro ricerca della dominazione mondiale ha portato l’insostenibile effetto di multiple invasioni militari, che porta all’indebolimento dell’impero USA. La loro logica militarista è rivelata dall’ignoranza abissale dell’enorme distruzione di lucrosi beni economici e del costo della guerra per l’economia americana. Queste politiche hanno portato a forti divisioni entro lo stato imperiale. In risposta, gli estremisti al Pentagono hanno preso il controllo sull’intelligence e sulle operazioni delle forze speciali, che implicano operazioni clandestine. La seconda amministrazione Bush è più estrema ed anche più aggressiva della prima. Il conflitto politico entro lo stato si sta estendendo alla società civile nella quale più della metà della popolazione si oppone ai progetti di una nuova guerra. Invece di adottare una strategia di costruzione imperiale mischiando pressioni economiche, politiche e diplomatiche con guerre selettive, i militaristi civili per il medio oriente hanno confidato solo sulle strategie militari. Anche entro questo approccio militare unilaterale hanno scelto le misure più estreme, guerre permanenti unilaterali, contro la possibilità di coalizioni (e di dividere poi le spoglie coloniali) e guerre limitate nel tempo e nello spazio. L’estremismo militare alla ricerca di guerre coloniali insostenibili non è una virtù. La sporca piccola guerra coloniale israeliana, malgrado le sue quotidiane uccisioni di civili, bombardamenti terroristici e tortura rituale con umiliazione dei palestinesi non ha avuto successo in sessanta anni di attività contro 3 milioni di palestinesi nonostante la coscrizione obbligatoria ed i riservisti a vita. I militaristi civili nello stato imperiale non hanno imparato nulla dai fallimenti israeliani: per loro Israele non può sbagliare mai, è il loro modello ideologico della volontà militare di conquista. I nostri militaristi civili, nella loro esaltazione, credono che 150,000 persone delle forze coloniali possano sconfiggere 200,000 combattenti armati della resistenza appoggiati da oltre 20 milioni di concittadini.

11. La mente dei militaristi civili

Uno degli aspetti chiave dell’ascesa al potere dei militaristi civili è stata la loro abilità nell’applicare i principi organizzativi che servono ai loro programmi politici. Le loro procedure, che non sono di solito spiegate in documenti espliciti, possono essere dedotte dal loro comportamento organizzativo. Per ragioni di spazio, possiamo dare uno schema del loro modus operandi: 1. Precipitare la guerra in modo da escludere il dibattito pubblico e l’analisi sistematica di chi ci guadagna e chi ci perde, e i risultati tattici ed i costi strategici. Dato che i militaristi civili sono venuti al potere con una dottrina già fissata e coorti disciplinate, non è stato difficile per loro imporre le proprie idee su rivali frammentati e dispersi e su chi si opponeva tra i militari e la burocrazia governativa. Avvantaggiandosi della nozione della “supremazia civile” sono stati in grado di imporre le loro dottrine militaristiche estreme sui loro critici entro le sfere di comando militari tradizionali, che hanno attaccato accusandole di essere “troppo burocratiche e caute”. In effetti il loro ultra-volontarismo nelle dottrine militari era in conflitto con le politiche più razionalmente calcolate degli strateghi militari. 2. Facilitare un evento apocalittico è stato un elemento essenziale nell’ascesa del civile militarista nelle posizioni decisionali imperiali e la presa dei luoghi di potere in termini di capacità di guerra. Documentazioni massicce ed analisi critiche prese dall’intelligence ufficiale rivelano che i militaristi civili erano a conoscenza, ed attivamente coinvolti nella facilitazione degli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001. I militaristi civili il giorno dell’evento terroristico hanno messo in moto la loro agenda medio orientale e l’attuazione della loro estremistica guerra offensiva. Essi hanno deliberatamente indotto e magnificato uno stile di tipo paranoico in politica centrato su di un immediata minaccia terroristica mondiale contro milioni di civili indifesi basata su armi chimiche, biologiche e nucleari (malgrado il fatto che l’attacco del 9/11 sia stato effettuato con economicissimi taglierini di plastica). Questa bizzarra campagna ideologica del terrore senza precedenti orchestrata dai militaristi civili somigliava fortemente alla politica paranoica del regime israeliano che spingeva per una crociata giudaico-cristiana contro una minaccia terroristica mondiale islamica. 3. Le missioni messianiche sono una componente costante della mentalità del militarista civile. Esse sono in parte cinici esercizi nella manipolazione di ideali democratici universali ed in parte il risultato di un fervore a favore della supremazia mondiale USA. Lo zelo missionario messianico ha la conseguenza prevista di creare una auto-giustificazione per le evidenti violazioni dei diritti umani, e della leggi interne ed internazionali. I militaristi civili sanno che le loro invasioni militari distruggono i diritti democratici all’autodeterminazione, che la loro posizione a favore dell’occupazione militare conduce alla negazione dei diritti di autogoverno democratico, e nonostante questo proclamano che il loro obiettivo è di “democratizzare il medio oriente”, una pretesa cui fanno eco i mass media. A parte il cinismo, la missione messianica alimenta i feroci attacchi contro critici veri o immaginari che accompagna le misure repressive autoritarie, il cui obiettivo è l’intimidazione dei critici e l’incitamento ad arresti arbitrari, detenzioni indefinite e l’uso della tortura sui sospetti. 4. Le campagne militari moralistiche hanno la virtù di non dover produrre fatti per giustificare assalti violenti su popoli e nazioni. La questione per i militaristi civili non è se un attacco o una minaccia militare veramente esista. L’elemento essenziale per loro è che vi è un mondo auto-definito di buoni e cattivi - un potere mondiale virtuoso (gli USA) unito con un complice regionale (Israele) contro un “altro” cattivo (i musulmani, il terzo mondo, gli stati indipendenti) ostile alla costruzione imperiale USA ed alla colonizzazione israeliana. I crociati morali tra i militaristi civili credono che le masse debbano essere ingannate da una “nobile bugia” perché incapaci di capire le virtù più alte della guerra permanente per assicurare la supremazia mondiale americana ed un mini impero regionale o “Grande Israele”. Molti critici progressisti hanno versato galloni di inchiostro per confutare le bugie dei militaristi sulle armi di distruzione di massa irachene ed i legami di Saddam Hussein con Al Qaida. Questa è una impresa commendevole ma irrilevante per i militaristi civili perché per loro la verità è incorporata nelle loro azioni militari e non nei pretesti (le bugie) che propongono ufficialmente. Finché le bugie funzionano, vale a dire finché servono a lanciare una guerra, a prepararne altre, a terrorizzare la popolazione per fargli appoggiare la guerra, e prendere il controllo delle leve del potere, una “verità più alta” diviene realtà: l’inizio della guerra offensiva permanente. 5. La teoria dello “spazio vitale” è intimamente collegata alla pratica dei militaristi civili della guerra permanente. Nella loro visione volontaristica paranoica, non vi sono spazi e tempi sicuri. Le minacce esistono in una serie di cerchi concentrici dalle popolazioni islamiche del medio oriente che circondano Israele verso l’esterno quindi in nord Africa, Asia ed Europa occidentale. Le minacce alla sicurezza sono presenti tra i “vecchi stati europei” ed i paesi del terzo mondo che rifiutano di subordinarsi al potere americano. Per ottenere lo “spazio vitale” negli USA ed ovunque i suoi interessi di affari, basi militari ed operazioni possono (o dovrebbero) essere una presenza dominante, la questione della sicurezza diventa un codice per guerra perpetua clandestina, aperta, militare, politica o ideologica. In ultima analisi, per i militaristi civili solo un mondo nel quale gli USA esercitano il potere imperiale assoluto e supremo sarà sicuro. Per dare forza al loro potere nello stato imperiale, i militaristi civili hanno perseguito alcune riforme organizzative. Per ragioni illustrative possiamo citare almeno tre tipi di riforme con le loro ragioni ufficiali e veri intenti: 1. Decentramento organizzativo: I militaristi civili dicono che vi sono troppi vincoli amministrativi e burocratici per decisioni tempestive ed efficienti in tempi di imminenti minacce terroristiche. In un periodo di emergenza nazionale la vecchia burocrazia diventa parte della minaccia stessa piuttosto che la soluzione. Questa è la ragione ufficiale per nascondere l’intenzione reale che è quella di concentrare il potere nelle mani dei militaristi civili nell’elite del Pentagono e tra i neo-conservatori del National Security Council. La “riforma” è progettata per oltrepassare le linee di comando esistenti fino a che non le si possa “purgare” e rimpiazzare con lealisti militaristi civili. 2. La creazione di fonti non tradizionali di informazione (intelligence): i militaristi civili dicono che l’intelligence tradizionale esistente è inefficace, inaccurata e mastodontica. Essi sono a favore di un “allargamento” della base di raccolta di intelligence, della diversificazione delle fonti e dell’oltrepassare le burocrazie per assicurarsi linee dirette dal terreno per intraprendere azioni decisive e tempestive. La vera intenzione dei militaristi civili è di creare le proprie fonti parallele per inventare intelligence nel loro perseguimento della dottrina della guerra permanente. 3. Più grande “cooperazione” con stati riconosciuti amichevoli con esperienza di lungo periodo e profonda della guerra terroristica: La ragione ufficiale per questa “riforma” che chiede “relazioni speciali” con esperti mondiali è che lo stato imperialista può risparmiare tempo, costruire su esperienze già fatte, evitare gli errori delle procedure per tentativi e la duplicazione con la creazione di nuove burocrazie. Inoltre i militaristi civili, specialmente quelli sionisti, guardano all’apparato anti-terroristico di Israele come ad un modello di successo, malgrado il fatto che Israele sia il sito di azione terroristica più facile. Il vero intento è quello di rinforzare i legami con lo stato di Israele, per aumentare l’informazione distorta ed i flussi di disinformazione, per plasmare le politiche imperiali americane intorno agli interessi medio orientali israeliani. Visto che i sionisti del Pentagono hanno le migliori e più intense relazioni con Israele, chi è meglio piazzato per facilitare la cooperazione di questi ideologi?

12. Conclusione

La dottrina della guerra, ed in particolare della guerra imperialistica americana, è fatta di vari sub-testi e concetti chiave tipo il “mondo unipolare”, le guerre permanenti offensive e la giurisdizione extra-territoriale. Tale dottrina è basata sull’idea di invincibilità imperiale - basata su di un immagine da mass media di guerrieri superuomini americani vincitori che rappresentano una superpotenza che ha sempre ragione. La chiave per comprendere le fonti ed i praticanti di queste dottrine è da trovarsi nell’ascesa di una nuova classe di militaristi civili e dei loro think-tank ausiliari con chi li appoggia nella società civile, che hanno innescato eventi catastrofici per facilitare la loro posizione dominante nello stato imperiale. L’ascesa dei militaristi civili non è passata senza opposizione sia da dentro lo stato imperiale sia da fuori, specialmente dai dirigenti militari e di intelligence precedenti. Nel nuovo millennio una combinazione di circostanze e tempi ma anche di posizionamento calcolato di lungo periodo ha messo in grado un gruppo specifico di militaristi civili di ottenere posizioni strategiche nello stato imperiale - in particolare gli ideologi sionisti intimamente coinvolti in relazioni di lungo periodo con lo stato di Israele. Tali ideologi e la loro coorte di militaristi civili hanno spinto al limite la loro guerra psicologica progettata per terrorizzare la massa della popolazione, per far loro seguire la loro dottrina estremista e far loro fare i sacrifici finanziari ed umani necessari alle guerre in corso. Il presente articolo dimostra che la decisione di lanciare guerre imperiali oggi non è semplicemente il risultato degli interessi economici delle multinazionali USA (del petrolio e no). Nel caso del medio oriente molti di quelli che contano in politica non hanno consultato, né sono stati influenzati, da interessi petroliferi o in altri campi - la maggior parte delle multinazionali aveva in corso stabili e lucrose relazioni con le elite conservatrici dei paesi arabi produttori di petrolio. Al massimo alcune compagnie petrolifere hanno ricevuto promesse di benefici futuri per mezzo delle privatizzazioni del settore petrolifero. La guerra imperiale è stata progettata e condotta da un gruppo di politici con poco interesse o addirittura nessuna nozione dei costi economici della guerra. La forza propulsiva per la guerra va trovata tra i militaristi civili che hanno facilitato un evento catastrofico (9/11) per ricavarne i benefici voluti, vale a dire la possibilità di oltrepassare le gerarchie tradizionali militari e di intelligence. L’appoggio interno per il militarismo estremista è stata indotta per mezzo di massiccia, intensa e continua propaganda instillante paura, fomentata dai militaristi civili per consolidare il proprio potere. La campagna psicologica-ideologica ha permesso vaste spese di risorse e monopolio dei militaristi civili sulle politiche imperiali. La guerra ha preso un significato speciale per la componente sionista dei militaristi civili - serve come un sostegno al potere regionale israeliano. Mentre la dominanza ideologica ed il controllo psicologico esercitato dai militaristi civili sulle masse è formidabile, è anche profondamente vulnerabile. Le sconfitte costanti ed irreversibili sofferte dall’esercito coloniale USA in Iraq hanno dimostrato che l’esercito imperiale americano non è invincibile. L’incapacità degli USA di muovere su nuovi terreni di guerra ha temporaneamente sfidato la dottrina delle guerre offensive permanenti. Lo scontento di massa entro l’esercito coloniale ha tagliato alla base ed esposto l’irrazionalità dei militaristi civili. Le loro proposte di aumentare le truppe in Iraq, aumentando il reclutamento di soldati, vale a dire approfondendo il coinvolgimento Usa in una guerra che non può essere vinta, sta portando a ulteriori perdite umane, grande scontento interno e più grande resistenza in Iraq, mettendo sotto seria pressione l’economia americana già in crisi. L’espansione della guerra all’Iran, basata su di un volontarismo irrazionale, porterà i militaristi civili ad un più grande conflitto con i centri di potere economici e militari tradizionali. La razionalità capitalista basata su calcoli di costi e benefici può facilmente sfidare il comportamento atavistico dei signori della guerra civili, portando a più grandi divisioni interne sia entro l’impero sia fuori. I conflitti tra le elite potrebbero servire ad attivare contro i militaristi civili ed i loro associati settori della classe media “razionale” preoccupati per gli interessi di lungo periodo e di larga scala dell’impero. Dottrine sulla sicurezza basate sullo “spazio vitale” continueranno ad essere usate ma in luoghi più selezionati ed entro i confini della capacità imperiale di reclutare clienti ed alleati. Le guerre, che mettono in pericolo lo status militare dello stato imperiale, saranno riproposte in termini di sfere di influenza - nelle quali gli interessi delle grandi potenze terranno al margine il ruolo esagerato e gonfiato di Israele nella politica mondiale e regionale. Oggi il futuro dell’impero USA ed in particolare il futuro dei suoi militaristi civili dipende da quanto decisamente l’impero sarà sconfitto nel medio oriente. Come va la guerra lì, così andrà il metodo futuro di espansione imperialistica. La totale sconfitta militare dei militaristi civili e del loro nocciolo sionista nel medio oriente risulterà probabilmente in un ripensamento del significato, degli scopi e degli obiettivi delle guerre imperiali. Molto probabilmente i costi e benefici economici delle guerre imperiali torneranno al centro del dibattito tra le elite, senza la deviazione portata dagli interessi dei paesi terzi. Questi dibattiti di elite tenteranno di forgiare un modello nuovo e più limitato e razionale di impero mondiale. La questione di passare dall’impero ad un modo più repubblicano di fare politica può solo essere trattata in un’altra occasione, entro i movimenti anti-imperialistici di massa che cominceranno tra i soggetti coloniali dei centri imperiali, ma potrebbero includere gli esclusi e gli sfruttati entro le capitali imperiali.

Note

* Prof. alla State University, New York e alla Saint Mary di Halifax (Canada).