Guerra alla verità:la verità mistificata della guerra,la verità elusa del lavoro (parte seconda)1

Vladimiro Giacché

1. La verità capovolta

“Appartiene al meccanismo dell’oppressione vietare la conoscenza del dolore che produce” (Th. Adorno, Minima Moralia, § 38; tr. it. Torino, Einaudi, 1994, p.64)

La rimozione pura e semplice della verità è un atteggiamento che facilmente si ritorce contro chi lo mette in atto. Questo è molto chiaro nel caso più estremo: quello della censura. La censura - ove sia scoperta - ha il difetto di rivelare su chi censura cose molto più importanti e significative di quante ne avrebbe rivelato la notizia censurata. Così, quando nel dicembre del 2002 gli Usa fecero letteralmente sparire una parte sostanziale del rapporto consegnato alle Nazioni Unite dagli ispettori dell’Onu in Irak, la prova del coinvolgimento di imprese americane negli affari con Saddam Hussein ebbe la sua conferma più irrefutabile e definitiva. Ma c’è un rimedio a tutto: anziché censurare una notizia, si può ottenere lo stesso effetto limitandosi a distorcerla. Per questa via si può giungere sino a capovolgere completamente la verità. È, questa, una delle funzioni tradizionalmente svolte con maggior zelo dalla stampa in tempo di guerra, come dimostrano, in riferimento alla prima guerra mondiale, Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus. Novant’anni dopo, le cose non sembrano granché cambiate, come dimostra un piccolo campionario di titoli tratti dai giornali del settembre-ottobre 2002. Mancavano ancora alcuni mesi allo scatenamento della guerra contro l’Irak, ma era già abbastanza chiaro quale piega avrebbero preso gli avvenimenti. E i giornali titolavano così:
  la Repubblica, 18 settembre 2002: “La tentazione dell’ONU: ‘Diamo una chance all’Irak’”. Qui uno degli obiettivi primari dell’ONU in base alla Carta del 1948, ossia quello di disinnescare le minacce per la pace mondiale e di risolvere le controversie internazionali senza fare ricorso alla guerra, diventa una tentazione.
  la Repubblica, 22 settembre 2002: “Sfida di Saddam all’ONU. Il regime iracheno: no a nuove condizioni sugli ispettori”. La “sfida” di cui parla il titolo consisteva nel sostenere che, avendo accettato la ripresa delle ispezioni Onu (la cui sospensione nel 1998 rappresentava il motivo di controversia tra Irak e l’Onu stessa), non era necessaria una nuova risoluzione. Nel testo dell’articolo peraltro si legge che la posizione dell’Irak era condivisa da Russia, Cina e forse anche dalla Francia. Nel titolo, quello che era semplicemente un’accettazione delle posizioni e condizioni dell’Onu da parte dell’Irak, diviene una sfida.
  Financial Times, 23 settembre 2002, titolo in prima pagina: “US in pledge to rebuild Iraq” [Gli USA promettono solennemente di ricostruire l’Irak]. L’articolo, che riassume il senso di un’intervista a Condoleezza Rice, è dedicato alla necessità di una guerra contro l’Irak. Al termine di essa, promette la Rice, gli USA si impegneranno per ricostruire il Paese (dopo averlo distrutto con la guerra...). Il titolo riporta solo l’ultima parte del “ragionamento” della Rice. Chi vuole la guerra diviene così chi vuole ricostruire.
  Il Sole 24 ore, 12 ottobre 2002: titolo “Saddam prepara un nuovo disastro ambientale”; occhiello: “Il dittatore sarebbe pronto a incendiare i pozzi iracheni”. Nel testo si afferma che, in caso di attacco americano all’Irak, Saddam potrebbe decidere di incendiare i propri pozzi petroliferi. L’aggredito diventa così colui che minaccia (l’ambiente, in questo caso). Questo titolo in realtà ripropone, per così dire su scala ridotta, il principale capovolgimento della verità su cui è stata imperniata l’intera guerra all’Irak: quello secondo cui l’aggressore si stava in realtà difendendo, attraverso una “guerra preventiva”, dall’aggredito. Su questo vero e proprio scambio delle parti, su questa sorta di chiasmo retorico, i veri aggressori hanno puntato gran parte delle loro carte. Tutti i titoli citati hanno qualcosa in comune: in essi vengono capovolti, a volte in misura quasi paradossale (emblematico il Financial Times), non soltanto la verità dei fatti, ma il contenuto stesso degli articoli a cui si riferiscono. L’operazione è però destinata ad avere successo, e non solo in quanto la maggior parte dei lettori legge soltanto i titoli, ma anche perché questi comunque predeterminano fortemente la griglia di lettura dei relativi articoli. Ci sono poi ovviamente casi in cui il titolo non fa che enfatizzare la distorsione della verità già contenuta nei pezzi a cui si riferisce. Un esempio per tutti. Il 7 aprile del 2003 fa il giro del mondo una fotografia Reuters: raffigura un bambino iracheno di 12 anni, Alì Ismail Abbas, rimasto senza braccia a causa di un bombardamento in cui è stata sterminata la sua famiglia di 16 persone. La foto, che rappresenta uno dei più vibranti atti d’accusa contro l’aggressione angloamericana all’Irak, viene pubblicata con grande evidenza dai quotidiani di tutto il mondo. Il quotidiano la Repubblica sceglie invece di pubblicarla in formato molto ridotto. Molto maggiore evidenza riceve sullo stesso giornale, il 14 ottobre dello stesso anno, un articolo di Enrico Franceschini. Il titolo è sorprendente: “La guerra vinta di Alì”. La “vittoria” di Alì consisterebbe nel fatto che al Queen’s Mary Hospital di Londra gli sono state applicate delle protesi alle braccia. L’articolo non lesina particolari sul fatto che gli specialisti dell’ospedale “hanno disegnato apposta per lui due braccia capaci di piegarsi, aprirsi, chiudersi, e di sollecitare le mani con impulsi elettronici per potere usare anche quelle”; come pure sulle 350 mila sterline raccolte tra i lettori del Daily Mirror, tabloid della capitale britannica che “ha ricevuto l’esclusiva della storia del piccolo orfanello iracheno, senza genitori e senza braccia”;2 infine, ci informa del fatto che Alì “sta studiando l’inglese e si appassiona al calcio”, tanto che “ha un tatuaggio del Manchester United su una delle due braccia artificiali”. Certo, ci dice il Franceschini, “non è proprio il caso di chiamarla una storia a lieto fine. Ma è la prova che gli uomini, quando vogliono, riescono ad alleviare le sofferenze dei loro simili”. Decisamente, ci vuole un bel coraggio per trarre una morale consolatoria dalla tragica storia di un bambino mutilato da un bombardamento. Ma si tratta di un buon esempio di come si possano torturare i fatti, sino a trarne una morale opposta a quella che qualunque persona raziocinante istintivamente ne trarrebbe. A questi deliranti stravolgimenti della verità è fin troppo facile opporre il buon senso di Omar: nell’aprile del 2004 questo iracheno di Falluja, a chi gli faceva presente l’importanza del corridoio umanitario aperto dalla Croce Rossa verso la città, ha così risposto: “È come se io prima ti accoltellassi e poi mandassi mio fratello a curarti. Ma chi volete prendere in giro?”.3 Merita infine ricordare un particolare modo di distorcere la verità. Potremmo chiamarlo il “metodo della sineddoche indebita”. La sineddoche è quella particolare figura retorica per cui la parte di una cosa viene adoperata a designare la cosa nella sua interezza (pars pro toto). In cosa consiste la sineddoche indebita? Nel trascegliere, all’interno di un fenomeno complesso, un elemento irrilevante (e comunque non caratterizzante) ed utilizzarlo quale elemento qualificante per descrivere e definire quel fenomeno. Sembra una cosa un po’ astrusa, invece è concretissima. È il metodo che la stampa italiana, nella sua quasi totalità, ha adoperato almeno a proposito di due grandi manifestazioni contro la guerra di Bush e dei suoi attaché. Primo episodio. Manifestazione del 20 marzo 2004: 1 milione di persone in piazza a Roma contro la guerra in una grande manifestazione pacifica. Al termine della manifestazione, un piccolo gruppo di manifestanti (10 persone? 20 persone?) inveisce contro il segretario dei DS Fassino, colpevole ai loro occhi (e a dire il vero anche ai nostri) di aver aderito due giorni prima ad una pagliaccesca manifestazione “unitaria contro il terrorismo” assieme agli Schifani e ai Cicchitto - manifestazione non a caso andata completamente deserta. La Quercia, dopo qualche esitazione iniziale, decide di cavalcare la vicenda. Il risultato è visibile sui quotidiani di domenica 21, e soprattutto (a causa appunto dell’esitazione) su quelli di lunedì 22 marzo. Emblematica la Repubblica del 22 marzo: tutti, ma proprio tutti, gli articoli dedicati alla manifestazione si limitano a chiosare-commentare-condannare la contestazione a Fassino.4 Secondo episodio. Venerdì 4 giugno 2004, in una Roma spettralmente blindata, si svolge la visita di Bush jr. Altra manifestazione contro la guerra, questa volta esplicitamente sabotata da gran parte del centro sinistra. In questo caso il casus belli è rappresentato dallo slogan “dieci, cento, mille Nassiriya” che - a quanto afferma ad es. Mario Reggio della Repubblica - viene “scandito un paio di volte nei pressi della Piramide Cestia”, proprio all’inizio del corteo, da un gruppetto di imbecilli (o peggio), stranamente non più rintracciabili durante il corteo. Ovviamente tutti i quotidiani - inclusa la Repubblica - dedicano all’episodio la maggior parte dello spazio dedicato alla manifestazione, con relativi titoli scandalizzati. I metodi ora citati di distorcere la verità sono ovviamente molto più semplici a praticarsi della sua semplice rimozione. Non è necessario far finta che la verità non esista. Basta cambiarle i connotati.

2. La verità imbellettata

“Gli Stati Uniti sono impegnati nell’abolizione della tortura in tutto il mondo. Noi ci poniamo alla testa di questa lotta attraverso l’esempio” (G.W. Bush, the Washington Post, 27 giugno 2003)

Ovviamente, c’è modo e modo anche per cambiare i connotati alla verità. Si può metterla a testa in giù, come negli esempi di cui sopra. O si può imbellettarla, metterle un po’ di cerone per farla sembrare meno brutta di quello che è. Ma come si fa, in concreto, ad imbellettare la verità? A questo riguardo l’arma principale è rappresentata dall’eufemismo. L’eufemismo è espressione di una delle fondamentali malattie politico-morali della nostra società: l’ipocrisia. E se l’ipocrisia è stata definita come “l’onore che il vizio rende alla virtù” (La Rochefoucauld), è forse possibile definire l’eufemismo come “l’onore che la menzogna rende alla verità”. Il campionario di eufemismi che il nostro tempo ci pone dinanzi agli occhi è francamente impressionante. Tanto da far sospettare che la loro individuazione ed il loro smascheramento rappresentino oggi uno dei compiti principali del pensiero critico. La maggior parte degli eufemismi comporta una semplice riformulazione tranquillizzante e rassicurante, attraverso cui il fenomeno descritto viene addomesticato e per così dire reso innocuo, ossia non più in grado di suscitare reazioni ostili (indignazione, protesta, ecc.). Molti eufemismi popolano - e non a caso - il terreno dell’economia. Un esempio emblematico lo ha offerto qualche tempo fa l’amministratore delegato di Mediaset, Fedele Confalonieri. Il quale, ad un giornalista che gli chiedeva come valutasse l’elusione fiscale, rispose testualmente: “Dipende. Se la consideriamo una forma di ottimizzazione fiscale non c’è nessun problema”.5 E vale la pena di notare che lo stesso termine di “capitalismo” è praticamente sparito dal lessico, per essere sostituito da termini anodini (e sostanzialmente privi di significato) quali “società di mercato”, “sistema di mercato”, o addirittura “mondo delle imprese”.6 Ma ovviamente la guerra è per sua natura (ossia per il suo intrinseco orrore) l’àmbito privilegiato per l’uso degli eufemismi. Con riferimento all’Irak, il primo eufemismo adoperato dalla stampa statunitense ed inglese riguarda le menzogne fornite dai governi per giustificare la guerra all’Iraq: sovente esse sono state definite “Untruths” (non verità) anziché “Lies” (bugie). Nella nostra lingua, che non conosce questa distinzione, la differenza sembra irrilevante. Non è così: perché utilizzando il primo termine si perde l’intenzionalità del mentire e resta soltanto il fatto oggettivo che non si è detta la verità. Per tale via è quindi più facile far passare l’idea, ad es., che le “untruths” sulle armi di distruzione di massa di Saddam siano state causate da “failures” (inefficienza ed errori) dei servizi segreti, e non - come invece è accaduto - costruite e diffuse ad arte dai governi, talvolta in contrasto proprio con i servizi segreti. Anche “failures”, del resto, è un eufemismo. E infatti, nell’addossare la responsabilità delle torture nel carcere Abu Ghraib ai gradi più bassi della gerarchia militare, le responsabilità dei vertici del Pentagono sono state ridotte, nella migliore delle ipotesi, a “leadership failures” (“carenze nel comando”). 7 Ma veniamo alla “guerra” in quanto tale. È assolutamente notevole la quantità di eufemismi che vengono adoperati a questo riguardo, spesso inventati (e comunque utilizzati con sempre maggiore frequenza) a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. I più usati: “operazione di polizia internazionale”, “azione militare [possibilmente “delle Nazioni Unite”]”, e poi un classico come “forza”. Quest’ultimo termine ricorre a volte in maniera ossessiva. In un’intervista al segretario Ds Fassino si legge testualmente: “noi facciamo parte del movimento per la pace che è fatto di diverse culture e sensibilità. Anche sul tema dell’uso della forza. Su questo vorrei essere chiaro. Io ho il massimo rispetto per chi rifiuta a priori l’uso della forza, ma trent’anni di politica mi hanno insegnato che ci sono dei passaggi in cui la politica può essere costretta a ricorrere alla forza come estremo rimedio”.8 E nel luglio scorso l’on. Violante ha affermato che “serve un chiarimento” nel centro-sinistra sull’”uso della forza nelle crisi internazionali”. Gli eufemismi per la guerra non finiscono qui: abbiamo “regime change” (che sta per “invasione militare”), “difesa preventiva” e “attacco preventivo” (che stanno per “attaccare un paese che non ci ha attaccato”). Ma nel caso della guerra, in fondo, lo stesso tabù rappresentato dall’uso di questa parola - che reca il marchio d’infamia indelebile della realtà a cui si riferisce - è ormai caduto. E l’eufemismo si esprime quindi sotto forma di qualificazione ed aggettivazione della parola “guerra”: abbiamo così la “guerra al terrorismo”, come prima avevamo avuto “guerra umanitaria” (uno degli ossimori più macabri e ridicoli escogitati nei nostri anni); con la significativa novità che la “guerra al terrorismo” è stata esplicitamente definita anche come una “guerra infinita”; ma in occasione della guerra all’Irak è stato risuscitato addirittura il concetto di “guerra etica”;9 e non va dimenticato che questa guerra si è infine magicamente trasformata in “guerra per la democrazia”, allorché è stato chiaro che delle famose “armi di distruzione di massa” di Saddam non c’era neanche l’ombra. Infine, Bush jr. ha avuto il coraggio di dire alle famiglie dei soldati feriti in Irak che “la guerra in Irak è davvero una guerra per la pace”.10 Questo è Orwell: “la guerra è pace” è uno degli esempi di “bi-pensiero” esposti nel suo 1984. In fondo, Orwell si era sbagliato di neanche 20 anni. Ma probabilmente non avrebbe mai pensato che la sua satira si sarebbe applicata così bene al capitalismo reale... Ovviamente, per quanto la guerra venga ammantata di scopi elevati, attraverso i nomignoli vezzeggiativi che le sono di volta in volta affibbiati (l’invasione di Panama venne definita “Operazione Giusta Causa”, quella dell’Afghanistan “Operazione Libertà Duratura”, e ora quella dell’Irak “Operazione Libertà Irachena”),11 resta il problema di definire in modo consono le vittime civili della guerra stessa. Niente paura: si tratta di “effetti collaterali” (come se fossero contingenti e trascurabili, anziché una componente essenziale della guerra stessa). Analogamente, l’esercito israeliano parla spesso di “errori”,12 e definisce “persone non implicate” le vittime civili dei suoi attacchi.13 E gli altri? E le “persone implicate”, ossia gli avversari? Siccome non si può dare patente di legittimità al nemico, si usa un termine che non ha alcun luogo preciso nel vocabolario, come quello di “militanti” o “miliziani”. E ormai, molto più spesso e quasi automaticamente, quello di “terroristi”. L’uso di quest’ultimo termine criminalizzante (potremmo definirlo un “cacafemismo”?) ha reso inutili vecchi eufemismi un tempo adoperati per “assassinare” come: “neutralizzare persone accuratamente selezionate” (presente nel manuale pubblicato dalla Cia nel 1983 per i contras in Nicaragua), o “terminare con pregiudizio estremo” (adoperato dalla Cia nella guerra del Vietnam).14 Tra le caratteristiche della guerra contemporanea, come è noto, vi è il ricorso sempre più massiccio ad eserciti mercenari. Che però è brutto chiamare proprio così. Cosicché, in luogo di “eserciti di mercenari”, si parla di “security contractors”; e i mercenari stessi sono definiti “manager della sicurezza” (definizione, quest’ultima, di fronte alla quale ci si chiede perché non ci si possa spingere appena un po’ più in là e parlare di “manager del trapasso”...). E guai a chiamare le cose con il loro nome: può succedere come a quel giudice di Bari, il gip De Benedictis, che è stato costretto a fare pubblica ammenda per aver definito in un’ordinanza “mercenari” i quattro “manager della sicurezza” italiani rapiti in Irak. Peccato che lo stesso coordinatore dei quattro rapiti, Paolo Simeone, avesse tranquillamente ammesso la cosa in un’intervista alla televisione svizzera!15 In tutto questo grande innovare, una cosa la guerra continua inesorabilmente a recare con sé: l’uso della “tortura” (vedi, da ultimo, alle voci “Guantanamo” e “Abu Ghraib”). Questo è un tasto particolarmente dolente per la propaganda bellicista, perché appare in grado di smascherare tutta la retorica della guerra per la libertà e la dignità umana. Ecco quindi spiegata l’ostinazione con la quale i nostri telegiornali hanno continuato a parlare di “abusi” e “maltrattamenti” ai prigionieri di Abu Ghraib.16 Proprio come aveva fatto Rumsfeld, illuminandoci sull’importanza degli eufemismi anche in sede giudiziaria: “la mia impressione è che, finora, l’accusa sia quella di ‘maltrattamenti’, che ritengo essere tecnicamente diversi da ‘tortura’”.17 Ma anche in questo caso gli eufemismi non sono finiti qui: così leggiamo di “interrogatori coercitivi”, “trattamenti degradanti”, “interrogatori duri”, “tattiche di pressione e intimidazione”, “tecniche di interrogatorio rafforzate”, “pressioni psicologiche”, “pressioni fisiche moderate” (in quanto tali autorizzate già da anni dalla Corte Suprema di Israele).18 Il tutto, ovviamente, giustificato dalla “guerra contro il terrore”. Contemporaneamente ci si adopera per dare una definizione di “tortura” estremamente ristretta e lontana dallo stesso senso comune, ossia di riscriverne il significato. Come ha fatto il vice procuratore generale Jay S. Bybee del Dipartimento della Giustizia Usa in un suo memorandum dell’agosto 2002: perché si possa parlare di “tortura” la vittima deve sperimentare dolori e sofferenze “associate a danni fisici talmente gravi da rendere probabile come conseguenze la morte, lesioni organiche o menomazioni fisiche rilevanti”; quindi “alcuni atti possono essere crudeli, inumani o degradanti, ma non provocare dolore e sofferenza tali da cadere sotto la voce tortura”.19 L’importante, in definitiva, non è evitare che i prigionieri cadano sotto i colpi degli aguzzini, ma che gli atti di questi ultimi “cadano sotto la voce tortura”. Peraltro, è del tutto chiaro che moltissimi casi verificatisi a Guantanamo e Abu Ghraib rientrano anche in questa accezione indebitamente ristretta di “tortura”. E infatti il punto è un altro. Lo esprime con chiarezza il memorandum stilato il 25 gennaio 2002 dal consigliere della Casa Bianca Alberto Gonzales (poi promosso ministro): “la natura della guerra al terrorismo rende obsoleti i limiti imposti dalla Convenzione di Ginevra per l’interrogatorio dei prigionieri”. Probabilmente oggi il sig. Gonzales, riferendosi all’Irak, potrebbe esprimersi più o meno così: “Questa battaglia non ha niente a che fare con l’etica militare tradizionale o con i principi della Convenzione di Ginevra. Se la lotta contro i terroristi non è condotta con i mezzi più brutali, presto giungeremo al punto che le forze disponibili saranno insufficienti per controllare l’area”. Non sarebbe il primo: queste parole infatti le ha pronunciate Wilhelm Keitel, comandante in capo della Wehrmacht, il 16 dicembre 1942.20 Comunque sia, è evidente l’importanza che oggi assume il dominio del linguaggio, il suo controllo. Non stupisce, quindi, che proprio attorno agli eufemismi si svolgano delle vere e proprie battaglie politiche. Citerò due casi. Il primo è rappresentato dalla presentazione del rapporto di Amnesty International per il 2004, che il presidente della sezione italiana di Amnesty ha accompagnato con queste parole: “Stiamo assistendo ad un utilizzo distorto del linguaggio per giustificare l’instaurazione di un clima di paura e di illegalità. Non c’è solo l’utilizzo ipocrita della parola pace da parte di personalità di governi che sono fra i maggiori esportatori di armi, c’è anche un inquietante aspetto semantico, per cui viene stravolto il significato stesso delle parole; perciò la tortura diventa, secondo il segretario Usa alla Difesa Rumsfeld, tecnicamente un abuso e i prigionieri di guerra di Guantanamo combattenti illegali. Dietro a queste manipolazioni appare evidente il tentativo di forzare il concetto stesso di legalità a proprio uso e consumo, in un inquietante scenario in cui la legge perde la sua funzione fondamentale di tutelare le vittime e si trasforma in uno strumento per perpetrare l’impunità dei loro carnefici”. In particolare, “il tentativo dell’amministrazione Usa di annacquare il divieto assoluto di tortura attraverso nuove politiche e il ricorso a un linguaggio quasi manageriale fatto di espressioni quali ‘manipolazione ambientale’, ‘posizioni stressanti’, ‘manipolazione sensoriale’, ecc., è risultato uno dei più dannosi assalti ai valori globali”.21 Il secondo caso riguarda il governo israeliano. Allorché il governo israeliano decise di procedere alla deportazione di Yasser Arafat (decisione poi non attuata a motivo delle pressioni internazionali), il ministro dei lavori pubblici israeliano, Eitam, affermò: “Deportazione è un termine che riguarda troppo da vicino la nostra storia. Non lo userei proprio”. E propose in sua vece il termine di “rimozione”. Altri suggerirono “espulsione”, altri ancora “neutralizzazione”.22 A proposito: non si può abbandonare la politica israeliana, che rappresenta - et pour cause! - uno dei terreni più fertili di ispirazione degli eufemismi contemporanei, senza ricordare il sublime eufemismo con il quale l’ineffabile Fiamma Nirenstein ha definito il Muro che Sharon sta costruendo: “recinto difensivo”.23 Definizione che, per un manufatto in cemento armato, alto dieci metri e lungo centinaia di chilometri, appare un tantinello “minimizzante”... Quest’ultimo eufemismo, decisamente malriuscito, evidenzia una smagliatura nel meccanismo dell’imbellettamento della verità: quando la riformulazione, la ristrutturazione del reale è troppo distante dal reale stesso, l’eufemismo fallisce il suo effetto. In altri casi è la torsione linguistica eccessiva a produrre il medesimo risultato, producendo un mostro che il lettore o l’ascoltare percepisce come tale - e che gli può suggerire che sia falso, oltre all’enunciato verbale, anche il concetto sottostante. È il caso di un passo del libro Per passione di Piero Fassino: laddove si legge che i sacrifici imposti dalla svolta dell’Eur del sindacato furono percepiti da taluni “come ingiusti e disequi”. Ora, come quasi tutti sanno (ad eccezione appunto di Fassino e del suo ghostwriter), “disequo” è un termine che in italiano non esiste; esso è stato adoperato in questo caso per una estrema riluttanza all’uso del termine appropriato, cioè “iniqui”. Ma è proprio questo eccesso di cautela che può insospettire il lettore, facendo intravedere la cattiva coscienza dell’autore - e i buoni motivi di essa. Insomma: la lingua batte dove il dente duole. Un’ultima annotazione sul rapporto tra aggettivazione ed eufemismo. Esistono due tipologie di casi specularmente opposti. In genere, l’aggettivo viene aggiunto al termine originario per creare l’eufemismo. Anche tramite l’aggiunta di una qualificazione si possono addomesticare i concetti. Abbiamo visto più sopra un discreto campionario di eufemismi del genere a proposito delle definizioni della guerra. Più raro il caso opposto, in cui l’effetto eufemistico viene realizzato eliminando un aggettivo che specifica un concetto: in questo caso l’eufemismo è il prodotto di una vaghezza e genericità artatamente introdotte nella formulazione da edulcorare. L’esempio più clamoroso è quello della dizione “Territori”, invece di “Territori occupati” (ossia territori palestinesi occupati da Israele). Si tratta di un nonsenso linguistico, in quanto la denominazione di “Territori” è tautologica (ogni paese insiste su dei territori!): ma serve ad impedire di ricordare, nella definizione stessa di “Territori occupati”, che cosa è realmente accaduto in Palestina. Qui l’eufemismo, l’imbellettamento della verità fa tutt’uno con la costruzione di una “verità” addomesticata e su misura - ossia con la negazione della verità.

3. La verità elusa

“Il nuovo approccio statunitense al controllo sociale... non consiste tanto nel controllo di ciò che pensiamo, ma nel controllo di ciò a cui pensiamo” (Brian Eno, “Lessons on how to lie about Iraq”, the Guardian, 25/8/2003)

Nella prima parte di questo saggio, pubblicata sullo scorso numero di “Proteo”, abbiamo visto come la verità messa in scena abbia il suo doppio necessario nella verità rimossa, ricacciata lontano dai riflettori. La rimozione, però, richiede in qualche modo uno sforzo, può suscitare reazioni negative, può essere un atto cruento e in quanto tale incontrare resistenza - e in quanto sia smascherata può risultare rivelatrice della situazione reale. Ma in fondo, ormai, non è neppure necessaria più di tanto. Perché ci troviamo già in una fase ulteriore: quella in cui la verità può essere elusa senza fatica, con un’alzata di spalle; può, cioè, essere scansata, evitata, semplicemente ignorata. Quando il discorso ideologico trionfa imponendo le sue gerarchie di problemi (o pseudoproblemi); quando l’informazione mediatica si riduce ad intrattenimento, chiacchiericcio, rumore di fondo finalizzato unicamente a “spingere” i consumi; quando l’agenda politica viene brutalmente manomessa gettando, sul proscenio, il pupazzo multiuso della “guerra al terrorismo” e ricacciando dietro le quinte i cruciali problemi sociali e ambientali del pianeta, riproposti da ultimo dal movimento “no global”. Quando accade tutto questo, se l’atto di forza riesce, non è poi neppure più necessario forzare la situazione: la verità può essere tranquillamente elusa, la gente pensa ad altro. “Tutti parlano del tempo, noi no”. Così recita uno dei più bei manifesti realizzati in Germania dal movimento studentesco. Il “noi” era riferito a Marx, Engels e Lenin, raffigurati nel manifesto in stile da socialismo reale in salsa cinese (profilo stilizzato su fondo rosso, per intendersi); e ovviamente al Sozialistischer Deutscher Studentenbund, che aveva ideato il manifesto basandosi su una pubblicità delle ferrovie tedesche di qualche anno prima. La forza del manifesto era tutta nello slogan. Uno slogan che contrapponeva serietà a futilità, contenuto a vacuità, essenziale a inessenziale, radicalità a superficialità. Un capolavoro di comunicazione. Proprio per il fatto di indicare qualcosa dietro e sotto la comunicazione stessa: un progetto politico e sociale alternativo allo “stato di cose presente”. Sulla sconfitta di quel progetto di alterità c’è poco da aggiungere - da aggiungere, cioè, ad una doverosa presa d’atto. Ma torniamo alla pars destruens del manifesto: a quel “tutti parlano del tempo” che suonava come condanna inappellabile dei discorsi consueti sulla società capitalistica e sui suoi “problemi” (escludendo in ogni caso dal proprio orizzonte visuale la possibilità che la società capitalistica stessa potesse essere il problema). Rileggere oggi quel “tutti parlano del tempo” ha un effetto direttamente straniante. Perché proprio il “parlare del tempo” viene oggi rivendicato come virtù suprema dell’intrattenimento comunicativo: che della leggerezza, facilità d’uso, tollerabilità, accettabilità, medietà fa la sua bandiera. Così nella comunicazione pubblicitaria (che rappresenta il grande archetipo della comunicazione del nostro tempo) come nella comunicazione “politica” - ma meglio sarebbe dire: così nell’advertising di merci come nell’advertising di candidati. Per capire di cosa stiamo parlando prendiamo un esempio significativo di comunicazione politica: il manifesto della Festa Nazionale dell’Unità del 2004 (tema: “Popoli in cammino”). Dal punto di vista formale, si tratta di una riproposizione attualizzante del “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo. I proletari raffigurati (non senza retorica) nell’originale sono sostituiti da giovani in sandali, un ragazzo nero (uno solo, in primo piano), qualche ragazza (una, in primo piano, reca con sé un neonato avvolto nella bandiera della pace). L’impressione è quella di trovarsi di fronte ad allegri gitanti, forse diretti ad un concerto. Il ragazzo nero non ha nulla nell’aspetto della fatica del vivere che traspare invece da ogni tratto degli immigrati sfruttati che popolano le nostre città. Più in generale, è assente ogni tratto che identifichi anche soltanto uno dei personaggi ritratti come un lavoratore. La cosa non stupisce, non può stupire. Da molti anni, ormai, il “cittadino”, ma in realtà il “consumatore”, ha sostituito il lavoratore quale referente pressoché di tutte le forze politiche. Si tratta di un referente unico ed indeterminato, e in quanto tale inesistente. Non a caso negli ultimi anni si è parlato, da parte di chi intendeva riportare in primo piano i problemi dei lavoratori, dell’obiettivo di ridare voce e volto agli “invisibili”. La menzogna più grande di tutte è proprio questa: l’elusione del tema del lavoro. Questa elusione assume forme diverse. C’è il rifiuto di parlare di argomenti quali le migliaia di morti sul lavoro, quelli che un tempo si chiamavano “omicidi bianchi”, e che oggi non hanno più neppure un nome (siccome il capitale è la fonte di ogni benessere e virtù, e sarebbe veramente indelicato accusarlo di qualcosa...). C’è stato, di recente, il rifiuto di considerare le conseguenze devastanti del carovita degli ultimi anni sul reddito dei lavoratori dipendenti - sino a quando il fenomeno per le sue dimensioni si è imposto all’attenzione di tutti.24 C’è il rifiuto delle chiavi di interpretazione delle dinamiche sociali e del lessico stesso costruiti nella storia del movimento operaio: per cui, ad esempio, di “classi” non si può più parlare, tantomeno di “lotta” tra di loro (e, se proprio si deve usare il termine “classe”, lo si adopererà per parlare di una indistinta “classe media”, pseudocategoria adoperata tanto a sproposito quanto quella di “consumatore”). Il punto che su tutti gli altri viene eluso è proprio questo: la centralità del conflitto tra lavoro e capitale nella nostra società. La stessa “guerra al terrorismo” serve anche a questo, è anche un modo per “parlare del tempo”. “Tutti parlano del tempo” - perché parlare d’altro, semplicemente, non sta bene: “non si fa”.

Note

* Economista.

1 La prima parte di questo saggio è stata pubblicata sul n. 2/2005 di “Proteo”.

2 Quindi Franceschini sta limitandosi a tradurre o a parafrasare l’articolo del “Daily Mirror”...

3 L’episodio è raccontato da R. Caprile, “Macerie, kalashnikov e odio: viaggio nella città dei ribelli”, la Repubblica, 24 aprile 2004. Falluja è stata poi praticamente rasa al suolo, nel silenzio del mondo “civile”, nel novembre 2004. Di questo crimine di guerra i media non ci hanno dato che pochissime immagini e notizie addomesticate. Un buon esempio di “verità cancellata”.

4 Per la precisione, alla vicenda sono dedicati: 2 editoriali (uno dell’immancabile Sofri, impagabile “gandhiano post festum” dei nostri tempi - ma certamente assai competente in tema di aggressioni durante le manifestazioni), le pagine 7-9 (intervista a Fassino e Amato, dichiarazioni di prodiani vari) e buona parte di pagina 16.

5 L’episodio è avvenuto il 1° ottobre 2004 al convegno dei giovani di Confindustria.

6 Così Tronchetti Provera, in un’intervista del 23 luglio 2005 a Repubblica, propone di sostituire il temrine “capitalismo” da lui giudicato “obsoleto”. Sull’(ab)uso eufemistico del termine “mercato” rinvio a V. Giacché, “I mille volti di Mr. Mercato”, la Contraddizione, n. 105, nov.-dic. 2004, pp. 49-58.

7 Si veda in proposito l’articolo di E. Schmitt, “Defense Leaders Faulted by Panel in Prison Abuse”, the New York Times, 24 agosto 2004.

8 “Non votare, non rinunciare”, intervista di G. Polo, il manifesto, 27 febbraio 2004. L’intervista è riferita alla imminente manifestazione del 20 marzo. Il punto, ovviamente, è che il movimento per la pace non aveva rifiutato a priori l’uso della “forza”, ma a posteriori - cioè a ragion veduta.

9 P. Caldarola, “Il partito riformista non è pacifista e non si fa dirigere dai movimenti”, il Riformista, 2 marzo 2004.

10 G.W. Bush, discorso dell’11 aprile 2003.

11 Quest’ultima definizione ha avuto peraltro pochissima fortuna, in quanto l’acronimo di “Operation Iraqi Liberty” è OIL...

12 Questo assurdo eufemismo è sovente fatto proprio dalla stampa: v. E. Franceschini, “Missile sui bambini: nuova strage in Israele”, titolo così “spiegato” dal sottotitolo: “Errore durante un attacco contro un capo islamico” (la Repubblica, 1° settembre 2002). Il concetto di “errore” è chiaramente menzognero quando si spara un missile in mezzo alla folla...

13 Il refusnik Yonathan Shapira ricorda che si tratta di un termine tratto dal film Terminator (“Israele è un aereo in picchiata”, il manifesto, 8 febbraio 2004). Ancora una volta, le guerre inscenate dagli stati contemporanei si avvalgono delle regole di linguaggio dello spettacolo cinematografico. Con la non piccola differenza che la gente muore davvero.

14 E. Cardenal, “Mio cugino Edgar, della Cia”, il manifesto, 17 agosto 2003.

15 Domanda: “Siete mercenari?”. Risposta di Simeone: “È una brutta parola, ma è quello che siamo. Mercenario nel dizionario è colui che fornisce una prestazione militare per denaro. È proprio quello che facciamo”. Vedi La Rinascita della sinistra del 29 ottobre 2004.

16 Di “abusi” e non di “torture” parlava anche l’ipocrita dichiarazione dell’Unione Europea sulle vicende di Abu Ghraib.

17 Cit. in D. Remnick, “Nel Paese delle meraviglie”, la Repubblica, 25 maggio 2004.

18 In argomento si può vedere E. Galeano, “La confessione del torturatore”, il manifesto, 3 luglio 2004.

19 M. Kakutani, “Una lunga pista di carta porta alla radice delle torture di Abu Ghraib”, New York Times, ed. italiana, 16 febbraio 2005.

20 Unica differenza: nel testo originale c’è la parola “partigiano” e non “terrorista”. Si tratta di una differenza insignificante: infatti, come è noto, per i nazisti i due termini erano interscambiabili.

21 Vedi M. Cocco, “Nell’era di Bush assalto globale ai diritti umani”, il manifesto, 26 maggio 2005; A. M. Costantini, “Il linguaggio manipolato”, la Rinascita della sinistra, 3 giugno 2005.

22 D. Mastrogiacomo, “Ecco il piano di Sharon per catturare il rais”, la Repubblica, 14 settembre 2003. Più recentemente gli Usa hanno definito “trasferimento straordinario” il rapimento a Milano di un imam egiziano.

23 F. Nirenstein, Gli antisemiti progressisti, Milano, Rizzoli, 2004. In genere è usato “barriera di sicurezza”, un po’ meno spudorato.

24 Di grande interesse l’articolo di L. Ferrante, C. Granito, P. Graziano, “Carovita? Quando mai... Fenomenologia delle menzogne sulla crisi” (in Osservatorio Meridionale, supplemento a Proteo, 3/2005, pp. 13-15), in cui la negazione del carovita è ricondotta, nei suoi diversi aspetti, a più complessive strategie di negazione della verità.