Sfruttamento del lavoro e "miracolo" economico

Ignazio Riccio

La cattiva coscienza dell’Occidente nella competizione con la Cina

1. La Cina cresce

L’unico Paese al mondo che sembra non essere neppure sfiorato dalla crisi economica internazionale è la Cina, che negli ultimi anni ha visto il proprio Pil crescere al ritmo del 7-8%. Un avanzamento, in clima di recessione, davvero impressionante che proietta la nazione orientale nel novero delle grandi potenze economiche del futuro. Con una popolazione di un miliardo e trecento milioni di abitanti è facile comprendere il ruolo che sta giocando e che giocherà il “Paese giallo” nei mercati mondiali. La svolta storica risale agli inizi degli anni Ottanta: dalla via cinese al socialismo si passa al socialismo di mercato, con consistenti cambiamenti nelle strategie economiche e, soprattutto, nei rapporti con le altre nazioni del mondo. La politica della “porta aperta”, voluta da Deng Xiaoping, ha ottenuto l’obiettivo di incentivare le relazioni economico-finanziarie internazionali, superando concettualmente la teoria maoista almeno rispetto al problema dell’autosufficienza e del rischio di ingerenze interne da parte degli investitori di tutto il mondo. Ciò ha portato la Cina ad aprirsi al commercio estero. La crescita economica dell’ultimo decennio, in ogni caso, è stata favorita dalle condizioni di disagio in cui versa il capitalismo internazionale. Con la liberalizzazione economica e l’apertura di aree dove gli investitori internazionali possono operare senza tanti vincoli burocratici, la Cina si è trasformata in una delle principali nazioni dove le grandi imprese transnazionali hanno delocalizzato la loro produzione. Ciò è stato reso possibile grazie alla presenza nel Paese orientale di una vasta sacca di potenziale manodopera a basso costo, che nelle multinazionali occidentali rappresenta un’eccezionale opportunità di abbattimento delle spese di produzione.

2. Il rischio di un crollo economico

Gli economisti però, nell’analizzare il fenomeno cinese, ritengono che il “colosso giallo” difficilmente ripercorrerà le stesse linee di sviluppo dei Paesi a capitalismo avanzato. In Cina, con molta probabilità, non si assisterà alla nascita di un’industria diffusa sul territorio e all’affermarsi della fascia di piccola e media borghesia o dell’aristocrazia operaia, così come è avvenuto negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale. Anche se la crescita economica dovesse continuare nei prossimi anni, lo sviluppo del Paese interesserà solamente alcune zone, sempre a patto che i salari già bassi dei lavoratori siano ulteriormente compressi per continuare ad attirare gli investitori internazionali. Nelle direttrici di sviluppo del capitalismo occidentale, dovrà quindi accadere che il proletariato industriale cinese sia disposto a lavorare sempre di più in cambio di uno stipendio sempre più basso. In realtà visti i presupposti su cui si fonda l’attuale crescita economica, la Cina potrebbe trovarsi in piena recessione con conseguenze sociali disastrose. Anche nel “Paese giallo” si nascondono le stesse insidie che hanno portato al fallimento intere nazioni, gettando nello sconforto e nella disperazione milioni di proletari. Il progressivo aumento delle esportazioni ha, fino a questo momento, bilanciato l’afflusso di capitali provenienti dall’estero ma tutto questo rende la Cina - di fatto - una nazione dipendente in maniera unilaterale dall’andamento dei mercati internazionali.

3. Gli operai cinesi “schiavi legali”

Le condizioni in cui sono costretti a lavorare gli abitanti della Cina negli stabilimenti delle grosse multinazionali sono a dir poco raccapriccianti, ma di questo il mondo occidentale non sembra preoccuparsi, impegnato solamente a contrastare le esportazioni delle merci cinesi in Europa e negli Stati Uniti. Ogni giorno si agita lo spauracchio della concorrenza della Cina nei mercati mondiali senza soffermarsi sullo sfruttamento della forza lavoro, un grave attentato ai diritti umani che proviene in gran parte dal ricatto esercitato, a livello centrale e locale, dagli investitori stranieri. Sono circa novanta milioni gli “schiavi cinesi”, in gran parte contadini, che si sono trasferiti dalle campagne alle industrie cittadine. Le loro paghe sono ridicole: un operaio che lavora cento ore settimanali, senza nessun giorno di riposo, guadagna al massimo 900 yuan (pari ad 88 euro), una cifra insufficiente, anche in Cina, per sostenere una famiglia. Gli stessi lavoratori per lo più non sono coperti da assicurazione sanitaria e non hanno diritto a risarcimento in caso di incidenti sul lavoro. Gli operai molte volte lasciano i loro familiari nelle terre d’origine e mandano l’intero salario una volta all’anno, quando gli viene corrisposto. Non sono rari i casi in cui i datori di lavoro negano o dilazionano nel tempo i pagamenti ai loro dipendenti e, come se non bastasse, vengono utilizzati anche i minorenni per i lavori più duri. La battaglia contro lo sfruttamento minorile è ardua e spesso impossibile da sostenere di fronte ai precari equilibri economici che condizionano le famiglie povere di vaste aree della Cina. Il quadro che abbiamo davanti agli occhi è spaventoso: bambini alla catena di montaggio, fabbriche gestite come carceri, stipendi che bastano a malapena a sopravvivere, lavoratori intossicati dalle sostanze nocive presenti nelle aziende ed una lunga catena di incidenti mortali sul lavoro. Far lavorare i minori è spesso una scelta obbligata per le famiglie cinesi, vista la povertà che esiste in molte zone della Cina ma, comunque, mandare i propri figli in fabbrica non è la decisione più crudele. In molti casi fiorisce un altro mercato del lavoro per le bambine, quello della prostituzione.

4. Le colpe del mondo occidentale

Le imprese cinesi lavorano su licenza delle multinazionali occidentali, ma è frequente anche la produzione autonoma di piccoli imprenditori locali senza scrupolo che calpestano le regole più elementari del vivere civile. Il mondo occidentale, che si dice preoccupato per l’avanzata cinese nei mercati internazionali, è spesso la causa determinante delle condizioni di lavoro imposte al lavoratore cinese del comparto industriale. Le multinazionali conoscono i numeri, i conti sul costo del lavoro. Le grandi aziende americane ed europee sanno di pagare mezzo euro l’operaio che confeziona scarpe da 150 euro ma fanno finta di nulla, l’unico problema resta quello di imputare alla concorrenza sleale cinese la recessione in Occidente. Gli Stati Uniti premono affinché Pechino riveda la sua valuta e ciò, seppure in modo simbolico, è già avvenuto. L’idea è quella di far adottare alla Cina un tasso di cambio flessibile, basato sul mercato in modo da rendere meno competitive le merci esportate dai cinesi. Si tratta di un’ipotesi discutibile: se Pechino aumentasse sensibilmente il valore dello yuan nel Paese le conseguenze sociali sarebbero ancora più negative. Aumenterebbero sicuramente il potere d’acquisto del denaro e l’importazione dei beni di lusso, ma si produrrebbe una forte diminuzione delle esportazioni. Le società straniere cercherebbero manodopera più economica, spingendo ancora più in basso il tenore di vita degli operai cinesi. Una via d’uscita, ancora non considerata, potrebbe essere quella di aumentare i salari dei lavoratori in maniera unilaterale, soprattutto da parte delle imprese che recano il marchio occidentale. Questo avrebbe l’effetto di far crescere il costo dei prodotti “made in China” senza turbare i rapporti commerciali internazionali. Oggi la principale ragione della competitività delle merci cinesi sta nell’ampia disponibilità di lavoro a buon mercato. Se i contadini che migrano nelle fabbriche potessero stabilirsi nelle città con le loro famiglie, invece di lasciarle nelle campagne, si avrebbe un importante impulso al consumo, in modo da creare maggiore domanda e altri posti di lavoro. Sacrificare i diritti dei lavoratori per ottenere più competitività sui mercati è una strategia miope, destinata inesorabilmente a fallire. Al contrario un aumento degli stipendi degli operai darà loro un maggiore potere d’acquisto e farà crescere la domanda interna. Se la Cina rendesse sicure le paghe dei lavoratori e ne rispettasse le capacità, potrebbe promuovere realmente la stabilità e lo sviluppo della società cinese.

5. I cinesi in Italia, un rapporto difficile

La maggioranza dei cinesi presenti in Italia proviene da una zona circoscritta del Zhejiang, una regione della Cina meridionale, e precisamente dalla città di Wenzhou, in pieno sviluppo economico e rivolta ai mercati mondiali, verso cui esporta alimenti. Attualmente le comunità più numerose di immigrati cinesi nel nostro territorio sono quelle esistenti a Prato, in Toscana, dove gli orientali raggiungono il 20% della popolazione locale e in Campania, a San Giuseppe Vesuviano. La loro attività si sviluppa nei settori della maglieria, delle calzature e delle confezioni tessili per conto terzi, compartimenti in gran parte abbandonati dagli abitanti del luogo perché fortemente instabili ed in balia delle fluttuazioni del mercato. I cittadini cinesi giunti in Italia hanno spesso un grado di istruzione molto basso, ignorano quasi o completamente la lingua italiana e si trovano ad affrontare, totalmente sprovvisti di strumenti adeguati, i problemi riguardanti il loro inserimento nel tessuto sociale della città di accoglienza. Ciò comporta il loro isolamento all’interno del gruppo di appartenenza e la propensione a fare riferimento per la soluzione dei loro problemi alle associazioni di cinesi con strutture a livello locale e nazionale. Come conseguenza si è dato vita ad una sorta di rete solidaristica autonoma che provvede ai bisogni e all’organizzazione della vita del lavoratore cinese nel nostro Paese e limita l’integrazione, con tutte le difficoltà che naturalmente ne scaturiscono. Le comunità cinesi in Italia sono state capaci di sviluppare attività produttive estremamente competitive, alimentando perplessità e sospetti, anche per la grande quantità di denaro di cui talvolta dispongono. Accanto agli aspetti legati alla cosiddetta mafia cinese, tristemente intrecciata con le criminalità locali, sono stati raccolti molti elementi sulle modalità produttive cui vengono sottoposti i lavoratori cinesi nelle realtà produttive sorte o alimentate in Italia da questo genere di manodopera, preziosissima in certi distretti industriali - orari di lavoro abnormi, decine di operai stipati in dormitori ricavati nei luoghi di lavoro, sfruttamento del lavoro minorile. Nell’analisi di tali condizioni manca però, quasi sempre, il riferimento alla questione dei diritti umani e sindacali, mentre si sprecano le considerazioni circa la ricaduta di questo sistema di gestione della manodopera sulla produzione, indicandolo velatamente quale origine del cosiddetto “miracolo cinese” e additandolo implicitamente quale modello ispiratore. Non sono semplici i rapporti delle comunità con l’Italia, condizionati dalla duplice esigenza della segregazione e della inclusione del lavoratore cinese nelle dinamiche produttive locali. Oltre alla difficile integrazione economica e sociale, a rendere più complesso il quadro avanza prepotentemente il fenomeno della criminalità organizzata. Da un rapporto della Direzione Investigativa Antimafia si rileva la pericolosità degli affiliati alla mafia cinese nel nostro Paese. Nel recente rapporto sulle mafie estere in Italia, fra cui spicca quella proveniente dalla Cina, si rileva che una delle tipiche peculiarità della criminalità cinese è la capacità di saper utilizzare passaporti e documenti di persone decedute, per rendere legittime le posizioni di individui viventi che, in tal modo, possono riemergere nella legalità. I cinesi clandestini sono distribuiti fra la Lombardia e la Toscana e, poi, in Emilia Romagna, nel Lazio ed in Campania. La mafia gialla in Italia è anche riconosciuta per la sua capacità di saper gestire il flusso di clandestini, che pagano dai sei ai venti milioni a persona per giungere nel nostro territorio. La criminalità cinese, oltre al lavoro nero, pratica il gioco d’azzardo, le estorsioni, il sequestro di persona, la prostituzione. Le difficoltà di comprensione della lingua orientale, quasi sessanta dialetti diversi, la mancanza assoluta di “pentiti” o di gole profonde fanno il resto. Il reale pericolo cinese in Italia non è dato tanto dalla concorrenza sui mercati o nel mondo del lavoro, ma dall’esclusione di una ormai vastissima comunità cinese cui non vengono offerti reali canali d’integrazione: questa distanza assume sempre più i connotati di un’anomalia, che può alimentare soltanto un clima di sospetto generalizzato sul tessuto sociale dell’immigrazione cinese e fenomeni assolutamente indesiderabili di contrapposizione tra lavoratori precarizzati italiani e cinesi.

Bibliografia Lorenzo Procopio, Cina, un boom dai piedi d’argilla, Prometeo 7 VI Serie, giugno 2003. Federico Rampini, I lager cinesi che fabbricano il sogno occidentale, La Repubblica/2005. Claudia Baldari, Cina: gli schiavi migranti del boom, Il Denaro 8 luglio 2005. Dossier Mercato Cinese, La Cina è vicina, www.Italy.indymedia.org, 29 maggio 2005.

Note

* Giornalista del “Corriere del Mezzogiorno”.