Lavori atipici e nuove forme del lavoro

Arturo Salerni

Carla Serra

Maria Rosaria Damizia

Dossier a cura di Arturo Salerni, Maria Rosaria Damizia, Carla Serra dell’Associazione Progetto Diritti

Nel precedente numero di Proteo abbiamo preso in esame - sia pur sommariamente - la proposta approvata dal Senato in tema di lavori “atipici”. La proposta è attualmente all’esame della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati che ha terminato in un primo esame e sta per avviare le consultazioni delle “parti sociali”. In questo numero della rivista intendiamo ripercorrere alcune delle nuove figure in cui oggi vengono inquadrati i rapporti di lavoro, siano essi formalmente rapporti di lavoro dipendente o rapporti di lavoro caratterizzati da una sostanziale subalternità del lavoratore al datore o al committente e sia pur definiti in termini diversi.

Riteniamo di svolgere un servizio utile al lettore pubblicando in appendice il testo della proposta cosiddetta Smuraglia, approvata dal Senato della Repubblica.

1. Alcuni dati, per cominciare

Ci riferiamo ai dati pubblicati dall’ISTAT e relativi alla situazione occupazionale riferita al mese di aprile del 1999.

Abbiamo una variazione degli occupati con segno positivo, con riferimento al mese di aprile del 1998: + 2.3 per cento nelle regioni del Nord-Ovest, + 2% nelle regioni del Nord-Est, + 0.9 per cento al Centro, + 0.3 al Sud. Il tasso di occupazione maschile sarebbe sceso dal 9.5 per cento del 1998 al 9.2 per cento del 1999 e quello femminile dal 16.8 per cento al 16.7.

Peraltro se seguiamo la serie storica della disoccupazione, così come registrata dall’ISTAT, abbiamo i seguenti risultati.

Se guardiamo allo stato della disoccupazione giovanile (15-24 anni) il tasso per i maschi è del 27,7% e per le donne del 37,8 per cento. Esso va così scorporato su base territoriale:

Da parte governativa arrivano grandi grida di soddisfazione pur in presenza di una situazione complessivamente così drammatica, e caratterizzata da una disoccupazione - non soltanto giovanile - talmente elevata da essere divenuta insostenibile specie con riferimento alle donne ed alle aree geografiche del centro-sud.

Ma, si afferma, si registrano 282 mila posti in più rispetto ai dati dell’aprile dello scorso anno. In realtà è da registrare un rallentamento rispetto al precedente trimestre (a gennaio si verificava - sempre secondo l’ISTAT - un incremento dell’0.5, in aprile tale incremento si è attestato all’0.2).

Il fatto principale è però che gran parte dei nuovi posti di lavoro è caratterizzato da stagionalità e precarietà. Crescono infatti contratti di formazione, contratti a termine e lavoro interinale. Nello spazio di un anno questi posti di lavoro sono passati da circa 1,2 a circa 1,5 milioni, e cioè il loro peso percentuale è passato - sul totale dei lavoratori dipendenti - dall’8,6 al 10,6 per cento. Si registra contestualmente - sia pure in termini minori - un aumento dei lavoratori a tempo parziale (dal 7,3 al 7,9 sul totale della forza lavoro dipendente).

Per ciò che concerne i lavoratori subordinati a tempo indeterminato abbiamo invece una diminuzione di 64 mila unità.

Per quanto riguarda gli occupati a termine abbiamo questa situazione (l’incremento percentuale è relativo al periodo aprile ‘98/aprile ’99):

Nord

 712.000 occupati

 + 2.6%

Centro

 242.000 occupati

 + 0.6%

Sud

 600.000 occupati

 + 1.7%

Scomponendo per settori risultano questi dati:

Agricoltura

 164.000 occupati

 + 2,4

Industria

 653.000 occupati

 +1,1%

Terziario

 949.000 occupati

 + 2,5

Ed ancora ecco la suddivisione per fasce di età:

15-29 anni

 750.000 occupati

 + 3,5%

30-49 anni

 653.000 occupati

 + 1,6%

oltre 50 anni

 151.000 occupati

 + 1,1

2. Qualche considerazione

E’ evidente che ci si sta riferendo a cifre ufficiali, ovvero a ciò che emerge dalla illegalità del lavoro nero ed a ciò che viene classificato come lavoro subordinato.

L’aumento delle forme di lavoro precario (ed in particolare del tempo determinato, nelle sue diverse forme legali e contrattuali) significa meno garanzie, meno stabilità, minore remunerazione. Soprattutto significa nessuna garanzia sul domani: il rinnovo del contratto, la sua trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato (con la garanzia della reintegrazione nel caso di licenziamento illegittimo, ovvero nelle unità con più di quindici dipendenti) dipenderà da tanti fattori, tra i quali assumono rilevanza assoluta il comportamento e la remissività del lavoratore.

Con riferimento alla fascia di età più giovanile l’uso del contratto a termine è evidentemente più diffuso; con riferimento ai settori lavorativi quello che prevale è il settore terziario.

L’altro dato da sottolineare è quello dell’aumento dell’utilizzo dei contratti part-time.

Innanzi tutto va rilevato che per i lavoratori a tempo parziale l’orario normale si allunga. Il part-time lungo, fino a 32 ore, è previsto da numerosi contratti di categoria, per esempio nel tessile-abbigliamento, dove si presta alle esigenze produttive del settore, e in altri settori nei quali rende possibile il prolungamento dei turni sia di notte che nei week-end, consentendo così l’utilizzazione prolungata degli impianti. Peraltro con un recente decreto del Ministro del Lavoro si è prevista una serie di incentivi alle imprese in caso di utilizzo del part-time ed in particolare del part-time lungo.

Part-time e lavoro temporaneo crescono in quasi tutto il mondo (così rileva l’Employment Outlook ’98 dell’Ocse) e tendono a sostituire sempre di più le occupazioni tradizionali, meno flessibili e di lunga durata.

Ulteriormente si comincia ad affermare - accanto al part-time orizzontale (meno ore di lavoro al giorno rispetto ad un normale orario lavorativo) ed al part-time verticale (meno giorni di lavoro nella settimana) l’uso del part-time ciclico, concentrato cioè in alcuni periodi dell’anno.

Nulla impedisce inoltre che attraverso l’uso degli straordinari, consentito da accordi aziendali, un occupato part-time possa di fatto lavorare come un dipendente full-time, ma a costo più basso. Si legge nel rapporto dell’Ocse, che abbiamo sopra indicato, che i lavoratori part-time oltre a coprire gli orari più scomodi spesso si rivelano anche lavoratori a più basso costo: ed infatti, si dice, che nella maggior parte dei casi gli occupati part-time risultano più convenienti per il datore - sotto il profilo dei costi - quando effettuano lavoro straordinario.

Si legge ancora nel rapporto dell’Ocse che nella maggior parte dei paesi europei vi è proporzione simile tra lo straordinario effettuato dai lavoratori part-time e quelli a tempo pieno.

 

3. Il telelavoro

 

L’introduzione delle forme di cosiddetto lavoro atipico ha accelerato il processo di precarizzazione del lavoro, sbarazzando i rapporti lavorativi di tutte quelle "rigidità", che altro non sono se non le norme di tutela create dalla legge o dall’autonomia collettiva per riequilibrare la posizione di debolezza del lavoratore.

L’emersione di nuove forme di lavoro, caratterizzate dal segno della flessibilità, fa perdere centralità alla figura tradizionale del lavoro subordinato, quello a tempo pieno e dotato di stabilità (quantomeno nelle imprese che occupano più di quindici dipendenti), alterandone gli indici e quindi la sua originaria configurazione.

Nell’ambito di questa generale trasformazione i nuovi strumenti informatici stanno realizzando - ed in parte hanno già realizzato - nel mondo del lavoro una vera e propria rivoluzione tecnologica che introduce il lavoro a distanza, comunemente definito come "telelavoro".

Siamo di fronte ad un nuovo modo di lavorare: non più secondo lo schema tradizionale, cioè presso l’ufficio o l’unità produttiva in genere, ma con la possibilità di svolgere la prestazione lavorativa non in un luogo fisso, bensì ovunque. Ciò è stato determinato anche dall’esigenza di decongestione delle aree urbane dal traffico veicolare valutando positivamente i riflessi ecologici che possono derivarne, e dall’esigenza di contenimento dei costi in generale.

Tale forma di erogazione della prestazione lavorativa, che già esisteva per alcuni tipi di lavoro, ad es. ispettori, propagandisti, trasfertisti, personale viaggiante, ecc. potrebbe divenire in futuro la modalità di lavoro per considerevoli settori operativi. Già la Telecom Italia s.p.a. ha raggiunto nell’agosto 1995 un accordo con le parti sociali che riguarda, per un periodo sperimentale, il "telelavoro domiciliare" di un limitato numero di lavoratori volontari, con prestazione a tempo parziale, che forniranno da casa all’utenza le informazioni con il "servizio 12".

Si avverte già da ora l’assenza di una cornice normativa adeguata a tale forma di lavoro. All’interno di quella già esistente, si dovrà verificare se tale figura possa considerarsi compatibile con la descrizione del contratto d’opera di cui all’art.2222 del codice civile (che prevede l’ipotesi di “quando una persona si obbliga compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”, o se invece si debba parlare di prestatore di lavoro subordinato ai sensi dell’art.2094 del codice civile.

Il telelavoro può quindi astrattamente esercitarsi o alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro ovvero in autonomia, con un controllo esercitato non sulla prestazione lavorativa ma sul risultato della stessa, e bisognerà evitare che prestazioni di fatto caratterizzate da subordinazione siano classificate invece come di natura autonoma.

Il problema che si pone in concreto è conseguentemente quello del modo in cui debba essere calcolata la retribuzione nonché quello di tutelare la personalità fisica e morale del lavoratore, secondo quanto previsto dal codice civile e dalle leggi che regolano le garanzie in favore del dipendente.

Vi è anche un problema specifico - legato alle peculiari modalità di espletamento della prestazione lavorativa - connesso al rispetto del diritto alla riservatezza, posto che la legge n.300 del 20 maggio 1970 (lo Statuto dei Lavoratori) prescrive "il divieto di indagini" e la proibizione del "controllo a distanza".

Nell’accordo Telecom sopra richiamato, le parti hanno dichiarato che il telelavoro consente il superamento delle tradizionali modalità di svolgimento della prestazione, nella sua dimensione spazio-temporale, che esso costituisce solo una modifica del luogo della prestazione lavorativa e che non può considerarsi come un controllo a distanza ai sensi dell’art.4, comma 2, della legge n. 300/70. L’accordo Telecom ha quindi definito le condizioni logistiche (disponibilità di un ambiente "separabile da quello normalmente dedicato ad attività di vita quotidiana"), operative (comunicazioni per via telefonica o a mezzo fax da utilizzare solo per motivi di servizio, attivazione all’inizio ed al termine della prestazione dell’ "apposito dispositivo di presenza") ed economiche (assunzione da parte dell’azienda dei costi di installazione e dell’energia elettrica impiegata), che potrebbero estendersi ad altre attività similari.

Negli Stati Uniti d’America più di 8,8 milioni di lavoratori dipendenti esplicano la loro attività lavorativa mediante computer, fax e telefono nella propria abitazione.

Anche l’estensione di tale forma di lavoro nel comparto pubblico, richiede un lavoro normativo e contrattuale, per enucleare un sistema di riferimento nel quale la nuova figura giuridica efficacemente possa inserirsi. Evidentemente non tutte le attività lavorative possono sganciarsi dall’ambiente lavorativo tipico; si è prefigurata una organizzazione del lavoro nella quale il telelavoro riguarderà principalmente le categorie ad alto contenuto professionale.

Altro nodo da sciogliere è quello secondo cui, venendo meno la presenza del lavoratore in azienda, si pongono problemi di rappresentanza e rappresentatività, cioè si dovrà modificare il "modo di fare sindacato"; infatti con l’introduzione del telelavoro, connessa alla riduzione delle ore di presenza del lavoratore sul luogo di lavoro, muta completamente non solo lo scenario di riferimento ma anche la tipologia dei comportamenti adottabili per stimolare i lavoratori ad attività per la tutela di un interesse comune. Di fatto si può determinare - per condizioni oggettive e per precise strategie aziendali - uno spezzettamento dei luoghi ed un allontanamento dei lavoratori tra loro (ovvero una loro separazione fisica e comunicazionale), o addirittura ad una mancanza assoluta di conoscenza reciproca da parte dei diversi dipendenti di una stessa azienda, con assoluta individualizzazione del rapporto lavorativo, e conseguente impossibilità di esercitare anche minime forme di pressione sindacale.

L’introduzione di questo scenario, veramente nuovo e sicuramente ben più che pericoloso, è indubbiamente favorito dal vantaggio che per il lavoratore potrebbe ravvisarsi nella possibilità di non abbandonare il domicilio, al superamento dei disagi prodotti dal pendolarismo che ha costi individuali e sociali elevati, e dalla prospettiva (che potrebbe risultarsi illusoria) di un nuovo e più proficuo rapporto tra tempo libero e tempo lavorativo, tra tempo di cura della persona e della famiglia ed tempo da dedicare all’attività lavorativa.

Non è il caso in questa sede di indagare sui possibili riflessi in tema di atomizzazione sociale, di produzione di solitudine ed isolamento, di modificazione dei comportamenti sociali che una massiva introduzione del telelavoro può produrre: certo si tratta di una realtà con cui bisognerà sempre di più fare i conti. -----

 

4. Il lavoro interinale

 

Tale forma di lavoro, conosciuta come "lavoro in affitto", si sostanzia in un rapporto di tipo triangolare, che coinvolge l’utilizzatore dell’opera del lavoratore, il fornitore dello stesso (ovvero l’intermediario, il procacciatore di manodopera) e il lavoratore.

L’impresa fornitrice pone a disposizione di un altro datore di lavoro proprio personale, assunto secondo specifiche modalità. Il soggetto fruitore dell’opera del lavoratore può essere un’impresa o un non imprenditore (studi professionali, associazioni, ecc.) o un non datore di lavoro, ad es. un soggetto privato che intende far eseguire alcuni lavori.

Tale figura è stata introdotta per soddisfare innanzitutto le esigenze delle imprese di carattere temporaneo.

Alcune regole sono state poste dalla legge n. 196/97 che ha introdotto il lavoro in affitto (nell’ambito del cosiddetto “pacchetto Treu” dal nome dell’allora Ministro del Lavoro, al tempo del governo Prodi)

L’impresa che fornisce il lavoratore deve possedere alcuni requisiti per garantire sia l’aspetto economico, dato che il lavoratore è alle dipendenze dell’impresa fornitrice e non di chi lo utilizza, sia gli eventuali abusi in ordine alla mancata osservanza delle norme di legge. Primo requisito è quello dell’obbligo di iscriversi in un apposito Albo dopo un esame da parte del Ministero del Lavoro in ordine all’esistenza delle caratteristiche richieste. Al momento dell’utilizzo del lavoratore, l’impresa fornitrice e l’impresa utilizzatrice devono stipulare un contratto di fornitura di lavoro temporaneo in forma scritta; in mancanza di tale forma scritta, il lavoratore si considera assunto dall’utilizzatore con contratto a tempo indeterminato. Copia del contratto deve essere trasmessa dall’impresa fornitrice alla Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio entro dieci giorni dalla stipulazione.

Da un punto di vista civilistico, il contratto di fornitura è essenzialmente un contratto di scambio che trova la propria disciplina nell’art.1559 del codice civile; ossia una parte si obbliga, dietro corrispettivo di un prezzo, ad eseguire in favore dell’altra, prestazioni periodiche o continuative.

I prestatori di lavoro temporaneo non possono superare una data percentuale rispetto ai lavoratori occupati dall’impresa utilizzatrice con contratto a tempo indeterminato; la percentuale è stabilita dai contratti collettivi nazionali di lavoro del settore di appartenenza dell’impresa utilizzatrice. Il rapporto di lavoro si instaura fra il lavoratore e l’impresa fornitrice con un contratto chiamato "contratto per prestazioni di lavoro temporaneo" con cui l’impresa fornitrice assume il lavoratore per assegnarlo successivamente all’utilizzatore. Tale contratto può anche essere a tempo indeterminato (con il diritto del lavoratore ad una indennità "di disponibilità" a carico dell’impresa fornitrice); quest’ultima possibilità può considerarsi utopica, se si considera il fatto che tale forma di lavoro è stata introdotta per soddisfare esigenze di carattere temporaneo delle imprese.

Il lavoratore per la durata del rapporto, svolgerà la propria attività lavorativa nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore, il quale però non potrà prendere provvedimenti disciplinari, né licenziarlo, tutte "prerogative" che resteranno di competenza del datore di lavoro, ossia dell’impresa fornitrice. La retribuzione è a carico dell’impresa fornitrice, ma va commisurata a quella normalmente dovuta dall’utilizzatore, giacché il lavoro si svolge presso di lui; gli oneri contributivi previdenziali e assistenziali sono anch’essi a carico dell’impresa fornitrice (impresa che viene inquadrata nel settore terziario), così pure gli obblighi in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. In caso di inadempimento da parte dell’impresa fornitrice, l’impresa utilizzatrice risponde in solido con la prima degli obblighi suddetti.

E’ la prima volta che nel nostro ordinamento viene introdotta una simile figura, posto che la legge n. 1369 del 1960 contiene il divieto di appalto di manodopera.

La legge 236 del 1993 prevede inoltre il caso in cui un lavoratore dipendente da un’impresa può prestare la propria opera presso un altro datore; il caso del lavoratore comandato o distaccato da un’impresa ad un’altra per una durata temporanea. Il legislatore rinvia ai contratti collettivi delle imprese utilizzatrici la possibilità di ampliare il ricorso a nuove tipologie interinali, stabilendo che tale forma è possibile in tutti i settori compresi l’agricoltura e l’edilizia.

Pensiamo a tal riguardo ai fenomeni del caporalato in agricoltura e dei subappalti nel settore edile.

E’ evidente la pericolosità insita nel modello che abbiamo descritto, modello che peraltro risulta ancora (stando ai dati statistici ad oggi resi noti) non molto praticato dalle imprese italiane.

Innanzitutto si interrompe il rapporto diretto classicamente intercorrente tra il datore di lavoro e il lavoratore subordinato. Si inserisce (come abbiamo visto, in deroga alla legge del 1960 sul divieto di interposizione nella gestione della manodopera) un terzo soggetto, distinto dall’impresa che si avvale concretamente della prestazione lavorativa.

E’ facile immaginare la assoluta difficoltà alla determinazione di conflitti e di vertenze tra il lavoratore e l’imprenditore, con la ovvia conseguente difficoltà di sindacalizzazione, di difesa dei propri diritti da parte del lavoratore, di contrattazione di migliori condizioni retributive e lavorative. Il lavoratore non sa più chi è il suo padrone, colui al quale rivolgere richieste o nei confronti del quale richiedere qualcosa.

Va ulteriormente considerato che tale difficoltà si somma alla precarietà della propria collocazione dovuta alla temporaneità della richiesta prestazione lavorativa.

Le imprese potranno quindi avere a disposizione lavoratori “usa e getta”, non legati da un rapporto di formale subordinazione ma nonostante questo gerarchicamente inseriti nell’organizzazione produttiva o lavorativa, potranno sfruttare i “picchi” stagionali semplicemente rivolgendosi ad una agenzia, la quale svolgerà la propria funzione di collocamento privato scegliendo arbitrariamente chi deve lavorare oppure no, e chi sarà richiamato la prossima volta.

Peraltro la contrattazione collettiva avrà ampi margini in ordine alla definizione ed alla indicazione delle tipologie lavorative per le quali sarà possibile prevedere forme di lavoro interinale, e tutto lascia supporre che si creeranno osmosi, o quantomeno fortissime contiguità, tra i soggetti sindacali titolari della negoziazione collettiva e le agenzie autorizzate al collocamento di questi lavoratori, con le ovvie e prevedibili ulteriori conseguenze in ordine alla difficoltà di tutela del soggetto utilizzato dalle imprese.

 

5. Le borse di lavoro

 

Altro strumento di flessibilità nella gestione della manodopera è costituito dalle borse di lavoro; il D.Lgs.280/97 che le istituisce, precisa prima di ogni altra cosa che le stesse non determinano l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato e non comportano per il lavoratore la cancellazione dalle liste di collocamento.

Le imprese che intendono utilizzare i giovani in borse di lavoro devono avere un’apposita autorizzazione e possono attivarle solo nei confronti di giovani che siano iscritti alla data prevista dalla legge da oltre trenta mesi nelle liste di collocamento della Sezione circoscrizionale per l’impiego della stessa provincia per la quale è stata concessa l’autorizzazione.

L’orario di lavoro giornaliero non può superare le otto ore e quello settimanale le venti ore, mentre la borsa lavoro non può superare i dodici mesi e viene graduata in relazione alle dimensioni dell’azienda e al livello di scolarità.

Infatti presso le imprese che occupano sino a quindici dipendenti, la durata prevista per la borsa lavoro è di undici mesi per i giovani che non hanno ottenuto diploma di scuola secondaria superiore; la durata è invece di dieci mesi per coloro che non sono in possesso di tale titolo o la laurea. Invece nelle le imprese che occupano più di quindici dipendenti, la durata è rispettivamente di dodici mesi e di undici mesi; presso le imprese artigiane, la durata è di dodici mesi.

Il lavoratore borsista deve presentare all’INPS un’apposita domanda e avrà diritto ad un sussidio di 800.000 lire al mese ed eventualmente all’assegno per il nucleo familiare.

Tale forma di retribuzione, che sicuramente non è sufficiente ad assicurare al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa (come invece imporrebbe l’art.36 della nostra costituzione), è a totale carico dell’INPS.

La borsa lavoro viene quindi inquadrata come una forma di assistenza a totale vantaggio delle imprese utilizzatrici, il cui unico onere sarà quello di assicurare i lavoratori contro gli infortuni e le malattie professionali, nonché per la responsabilità civile verso terzi.

Anche per questa forma di lavoro atipico, il problema è quello di capire quale sia la sua natura giuridica, per poter ricollegare alle borse lavoro le tutele previste per figure simili. La forma che viene utilizzata come referente più immediato in assenza di sentenze di legittimità (e cioè di sentenze della Corte di Cassazione) in materia di borse di lavoro, è quella dello stage.

Già in dottrina è stata avanzata la tesi secondo cui nelle borse di lavoro, come negli stages, non sia possibile riscontrare lo schema contrattuale tipico del lavoro dipendente, ossia la correlazione (la dottrina giuridica usa il termine “sinallagma”) tra prestazione lavorativa, resa in modo subordinato, e retribuzione.

Quel che emerge con chiarezza è il fatto che nel caso della borsa lavoro il giovane viene occupato presso un’azienda, la quale non subirà alcun costo per la prestazione lavorativa che il lavoratore renderà a suo favore. L’unico costo in ordine a tale forma di lavoro atipico è quello che grava sull’I.n.p.s.

Si tratta di uno di quei casi, introdotti dapprima in forma sperimentale ma che potrebbero trovare un più largo uso, in cui la politica per il lavoro e per l’occupazione si trasforma di fatto in politica di incentivi per l’impresa.

Si dice: in tal modo si avvicinano i giovani al mondo del lavoro, li si pone gradualmente in contatto con i luoghi della produzione e del lavoro, si iniziano processi formativi che si potranno rilevare utili per un suo successivo inserimento. Di fatto garanzie di prosecuzione dell’iter lavorativo non esistono ed il tutto si risolve in un trasferimento di risorse pubbliche all’impresa.

Politica per il lavoro o politica per l’impresa? Ma forse questo è il grande inganno che accompagna le scelte dello Stato sul terreno dell’emergenza occupazionale. I livelli della disoccupazione negli anni - lo abbiamo visto - o stagnano o tendono a crescere: quello che aumenta però, senza ombra di dubbio, è il dono di risorse e di strumenti di governo agevole della manodopera offerto dalle forze politiche e sindacali al padronato. Le politiche per l’occupazione, sempre basate sul ricatto nei confronti degli occupati dei pensionati, si rilevano spesso un grande inganno. E quanti provvedimenti “per l’occupazione” abbiamo visto in questi anni, e quanto mano libera in più per i datori di lavoro!

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6. Le prestazioni coordinate e continuative

 

Pur essendo presente nella realtà del mondo del lavoro da diversi anni, tale forma di lavoro parasubordinato, soffre ancora oggi di un’incertezza circa la sua collocazione all’interno del lavoro subordinato, di quello autonomo o di un tertium genus di attività non inquadrabile negli schemi tradizionali.

L’inserimento della collaborazione coordinata e continuativa, nell’ambito del lavoro subordinato, si fonda sulla dimostrata presenza, nella maggioranza di tali rapporti, di una debolezza contrattuale e di una soggezione socioeconomica nelle quali in genere versa il prestatore di lavoro rispetto al committente.

Il disegno di legge "Smuraglia" - che abbiamo già analizzato ed in parte valutato (apprezzandone gli elementi positivi ma anche evidenziando la potenzialità che lo stesso offre di collocare normalizzandoli tutta una serie di lavori al di fuori dell’area del rapporto di subordinazione e delle correlative garanzie) nel precedente numero di Proteo e che pubblichiamo integralmente in appendice - definisce la collaborazione coordinata e continuativa come un rapporto di lavoro, di carattere non occasionale, svolto in modo personale ma senza vincolo di subordinazione, coordinato con l’attività del committente ed avente ad oggetto prestazioni a fronte di un corrispettivo.

Tale disegno di legge, riguarda sia il caso in cui il prestatore abbia un committente privato, sia l’ipotesi del committente pubblico, e mira ad estendere alcune tutele previste per i lavoratori subordinati anche ai lavoratori parasubordinati, laddove in essi si possa riscontrare la medesima situazione di debolezza contrattuale e di soggezione socioeconomica. Solo ora con il disegno di legge "Smuraglia" inoltre, pare venga estesa una serie di norme che prima veniva applicata soltanto ai lavoratori subordinati.

Al riguardo basti pensare che il lavoratore coordinato era totalmente sottratto alla tutela prevista dallo Statuto dei Lavoratori, pensiamo alla libertà di pensiero, al conseguente divieto di indagini sulle opinioni, alla libertà sindacale ecc.

Da alcune parti - ed in particolare da parte confindustriale - il disegno di legge viene considerato ancora troppo legato a schemi superati del mondo del lavoro, intendendo con ciò che lo spazio lasciato alla flessibilità è ancora troppo ristretto. E’ chiaro che anche con riferimento a questo tipo di rapporto di lavoro, quel che si insegue sono solo le esigenze delle imprese, e i diritti legati ad una tutela minima del lavoratore sono considerati come non più adeguati e quindi obsoleti rispetto all’attuale mondo del lavoro.

Si calcolano in circa 900.000 i contratti di collaborazione coordinata e continuativa stipulati nell’anno 1997; si dovrebbe pensare che tanti lavoratori abbiano manifestato un nuovo atteggiamento rispetto al proprio destino professionale, privilegiando un lavoro meno sicuro. Evidentemente questi soggetti sono stati costretti ad accettare la configurazione autonoma al momento dell’assunzione, sperando però in una trasformazione futura del rapporto di lavoro di collaborazione in rapporto di lavoro subordinato. Si tratta quindi di una tendenza alla fuga dalle garanzie normative del diritto del lavoro, che avviene a parità di costo o, sempre di più, con risparmio per il datore di lavoro.

Ancora adesso comunque, in molteplici casi, la magistratura del lavoro - sia pure, a causa di macroscopiche carenze di organico specie nelle grandi città, con tempi lunghissimi ed inadeguati alle esigenze dei lavoratori - ha modo di intervenire su tali rapporti qualificati come autonomi e prestati in forma coordinata e continuativa inquadrandoli nella loro giusta dimensione di lavori caratterizzati invece dal vincolo della subordinazione. Ma gli interventi della magistratura sono in proporzione una piccola parte rispetto alle politiche aziendali che tendono a collocare il lavoratore (sostanzialmente dipendente) al di fuori dello schema classico del lavoro subordinato, alle sue garanzie e “rigidità”.

 

7. I lavori socialmente utili

 

Ormai da diversi anni si assiste all’adozione da parte di Governo e Parlamento di una serie di decreti legge e di decreti legislativi che reiterano le disposizioni in materia di prestazioni di disoccupazione e di lavori socialmente utili. Si avverte la necessità di una disciplina sistematica dell’intera materia, se non si vuole assistere ad una disorganica produzione di leggi e leggine che sono solo una misura tampone con cui si cerca di fronteggiare specifiche situazioni di crisi.

Il lavoratore utilizzato nei progetti di lavori socialmente utili, non è considerato normativamente lavoratore subordinato.

Circa il compenso spettante al lavoratore impegnato in lavori socialmente utili, esso è composto dal sussidio di disoccupazione e dall’eventuale assegno integrativo a carico dell’Ente gestore del progetto, e viene assimilato, ai fini fiscali, al reddito da lavoro dipendente.

Pare in questo modo, essersi risolto il problema sulla natura di tali compensi, che alcuni volevano considerare assimilabili al reddito da lavoro autonomo, o al limite parasubordinato, nel senso di applicare ad essi le disposizioni riguardanti i redditi da lavoro dipendente.

Trattasi di compensi assolutamente inadeguati spesso in considerazione del fatto che questo personale ormai “precariamente stabile”, al pari di tanti altri precari utilizzati dalla pubblica amministrazione (si pensi ai trimestrali della sanità o dei Policlinici Universitari o ai precari della scuola), svolge in molteplici casi attività essenziali per l’espletamento dei compiti istituzionali dell’Ente presso cui presta servizio.

La corresponsione dell’assegno integrativo è condizionata alle giornate di effettiva presenza.

Con riferimento alla esigenza di trasformare in giuridicamente stabili queste posizioni lavorative da circa un anno l’associazione Progetto Diritti, il Centro Studi Trasformazioni Economiche e Sociali (CESTES-Proteo) e la Federazione delle Rappresentanze Sindacali di Base, con il sostegno di alcuni parlamentari, hanno promosso una proposta di legge (che questa rivista ha già pubblicato) per la trasformazione dei lavori socialmente utili in stabili rapporti di dipendenza presso le Pubbliche Amministrazioni, a partire dalla rilevazione delle carenze di organico degli Enti Pubblici.

Si tratta - anche con riferimento ad una poderosa mobilitazione che ha visto questi lavoratori attivi e determinati - di determinare condizioni per una inversione di tendenza rispetto a quelle linee generali perseguite dal padronato, con l’avallo dei partiti della maggioranza e dell’opposizione di destra e con la chiara subalternità delle grandi centrali sindacali, attraverso la predisposizione di sempre nuovi strumenti giuridici e contrattuali, che tendono a mantenere e ad accrescere una massa di forza lavoro mai stabile e sempre alle prese con il problema del rinnovo del periodo di lavoro, sia esso prestato in favore di gruppi privati o di enti pubblici, per ciò stesso non sindacalizzata, e che genera spirali al ribasso nel trattamento complessivo del lavoro dipendente.

 

8. Il rapporto di lavoro a tempo parziale

 

Soltanto con la legge n. 863/84 - ai tempi di Craxi e del taglio dei punti di scala mobile - si è pervenuti ad una prima regolamentazione del rapporto di lavoro a tempo parziale.

Tale rapporto di lavoro si caratterizza per le particolari modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa, la quale infatti viene eseguita ad orario inferiore rispetto a quello ordinario previsto dai contratti collettivi di lavoro, ovvero per periodi di tempo predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell’anno.

Da ciò emerge che la distribuzione oraria della prestazione può configurarsi in due diversi modi: il primo prevede una dislocazione dell’attività lavorativa nell’arco dell’intera settimana, ma con un orario ridotto rispetto a quello stabilito per il lavoro ordinario; si parla in tal caso di part-time orizzontale. Nel secondo tipo, la prestazione viene eseguita con un orario di lavoro ordinario, ma soltanto per periodi di tempo predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell’anno. Si parla in questa seconda ipotesi di part-time verticale. A tali forme, lo abbiamo visto, si è andato ad aggiungere nel tempo, il part-time ciclico (ovvero stagionale).

La norma non dà una definizione del lavoro a tempo parziale, sul modello della nozione stabilita dalla O.I.L. (l’organizzazione internazionale del lavoro), che si riferisce al lavoro svolto in maniera regolare e volontaria per una durata sensibilmente inferiore a quella normale. In assenza di una definizione, la menzione di un orario inferiore a quello ordinario, deve essere intesa nel senso di una riduzione abbastanza considerevole per potervi fondare la diversità del rapporto di lavoro rispetto a quello a tempo pieno, e per evitare quindi che un rapporto di lavoro a tempo parziale mascheri invece un rapporto di lavoro nel quale la riduzione dell’orario di lavoro sia di poco inferiore all’orario massimo previsto per il lavoro a tempo pieno (ciò che invece a quindici anni di distanza dalla prima regolamentazione legislativa del rapporto di lavoro a tempo parziale sembra stia accadendo).

Nella legge inoltre vi è il divieto di prestazioni di lavoro supplementare, in aggiunta al tempo parziale di lavoro; anche qui la legge intendeva evitare che il lavoro a part-time perda la sua natura, assimilandosi con l’incremento della prestazione lavorativa, al lavoro normale. Ciò perché la retribuzione spettante è soggetta ad una proporzionale diminuzione rispetto a quella del lavoratore a tempo pieno; e perché inoltre sono previste agevolazioni fiscali e contributive a favore del datore di lavoro.

E’ stato infatti stabilito con legge n.389/89 che la retribuzione minima oraria da assumere quale base per il calcolo dei contributi previdenziali dovuti per i lavoratori a tempo parziale, si determina rapportando il minimale giornaliero alle giornate di lavoro settimanale ad orario normale, e dividendo l’importo così ottenuto per il numero delle ore di orario normale settimanale previsto dal C.C.N.L. di categoria per i lavoratori a tempo pieno.

Particolari agevolazioni contributive sono state introdotte al fine di promuovere il ricorso al lavoro a tempo parziale, dalla legge n. 451/94. Vi è ancora per i datori di lavoro, la possibilità di conteggiare i lavoratori a tempo parziale, in proporzione all’orario svolto, nel computo dei limiti numerici previsti dalle leggi per l’applicazione dei benefici di carattere finanziario e creditizio.

Emerge immediatamente la distinzione tra questo tipo di rapporto di lavoro e il rapporto di lavoro a termine, poiché il rapporto di lavoro a part-time, si caratterizza comunque per la continuità della prestazione, pur essendo questa temporalmente ridotta.

Nella legislazione di altri ordinamenti, esiste un altro tipo di rapporto di lavoro che va tenuto distinto dal rapporto di lavoro in questione, detto "lavoro ripartito", o "lavoro a coppia" o ancora "job sharing", nel quale il medesimo posto di lavoro viene contemporaneamente occupato da due persone, e ogni lavoratore esegue una parte della prestazione di lavoro, ma è obbligato solidalmente per l’interezza della prestazione, con facoltà per i lavoratori di distribuirsi tra loro, secondo le proprie esigenze l’orario e la quantità di lavoro, considerato anch’esso efficace strumento di flessibilizzazione dell’orario di lavoro.

Di recente il Ministero del Lavoro con una circolare, ha stabilito che si può ricorrere a questa forma di lavoro, anche in mancanza di una legge che la regoli, potendo la sua disciplina essere rimessa alla contrattazione collettiva o addirittura all’autonomia negoziale delle parti.

Alcune regole sono previste per il contratto di lavoro a part-time; innanzitutto il contratto deve essere stipulato per iscritto.

Poiché il legislatore, pur prevedendo la forma scritta al momento della stipulazione del contratto, nulla ha detto circa la natura di tale requisito formale, dottrina e giurisprudenza hanno cercato di risolvere tale problema, soprattutto al fine di chiarire quali debbano essere gli effetti della eventuale violazione del requisito.

La dottrina prevalente ha dato al requisito della forma scritta mera rilevanza probatoria; il legislatore cioè l’avrebbe richiesto soltanto al fine di garantire la certezza del contenuto del contratto, in tal caso, in presenza di una controversia, le parti potrebbero dimostrare la pattuizione relativa alla limitazione dell’orario di lavoro.

La giurisprudenza prevalente invece (vedi per tutte Cass.n.1121/96) è orientata nel senso che il requisito della forma scritta, sarebbe prescritto come elemento sostanziale ed inderogabile, poiché la vera motivazione della previsione legislativa starebbe "nell’esigenza di tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, in correlazione all’obiettivo di favorire l’espansione dell’occupazione secondo le necessità contingenti e particolari dei lavoratori e delle imprese". Da ciò discende che nel caso di inosservanza del requisito della forma scritta, il contratto a tempo parziale dovrebbe ritenersi nullo, con la conseguenza che sarebbe il lavoratore a pagarne il prezzo più alto, venendo ad essere compromesso il suo posto di lavoro. Alcuni giudici di merito per correggere tale stortura hanno affermato che nel rapporto di lavoro subordinato, sarebbe configurabile una sorta di presunzione di lavoro a tempo pieno, in base alla quale, nel caso di inosservanza della forma scritta, il rapporto di lavoro si intenderebbe costituito a tempo pieno. Tali orientamenti sono stati disattesi dalla giurisprudenza di legittimità, che con un orientamento che appare attualmente consolidato, afferma che il contratto di lavoro a tempo parziale, dichiarato nullo per difetto di forma, non può convertirsi in contratto a tempo pieno. Per cui l’unica tutela riconosciuta al lavoratore sarebbe quella prevista dall’art.2126 del codice civile, in base al quale la nullità del contratto non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, con il conseguente diritto del prestatore di lavoro alla retribuzione. Altro dubbio sussiste con riferimento alla indicazione nel contratto, della distribuzione dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese o all’anno. La ratio sta nella necessità di garantire al lavoratore una agevole programmazione del proprio tempo, anche al fine di consentirgli di stipulare più contratti di lavoro a tempo parziale.

Il Ministero del Lavoro ha ritenuto che la variazione della dislocazione temporale dell’orario di lavoro sia possibile mediante l’acquisizione di volta in volta ed in forma scritta del consenso del lavoratore.

La Corte di Cassazione è tornata sul punto, e con le sentenze nn. 1151, 2340, 2691 e 6378 del 1997, ha stabilito che la semplice reperibilità deve essere remunerata; il datore di lavoro, deve pagare anche la chiamata, la cui quantificazione è rimessa in caso di giudizio, alla valutazione del giudice. La Cassazione tuttavia, non ritiene che l’eventuale "clausola elastica" inserita renda nullo l’intero contratto: infatti attraverso il meccanismo previsto dall’art.1339 del codice civile è possibile sostituire le clausole nulle, riconoscendo al lavoratore un maggior compenso per la disponibilità concessa al di là della pattuizione contrattuale.

Copia del contratto deve comunque essere inviata entro trenta giorni al competente Ispettorato provinciale del lavoro.

La legge prevede inoltre che i lavoratori, disponibili a tale forma di occupazione, debbano chiedere l’iscrizione in un’apposita lista di collocamento, pur sempre compatibile con l’iscrizione nella lista ordinaria, in modo che il lavoratore possa mantenere l’iscrizione in entrambe le liste.

La legge provvede altresì a regolare la duplice eventualità della trasformazione del rapporto di lavoro dal tempo parziale al tempo pieno e viceversa, anche se la vicenda che può essere pregiudizievole per il lavoratore, è soltanto quella del passaggio al tempo parziale. In presenza di tale trasformazione, l’accordo delle parti, risultante da atto scritto, deve essere convalidato dal competente ufficio del lavoro, sentito il lavoratore. Per quanto riguarda invece la trasformazione in contratto a tempo pieno, i lavoratori già impiegati a tempo parziale, nel caso di nuove assunzioni a tempo pieno all’interno dell’unità produttiva nella quale prestano il proprio lavoro, ma anche per le assunzioni effettuate dallo stesso datore in altri reparti o unità produttive, hanno il diritto di precedenza.

Questo peculiare rapporto di lavoro potrebbe offrire occasioni di lavoro a quanti non siano in grado di lavorare a tempo pieno, pensiamo alle donne o agli studenti e per tanto tempo è stato utilizzato e visto come strumento a disposizione della donna lavoratrice; ultimamente la situazione sta cambiando, sulla spinta delle ristrutturazioni, dei contratti "week-end", dei part-time nella grande distribuzione.

In Italia comunque il lavoro a tempo parziale non è ancora in linea con quello degli altri paesi dell’Unione Europea, se si pensa che a fronte di un 25-30% riscontrabile in Olanda o in Germania, da noi ci attesta su misure di molto minori.

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9. Il contratto di formazione e lavoro

 

Il contratto di formazione e lavoro rientra tra quegli strumenti inseriti nell’ordinamento in quanto propagandati come idonei a favorire l’accesso dei giovani all’occupazione.

La prima legge che ha regolato il contratto di formazione e lavoro è la legge - di conversione di un decreto legge - n.863 del 1984, la stessa con cui si introduceva nel nostro ordinamento il part-time e che si colloca contestualmente allo scontro della primavera 1984 sul taglio dei punti di contingenza.

La disciplina di legge più recente, e cioè la legge n. 451 del 94, definisce il contratto in esame secondo due distinte tipologie: un primo tipo, di durata non superiore ai ventiquattro mesi, mirato all’acquisizione di professionalità intermedie ed elevate; e un secondo tipo, di durata non superiore ai dodici mesi, preordinato a favorire l’inserimento professionale mediante un’esperienza lavorativa che consenta un adeguamento delle capacità professionali al contesto produttivo ed organizzativo.

Questo tipo di contratto, comprendente le due tipologie, è caratterizzato, oltre che dal fatto di essere a tempo determinato, anche e soprattutto dal fatto di essere un contratto a causa mista: infatti insieme alla causa tipica del lavoro subordinato, ossia lo scambio tra lavoro dipendente e retribuzione, dovrebbe operare una funzione formativa, poiché il datore di lavoro si obbliga (o dovrebbe obbligarsi) a fornire un’istruzione che consenta al giovane lavoratore di migliorare la sua professionalità.

Da ciò emerge immediatamente l’impossibilità (o, più correttamente, dovrebbe emergere l’impossibilità) di approvare e stipulare contratti di formazione e lavoro per l’acquisizione di professionalità elementari connotate da compiti generici o ripetitivi.

Possono essere assunti con tale tipo di contratto nominativamente soltanto i giovani con età inclusa tra i sedici e i trentadue anni ulteriormente elevabili nel Mezzogiorno con delibere delle Commissioni regionali dell’impiego (organismi che prevedono la presenza di componenti nominati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative).

A questi contratti si applicano le disposizioni legislative dettate in genere per il lavoro subordinato, ma per i datori di lavoro sono previsti incentivi economici e normativi che li rendono particolarmente appetibili; infatti nel Mezzogiorno, nelle zone ad elevata disoccupazione e per tutte le imprese artigiane, i contributi previdenziali sono stabiliti nella stessa misura prevista per gli apprendisti; per le imprese commerciali e turistiche con meno di quindici dipendenti, è prevista una riduzione degli oneri contributivi del quaranta per cento; tutte le altre imprese che utilizzano questo tipo di contratti invece godono di una riduzione degli oneri contributivi nella misura del venticinque per cento.

Sulla base delle modifiche apportate dalla legge n. 196/97, le agevolazioni in questione, continuano ad applicarsi, per i successivi dodici mesi, in caso di trasformazione in rapporto a tempo indeterminato del contratto di formazione e lavoro mirato all’acquisizione di professionalità intermedie. Mentre per quanto riguarda le assunzioni con contratto di formazione e lavoro preordinato ad agevolare l’inserimento professionale, il datore di lavoro usufruisce degli stessi benefici contributivi di cui sopra, soltanto a condizione che alla scadenza del contratto, il rapporto di formazione e lavoro venga trasformato in contratto a tempo indeterminato.

Quanto agli incentivi normativi, va rilevato i giovani assunti con contratto di formazione e lavoro, non vengono computati né ai fini delle soglie occupazionali previste da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di determinate normative vincolistiche, né ai fini delle procedure di assunzione sulle quali si calcola l’aliquota di posti da riservare alle fasce deboli (portatori di handicap, etc.).

Presupposto per la stipulazione di contratti di formazione e lavoro, è la predisposizione, da parte dell’impresa, di un progetto di formazione che sia stato approvato dalla Commissione regionale per l’impiego. L’approvazione in questione, non è richiesta se il progetto è conforme alla regolamentazione predisposta da appositi accordi tra le organizzazioni sindacali nazionali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative e recepiti dal Ministro del Lavoro. Abilitati alla stipulazione di contratti di formazione e lavoro sono ora anche i gruppi di impresa, le associazioni professionali, le associazioni socio-culturali e sportive, nonché le fondazioni e i datori di lavoro iscritti agli albi professionali, allorché i progetti formativi vengano predisposti dagli ordini e collegi professionali, e infine gli enti pubblici di ricerca, fatte salve le norme in materia di praticantato.

Un primo problema si è posto con riferimento alla opponibilità del patto di prova. Una giurisprudenza ormai consolidata ha escluso che possa esistere una incompatibilità logica tra patto di prova e contratto di formazione e lavoro, in quanto il significato ed il contenuto del patto di prova, possono essere rapportati e coordinati alla funzione socio-economica del contratto. In questa prospettiva, l’oggetto della prova non è costituito dalla verifica della professionalità posseduta dal lavoratore, ma semmai dal semplice riscontro della capacità e della volontà di apprendimento del soggetto.

In merito alla caratteristica principale di questa forma di rapporto di lavoro, ossia la formazione da garantire al lavoratore, la legge dispone che i contratti diretti all’acquisizione di professionalità intermedie ed elevate devono prevedere rispettivamente almeno ottanta e centotrenta ore di formazione da effettuarsi presso il luogo della prestazione lavorativa, mentre i contratti diretti ad agevolare l’inserimento professionale, devono prevedere una formazione minima, non inferiore a venti ore, relativa alla disciplina del rapporto di lavoro, all’organizzazione del lavoro, nonché alla prevenzione ambientale ed antinfortunistica.

Il problema che si pone in ordine a questo punto, è quello della rilevanza che nello schema causale di tale negozio, assume l’aspetto formativo, ossia se il profilo formativo risulti essenziale per la individuazione della natura propria del contratto o se invece possa connotarsi soltanto alla stregua di un elemento meramente strumentale rispetto all’intento di incrementare i livelli occupazionali; in quest’ultimo caso la causa del contratto resta esclusivamente quella tipica del lavoro subordinato. La Corte di Cassazione, ha aderito alla prima soluzione, stabilendo che accanto alla tipica obbligazione del rapporto di lavoro subordinato, sussista l’ulteriore obbligo per il datore di lavoro di provvedere alla formazione professionale del lavoratore. Diverso risulta invece l’orientamento della Corte Costituzionale, che ponendo l’accento sulle particolari finalità socio-politiche del contratto di formazione, ha affermato che tali finalità assumono un ruolo nettamente prevalente rispetto a quelle "meramente formali". Questo contrasto giurisprudenziale, si riproduce con le stesse caratteristiche anche in dottrina.

Per risolvere tale problema, non si può non tenere conto delle novità introdotte dalla legge n.451/94, che attribuisce all’aspetto formativo un valore qualificante l’intero negozio. La rilevanza dell’attività formativa già emergeva dalla legge n.863/84, che prevede la trasformazione del contratto di cui trattasi in contratto a tempo indeterminato, fin dal momento della sua entrata in vigore, in tutti i casi in cui il datore di lavoro non ottemperi agli obblighi del contratto. Pertanto in caso di inosservanza da parte del datore di lavoro degli obblighi formativi, oltre alla conseguenza della trasformazione del rapporto sin dallasua origini in contratto a tempo indeterminato, l’ispettorato del lavoro può disporre la revoca dei benefici concessi per l’assunzione del lavoratore fin dalla data di costituzione del rapporto di lavoro. Il datore di lavoro è inoltre obbligato a restituire i benefici contributivi percepiti.

La legge n. 451/94 dispone che i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro possono essere inquadrati ad un livello inferiore a quello di destinazione; è data inoltre al datore di lavoro la possibilità di retribuire i lavoratori assunti con tale contratto in maniera differenziata ed inferiore rispetto alla retribuzione spettante ai lavoratori assunti con un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Per tale forma di retribuzione, la legge ha anche coniato un termine, chiamandolo "salario d’ingresso" . Nella realtà è uno strumento che dà al datore di lavoro la possibilità di accedere agli sgravi contributivi e con essi la massima possibilità di pressione o di ricatto sul lavoratore, divenendo ormai il canale normale per la nuova occupazione; e la formazione professionale, prevista minuziosamente nella legge, è in pratica scarsa o mancante.

 

10. I contratti di lavoro a tempo determinato.

 

La realtà dei contratti di formazione e lavoro - fatta di rapporti a termine, con peggiori condizioni per il lavoratore sul piano normativo e retributivo, e con una scarsa possibilità di trasformazione in rapporti di lavoro a tempo indeterminato - si accompagna alla espansione - a partire dalla legge n. 56 del 1987 (la stessa legge che modifica il sistema del collocamento, attraverso la quasi generale scomparsa della chiamata numerica, in favore della chiamata nominativa, ovvero della possibilità per il datore di lavoro di scegliere - prescindendo da ogni altro criterio - il lavoratore da porre alle sue dipendenze) - della possibilità di ricorrere allo strumento dei contratti a tempo determinato (nel cui genus naturalmente si inseriscono i contratti di formazione e lavoro).

Per l’art.1 della legge n.230 del 1962 “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato”, ma “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto” in alcuni casi specificamente indicati.

Si tratta dei seguenti casi: “quando ciò sia richiesto dalla speciale natura dell’attività lavorativa derivante dal carattere stagionale della medesima”; “quando l’assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste il diritto alla conservazione del posto [si pensi al lavoratore in servizio di leva o alla lavoratrice in maternità], sempreché nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione; “quando l’assunzione abbia luogo per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale”; in alcune ipotesi specifiche riferite al personale dello spettacolo e (a partire dall’entrata in vigore della legge n. 84 del 1986) delle aziende di trasporto aereo o esercenti il servizio aeroportuale. Si tratta quindi di precise deroghe alla mancanza di termine propria di ogni rapporti di lavoro subordinato.

Peraltro la legge prescrive che l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta da atto scritto, che il termine può essere eccezionalmente prorogato una sola volta e per un tempo non superiore alla durata del contratto iniziale e sempre con riferimento alle medesime mansioni del contratto originario. La violazione anche minima di tali regole - come nell’ipotesi di prolungamento del rapporto oltre il termine previsto inizialmente o a seguito della proroga - comportava la trasformazione del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Su quest’ultimo punto è intervenuta la legge Treu (n.196/1997), quella cioè che inserisce il lavoro interinale, rendendo più improbabili le ipotesi di conversione; infatti il rapporto si considera a tempo indeterminato “se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi ovvero oltre il trentesimo negli atri casi”.

Ma lo sfondamento più macroscopico al carattere di eccezionalità del lavoro a termine (regola conquistata nel 1962 - agli albori del centrosinistra - dal movimento dei lavoratori per porre un freno alla precarietà della collocazione occupazione della manodopera ed alla conseguente debolezza del lavoratore dipendente temporaneo) avviene con attraverso l’approvazione dell’art.23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56.

Ed infatti, a seguito del mutamento normativo, “l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro oltre che nelle ipotesi di cui all’art.1 della legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive modificazioni ed integrazioni [.....] è consentita nelle ipotesi individuate nei Contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. I Contratti collettivi stabiliscono il numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato”.

Come si vede, anche in questo la deroga rischia di diventare regola, l’apposizione di un termine alla prestazione lavorativa subordinata non è più normativamente ed esclusivamente legata ad una situazione eccezionale o comunque peculiare. Ed ancora: nella definizione delle eccezioni (sempre più massicce) viene chiamato il concorso delle organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionali. Addirittura si prevede che a stipulare gli accordi che rendono possibile, oltre le previsioni dettagliate stabilite dalla legge del 1962, il ricorso a contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, possono essere chiamate le organizzazioni sindacali locali (sia pur aderenti alle maggiori confederazioni), il che significa che la deroga può essere stabilita anche in sede locale, laddove è più forte la pressione del singolo datore di lavoro (ovvero delle imprese territorialmente più potenti in un determinato settore produttivo): si pensi al ruolo ed alla forza nel settore metalmeccanico in Lucania della Fiat ed al ricatto occupazionale che la grande multinazionale torinese può esercitare sulle organizzazioni sindacali locali agitando lo spettro di un decremento occupazionale o di un forte disinvestimento nel distretto industriale di Melfi.

Purtroppo si sta generando una pericolosissima spirale al ribasso (che costitisce la filosofia dei contratti d’area e dei patti territoriali) resa possibile dall’involuzione del quadro normativo, cui hanno concorso quasi tutte le forze politiche con la piena adesione delle grandi centrali sindacali (cui si offrono grossi poteri, come il ruolo nelle Commissioni per l’impiego o l’efficacia e la necessità del passaggio negoziale).

 

11. Attenzione ai referendum!

 

Una bomba rischia di esplodere: è iniziata infatti con grandi squilli di tromba la raccolta delle firme per i venti referendum radicali. Forti dell’exploit elettorale in occasione del rinnovo del parlamento europeo e del successo di immagine registrato con la campagna Emma for president le truppe di Bonino e Pannella, accompagnate da un “comitato d’onore” composto da imprenditori, economisti, dirigenti della Confcommercio, assicuratori, parlamentari di diversi partiti (A.N., Lega, C.C.D., Forza Italia, D.S, Udeur, Verdi), giornalisti ed altre personalità, lanciano un gruppo di referendum per la “libertà di lavoro e di impresa”. I venti referendum “liberali e liberisti” si concentrano inoltre su altri temi cari ai radicali: fisco, previdenza (pensate un po’, per attaccare le pensioni di anzianità) e sanità, finanziamenti pubblici a partiti, sindacati e patronati, “giustizia giusta”, sistema elettorale (per ritentare l’abolizione della quota proporzionale). Un po’ di demagogia, di “nuovismo”, ma anche concetti semplici: bisogna liberare le mani alle imprese, bisogna creare un sistema democratico e sociale all’americana.

Ma vediamo il gruppo di proposte che ci riguarda in questa sede, riprendendo le parole usate dal Comitato Promotore per propagandare le iniziative:

l COLLOCAMENTO AL LAVORO

Per liberalizzare il collocamento privato, facilitando l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.

l TEMPO DETERMINATO

Per liberalizzare i contratti di lavoro a termine.

l PART-TIME

Per liberalizzare i contratti di lavoro a tempo parziale.

l LAVORO A DOMICILIO

Per liberalizzare i contratti di lavoro a domicilio.

l DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI

Per abrogare, fermo restando il risarcimento patrimoniale, l’obbligo di riassunzione del lavoratore licenziato, vincolo disincentivante alla creazione di nuovi posti di lavoro nelle piccole imprese”.

Immaginate un po’ cosa né può venire fuori (e già adesso non siamo messi bene): caporalato senza limiti, precarietà come regola generale (e questa sì inderogabile), licenziamenti ad nutum (ovvero per usare una efficace espressione latina da comminare con un semplice gesto del capo).

L’insieme esplosivo dei referendum in cui possono unirsi - alzando i quorum di partecipazione e trascinando in alto i SI - l’insoddisfazione per la sanità pubblica (pensate al caso Policlinico) o il disgusto verso il sottobosco politico e sindacale, il corteggiamento che tutte le parti politiche fanno al pacchetto del nove per cento dell’elettorato di cui al momento la Bonino dispone, l’incultura promossa tra cittadini e lavoratori da vent’anni di bombardamento ideologico, la debolezza del fronte sindacale, la voglia di cambiare (non si sa come e verso cosa) possono produrre qualcosa a tutt’oggi inimmaginabile: la fine del diritto del lavoro innanzitutto, l’impossibilità di rivendicare garanzie, uno scenario insomma da inizi della rivoluzione industriale.

Non sarà facile, ma a questa montante marea american-medioevale, bisogna riuscire a contrapporre gli interessi reali della popolazione, dei lavoratori, dei disoccupati: far ragionare sulla realtà delle cose, opporsi al bombardamento dei mass media (che hanno già cominciato: quanta differenza tra l’attenzione per questa iniziativa e la noia che circondava fino a poco tempo fa le iniziative dei radicali!), insomma cercare di rimettere i fatti con i piedi per terra.

E’ una scommessa difficile, ma non la si può perdere.

 

Il Senato della Repubblica, il 4 febbraio 1999, ha approvato il seguente disegno di legge, d’iniziativa dei senatori Smuraglia, De Luca Michele, Pelella, Gruosso, Piloni, Larizza, Tapparo, Arlacchi e Battafarano:

Norme di tutela dei lavori "atipici"

 

Art.1

(Ambito di applicazione)

l. Ai rapporti di collaborazione, di carattere non occasionale, coordinati con l’attività del committente, svolti senza vincolo di subordinazione, in modo personale e senza impiego di mezzi organizzati e a fronte di un corrispettivo, si applicano le seguenti disposizioni:

a) gli articoli 1, 5, 8, 14 e 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300;

b) la legge 9 dicembre 1977, n. 903, e la legge 10 aprile 1991, n. 125;

c) le disposizioni in materia di sicurezza e igiene dei lavoro previste dal decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni, nonché dalla direttiva 911383/CEE del Consiglio, del. 25 giugno 1991, in quanto compatibili con le modalità della prestazione lavorativa.

2. L’eventuale ulteriore individuazione e definizione delle modalità di espletamento delle prestazioni di cui al comma 1 è demandata ai contratti o accordi collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

3. Per i rapporti di cui al comma 1, non può essere imposto o comunque previsto alcun tipo di orario di lavoro, salvo i casi in cui la specificità della prestazione richieda l’indicazione di una determinata fascia oraria. In caso di particolari esigenze del committente può essere concordata la fissazione di un termine per l’esecuzione di una parte specifica della prestazione pattuita.

4. I contratti o accordi collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere l’estensione, in tutto o in parte, delle disposizioni della presente legge anche a rapporti di durata inferiore a quella minima prevista dall’articolo 3, comma 1, lettera e), che non abbiano carattere di mera occasionalità.

 

Art.2 (Diritti di informazione e formazione)

1. Il prestatore di lavoro di cui all’articolo 1, comma 1, ha diritto di ricevere le informazioni previste nei contratti collettivi di lavoro a favore dei lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato, nonché le informazioni relative alla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, di cui all’articolo 21 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni.

2. Il committente, imprenditore pubblico o privato, è tenuto ad organizzare i propri flussi di comunicazione in modo da garantire a tutti i lavoratori, quale ne sia la natura del rapporto di lavoro, pari condizioni nell’accesso all’informazione attinente all’attività lavorativa.

3. Per il finanziamento di iniziative e di formazione professionale e di formazione in materia di salute e di sicurezza sul lavoro, i contratti o accordi collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere un contributo a carico dei committenti in percentuale al compenso corrisposto ai lavoratori di cui all’articolo 1. I contributi affluiranno, con apposita evidenza contabile, nel Fondo che verrà definito con decreto dei Ministro del lavoro e della previdenza sociale, da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, nell’ambito del complessivo riordino della formazione, dell’aggiornamento e della riqualificazione professionale.

4. Con apposito provvedimento, da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Governo potrà prevedere agevolazioni fiscali per le attività formative svolte dai committenti e documentate. Agli oneri relativi, nel limite massimo di lire 5 miliardi annue e a partire dal 1999, si fa fronte con le risorse disponibili del Fondo di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236.

 

Art.3. (Contenuto dei contratti)

l. I contratti di cui all’articolo 1, comma 1, devono essere stipulati in forma scritta e devono indicare:

a) l’oggetto della prestazione;

b) l’entità dei corrispettivo, che in ogni caso deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro, e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva del settore o della categoria affine, ovvero, in mancanza, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo;

c) i tempi di pagamento dei corrispettivi e la disciplina dei rimborsi spese;

d) l’eventuale facoltà del prestatore di lavoro, previa accettazione dei committente, di farsi sostituire temporaneamente da persona resa nota al committente stesso o di lavorare in coppia:, dando luogo, in entrambi i casi, ad un unico rapporto con responsabilità solidale di ciascuno dei prestatori per l’esecuzione dell’intera opera o servizio;

e) la durata del contratto, che in ogni caso non può essere inferiore a tre mesi, salvo che per i rapporti destinati per loro particolare natura a concludersi in un periodo di tempo inferiore;

f) l’indicazione dei motivi che possono giustificare la cessazione anticipata del rapporto, ove non ancora individuati dalla contrattazione collettiva nazionale;

g) il rinvio ai contratti o accordi collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale per la definizione di modalità, forme e termini di legittima sospensione del rapporto, in caso di malattia o infortunio, nonché l’eventuale previsione di penalità di natura amministrativa e civile nel caso di recesso ad opera di una delle parti, senza giustificate ragioni, prima del termine convenuto o successivamente prorogato.

 

Art.4. (Cessazione del rapporto)

1. I contratti o accordi collettivi nazionali stipulati dalle rappresentanze dei datori di lavoro e dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori, comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, possono prevedere in relazione alla cessazione dei rapporti di cui all’articolo 1:

a) il diritto dei prestatore di lavoro ad una indennità di fine rapporto;

b) il diritto di preferenza del prestatore di lavoro, rispetto ad altri aspiranti, nei casi in cui il committente intenda procedere alla stipulazione di un contratto di tipo analogo e per lo stesso tipo di prestazione, qualora lo stesso prestatore di lavoro non abbia subito fondate contestazioni circa la prestazione effettuata e non sia stata anticipata, per ragioni giustificate ed obiettive, la cessazione del rapporto di lavoro rispetto alla sua durata contrattualmente prevista.

 

Art. 5. (Regime fiscale)

l. Il regime fiscale applicabile ai rapporti di cui all’articolo 1 è quello previsto dalla lettera a) dei comma 2 dell’articolo 49 dei testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.

Art.6.(Previdenza)

1. Tutti coloro che svolgono le prestazioni di cui all’articolo 1 sono iscritti alla gestione speciale di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e all’articolo 59, comma 16, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, anche per quanto riguarda la tutela relativa alla maternità, definita nei termini dì cui al decreto ministeriale 27 maggio 1998, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 171 del 24 luglio 1998. Alla stessa gestione, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, so- no iscritti gli incaricati alla vendita a domicilio, di cui all’articolo 36 della legge 11 giugno 1971, n. 426, soltanto qualora il reddito annuo derivante da tale attività sia superiore all’importo, nel medesimo anno, dell’assegno sociale di cui all’articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335. Ai fini della copertura dell’onere derivante dal precedente periodo, il Ministro delle finanze, con propri decreti, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, provvede, almeno ogni due anni, alla. variazione delle aliquote e delle tariffe di cui all’articolo 2, commi 151, 152 e 153, della legge 23 dicembre 1996, n. 662.

 

Art.7(Ricongiunzionediperiodi contributivi e tutela in caso di malattia ed infortunio)

1. Il Governo è delegato ad emanare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi volti ad assicurare, per coloro che svolgono le prestazioni lavorative di cui all’articolo 1, la ricongiunzione di tutti i periodi contributivi e un’adeguata copertura, nei casi di legittima sospensione dei rapporto, per i trattamenti per malattia ed infortunio.

2. I decreti legislativi di cui al comma 1 sono emanati secondo i seguenti criteri e princìpi direttivi:

a) attuare gradualmente, nell’ambito di un processo di omogeneizzazione dei diversi regimi previdenziali, la possibilità di ricongiuzione di posizioni assicurative frazionate o realizzate con enti differenti secondo le modalità previste dall’attuale disciplina per i soggetti iscritti all’Assicurazione generale obbligatoria (AGO);

b) nel disciplinare l’estensione della tutela in caso di malattia ed infortunio, utilizzare come parametro di riferimento quanto stabilito in materia per il lavoro dipendente.

3. Agli oneri derivanti dall’attuazione dei commi 1 e 2, si provvede mediante corrispondente adeguamento del contributo alla gestione speciale di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, come modificato dall’articolo 59, comma 16, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, determinato con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con quello del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.

Art.8 (Comitato amministratore del Fondo)

1. Per la gestione speciale di cui all’articolo 6, è costituito un Fondo gestito da un comitato amministratore, composto di tredici membri, di cui due designati dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, cinque designati dalle associazioni datoriali e del lavoro autonomo in rappresentanza dell’industria, della piccola impresa, artigianato, commercio, agricoltura e sei eletti dagli iscritti al Fondo. Il comitato amministratore opera avvalendosi delle strutture e di personale dell’INPS. I componenti del comitato amministratore durano in carica quattro anni.

2. Il presidente dei comitato amministratore è eletto tra i componenti eletti dagli iscritti al Fondo.

3. Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale emana il regolamento attuativo dei presente articolo e provvede quindi alla convocazione delle elezioni, informando tempestivamente gli iscritti della scadenza elettorale e del relativo regolamento elettorale, nonché istituendo i seggi presso le sedi INPS.

4. Ai componenti del comitato amministratore è corrisposto un gettone di presenza nei limiti finanziari complessivi annui di cui al comma 5.

5. All’onere derivante dall’applicazione del presente articolo, valutato in lire 50 milioni per ciascuno degli anni 1999 e 2000 e a regime, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 1999-2001, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente "Fondo speciale" dello stato di previsione del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero del lavoro e della previdenza sociale.

6. Il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

 

Art. 9 (Diritti sindacali)

l. Competono ai prestatori di lavoro di cui all’articolo 1:

a) il diritto di organizzarsi in associazioni di categoria o di settore o di ramo di attività;

b) il diritto di aderire ad organizzazioni sindacali di settore o di categoria, nonché ogni altro diritto sindacale compatibile con la particolare struttura del rapporto;

c) il diritto di aderire ad organizzazioni o associazioni anche intercategoriali, conferendo ad esse specifici poteri di rappresentanza;

d) il diritto di partecipare alle assemblee indette dalle rappresentanze sindacali aziendali, all’interno delle unità produttive delle aziende.

2. Ulteriori forme di rappresentanza e di esercizio delle attività sindacali potranno essere individuate in sede di contrattazione collettiva nazionale.

 

Art.10 (Sanzioni)

l. Il controllo sull’osservanza delle norme della presente legge compete al Ministero del lavoro e della previdenza sociale, che lo esercita attraverso l’organo competente per territorio. L’inosservanza delle disposizioni di cui all’articolo 3 comporta soltanto una sanzione pecuniaria di importo non inferiore, nel minimo, alla totalità dei compensi dovuti fino al momento dell’accertamento e, nel massimo, al doppio di tale importo, fermo comunque restando il limite massimo di cui all’articolo 10 della legge 24 novembre 1981, n. 689. L’organo competente ad emanare l’ordinanza-ingiunzione di cui all’articolo 18 della citata legge n. 689 dei 1981 è la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio.

 

Art.11(Conversione del rapporto)

1. Qualora venga accertato dagli organi competenti con provvedimento esecutivo che il rapporto costituito ai sensi dell’articolo 1 è in realtà di lavoro subordinato, esso si converte automaticamente in rapporto a tempo indeterminato, con tutti gli effetti conseguenti. Si applica, inoltre, la sanzione prevista dall’articolo 10.

2. Le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, che abbiano provveduto, alla data di entrata in vigore della presente legge, alla trasformazione dei rapporti di lavoro di cui al comma 1, sono esonerate dal pagamento dei contributi e degli oneri accessori derivanti da accertamenti effettuati dall’Istituto nazionale della previdenza sociale successivamente a tale trasformazione e conseguenti al mancato riconoscimento, da parte del predetto Istituto, dell’appartenenza dei rapporti di lavoro alla tipologia di cui alla presente legge. Gli eventuali procedimenti amministrativi ed i giudizi ancora pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge sono dichiarati estinti, con integrale compensazione delle spese. Alle minori entrate derivanti dal presente comma, quantificate in lire 35 miliardi per il 1999, si fa fronte mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini dei bilancio triennale 1999-2001, nell’unità previsionale di base di parte corrente "Fondo speciale" dello stato di previsione del Ministero dei tesoro, del bilancio e della programmazione economica per il 1999, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo alla Presidenza del Consiglio dei ministri.

3. E’ fatto divieto al committente di trasformare contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in essere presso unità produttive dei medesimo, in contratti di cui all’articolo 1, qualora non ricorrano documentate esigenze di ristrutturazione aziendale.

 

Art.12.(Conversione volontaria del rapporto)

l. Qualora il committente, che ha in atto rapporti qualificati formalmente come appartenenti alla tipologia di cui alla presente legge, decida, previo consenso dei lavoratore, di farli rientrare nello schema di cui all’articolo 2094 dei codice civile, il rapporto godrà dei benefici, sgravi o incentivi eventualmente riservati alle nuove assunzioni.

 

Art.13(Competenza per le controversie)

1. Le controversie relative ai contratti di cui all’articolo 1 rientrano nella competenza funzionale dei pretore del lavoro; per il procedimento, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 409 e seguenti dei codice di procedura civile.

 

Art.14(Coordinamento con la normativa comunitaria)

1. Il Governo è delegato ad emanare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, norme di coordinamento, per quanto riguarda i prestatori di lavoro di cui all’articolo 1 della presente legge, del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, in attuazione della direttiva comunitaria 91/533 CEE, recante obblighi di informazione sulle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro, per le parti compatibili con la struttura dei rapporti di cui al predetto articolo.

2. Il Governo è altresì delegato ad emanare un decreto legislativo, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, che adegui alle particolari caratteristiche dei lavoratori di cui all’articolo 1 i sistemi di formazione previsti dalle leggi vigenti, nell’ambito degli stanziamenti previsti dalle singole norme e senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato.

3. Gli schemi dei decreti legislativi sono sottoposti alle Commissioni parlamentari competenti, che esprimono il parere entro trenta giorni. Trascorso detto termine, il decreto o i decreti potranno comunque essere emanati.

4. Criteri fondamentali per la delega sono i seguenti: pieno rispetto della normativa vigente, interna e comunitaria; considerazione della peculiarità dei rapporti in questione, con l’obiettivo di ottenere il maggior risultato per la tutela della salute, per il riconoscimento dei diritti di informazione, per la formazione permanente e continua, senza aggravi per le imprese. In particolare, all’interno dei sistema formativo devono individuarsi modalità tali da consentire la migliore qualificazione professionale dei lavoratori di cui all’articolo 1.

 

Art.15 (Privilegi)

l. All’articolo 2751-bis, primo comma, del codice civile, dopo il numero 5-bis, è aggiunto il seguente:

5-ter) i compensi dovuti ai prestatori di attività lavorative con carattere di continuità, non riconducibili alla tipologia dei rapporto di lavoro subordinato".

 

Art.16. (Verifica dell’efficacia della. legge)

1. Trascorsi due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale riferisce, entro novanta giorni, alle competenti Commissioni parlamentari del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati sull’attuazione della legge stessa, sulla sua concreta efficacia e sugli effetti prodotti, sulla base dei dati e delle informazioni preventivamente acquisiti dagli organi di vigilanza.

 

Art.17.(Certificazione dei rapporti)

1. Al fine di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione del rapporto di lavoro di cui all’articolo 1, comma 1, il Governo è delegato ad emanare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, disposizioni in materia di certificazione volontaria del relativo contratto stipulato tra le parti, ispirate ai seguenti principi e criteri direttivi:

a) individuazione dell’organo preposto alla certificazione nell’organismo bilaterale di settore istituito dai contratti o accordi collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero, in caso di sua mancata costituzione, nella Direzione provinciale dei lavoro, con previsione della presenza paritetica delle predette organizzazioni sindacali;

b) definizione delle modalità di organizzazione delle sedi di certificazione e di tenuta della relativa documentazione;

c) indicazione dei contenuto della certificazione, da riferire alla descrizione dei dati di fatto risultanti dal contratto scritto di cui all’articolo 3 e dalle dichiarazioni dei contraenti anche in relazione alle tipologie contrattuali ed alle modalità di svolgimento della prestazione, in rapporto a quanto eventualmente definito dalla contrattazione collettiva di cui all’articolo 1, comma 2;

d) in caso di controversia sulla effettiva corrispondenza delle mansioni in concreto svolte e delle modalità effettive della prestazione rispetto a quanto risultante dalla documentazione, ovvero sulla qualificazione dei contratto, valutazione da parte dell’autorità giudiziaria competente anche del comportamento tenuto dalle parti in sede di certificazione;

e) verifica dell’attuazione delle disposizioni, dopo dodici mesi dalla data della loro entrata in vigore, da parte del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentite le organizzazioni sindacali di cui alla lettera a).

2. Gli schemi dei decreti legislativi di cui al comma 1 sono trasmessi alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica almeno quaranta giorni prima della scadenza prevista per l’esercizio della delega; le Commissioni parlamentari competenti per materia si esprimono entro trenta giorni dalla data di trasmissione. Qualora il termine previsto per il parere delle Commissioni scada nei trenta giorni che precedono la scadenza dei termine previsto al comma 1 per l’esercizio della delega o successivamente, quest’ultimo è prorogato di sessanta giorni.

3. Entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni di cui al comma 1, il Governo può emanare, anche in base alla verifica effettuata ai sensi dei comma 1, lettera e), eventuali disposizioni modificative e correttive con le medesime modalità di cui al comma 2.