Cose dell’altro mondo

Paolo Graziano

La sfida dei movimenti di resistenza alla competizione globale

La storia potrà anche muoversi veloce come un missile ma ci sono pur sempre delle continuità. E. Hobsbawm

1. Critica dell’imperialismo e “distrazione” dell’Occidente

È persino agevole applicare all’imperialismo le categorie che, qualche decennio fa, Edward W. Said individuò a proposito della questione orientale. Secondo lo studioso di origini palestinesi - e qui si potrebbe a ragion veduta invocare la causalità che spesso lega l’esistenza alla speculazione teorica - le modalità delle fitte relazioni tra l’Europa e il medio-Oriente sono state condizionate inesorabilmente dalla riduzione e dalla semplificazione con cui le società d’oltremare venivano rappresentate nell’immaginario europeo, incapace di astrazione, zavorrato dalla presunzione di essere la misura del mondo. È quest’atteggiamento che Said chiama orientalismo, sottolineando che “è stato un aspetto sia dell’imperialismo che del colonialismo”1. Nelle teorie di Said, esso non consiste nel rifiuto della relazione quanto nell’instaurazione di una relazione distorta, funzionale al proprio equilibrio (culturale, sociale, economico) interno piuttosto che a quello comune2. Il salto dal piano delle rappresentazioni a quello della politica non è poi così lungo: qualsiasi pratica imperialista si fonda in modo più o meno consapevole su un’immagine strumentale dell’altro, per quanto possa essere coperta da ragioni storiche, spiegazioni scientifiche o giustificazioni morali. Il mito del “buon selvaggio” o il luogo comune della incapacità delle ex colonie all’autogoverno - per inciso - appartengono a questo genere di pseudo-argomentazioni. Certo abbiamo citato le più triviali, quelle che il tempo s’è premurato di confutare, rendere ridicole e consegnare alla pattumiera della storia, ma non bisogna sottovalutare il potere pervasivo di tali rappresentazioni che si diffondono in forme diverse ad ogni livello della società, senza risparmiare le élites culturali, anzi, spesso rinvigorendosi dei buoni argomenti che esse sono in grado di produrre a sostegno. Di qui la persistente difficoltà a svolgere una critica profonda e completa all’imperialismo dall’interno del polo imperialista europeo o americano, specie in una stagione in cui i segni più evidenti che il filtro mediatico propone agli occhi dell’opinione pubblica occidentale sono quelli di un attacco immotivato portato al cuore delle società democratiche. Non è eccessivo affermare, dunque, che il primo problema nello studio dell’imperialismo è quello di adottare lo sguardo giusto, aprendosi un varco nella sfera compatta e cristallina delle rappresentazioni con cui l’Occidente figura se stesso, l’altro, i termini della relazione tra i due. È quanto provano a fare due recenti lavori collettivi pubblicati da Jaca Book, nella collana “Saggi sul capitalismo”. Nati dalla pratica della ricerca e dell’inchiesta di classe, i due volumi affrontano l’oggetto d’indagine da angolazioni diverse ma complementari: Competizione globale. Imperialismi e movimenti di resistenza, del 2004, adotta uno sguardo sincronico per evidenziare nell’apparente uniformità dello scenario globalizzato le asperità e le tensioni che governano l’attuale fase dell’imperialismo, caratterizzata dalla prova di forza tra blocchi contrapposti e dal consolidamento di un movimento antimperialista che sfugge nei contorni persino a certi suoi sostenitori nel primo mondo - ma di questo parleremo più oltre; delle premesse di tale situazione si occupa il secondo testo, Introduzione alla storia e alla logica dell’imperialismo, pubblicato nell’aprile 2005. Con una prospettiva diacronica, gli autori percorrono a ritroso seicento anni di storia, rintracciando i segni della nascita e dell’affermazione dell’imperialismo nello slancio delle grandi esplorazioni europee del Rinascimento, poi nel sistema coloniale di fine Ottocento, infine nell’ordine mondiale scaturito dal secondo conflitto mondiale. Anche qui la continuità dei fatti risulta soprattutto dallo sguardo che li riunisce, che sa trovare il fondo ideologico comune dietro le sue manifestazioni eterogenee, rivelando agli occhi altrui una verità senz’altro complessa e multiforme. Ma senz’altro una verità.

2. Oltre il concetto di globalizzazione: la contesa tra poli imperialisti Il primo aspetto che la caratterizza riguarda la sostanziale continuità tra la fase colonialista europea degli ultimi decenni dell’Ottocento e l’imperialismo apolide che precede la prima guerra mondiale, fondato sulla subordinazione economica e produttiva di vaste aree del pianeta secondo formule variegate e adattabili, che vanno dal controllo politico diretto (le colonie) a quello indiretto (protettorati, sfere d’influenza), fino allo sfruttamento concertato con il capitale privato3. Fin qui il contributo di carattere storico, su cui s’innesta la vera tesi di fondo che percorre i due volumi, che stabilisce una continuità di fatto anche tra la fase imperialista “classica” e l’attuale configurazione delle relazioni internazionali, segnata da una successione di guerre imperialiste (Kosovo, Afghanistan, Iraq) e dall’escalation di una strategia del controllo globale da parte dei poli imperialisti: “al di la dell’immediatezza o meno e dell’intensità tra veri e propri atti di guerra guerreggiata, si prefigura, comunque, una lunga fase di guerra permanente globale economica e di dominio. Una competizione in particolare tra USA e UE, in un momento in cui l’Europa sta realizzando contemporaneamente il passaggio fra consolidamento ed affermazione definitiva di un proprio autonomo blocco geoeconomico e geopolitico e la contraddizione di uno sviluppo diseguale, e comunque basato su modalità diverse o meglio a diverse modalità”4. Ora, stabilire questa continuità significa innanzitutto disfarsi di certi residuati teorici connessi al concetto di globalizzazione, che ha dominato il dibattito politico ed economico mondiale almeno a partire dai primi anni ’90, quando sono stati percepiti gli effetti della dissoluzione dei blocchi che avevano innescato la lunga fase della guerra fredda e, con il conflitto jugoslavo, s’è manifestata la dirompente relazione tra le tensioni regionali e le strategie di controllo internazionale. Il modello teorico della globalizzazione - ma dovremmo parlare di moda, per l’influenza che ha avuto su stili di vita, linguaggi, immaginario - rappresenta infatti un mondo dominato da un progetto economico, politico e sociale sostanzialmente unitario, imposto alle popolazioni mediante gli enti sopranazionali di programmazione economica e finanziaria. In questo scenario, l’unica contrapposizione è quella esistente tra i centri del potere - che travalicano la dimensione nazionale e rendono anacronistica la forma-Stato - e le masse di sfruttati, cui vengono imposti con modalità e gradi differenti i costi del modello di sviluppo. Di questo nuovo “bipolarismo”, che gli storici delle idee dovrebbero premurarsi di indagare per scoprire quanto sia legato ancora ad una visione manichea del mondo anteriore al 1989, troppi sono gli elementi che conducono ad una semplificazione dei reali rapporti di forza e degli interessi, spesso contrastanti, che essi rappresentano. Una critica esplicita a questo modello, per certi versi egemone in ampi strati del movimento antagonista, viene condotta nell’ultima parte di Competizione globale, dedicata all’analisi del conflitto antimperialista: “L’ostinazione con cui i settori di movimento new global, o no global, continuano a vedere nelle istituzioni internazionali (WTO, FMI) gli agenti del ‘governo mondiale’ e la radice di tutti i problemi contrasta apertamente con lo sviluppo della realtà capitalista. Non è un dettaglio, perché cogliere il passaggio di fase dalla globalizzazione alla competizione globale implica il riconoscimento delle contraddizioni tra i vari poli imperialisti ed un’azione politica conseguente”5. In definitiva, quella della globalizzazione come approdo della storia, condizione definitiva delle società umane, è un’idea tipicamente post-moderna che stabilisce fratture laddove sarebbe più corretto vedere dei passaggi, dei momenti di un processo cominciato molto prima e destinato ad andare molto oltre la contingente realtà che stiamo vivendo6. Essa si lega ancora una volta ad un sentimento egocentrico, una sorta di novello orientalismo che misura la condizione del mondo su quella della nostra provincia. In molte aree del pianeta - la maggioranza, senza dubbio - le cosiddette manifestazioni della globalizzazione come la mobilità di uomini e merci, l’accessibilità alle comunicazioni telematiche, l’internazionalizzazione delle produzioni semplicemente non hanno avuto luogo, così come non ha alcuna consistenza il proclamato passaggio del sistema economico allo stato post-fordista (un altro post-, che non ha trovato nome: ma nomina sunt consequentia rerum...): “parlare attualmente di era postfordista non significa che non sussistano ancora elementi tipici dei processi fordisti; anzi il cosiddetto modello postfordista tipico dell’area centrale dei paesi a capitalismo avanzato convive con un tipico modello ancora fordista della periferia e addirittura con modelli ancora schiavistici dei paesi dell’estrema periferia (dove per estrema periferia si intendono anche alcune aree marginali del centro nei paesi a capitalismo avanzato)”7. Una spiegazione dell’affermazione del nuovo modello, basata sul principio della continuità, è fornita in Competizione globale: “in qualche modo il postfordismo non è che il fordismo alla fine della sua crescita; è il fordismo del post-svilppo, di un’epoca nella quale le promesse di un intenso, potentissimo ed illimitato sviluppo si sono rotte. Alla fine, tutte le caratteristiche tecniche del postfordismo - dalle più ovvie e ben conosciute (come il just in time e la lean production) alle più complesse (come la ‘fabbrica integrata’ e la ‘fabbrica modulare’, che è un estremo esempio di risparmio di capitale effettuato facendolo pagare dal sub-appaltatore) -, tutte le misure che mirano ad una produttività crescente ed una riduzione dei costi provano a prendersi cura della sessa necessità: la riduzione dei costi in un’epoca nella quale la crescita è lenta, quando il lavoratore deve adattarsi a ‘quello che arriva’, essere mobile, accettare la precarietà per affrontare un mercato che non può essere pianificato perché imprevedibile ed incerto”8. Se si accetta questa interpretazione, risulterà necessario accantonare il fumoso concetto di globalizzazione a vantaggio di quello di competizione globale, che gli autori dei due volumi propongono per spiegare l’attuale fase della politica internazionale. La lunga fase di recessione determina, infatti, una competizione ormai strutturale tra le aree più avanzate del pianeta, che tentano di stabilire la propria egemonia sulle risorse e sui mercati dei continenti svantaggiati, estromettendo i competitori con i mezzi politici ed economici a disposizione. Se alla fine degli anni ’90 la speculazione finanziaria americana ha determinato in buona misura la crisi del Giappone9, costringendo uno dei principali antagonisti a ridimensionare le proprie pretese egemoniche sull’economia mondiale, i primi anni del nuovo millennio hanno visto una crescente tensione tra il polo europeo e quello americano, anticipato dal controverso intervento degli Stati Uniti nell’area balcanica, durante il conflitto nella ex-Jugoslavia10. Sul versante teorico, questa interpretazione contribuisce ad una salutare rivalutazione della speculazione leninista sull’imperialismo, capace di reggere meglio di altre mode teoriche al confronto con le evoluzioni dei rapporti internazionali e di fornire, in più, un itinerario possibile ai movimenti antagonisti, oggi frustrati dal fallimento delle mobilitazioni contro la guerra nel Golfo e impantanati nella definizione di nuove strategie di contrasto. Nei suoi storici contributi sull’argomento, Lenin individuava nell’imperialismo la “fase suprema del capitalismo”11, caratterizzata dalla sostituzione di fatto del regime di libera concorrenza con il dominio dei monopoli, sostenuto dalle politiche d’espansione degli Stati nazionali, che necessariamente entrano in conflitto: “la ripartizione del mondo significa passaggio dalla politica coloniale, estendentesi senza ostacoli ai territori non ancora dominati da nessuna potenza capitalistica, alla politica coloniale del possesso monopolistico della superficie terrestre definitivamente ripartita”12. Per questo, secondo Lenin, sono state scatenate due guerre mondiali. La guerra, manifestazione del conflitto non risolto o proseguimento della politica con altri mezzi, come sosteneva Clausewitz13, è infatti una condizione strutturale del mondo dominato dagli imperialismi, poiché la spartizione delle risorse non è indolore e stabilisce, nel medio termine, la sopravvivenza di un progetto a scapito di un altro. Prolungando le direttrici del pensiero leninista, fanno notare gli autori dei volumi che qui discutiamo, si investe in pieno l’attuale fase della competizione tra blocchi, caratterizzata da tentativi locali e globali di imporre la propria egemonia economica e finanziaria, con la politica economica (si veda la bilancia di importazioni ed esportazioni di molti paesi dell’America latina, controllati dagli USA), le relazioni internazionali (si consideri soltanto lo strumento dell’ALCA) e, in ultima analisi, la guerra guerreggiata (e qui l’elenco si fa nutrito: Kosovo, Afghanistan, Iraq... e poi?). All’orecchio dell’opinione pubblica europea e statunitense, per ora, giunge soltanto l’imbarazzante fragore delle bombe che si fa sempre più fatica a tradurre in soddisfacenti spiegazioni, non il brusio del malcontento e del disagio che la competizione imperialista genera nelle vaste aree del mondo assoggettate a regimi produttivi, condizioni lavorative, dinamiche sociali intollerabili. Il punto debole dello sfruttamento imperialista, invece, sta proprio lì: nelle periferie remote che pagano i costi più alti del modello capitalista mondializzato e che generano, nel tempo, un’opposizione diffusa incontrollabile per gli apparati della sorveglianza economica e militare collocati al centro dell’impero.

3. Periferie alla conquista del centro: i nuovi movimenti di resistenza Eppure è in questi luoghi, nelle periferie, che ormai da un decennio si manifestano le spinte più autentiche ed efficaci contro i progetti imperialisti, che peraltro riescono ad essere naturalmente in sintonia con le sofferenze e le domande - diverse nelle forme, simili nel contenuto - provenienti da vaste aree del pianeta. Sta in questo consenso la forza e, al tempo stesso, la sfida più ardua del fronte antagonista: “questo movimento europeo ed internazionale deve adeguarsi alla condizione, straordinaria rispetto al passato, di rappresentare o comunque coincidere con il senso comune della maggioranza della popolazione”14. La vera difficoltà del movimento, infatti, è quella di identificare compiutamente i soggetti che esso effettivamente deve rappresentare, e interpretarne i bisogni. Soltanto una parte di questi si esprimono nelle richieste degli studenti, dei lavoratori, delle classi medie colpite dalla crisi dei paesi occidentali; un’altra parte, senz’altro più consistente, promana dalle lotte dei campesinos, dei sem terra, del proletariato stipato nelle bidonville asiatiche e sudamericane che contrastano gli accordi internazionali sulle esportazioni, il controllo e l’abolizione delle colture praticate dai piccoli proprietari, le privatizzazioni dell’acqua. Non solo la composizione sociale, anche le strategie e il quadro ideologico di questa resistenza divergono da quella praticata in Europa e nell’America del nord: nei paesi a capitalismo avanzato la pratica antagonista trova il suo culmine nel “grande avvenimento” (i vertici internazionali) dove converge la protesta di sindacati, ONG, gruppi e singoli contro le pianificazioni dei poteri imperiali, ma tale modalità serve tutt’al più “a dimostrare l’ampiezza e la profondità dell’opposizione popolare alle politiche imperialiste, ad educare il ‘pubblico passivo’ e forse a costringere i governanti imperiali, particolarmente in Europa, a divenire più circospetti e moderati”15; nelle periferie del mondo, nelle aree che sopportano il maggior peso dello sfruttamento la lotta è quotidiana e calibrata su obiettivi concreti, sul contrasto alla lunga marcia delle privatizzazioni, agli innumerevoli programmi del Fondo Monetario Internazionale, alle richieste di pagamento dei debiti, agli espropri e alle requisizioni, alla distruzione delle piantagioni. Di quel difetto della vista di cui si parlava a proposito dell’orientalismo soffrono anche ampi settori dei movimenti europei e nordamericani, incapaci di accorgersi che il centro della lotta antimperialista s’è spostato nelle periferie ed è lì che si elabora la visione più lucida del conflitto in corso. Essa si fonda, oggi, sulla coscienza che non esiste una strada riformista per trasformare la politica dei governi espansionisti, perché l’imperialismo è soltanto la manifestazione di uno stadio critico dello sviluppo capitalista e la sua sconfitta coincide con la messa in crisi del sistema socio-economico che lo ha prodotto. In linea con quello che Lenin aveva ipotizzato quasi un secolo fa, a quanto pare. Quello che, almeno in parte, spiazza la teoria marxista classica, spesso ancorata al mito della rivoluzione “operista”, è l’enorme contributo che i contadini e i lavoratori delle zone rurali stanno offrendo alla lotta antimperialista, non solo sul piano simbolico (si pensi alla pur breve meteora di Jose Bové in Europa) ma soprattutto sulle concrete, quotidiane iniziative di lotta: il movimento dei senza terra, in due decenni, ha occupato vasti latifondi fornendo lavoro e alloggio a 350.000 famiglie, mobilitandone di recente altre 150.000 per l’occupazione di nuove terre; i 40.000 nuclei familiari di cocaleros boliviani, sospinti al margine del sistema agricolo e della legalità, si difendono con un sindacato combattivo e ben organizzato; in Ecuador gli indios, in Messico Perù Paraguay i braccianti e i piccoli proprietari contrastano spesso con successo le direttive che ne minacciano la sopravvivenza. Questi movimenti rurali, di cui si coglie la profonda originalità nella quarta parte di Competizione globale, “non sono composti ‘da ribelli primitivi’ tradizionalisti che guardano al passato e che si oppongono alla ‘modernizzazione’. I movimenti dei campesinos sono guidati da persone che hanno un’istruzione e che appartengono a classi rurali con situazioni economico-sociale di mobilità verso il basso, che cercano di ottenere crediti, quote di mercato, di recuperare terre occupate dal capitale e la protezione dello Stato contro importazioni che ricevono un sussidio e sono a basso prezzo. Si tratta di lavoratori che operano e si battono collettivamente. Queste sono le caratteristiche delle classi rurali moderne ma impoverite; tutta gente che a conoscenza dell’impatto negativo delle politiche favorevoli all’impero USA”16. Come s’è potuto constatare durante la mobilitazione contro il vertice del WTO a Cancùn, le organizzazioni dei contadini, con una pluridecennale antesignana lotta contro le dinamiche imperialiste che oggi colpiscono anche le classi dei lavoratori urbani e i lavoratori precari dei paesi più sviluppati, hanno acquisito un’autorevolezza che consente loro di ispirare i programmi e le azioni di un movimento dalla portata sempre più ampia. È il segno del nuovo protagonismo reclamato a gran voce dalle periferie del sistema, che da troppo tempo soffrono il giogo. A loro appartiene la storia che scriveremo tra qualche anno.

Note

* Insegnante, giornalista. ricercatore dell’Osservatorio Meridionale di CESTES-PROTEO.

1 E. W. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 1999, p. 126. “Non esiste un rapporto più evidente tra potere e conoscenza di quello dell’orientalismo. Molte delle informazioni e delle conoscenze sull’Islam e sull’Oriente che sono state usate dalle potenze coloniali per giustificare il proprio colonialismo derivano dagli studi orientalisti” (ivi, p. 341).

2 La civiltà orientale ha risposto a quest’atteggiamento producendo, nel tempo, una propria rappresentazione di uguale intensità e di senso contrario dell’Europa e dell’America, che va sotto il nome di occidentalismo. I suoi elementi più deteriori nutrono oggi molti discorsi del terrorismo internazionale, che denuncia così la propria funzionalità alla logica di contrapposizione insita nell’ideologia imperialista occidentale.

3 Cfr. L. Vasapollo - H. Jaffe - H. Galarza, Introduzione alla storia e alla logica dell’imperialismo, Jaca Book, Milano 2005, p. 59 (d’ora in poi soltanto Introduzione).

4 Introduzione, p. 194.

5 L. Vasapollo - M. Casadio - J. Petras - H. Veltmeyer, Competizione globale. Imperialismi e movimenti di resistenza, Jaca Book, Milano 2004, p. 297 (d’ora in poi soltanto Competizione). Poco più oltre, gli autori traggono da tale constatazione una conseguenza cruciale circa i margini d’azione dei movimenti, che liquida l’atteggiamento dialogante di molte ONG teso a trasformare il sistema con la sua collaborazione: “l’esaurimento dell’idea di un governo mondiale e di un capitalismo collettivo trascina con sé anche l’idea che questo governo sia ‘riformabile’ dall’interno” (ibidem).

6 Dallo stesso atteggiamento derivano le concezioni millenaristiche sulla “fine della storia”, che molta pubblicistica data all’11 settembre 2001, giorno dell’attacco alle Twin Towers. Ancora un’idea che pone l’occidente euroamericano al centro del mondo. Come fa notare Noam Chomsky, “è stata una tragedia terribile, ma credo che per chi non viva in Europa, negli Stati Uniti o in Giappone non abbia rappresentato una novità. Le potenze imperialiste hanno trattato così il resto del mondo per centinaia di anni. Si tratta di un evento storico, sfortunatamente non per le dimensioni o la natura del massacro, ma per l’identità delle vittime” (N. Chomsky, Dopo l’11 settembre. Potere e terrore, Marco Tropea Editore, Milano 2003, p. 15).

7 Introduzione, p. 155.

8 Cfr. Competizione, p. 57.

9 Competizione, pp. 26-27.

10 Ma se ne colgono i segni anche nella guerra in Iraq, venuta dopo la decisione da parte di Saddam Hussein, nel 2000, di fatturare il petrolio in euro, mettendo in discussione la leadership monetaria statunitense a vantaggio del costituendo polo europeo (cfr. Introduzione, p. 193).

11 Cfr. V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Edizioni Progress, Mosca 1985.

12 V. I. Lenin, L’imperialismo, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 129.

13 Cfr. K. Von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1970.

14 Competizione, p. 298.

15 Competizione, p. 270.

16 Competizione, pp. 281-282.