La nuova configurazione dei soggetti del lavoro e del lavoro negato dalla fabbrica sociale generalizzata al blocco sociale antagonista

Luciano Vasapollo

INCONTRO NAZIONALE DELLA RETE DEI COMUNISTI: BLOCCO SOCIALE ANTAGONISTA, LOTTE SOCIALI E RAPPRESENTANZA POLITICA - ROMA 2, 3 LUGLIO 1999

1. Profit State globale e nuovo sistema lavoro

 

E’ in atto un processo di intensa ridefinizione delle aree di influenza delle diverse componenti del "capitalismo reale"; comunque, qualunque sia il modello di capitalismo di riferimento questo è basato sull’esaltazione del libero mercato nel quale, anche se in forme differenziate, oggi prevale sempre più e comunque l’economia finanziaria speculativa a danno del fattore produttivo lavoro. Ma è proprio il capitale finanziario, attraverso i suoi flussi e la sua sintesi monetaria che, puntando all’ottenimento del profitto a migliori condizioni, esporta nello stesso tempo le contraddizioni del modello capitalistico complessivo.

Accanto alla internazionalizzazione del processo produttivo si registrano profondi mutamenti nei modelli comportamentali alla base della manifestazione della domanda dei beni e servizi prodotti. Nei paesi che fino a non molto tempo fa venivano definiti industrializzati e che oggi si preferisce definirli dell’area del capitalismo avanzato, il consumatore è divenuto un soggetto molto più complesso rispetto al passato, dal momento che la fitta rete di informazioni di cui dispone, lo porta ad assumere atteggiamenti sempre più flessibili e multidimensionali, derivanti dal contesto generale in cui l’informazione e la comunicazione hanno ormai assunto un ruolo strategico e dominante.

Negli ultimi venticinque anni il modello consolidato di democrazia capitalistica, in tutti i suoi diversi modi di presentarsi, si è dissolto cancellando quel concetto di società civile e di civiltà che aveva inaugurato l’ingresso nella modernità capitalistica, causando lo sbriciolamento della intera struttura produttiva preesistente e distruggendo le stesse forme di convivenza civile determinate dal modello di mediazione sociale di forma keynesiana.

Il mutamento più profondo si è verificato nel sistema lavoro e nel sistema di protezione sociale. La trasformazione è sia di tipo quantitativo con una disoccupazione elevatissima ; sia di tipo qualitativo, infatti non si può più considerare la fabbrica il luogo della concentrazione del lavoro e della produzione, né lo Stato è la forma di mediazione e regolamento del conflitto di classe. L’intero ciclo produttivo ha scavalcato le mura della fabbrica generalizzandosi alla società intera, lo Stato diventa Profit State globale in quanto si fa portatore nel sociale nelle sue diverse forme della cultura del mercato e degli interessi dell’impresa. Alla produzione viene riconosciuto un ruolo di manipolatrice di oggetti intellettuali, relazionali, affettivi e tecnico-scientifici. Il lavoro è diventato un’insieme di figure produttive inserite in un complesso ambiente sociale.

In un tempo in cui le macchine vanno a sostituire la forza lavoro, si intensificano gli interventi tesi a restaurare ambiti di supersfruttamento ancora in una società salariale che intensifica quelle forme contrattuali atipiche (part-time, formazione-lavoro, a termine, ecc.) definite da Gorz “lavori servili complementari al declino delle forme di lavoro salariato”. La crisi sta portando alla scomparsa del lavoro regolamentato e a tempo indeterminato ma non del lavoro salariato e subordinato. Questo è dovuto principalmente al nuovo sistema economico, che produce quote sempre più elevate di ricchezza con quote sempre più basse di lavoro; ai processi di informatizzazione che producono un grande risparmio di forza lavoro, permettendo così la diminuzione dell’organico dei lavoratori permanenti a tutto vantaggio di coloro che lavorano in modo precario e a tempo parziale e creando un esercito di lavoratori di riserva in pianta stabile. La disoccupazione, la flessibilità e la precarizzazione di salari e delle forme di lavoro diventano così fenomeni strutturali.

L’introduzione della produzione a basso contenuto di lavoro esecutivo non sopprime l’interesse dei gruppi del grande capitale, oltre che della piccola impresa per i luoghi di produzione delocalizzati a basso salario, li spinge semplicemente a cercare più vicino basi importanti in direzione dei poli produttivi tradizionali. Questi ultimi continuano ad offrire all’accumulazione capitalistica una combinazione difficilmente eguagliabile in quanto concentrazioni di consumatori solvibili, spesso ad alto reddito; zone, cioè, di libero scambio con sistemi produttivi segnati da specializzazioni suscettibili di essere sfruttate per processi intensi di esternalizzazione di parti del ciclo produttivo a basso valore aggiunto; si tratta di zone caratterizzate da una mobilità totale delle merci e dei capitali, e a forte flessibilità nelle forme di lavoro e dei salari. Sono le aree economicamente portanti della stessa UE, dove il movimento verso l’integrazione ha caratterizzato e rafforzato molte variabili, a eccezione però di quelle relative ai salari, alle condizioni di lavoro e alla sicurezza sociale. Infatti esistono delle differenze molto evidenti tra i salari degli stessi paesi e regioni dei poli capitalisti, e il fondamento di queste differenze si trova non tanto nella produttività, quanto nella deregolamentazione del rapporto salariale funzionale alla nuova accumulazione post-fordista.

 

2. Le modalità dello sviluppo capitalistico in Italia

 

Il superamento dell’era fordista pone il nostro Paese in una fase di ridefinizione del capitalismo con caratteri post-industriali superando nei fatti le logiche interpretative di tipo industrialista ed “operaista”, per passare ad una gerarchizzazione dei modelli dello sviluppo basata principalmente sulle modalità di trasformazione sociale ed economica che vedono emergere sempre più nuove soggettualità non garantite.

Se nel decennio ‘50-’60, caratterizzato dal cosiddetto “Miracolo economico”, si assiste ad una concentrazione territoriale della produzione, in cui i flussi di capitale e lavoro sono indirizzati in prevalenza verso le aree già sviluppate, dall’inizio degli anni ‘70 si assiste invece ad una inversione della tendenza nella localizzazione dello sviluppo, a causa di una strategia di decentramento forzato attraverso una maggiore mobilità e flessibilità sociale e produttiva. Ciò ha comportato la ricerca di forza lavoro con più basso costo di riproduzione, fatto, questo, che ha cambiato l’organizzazione del ciclo produttivo, in specie per la piccola impresa, con produzioni ridotte e specializzate, modificando nel contempo i processi di riorganizzazione del conflitto sociale e di ricomposizione di classe.

Le modifiche attuate con il processo di sviluppo degli anni ‘70 hanno comportato uno sviluppo industriale di aree periferiche con una profonda crisi e una necessaria ristrutturazione delle aree centrali, sebbene risultino attenuate le differenze dicotomiche tra regioni avanzate e arretrate (da imputare per lo più ad una crescita delle regioni periferiche del Centro Nord-Est).

E’ proprio alla fine di questa fase che l’impresa si decentralizza, si articola nel territorio, tanto da parlare di fabbrica diffusa, trasformando il soggetto lavoratore da operaio massa a operaio sociale e diffondendo nel contempo nuove dinamiche di marginalizzazione, determinando così nuove forme di scomposizione di classe.

In questa fase del ciclo economico si evidenziano alcune tendenze:

a) passaggio dalla concentrazione alla diffusione territoriale;

b) inversione del processo di crescita delle dimensioni medie d’impresa e avvicinamento ad un modello di sviluppo imposto dal grande capitale europeo, in particolare funzionale ai processi di ristrutturazione del capitale francese e tedesco;

c) accentuazione del ruolo della piccola impresa con proliferazione di imprese piccole e medie con maggiori e diversificate forme di sfruttamento del lavoro (aumento dei ritmi, della produttività, cottimo, flessibilità salariale, esternalizzazione a lavoro nero di parti del processo di lavorazione, negazione dei diritti sindacali, ecc.);

d) accentuazione del modello di specializzazione dei settori tradizionali con aumento della produzione soprattutto dovuto a forti incrementi di produttività del lavoro, solo in minima parte compensati da incrementi salariali;

e) perdita progressiva di occupazione a causa della competitività interna che richiede sempre più manodopera specializzata, la quale comincia a rappresentare una sorta di aristocrazia operaia.

Il modello interpretativo è allora riferito ad un quadro che accentua certi tratti e ne trascura altri, accorda situazioni in parte simili e divide ciò che è sfumato nella realtà. Le modalità dello sviluppo conducono a radicali cambiamenti sociali, alla trasformazione nel tempo e nello spazio delle relazioni sociali, a profonde modificazioni della struttura di classe e dell’intero quadro istituzionale.

Si è così nel pieno degli anni ’80, con tentativi innovativi per la suddivisione territoriale, che vanno a definire i distretti industriali.

E’ in tale chiave che va letta la grande importanza che viene attribuita al nuovo concetto di distretto industriale, il quale ha una forte specificità, una propria dimensione socio-economico e territoriale, definita in funzione delle relazioni di coercizione comportamentale complessiva che si instaurano tra imprese e comunità locale e una specifica forzata capacità autocontenitiva in relazione a domanda e offerta di lavoro realizzata tramite marginalizzazione, precarizzazione ed espulsione dei soggetti economici e produttivi non compatibili. Sempre secondo tale interpretazione socio-economica vanno analizzate le trasformazioni tecnologico-produttive che caratterizzano alcune realtà territoriali, determinando la crescita d’importanza di sistemi reticolari, i quali si configurano come reti territoriali che si formano intorno a grandi imprese con forti connotazioni locali e reti risultanti dalla deverticalizzazione congiunta di grandi imprese produttive in ambiti locali e con forti connotati a specializzazione produttiva locale.

In tale contesto i soggetti delle classi intermedie esercitano ancora un ruolo molto rilevante nelle dinamiche di regolazione e di comando della vita delle specifiche aree locali a caratterizzazione socio-economica. Sulla mobilità e le determinanti qualitative del ciclo di vita delle varie Zone Economiche si registra una tendenza diffusa al consolidamento sociale delle leadership locali, basate su effetti imitativi e di status particolarmente efficaci su una parte del ceto medio. Un ceto medio più classista ed intollerante che assume le modalità relazionali socio-economiche rappresentate dal rafforzamento e trasmissione forzata comportamentale di alcune imprese locali, o gruppi di imprese, che stanno assumendo un ruolo guida, influenzando il tradizionale intreccio di intenzionalità e azioni dei numerosi soggetti economici locali che avevano caratterizzato l’evoluzione dei distretti in passato.

Ecco che, di conseguenza, lo studio della differenziazione territoriale dello sviluppo economico, diventa strumento indispensabile alle linee di indirizzo e di intervento in chiave politico-economica. Individuare la specificità dei profili di aree, di Zone Economiche Omogenee, significa indirizzare l’intervento in modo da saper leggere le trasformazioni del capitalismo moderno e le ricadute nello sviluppo socio-economico del Paese. E’ così che vanno lette le modalità di uno sviluppo ormai basato sull’indipendenza relativa del distretto industriale dalle altre entità.

Si giunge così a meglio comprendere perché gli assetti attuali della nostra economia determinano il riposizionamento sociale di impresa in una fase di profonda ristrutturazione per effetto del quale si riduce e non aumenta, come da una lettura superficiale potrebbe sembrare, la misura del tessuto reale imprenditoriale, si selezionano i soggetti più deboli, meno funzionali e compatibili, e meno consolidati, si ridisegnano i modelli relazionali sociali tra le aziende e il territorio con un tendenziale rafforzamento delle logiche di darwinismo sociale. In tale contesto si osserva una prevalenza delle scelte tipiche del capitalismo selvaggio dove chi non si integra è espulso, è schiacciato dalle leggi ferree di un mercato sempre più selettivo.


Ecco che la definizione di Zone Economiche Omogenee rende pienamente comprensibile il ruolo che la nuova fabbrica sociale diffusa nel territorio svolge nell’economia complessiva del Paese, e come le specifiche e differenti funzioni delle attività economiche e sociali delle singole aree, con bacini a profilo economico simile, siano il tessuto connettivo capace di “legare” in un tutt’uno omogeneo il nuovo modo di essere e di presentarsi dello sviluppo capitalistico. Ciò spiega ancor meglio i connotati anche qualitativi, oltre che quantitativi, della ristrutturazione del capitale e la sua ridefinizione sociale come essa assuma sempre più un ruolo fondamentale per comprendere il conflitto di classe delle nuove forme che andrà assumendo.

E’ infatti in atto nel nostro Paese un intenso processo di terziarizzazione, spesso a forti connotati di precarizzazione del lavoro e del sociale, spiegabile non soltanto da fenomeni di ristrutturazione e riconversione che interessano l’industria ma che sta mutando lo stesso modo di essere delle attività di servizio in genere, con le precedenti figure e composizioni di classe che si trasformano e che vanno sempre più integrandosi con le compatibilità dei processi produttivi capitalistici e con gli altri processi economici, sociali e politici che ne derivano. Non si tratta quindi di un semplice processo di deindustrializzazione ma di una trasformazione della società che crea nuovi bisogni, di una concezione della qualità dello sviluppo, della qualità della vita che induce a diversi comportamenti socio-economici della collettività rispetto a quelli della società industrialista basata sulla centralità di fabbrica. Si assiste alla nascita di nuove attività, la maggior parte delle quali a carattere terziario, che generano e forzano, nello stesso tempo, lo sviluppo di nuovi soggetti di classe, di nuovi modelli e nuovi meccanismi di crescita, di organizzazione e di accumulazione.

Tali processi evolutivi fanno si che la composizione di classe non sia più analizzabile attraverso analisi aggregate, vista l’eterogeneità e disomogeneità imputabile alla diversificazione del modo di presentarsi del capitale. Solo attraverso analisi economiche, politiche e sociali disaggregate è possibile capire la reale entità del processo di ridefinizione del capitale che tende a raffigurarsi come elemento coesivo e di integrazione attiva dell’intera società. Il passaggio ormai è chiaro: il terziario sempre più abbandona il carattere residuale-assistenziale diventando elemento di mantenimento e accelerazione dello sviluppo capitalistico, fattore trainante di un modello di sviluppo nuovo e dinamico, capace di rispondere in termini quantitativi, ma soprattutto qualitativi, alle continue trasformazioni ed evoluzioni della domanda, promuovendo e realizzando di pari passo processi innovativi per i fattori dell’offerta.

I profondi mutamenti in atto nella vita politica, sociale, economica e aziendale, pur apportando nuovi ed importanti elementi al dibattito, spesso a causa di valutazioni non corrette hanno introdotto nel già confuso dibattito ulteriori motivi di confusione, fino al punto di considerare come sviluppo di nuova imprenditorialità anche l’apparire sulla scena produttiva di nuove figure che dell’imprenditore assumono solo le forme suggestive indotte dalla pubblicistica ufficiale e dai modelli comunicazionali del pensiero neoliberista.

Si giunge così alle più recenti fasi postfordiste caratterizzate dalla costruzione di modelli volti, da un lato, ad evidenziare le peculiarità e il localismo dei distretti industriali e, dall’altro, a raccordarli nell’ambito di una crescita complessiva caratterizzata dal preminente ruolo svolto dal settore terziario, ufficiale e atipico o sommerso. Un modello di sviluppo capitalistico che modifica le soggettualità del lavoro, che crea nuovi soggetti produttivi, nuove figure sociali anche e soprattutto marginali, modificando nel contempo le identità produttive e quelle non più aggregate esclusivamente in fabbrica, ma che si frantumano nel territorio, trasformando così la stessa identità e composizione di classe dei lavoratori e le connesse dinamiche di socializzazione comportamentale da parte dei soggetti economici che nel territorio trovano una loro più definita collocazione non più configurabile solo all’interno della fabbrica.

Esiste quindi una stretta correlazione tra fenomeni economici e fenomeni sociali, non è un caso che nel tanto decantato Nord-Est convivono forme di aristocrazia operaia, superspecializzata e ben pagata, che identifica i propri destini con quelli dell’imprenditore, e forme di lavoro sottopagato, senza garanzie, lavoro nero, precario e flessibile anche nella remunerazione oltre che nei tempi e nei modi di lavoro. Si spiega così, e non solo nella dicotomia Nord-Sud, il carattere dualistico dello sviluppo italiano, che sconta sottosviluppo in molte sue parti territoriali e sociali in funzione dei modi di accumulazione del capitale che si correla allo sviluppo ritardato e dipendente del capitalismo italiano rispetto al resto dell’occidente. Ciò, per esempio, contribuisce a continuare a provocare una crescita particolare della piccola impresa che si era sviluppata come risposta alle lotte operaie degli anni ’60 e ’70, realizzando così un modello istituzionale, funzionale e voluto dal capitalismo italiano al sol fine di attuare strategia di controllo sulla classe operaia e di compressione del conflitto sociale.

E’ a partire da tali modalità di lettura che si possono correttamente interpretare i fenomeni fondamentali del processo di trasformazione che ha portato ad una redistribuzione territoriale delle attività industriali e produttive in genere, a partire da alcune caratterizzazioni che hanno assunto le modalità delle dinamiche dello sviluppo geo-economico collegate e finalizzate al controllo sociale.

La depolarizzazione produttiva, lo sviluppo economico-demografico non metropolitano, la deindustrializzazione accompagnata da processi di delocalizzazione e decentramento territoriale, la deconcentrazione produttiva caratterizzata dalla diminuzione delle dimensioni d’impresa, dalla deverticalizzazione e scomposizione dei cicli produttivi, la formazione e sviluppo di sistemi produttivi locali accompagnati da alta specializzazione, piccola dimensione, interrelazioni produttive; tutto ciò non deriva da una natura “fisiologica” del processo di diffusione territoriale, poiché questa invece va vista come il risultato di alcune contraddizioni del precedente modello di sviluppo, di particolari condizioni esogene ed endogene alle aree di “diffusione”, dai processi di ridefinizione del modello e del progetto del capitalismo italiano. Nel nuovo modello assumono forte rilevanza i processi endogeni di sviluppo che sono specifici di particolari formazioni sociali e territoriali, che facilitano le dinamiche di ristrutturazione di un capitalismo sempre più basato sulla crescita di un’imprenditoria locale. Tra le condizioni esogene che favoriscono la “diffusione” va allora evidenziato il forzato incremento di produttività del lavoro dovuto al ruolo delle nuove tecnologie non più incorporate in grandi impianti (diffusione orizzontale), la crisi provocata dei mercati di prodotti standardizzati nonchè l’abbassamento delle barriere all’entrata di nuove imprese. Quindi piccola impresa e sviluppo diffuso caratterizzano un nuovo modo di organizzare la produzione con profonde caratteristiche autonome, ma sempre basate su forme più o meno sofisticate di aumento dello sfruttamento della forza lavoro.

La redistribuzione territoriale non è determinata da un semplice decentramento del capitale o prodotta esclusivamente dalla valorizzazione di risorse locali ma è dovuta soprattutto ad intensi processi di ristrutturazione del capitalismo italiano che, alla ricerca della competitività sul piano internazionale, determina efficienza a partire soprattutto dall’imposizione di forte mobilità spaziale e settoriale della forza-lavoro e dalla diversificazione dei progetti di flessibilità del lavoro e del salario.

Va allora sottolineato che se è vero che il sistema locale giunge a livelli elevati di sviluppo tendendo ad allargarsi a comparti e settori merceologici diversi, dando luogo non ad una despecializzazione bensì al rafforzamento e a un approfondimento del sistema originario con un aumento dell’integrazione intersettoriale locale, questo però determina condizioni dinamiche di sopravvivenza imponendo un modello in continuo cambiamento non solo delle attività produttive, ma soprattutto generando nuove soggettualità economiche a forte differenziale di trattamento retributivo e sociale, andando sicuramente ad allargare le forme marginali e non garantite del lavoro.

La condizione fondamentale per il consolidamento del sistema locale è sancita allora da variabili quali l’innovazione tecnologica-organizzativa, il sistema informativo sviluppato, un alto ricorso alle risorse immateriali, ma soprattutto dalla capacità di controllo del mercato del lavoro, di deregolamentazione e precarizzazione dei rapporti di lavoro, da flessibilità delle remunerazioni, infine cioè da forme di regolazione sociale compatibili con il nuovo assetto produttivo, espellendo ed emarginando le soggettualità sociali non omologabili, conflittuali e non compatibili. E allora il modello di sviluppo locale si adatta, si trasforma in una molteplicità di localismi nel tentativo di piegare comunque la “resistenza” della forza lavoro e dei soggetti sociali.

La società del terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni.

 


3.L’era dell’accumulazione flessibile e la fabbrica sociale generalizzata

 

Così si supera definitivamente la fase dello sviluppo a caratterizzazione industrialista ed “operaista” per passare ad una gerarchizzazione dei modelli dello sviluppo basata principalmente sulle modalità di trasformazione sociale ed economica indotte dal paradigma dell’accumulazione flessibile responsabile delle trasformazioni in atto e dai soggetti produttivi, che a causa di tali trasformazioni, si vengono a formare dentro e fuori dalle garanzie e diritti del lavoro subordinato, autonomo o configurando nuove soggettualità non garantite dal modello di sviluppo che si va configurando.

In tale contesto gioca un ruolo fondamentale la comunicazione che, secondo il principio della flessibilità sociale, deve perseguire obiettivi mirati a controllare i lavoratori, al loro coinvolgimento nei processi decisori fondamentali dell’impresa, anche attraverso sollecitazioni ed incentivi economici con il fine di concertare le decisioni a partire dalla conoscenza delle opinioni dei lavoratori sulla risoluzione dei problemi esistenti nell’impresa e sulle scelte riguardanti il mercato in un modello fortemente concertativo e funzionale alle strategie del capitale.

Il principio della flessibilità sociale e del lavoro viene ad essere applicato, quindi, come sistema del controllo sociale. Ma un sistema di controllo rigido può provocare dei disagi evidenti e conflitti verso le imprese occorre, allora, affiancare ai tradizionali metodi di controllo nuovi strumenti alternativi che prevedano comportamenti imprenditoriali innovativi, orientati alla collaborazione e cooperazione tra i vari soggetti componenti le risorse umane presenti in azienda e nel sociale, compresa la soggettualità del non lavoro, adottando un modello concertativo complessivo, globale.

Nell’analisi dell’evoluzione dei mercati e delle strutture organizzative delle imprese va segnalata allora l’importanza assunta dalla comunicazione esterna, la quale permette a tutti i soggetti economici di interagire con il modello culturale d’impresa operando le scelte di ogni tipo sulla base delle informazioni ottenute. È chiaro infatti che tanto più ampia è la rete di informazioni cui l’impresa può accedere tanto maggiore sarà la conoscenza dei mercati, dei prodotti, delle esigenze dei consumatori, dei lavoratori e delle varie soggettualità presenti nel territorio; così in una stessa logica e in uno stesso tempo attraverso la comunicazione la cultura d’impresa e del profitto invade il sociale.

La comunicazione diventa in tal modo modello comunicazionale sociale, risorsa strategica del capitale intangibile, poiché costituita da una serie di informazioni, messaggi e comportamenti che il sistema azienda assume e proietta su destinatari diversi, esterni o interni, per rafforzare la propria posizione nel mercato, per definire la propria immagine e la cultura della competitività del mercato.

Attraverso i modelli comunicazionali correlati al principio di flessibilità l’azienda oltre ad affermare il proprio nome ed acquisire notorietà tra il grande pubblico crea quel “consenso” intorno a se stessa che le permette di mantenere e migliorare la propria posizione nel mercato, proiettando la propria durata sul lungo termine attraverso continui incrementi valoriali sul lungo periodo basati sull’accumulazione flessibile, invadendo la società in tutte la sue dimensioni, facendosi nuova impresa a diffusione sociale nel territorio, fabbrica sociale generalizzata.

E’ allora il territorio il centro verso il quale far convergere una parte rilevante degli interessi della collettività, della classe, delle nuove soggettualità che operano in un’impresa diffusa socialmente nel sistema territoriale, nuovi soggetti che si ricompongono ad unità su un corpo organizzato, come una totalità di parti interagenti, che si danno una certa caratterizzazione sociale perché derivano da una certa caratterizzazione produttiva della riconversione neoliberista, del modo di produrre e di proporre socialmente la centralità dell’impresa, del profitto, del mercato.

L’esigenza di una approfondita analisi di natura territoriale nasce dalla constatazione che lo sviluppo socio-economico del Paese è stato caratterizzato da una specifica dinamica spaziale condizionata dai processi di ristrutturazionee di collocazione internazionale del capitalismo italiano nell’era della globalizzazione. L’aspetto territoriale assume un ruolo sempre più determinante con il passaggio da una produzione di massa, concentrata, ad una di tipo flessibile e diffusa basata nel contempo sulla mobilità, flessibilità e precarizzazione della forza lavoro e imposizione del comando capitalistico sull’intero vivere sociale nel territorio.

Per contraddistinguere i soggetti di comando del localismo si deve guardare al nuovo ruolo assunto anche dagli attori istituzionali di rappresentanza e a quelli finanziari tradizionalmente radicati sul territorio, che diventano soggetti determinanti del dominio locale (lobbies politico affaristiche, banche, ecc.)

E’ all’interno di tali dinamiche che va interpretato il duro attacco che il consociativismo neo-liberista sta effettuando alle condizioni di vita dei lavoratori, dei precari,degli anziani, dei disoccupati, degli emarginati; comportamenti di regolazione sociale di ogni forma di antagonismo, evidenti negli interventi e nei documenti del governo, nelle posizioni e nei documenti sul Welfare dei sindacati confederali, nei modelli di riferimento di Stato sociale della Banca d’Italia e della Confindustria. Si realizza così l’esplicitazione della logica della performance imprenditoriale come modalità di riforma di un Welfare State che seguendo tale impostazione di fatto si trasforma in Profit State; in uno Stato con logiche gestionali da azienda capitalista ,che si configura attraverso i processi di globalizzazione finanziaria dell’economia e le politiche monetariste localmente compatibili.

 

4. I nuovi soggetti del lavoro, del lavoro negato e del non lavoro per un blocco sociale antagonista

 

L’attuale contesto economico-sociale, le nuove forme di presentarsi del modello di sfruttamento dell’economia capitalista, tende ad ostacolare una convincente lettura di classe dell’attuale società poichè a tutt’oggi non si sono ancora ben delineati i contenuti della trasformazione economica in atto. Si configurano così spesso figure economiche e sociali che ancora sono oggetto di studio indefinito, poco concreto, dai contenuti non delineati, che sicuramente nulla hanno a che fare con il ruolo economico-sociale dell’era fordista.

Anche oggi, nel momento in cui le varie componenti economiche, politiche e socio-culturali della sinistra, compresa Rifondazione Comunista, si sforzano per rilanciare nel nostro Paese programmi più o meno innovativi, si nota, nonostante gli sforzi, una staticità dottrinale di impostazione che, aggiunta alla sempre tradizionale e sorpassata lettura dei fenomeni economici e sociali, finisce con l’attribuire e veicolare ai lavoratori falsi contenuti di realizzazione sociale, riproponendo contributi scontati e compatibili agli attuali processi ridefinitori del capitale, ma comunque non riferibili alla concreta realtà socio-economica che ancora una volta va interpretata in termini di classe.

Il territorio, lo spazio e il suo studio, i modelli localizzativi, la conoscenza socio-politica della geografia dello sviluppo, sono ormai variabili fondamentali dell’agire di classe, rappresentano anzi vere e proprie risorse per attuare con successo le strategie di un nuovo e diverso antagonismo sociale. Si tratta di conoscenze irrinunciabili per pensare in termini reali e praticabili ad un intervento capace di riproporre l’unità di classe del lavoro, a partire dalla comprensione delle trasformazioni del capitale per poter realizzare la trasformazione dell’agire economico, sociale e politico al fine di realizzare processi di uno sviluppo con immediati connotati di fuoriuscita dalle compatibilità del mercato e della sostenibilità del modello dell’impresa capitalista.


Per poter riflettere, studiare ed agire in tal senso bisogna assolutamente capire ed interpretare che nel nuovo modello di sviluppo liberista sono individuabili intorno alla centralità delle imprese i ruoli esercitati da nuove categorie di agenti, da nuovi soggetti compatibili e incompatibili che tale modello crea: gli imprenditori terminali e marginali (spesso lavoratori autonomi di ultima generazione), che costituiscono l’ambito di connessione tra il mercato e i circuiti interni all’universo locale; contoterzisti, lavoratori a nero, precari, sottoccupati, lavoratori a partita IVA di breve durata, tutti operatori prevalentemente specializzati in lavorazioni monofase; lavoratori dipendenti, quasi sempre a forte specializzazione, che assumono sempre più spesso la veste di cogestori, di nuovi cottimisti corporativi con una radicata etica del lavoro ed una diffusa propensione ad accumulare specializzazioni anche a fini di mobilità verticale e che aspirano a “mettersi in proprio”, ad accettare il nuovo ruolo di finti imprenditori; lavoratori a domicilio, spesso sottopagati, senza garanzie, cottimisti e lavoratori a nero che vengono utilizzati in ambito di integrazione multidimensionale tra attività economica delle imprese e vita familiare, riproducendo forme di ricatto sociale e al mondo del lavoro, affermando una falsa socialità d’impresa.

E’ in tale chiave che vanno lette le relazioni di coercizione comportamentale complessiva che si instaurano tra impresa capitalistica, lavoratori, come insieme di occupati e disoccupati, e popolazione direttamente o indirettamente legata alla nuova impresa a diffusione sociale nel territorio, la fabbrica sociale generalizzata, determinando una specifica forzata capacità autocontenitiva in relazione a domanda e offerta di lavoro realizzata tramite marginalizzazione, precarizzazione, deregolamentazione ed espulsione dei soggetti economici e produttivi non compatibili. Si tratta nella maggior parte dei casi di disoccupati nuovi e di ex lavoratori dipendenti di fatto precarizzati, non più garantiti nella continuità del lavoro, espulsi dall’impresa madre e assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, a supersfruttamento, si tratta spesso di nuove forme di lavoro subordinato, di lavori atipici, fuori dalle garanzie normative e retribuite sociali e assicurative del lavoro dipendente.

Ma dietro tali nuove forme di lavoro, di sfruttamento attraverso anche l’aumento dei ritmi, gli straordinari, i premi di produzione, l’azionariato dei lavoratori, l’esplosione del “popolo degli imprenditori”, che è semplicemente lavoro parasubordinato, il cosiddetto lavoro autonomo di ultima generazione, altro non c’è che un capitalismo selvaggio che crea falsi miti al fine di nascondere le proprie contraddizioni che provocano incrementi notevoli di disoccupazione palese e invisibile, precarizzazione del lavoro, negazione delle garanzie sociali e delle regole elementari del diritto del lavoro in un territorio che si fa luogo di sperimentazione e affermazione delle compatibilità d’impresa.

Da questa analisi emerge che ci troviamo in una fase di transizione ancora in via di definizione ma che presenta comunque dei connotati ben chiari: si ha un aumento della produzione dei servizi su quella dei beni materiali basato su un supersfruttamento del lavoro manuale spesso attinto attraverso processi di esternalizzazione e delocalizzazione alla ricerca di lavoro a scarso contenuto di diritti e a bassissimo salario; a ciò si accompagnata una forte presenza di lavori intellettuali e tecnico professionali spesso precarizzati come quelli manuali e ripetitivi.

In Italia, secondo Fumagalli la nuova figura del lavoratore autonomo nasce agli inizi degli anni ’80 “.... La ristrutturazione dei primi anni Ottanta con l’introduzione delle tecnologie informatiche tende alla flessibilizzazione della produzione interna alla grande impresa... favorendone lo smantellamento e la sua trasformazione in fabbrica snella”, (cfr.Fumagalli A., Bologna S. “Il lavoro autonomo di seconda generazione”, p.140). Questa forma di flessibilizzazione del lavoro porta alla perdita della centralità da parte del lavoro dipendente a tempo indeterminato con la conseguenza che le imprese si organizzano con un nucleo stabile di lavoratori affiancati da una serie di collaboratori esterni, degli pseudo imprenditori che attraverso l’apertura della partita IVA diventano comunque dipendenti dalle commesse dell’impresa, configurando comunque una forma di lavoro subordinato, di nuovo salariato.

Oggi le nuove tecnologie, l’avvento dell’elettronica e dell’informatica stanno “tagliando fuori” i lavoratori “vecchio stampo”; è in atto una terza rivoluzione industriale che ha portato sicuramente a cambiamenti radicali nella società: questa situazione produce nuovo lavoro o ne toglie? E’ il superamento del lavoro salariato, o questo assume soltanto nuove forme?


Jeremy Rifkin è convinto che: ”Entro il prossimo secolo, il lavoro di massa nell’economia di mercato verrà probabilmente cancellato in quasi tutte le nazioni industrializzate del mondo. Una nuova generazione di sofisticati computer e di tecnologie informatiche viene introdotta in un’ampia gamma di attività lavorative: macchine intelligenti stanno sostituendo gli essere umani in infinite mansioni”, (cfr. Rifkin J., “The End of Work”
 The Decline of the Global Labor Force and the Dawn of the Post-Market Era”, G.P. Putnam’s Sons,1995, Trad.it. di Paolo Canton, “La fine del lavoro - Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-industriale -“, Baldini & Castoldi s.r.l., Milano, 1995, p.23). Lo scenario prospettato da Rifkin, di un mondo in cui la terza rivoluzione industriale accrescerà la produttività in cambio però di un numero sempre crescente di disoccupati, va però valutato attentamente: a nostro avviso infatti il lavoro non è finito ma sta cambiando in quanto “ormai il problema reale non è quello della produzione ma quello dell’equa ripartizione sia della ricchezza, sia del lavoro che occorre per produrla. Ma i paesi ricchi fingono che il problema principale sia quello di rendere ancora più veloce la produzione di beni” (cfr. De Masi D., "Sviluppo senza lavoro", Edizioni Lavoro, Roma, 1994, p.81).

Questa situazione ha portato alla nascita di una forma di lavoro nuovo, alternativo chiamato anche “lavoro atipico o informale”. Questo termine comprende il cosiddetto lavoro sommerso, secondario, illegale, nero, grigio, intermittente, occulto, atipico che si realizza al di fuori del mercato ufficiale, mal retribuito senza le regole dei contratti nazionali e non segue le procedure legali e regolamentative. La mancanza di protezioni legislative e sindacali fa sì che questi lavoratori non siano garantiti in alcun modo e si trovino quindi ad operare in condizioni di lavoro inaccettabili. E’ secondo tale direttrice che, a partire dall’imposizione di un nuovo modello di sfruttamento del lavoro, anche se con modi e tempi diversificati, si sta realizzando la nuova fase dell’accumulazione flessibile capitalistica con forti connotati di ridefinizione sul lungo periodo.

L’analisi effettuata può permettere un riscontro empirico dell’esistenza di nuovi soggetti del lavoro nel territorio concentrati, in aree non necessariamente depresse, giungendo alla evidenziazione e alla verifica di ipotesi socio-politiche sulla loro natura e sul loro ruolo. Si è in una fase, dunque, di passaggio epocale nella trasformazione delle modalità di sviluppo nel nostro Paese; una fase in cui, si stanno velocemente affacciando sulla scena economico-sociale nuove soggettualità, nuove povertà e quindi nuove figure da riaggregare in un progetto di ricomposizione e organizzazione del dissenso sociale.

L’attuale problema del lavoro non è solamente connesso alla disoccupazione bensì una serie di problemi di carattere quanti/qualitativo e quindi delle nuove figure del lavoro e del non lavoro. Il problema lavoro esiste ormai anche per coloro che ne possiedono uno, dato che si lavora sempre di più ed in condizione sempre più precarie, non tutelate e con un guadagno sempre minore e con alti livelli di mobilità e intermittenza.

Le economie avanzate del modello post-fordista che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio hanno dato luogo ad un fenomeno di deregolamentazione dei rapporti di lavoro ad alto contenuto di flessibilità. Tale fenomeno è caratterizzato da diversi aspetti distinti del nuovo ciclo dell’accumulazione flessibile. Aumenta, ad esempio, l’esistenza di “lavori” che non consentono a chi li esercita di raggiungere livelli di reddito tali da superare la soglia della povertà. Ricerche condotte in Europa e negli Stati Uniti mettono continuamente in luce il problema delle nuove povertà, figure sociali che emergono a fianco a quella dei disoccupati, costituite da una consistente parte di cittadini che svolgono un lavoro precario intermittente, ad alta mobilità. Questi lavoratori sono esposti al rischio di accettare salari minimi, a rendere più lunga la giornata lavorativa, a forme moderate di cottimo generalizzato, i loro salari spesso sono a giornata, sono salari di fame.


Si intensifica la mancanza, specie per i giovani e le donne, di un lavoro stabile o indicativo di un ruolo sociale, sballottati tra occupazioni precarie, le più diverse tra loro, che non consentono l’accumulo di professionalità omogenee e quindi non consentono il raggiungimento di una posizione sociale ed economica definita da un ruolo lavorativo. Il dramma dei giovani, delle donne, di molti ex occupati garantiti e a tempo pieno, la disoccupazione di breve ma anche di intensa durata, il prolungarsi di un esistenza, in condizioni di precarietà, dedita a lavori tra loro non omogenei. Il decentramento produttivo, la delocalizzazione, i processi di esternalizzazione messi in essere dalle piccole, ma anche dalle grandi aziende, riduce sempre più la quota di raggruppamenti di imprese all’interno dei quali le condizioni di lavoro sfuggono ad una regolamentazione, il rapporto con il lavoratore è sempre più a carattere individuale, privo di garanzie. A ciò si aggiunge l’estendersi del fenomeno di miniaturizzazione dell’impresa sino alla forma dell’impresa individuale, con il conseguente allargamento del settore del lavoro autonomo di ultima generazione di strati crescenti di lavoratori espulsi dall’impresa madre, costretti ad un precario lavoro deregolamentato, nei fatti ancora più subordinato di quello che avevano in precedenza.

E’ evidente che si è venuta a creare una nuova tipologia di lavoratori: i precari, i lavoratori intermittenti, i lavoratori autonomi di ultima generazione, i parasubordinati. Si tratta in effetti delle nuove forme e modalità di un lavoro che rimane subordinato, della nuova faccia del lavoro salariato. Nuove figure nelle quali rientrano per lo più i giovani e le donne. Oramai sono molti di più dei lavoratori dipendenti classici e tradizionali; sono tutti coloro che svolgono lavori mal retribuiti, saltuari, part-time, senza avere diritto ad alcuna tutela. E’ il nuovo mercato del lavoro ad altissima precarizzazione e flessibilità imposta dal nuovo ciclo dell’accumulazione flessibile.

Un profondo processo di trasformazione di questo tipo deve necessariamente portare a riconsiderare le vecchie categorie economiche e sociali, le politiche economiche ormai di stampo antico perché superate dall’evoluzione dei tempi, e le stesse ipotesi di intervento per un progetto di antagonismo, di alternativa, di fuoriuscita dal capitalismo.

Attraverso una procedura oggettiva e scientifica, si può analizzare entro lo stesso ambito di studio l’analisi economica territoriale per verificare le modalità di insediamento del sistema economico spazialmente concentrato, specializzato in un certo settore o in certe modalità produttive, relazionandolo ad una popolazione socialmente caratterizzata in modo coerente, capace cioè di innescare contraddizioni economico-sociali e processi di socializzazione. Valori e comportamenti orientati e derivati dalla presenza di un modello di sviluppo che a causa della ristrutturazione dell’impresa e del capitale incide profondamente sul territorio. Territorio che rappresenta il centro verso il quale converge una parte rilevante degli interessi della collettività, della classe, delle nuove soggettualità che operano in una fabbrica sociale generalizzata nel sistema territoriale, nuovi soggetti che si ricompongono ad unità su un corpo organizzato, come una totalità di parti interagenti, che si danno una certa caratterizzazione sociale perché derivano da una certa caratterizzazione produttiva della riconversione neoliberista, del modo di produrre e di proporre socialmente la centralità dell’impresa, del profitto, del mercato.

Riverticalizzare il conflitto sociale significa porsi immediatamente il problema della socializzazione dell’accumulazione, quindi il problema della ridefinizione dei meccanismi del potere economico-sociale. Riverticalizzare lo scontro significa ripartire dalla reale democrazia partecipativa politica ed economica, ma non vista come semplice intervento dei lavoratori nella partecipazione di natura passiva ai flussi finanziari, ai profitti o al capitale, ma una partecipazione che a partire dai nuovi bisogni, dalle necessità e dalle domande provenienti dal basso realizzi concreti processi decisionali, rimettendo in discussione lo stesso concetto di proprietà in uso nell’economia moderna e il suo meccanismo di allocazione. Si tratta in un’ultima analisi di realizzare una nuova e più avanzata ricomposizione di classe, un’unità di classe a partire dalle nuove povertà, dai nuovi soggetti marginali, emarginati e non compatibili per proporre da subito la nuova questione sociale con al centro una rielaborazione scientifica per rilanciare battaglie offensive sulla socializzazione dell’accumulazione.

Non si tratta , quindi, di riproporre semplici forme di intervento esclusivamente sul fronte della distribuzione del reddito ma rientrare con nuovi strumenti nel conflitto capitale-lavoro a partire dalle nuove soggettualità del conflitto sociale riorganizzando l’unità di interessi del mondo del lavoro , la solidarietà e la forza che negli anni ’60 e ’70 la classe operaia si era data a partire dall’organizzazione in fabbrica. Per far ciò bisogna saper coniugare un forte, rinnovato e antagonista sindacalismo del lavoro ad un nuovo, e altrettanto antagonista, sindacalismo del territorio che rivendica la redistribuzione sociale della ricchezza incidendo profondamente sui processi di accumulazione capitalistica. Al centro dell’iniziativa politica e sociale devono ritornare le associazioni di base, i comitati di quartiere, le forme organizzate del dissenso nel territorio, il sindacalismo di classe, cioè l’insieme di quelle organizzazioni del lavoro e del lavoro negato che non scelgono il consociativismo, ma che anzi sappiano porre come immediato il problema del potere attraverso la distribuzione sociale del valore e della ricchezza complessivamente prodotta, riassumendo nel contempo i nuovi soggetti della trasformazione sociale, le nuove povertà, le fasce deboli della popolazione, come definizione di una ricca risorsa del blocco sociale antagonista per una nuova stagione del conflitto di classe.