Una pratica della prevaricazione di classe
Tutto è razionale nel capitalismo, tranne che il capitale o il capitalismo stesso. G. Deleuze e F. Guattari
1. Espulsi dalla classe
Pare a chi scrive che uno dei limiti più costringenti delle attuali forme di rappresentanza e difesa della parte lavoratrice - il termine “classe”, nel senso in cui lo intenderemo, riguarda di nuovo l’ambito delle aspirazioni - sia la marginalizzazione della sfera delle passioni, insieme ad una realistica valutazione della loro funzione attuale nell’ordine dei rapporti sociali ed economici. Per quale motivo questo oggetto impalpabile, eppure così pervasivo nel tessuto esistenziale contemporaneo, riesca tanto difficile da mettere a fuoco potrebbe essere materia interessante di discussione, se un dibattito sul tema fosse stato richiesto dalle organizzazioni dei lavoratori. A qualsiasi componente della sinistra di classe, fondata sulla pratica dialettica del materialismo, il dominio dell’immaginario risulta invece ancora sostanzialmente privo di connotazioni politiche e, di conseguenza, di ricadute sulla prassi: la “grande riconciliazione”1 tra il movimento operaio e le scienze delle rappresentazioni, come lamentavano Deleuze e Guattari, è avvenuta sulla base di una separazione consensuale che ha finito per dividere colpevolmente la considerazione della società come organismo collettivo o - che è lo stesso - dell’individuo come tipo sociologico dagli individui reali, da quel ciascuno che è l’oggetto di studio, ad esempio, della psicanalisi2. Perché questa scelta di metodo dei marxismi, che pure ha permesso la riduzione della complessità e la possibilità conseguente del passaggio dalla teoria alla pratica di lotta, non va più bene? Perché la filosofia di fondo delle ristrutturazioni del capitale, seguite alla crisi segnata dal duplice shock petrolifero degli anni ’70 e all’urto del movimento internazionale dei lavoratori, si fonda da oltre un trentennio sul processo di individualizzazione del lavoratore, sulla scomposizione della “classe” - oggetto concreto finché sentito come tale da coloro che ne fanno parte - in singoli soggetti, inseriti senza alcuna difesa nell’ingranaggio concentrazionario3 della moderna organizzazione produttiva. Poiché - qui sta il segno del carattere strategico della trasformazione - la parte padronale continua invece a comportarsi come classe, ovvero a manifestare nelle scelte, negli atteggiamenti e nei comportamenti dei suoi elementi individuali, i tratti riconoscibili di una volontà comune. Del soggetto che si trova in balia di questa volontà, dell’individuo passivo eletto a bersaglio del nuovo corso dello sfruttamento capitalistico, la pratica politica antagonista fa fatica ad occuparsi essenzialmente per due ordini di motivi: il primo ci appare legato alla cultura politica della sinistra e agli strumenti d’intervento di cui essa storicamente dispone, che riguardano la rappresentanza di collettività più o meno ampie, non dei singoli invischiati magari nella melma pre-politica dell’isolamento e dell’inconsapevolezza. D’altronde, nella tradizione del pensiero marxista l’unità della classe, ovvero il riconoscimento tra simili e la comunanza degli interessi, è il presupposto stesso della difesa e dell’azione, sancito da uno degli slogan più celebri della modernità che chiude il Manifesto di Marx ed Engels: per il conseguimento di tale presupposto, che è un punto d’arrivo e non di partenza, la sinistra reduce dalla lunga avanzata del movimento operaio nella seconda metà del Novecento non sembra disporre oggi di strumenti di rinnovata efficacia. L’altra ragione, questa più generale, riguarda le connotazioni della condizione in cui si trova l’individuo di fronte al moloch dell’azienda totale4: la passività è uno stato sfuggente, difficilmente afferrabile; delle passioni, intese etimologicamente come stati in cui si subisce l’azione altrui, siamo stati educati a non parlare. Ci rendono solitari e vulnerabili, improvvisamente - e quanto pericolosamente! - individui.
2. Passioni: la paura come regolatore sociale Del regime generalizzato di insicurezza e timore, instaurato dall’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, s’è fatto un gran parlare: descritto come il giorno del disincanto, un trauma irreversibile per l’Occidente, con toni diversi tutti i commentatori hanno indicato, tra gli effetti capitali dell’evento, l’ingresso della paura nel fortino occidentale5. Ma si tratta davvero di un’apparizione? Uno sguardo retrospettivo alle trasformazioni che hanno investito le società a capitalismo avanzato in tutto il pianeta, ormai da un decennio, farebbe pensare piuttosto ad una verbalizzazione, alla socializzazione - attorno ad un evento sintomatico - di un sentimento ormai solidamente installato nell’universo emotivo di milioni di abitatori dell’Occidente, che hanno confusamente saggiato la precarietà nella sottile erosione delle sicurezze personali, della capacità di provvedere al proprio benessere, della prospettiva di futuro. Un indizio dello spostamento simbolico del trauma sta, a nostro avviso, nella ricerca disordinata di un presunto soggetto responsabile dell’avvenuta sottrazione, che spesso raduna nel calderone elementi significativamente eterogenei come il fondamentalismo islamico e l’immigrazione, il terrorismo internazionale e la competizione cinese, e così via. Più che la radice di questo sentimento, su cui si possono avanzare soltanto ipotesi in fin dei conti ideologiche, qui interessa tuttavia chiarire la sua utilizzazione nel processo di isolamento e neutralizzazione del lavoratore occidentale, cui la direzione della produzione chiede una passività che lo induca a “flettersi, piegarsi, fluidificarsi, adattarsi, configurarsi sul terreno identitario in forme compatibili alle sollecitazioni e alle richieste che gli vengono indirizzate”6. Prima di osservarla all’opera nell’ambito in cui ha prodotto gli effetti più devastanti, quello dell’organizzazione dei rapporti di produzione, della paura bisogna però mettere a fuoco una valenza politica tradizionale, che non nasce certo con il dominio della flessibilità e del modello del precariato nel lavoro. Compiendo un salto in avanti rispetto a Machiavelli, che pure considerava la paura come una componente decisiva dei rapporti sociali, Thomas Hobbes la pone a fondamento dell’esercizio del potere: “l’artefice di società grandi e durature non era la benevolenza che gli uomini nutrivano gli uni nei confronti degli altri, ma la paura che nutrivano gli uni degli altri”7. La capitalizzazione di questi timori reciproci e il loro trasferimento verso un’istanza centrale fonda il potere assoluto del Leviatano, che alimenta lo stato ansioso del suddito con la codificazione chiara e inesorabile della sanzione riservata a chi viola il limite imposto dall’autorità: “l’obiettivo della pena non è la vendetta, ma il terrore”8. Ne Lo spirito delle leggi9 Montesquieu considerava, invece, il terrore come una deviazione dall’assetto naturale della società derivante dalla psiche malata del despota: non dunque, come nel caso di Hobbes, una finalizzazione politica della paura, ma una condizione connaturata all’esercizio del potere dispotico, per certi versi più allarmante: come nota Corey Robin, infatti, anche se viene considerato una devianza, il terrore è in qualche modo ciò che resta quando vengono meno le strutture naturali del patto sociale, dunque si tratta di “un elemento originario soggiacente allo sviluppo storico di una società”10, destinato ad emergere nei rapporti sociali - per tornare all’attualità - quando declinano le regole vigenti tra le componenti sociali e l’individuo, privo di relazioni solidali o protettive, resta in balia di un dominio superiore. L’ultima grande analisi della paura come principio fondante del potere si connette in maniera ancor più stringente al nostro tema, poiché mette a fuoco il carattere totale di certe istituzioni che recentemente è stato esteso alla moderna azienda11. Nello studio degli apparati fondanti dalle grandi dittature del ’900 Hannah Arendt enuncia la categoria di totalitarismo, in cui confronta le manifestazioni singolarissime del nazismo e dello stalinismo con la fragilità dell’uomo contemporaneo e la sua permeabilità ad un ideologismo cieco, disposto all’ubbidienza assoluta. Rispetto a quella di Tocqueville12, che pure inaugura molte delle idee sull’ansia riprese della Arendt, la tesi della filosofa tedesca risulta notevole per due particolari: mentre ne Le basi della democrazia americana l’ansia - incarnazione della paura latente che informa la sottomissione dell’uomo moderno al potere - era il prodotto dell’uguaglianza tra cittadini, Arendt sostiene che la sua vera origine non è il modello democratico-egualitarista in sé, ma lo sgretolamento della coesione sociale e delle strutture di classe che caratterizza tra l’altro il modello contemporaneo di organizzazione del lavoro, in cui all’uomo è sottratto qualsiasi “contatto con il mondo inteso come prodotto dell’ingegno umano”13. La solitudine - o, come dice la studiosa, la “superfluità”14 - che ne deriva, inoltre, non condurrebbe alla passività assoluta, quanto piuttosto ad un’attività svuotata di senso, stranamente ordinata e uniforme, tanto più uniforme quanto più è accentuato il processo di sradicamento e individualizzazione. È questa la massa disponibile al dominio pieno e pervasivo: “un’entità, secondo la Arendt, senza struttura - essendo la struttura una caratteristica della permanenza - e dotata soltanto di direzionalità”15.
3. Forme della paura nell’organizzazione produttiva Confrontare queste tesi con le attuali modalità di organizzazione del lavoro e con la “cultura” che le caratterizza porta a riscontrare sconcertanti analogie. Come nota efficacemente Curcio, il mondo della produzione, sul versante dei lavoratori, è intriso di una nuova forma di sofferenza, più perniciosa e difficile da sradicare perché spostata dal livello materiale a quello mentale, psichico: “Un aspetto solitamente trascurato quando si parla di lavoro è quello della sofferenza. Eppure ognuno sa per esperienza diretta che il lavoro, dalla parte delle donne e degli uomini che scambiano le loro attività con un salario, è anzitutto dolore e sofferenza. Una sofferenza che, se negli anni della modernità pesante era soprattutto fisica e connessa alla fatica, oggi amplia il suo raggio fino a comprendere i processi cognitivi, psicologici e identitari”16. Le potenzialità di questa forma di sofferenza, di gran lunga più consistente dell’altra, risiedono nel fatto che essa è stiracchiata nel tempo, che il suo climax è continuamente differito, insomma nel fatto che è sapientemente imbevuta d’angoscia17: “Non è più tanto ciò che si fa, la fonte del malessere, quanto piuttosto ciò che ti può capitare addosso comunque, d’improvviso, come un padrone affamato a cui la tua vita interessa solo in quanto cibo”18. La rappresentazione e la verbalizzazione di tale Stato d’ansia indefinibile - perché tale è nella realtà della produzione post-fordista, non soltanto nelle impressioni di chi se ne trova in balia - dà corpo ad una serie di paure che Curcio enumera in maniera disordinata, sulla base delle storie di vita raccolte tra i lavoratori: paura di perdere il lavoro, paura della retrocessione o della promozione, paura di invecchiare, paura di testimoniare, paura di mostrare il malessere psicologico, paura della disconferma, paura dei rapporti solidali, paura dei propri diritti, paura di rivolgersi al sindacato, paura dello sciopero, paura di non trovare un nuovo lavoro, paura di non arrivare all’età pensionabile. Nella schiera dei timori connessi alla preoccupazione per le proprie caratteristiche personali e per la loro compatibilità con il progetto aziendale, se ne evidenziano a ben vedere alcuni atipici, che potremmo ascrivere ad una più generale paura dell’appartenenza (paura dello sciopero, del sindacato, dei rapporti solidali): è il segno che la strategia dell’individualizzazione e della scomposizione della classe è operante, ed opera con successo. C’era da aspettarselo d’altronde, almeno da parte di coloro che - da posizioni di sinistra - hanno alimentato la costituzione e l’espansione di forme di lavoro flessibile, anche con provvedimenti di governo: la precarietà, sia pure intesa senza valenze ideologiche, non è compatibile con la conservazione e il consolidamento di un sentire comune dei lavoratori, poiché sancisce la disinvolta possibilità dell’ingresso e dell’uscita dalla categoria minando qualsiasi percezione dell’appartenenza. Ed è una possibilità ben concreta, l’attesa di un crollo annunciato che tuttavia nessuno sa quando arriverà e chi colpirà: “le angosce sono già lì, come il veleno preparato [...]; per potersi manifestare pienamente, esse aspettano solo che passi un po’ di tempo”19. Con questa incertezza sull’insicurezza s’avvelena il soffio vitale dell’identità del lavoratore20. Per farlo trangugiare, tuttavia, il veleno dev’essere diluito in altro liquido, fuor di metafora nei miti positivi che adornano l’attuale situazione di totale subordinazione del lavoratore e fondano la cosiddetta “cultura della flessibilità”. Curcio ne elenca alcuni, come il mito della libertà che caratterizzerebbe l’impiego flessibile, o quello del team che spinge il lavoratore all’identificazione masochista con l’interesse dell’azienda, e così via: basta d’altronde sfogliare uno dei tanti opuscoli ad uso interno prodotti dalle grosse multinazionali, per trovare a profusione citazioni orgogliose dello “stile aziendale”, inni allo “spirito di squadra”, profili del “giovane e dinamico” lavoratore adatto all’impresa, etc. Deleuze e Guattari osservavano con straordinario acume che nel capitalismo “nulla è segreto, almeno in linea di principio e stando al codice [...] In contrapposizione alle altre società, questo regime è fondato su ciò che è pubblico e, al tempo stesso, inconfessabile”21. Non è dunque il terrore hobbesiano quello che esercita l’azienda, ma una forma di minaccia più sottile e devastante, che si traveste di blandizie, si presenta come sprone e incentivazione per il lavoratore, con il risultato - in omaggio al principio di individualizzazione - di far sentire lui e solo lui inadeguato al nuovo mondo e a rischio di estinzione.
4. Esorcismi
Di fronte a questa diserzione del senso d’appartenenza, della capacità stessa di percepire il proprio destino accomunato a quello di un altro, quali margini d’intervento restano alla pratica sindacale e alla rappresentanza dei lavoratori? E anche: quali nuovi fronti d’azione si profilano? Nella risposta a queste domande, si deve tener conto preliminarmente della distanza che s’è aperta improvvisamente tra il nuovo tipo di lavoratore precarizzato e le organizzazioni preposte alla tutela del lavoro. Anche quando il lavoratore “flessibile” si trova in una situazione di difficoltà e decide di affrontare il conflitto con l’azienda, difficilmente si rivolge alle organizzazioni di rappresentanza: “noi del sindacato - dice un delegato intervistato da Curcio - non siamo percepiti come una possibilità credibile e perciò utilizzabile”22. La paura esplicitamente indotta di esigere diritti, certo, può essere il primo ostacolo; il secondo, più difficile da rimuovere, riguarda evidentemente l’incapacità di percepirsi come membro di una categoria: per affrontare questa difficoltà, tuttavia, le pratiche d’intervento “non possono prendere a prestito modelli organizzativi che vengono da altre epoche e fatti per altri tipi di figura di lavoratori. Questa è una questione nuova, almeno nelle dimensioni attuali, e che evidenzia con forza la necessità di approfondire come sia possibile oggi dare battaglia per i diritti del mondo del lavoro precario”23. Nelle loro indicazioni per un programma d’intervento, Luciano Vasapollo e Joaquín Arriola delineano una strategia in due passi: innanzitutto, approfondire con gli strumenti della ricerca e dell’inchiesta la natura delle modificazioni, anche psicologiche, che hanno investito il lavoratore precario; poi, elaborare modelli e proposte d’organizzazione che “sappiano rompere la gabbia dell’individualismo”24. Prima di ricomporre la classe lavoratrice, operazione quanto mai necessaria, occorre dunque riconoscere gli individui in cui essa s’è frammentata, e soprattutto raggiungere il senso d’angoscia, le paure, la solitudine del soggetto scagliato nella precarietà, e porsi all’ascolto delle sue passioni. In un senso diverso da quello auspicato trent’anni fa, il personale è diventato davvero politico. Per ritrovare il sentiero dell’azione collettiva, occorre tornare a interrogare le persone.
* Giornalista, ricercatore dell’Osservatorio Meridionale di CESTES-PROTEO.
1 G. Deleuze e F. Guattari, Colloquio a proposito di L’anti-Edipo [1972], in Macchine desideranti. Su capitalismo e schizofrenia, Ombre corte, Verona 2004, p. 61.
2 “Gli psicanalisti hanno considerato che il sociale non è il loro problema e i politici che l’economia del desiderio non era il loro” (ivi, p. 62). Alcune recenti esperienze di dialogo tra i due ambiti, tuttavia, si sono sviluppate a proposito di questioni cruciali delle trasformazioni del lavoro, come il mobbing: si veda l’inchiesta sul tema pubblicata in “Proteo, n. 2, 2000, con contributi di P. Leonardi, H. Ege, A. Ricci, F. Sebastiani.
3 Non stupisca l’uso del termine. Già David Rousset, dopo l’esperienza del lager, affermava: “Sarebbe però facile dimostrare che i tratti più caratteristici sia della mentalità S.S. sia delle sue basi sociali si ritrovano in molti altri settori della società mondiale. [...] La Germania ha interpretato con l’originalità propria alla sua storia la crisi che l’ha portata all’universo concentrazionario. Ma l’esistenza e la meccanica di tale crisi appartengono ai fondamenti economici e sociali del capitalismo e dell’imperialismo” (D. Rousset, L’universo concentrazionario [1945], Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 128).
4 L’espressione, ripresa da Curcio, indica tanto l’organizzazione dell’azienda moderna sul modello delle istituzioni totali (carcere, manicomio, etc.) quanto l’estensione dell’aziendalismo o della cultura produttiva ad ogni ambito della vita individuale e sociale. Cfr. R. Curcio (a cura di), L’azienda totale, Sensibili alle foglie, Dogliani 2002.
5 Incredibilmente lungo l’elenco dei titoli sull’argomento di cui segnaliamo, citando disordinatamente, alcuni contributi significativi disponibili in italiano: G. Riotta, N.Y. undici settembre: diario di una guerra, Einaudi, Torino 2001; J. Ch. Bridars e G. Dasquiè, La verità negata, Tropea, Milano 2002; B. Biancheri (a cura di), Il nuovo disordine globale: dopo l’11 settembre, Università Bocconi Editore, Milano 2002; F. Falconi e A. Sette, Osama bin Laden: il terrore dell’Occidente, Fazi, Roma 2001; Ch. Johnson, Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, Milano 2001; S. Spadoni, New York: terrorismo e antrace, Rizzoli, Milano 2001; N. Chomsky, 11 settembre, Tropea, Milano 2001; R. Picciotto, Ultimo a uscire, Tea, 2002; P. Hamii, La vita dopo, Ponte alle Grazie, Firenze 2002. Tra le ultime uscite J. Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano 2005 e il romanzo di P. Blauner, L’ultimo giorno di quiete, Tropea, Milano 2005.
6 R. Curcio (a cura di), Il dominio flessibile. Individualizzazione, precarizzazione e insicurezza nell’azienda totale, Sensibili alle foglie, Dogliani 2003, p. 11.
7 Th. Hobbes, De Cive, Editori Riuniti, Roma 1987, par. 1.2.
8 Th. Hobbes, Leviatano, Editori Riuniti, Roma 1998, cap. 28.
9 Ch. L. De Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Rizzoli, Milano 1989.
10 C. Robin, Paura. La politica del dominio [2004], Università Bocconi Editore, Milano 2005, p. 73.
11 Si veda, al proposito, la tesi di fondo del libro di R. Curcio (a cura di), L’azienda totale, cit.
12 A. de Tocqueville, La democrazia in America, Città Aperta, Enna 2005.
13 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1951, p. 475.
14 Per la Arendt, è “l’esperienza di non appartenere affatto al mondo, che è una delle esperienze più radicali e disperate dell’uomo” (ibidem).
15 C. Robin, op. cit., p. 112.
16 R. Curcio (a cura di), Il dominio flessibile, cit., p. 49.
17 Secondo una distinzione classica, a differenza della paura, l’angoscia non è ancora applicata ad un oggetto particolare, corrisponde ad un senso indefinito di trovarsi in balia degli eventi che occorre specificare per poter prendere delle adeguate contromisure. Cfr. tra l’altro R. Curcio e N. Valentino, Nella città di Erech, Sensibili alle foglie, Dogliani 2001.
18 R. Curcio (a cura di), Il dominio flessibile, cit., p. 49.
19 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso [1977], Einaudi, Torino 1979, p. 27.
20 A proposito del senso imminente del crollo, è significativa una testimonianza riportata da Curcio: “Come mi sto rapportando a questa condizione? Ogni volta che sento arrivare il vento gelido dei tagli occupazionali mi dico: “Speriamo che non tocchi a me!”. Un mio collega mi ha confidato di sperare soltanto più che non gli tocchi “troppo presto”. “Troppo presto” vorrebbe dire che gli salterebbe, oltre al posto, anche la pensione” (R. Curcio, Il dominio flessibile, cit., p. 51).
21 G. Deleuze e F. Guattari, Sul capitalismo e il desiderio [1973], in Macchine desideranti, cit., p. 79.
22 R. Curcio (a cura di), Il dominio flessibile, cit., p. 51.
23 J. Arriola e L. Vasapollo, L’uomo precario nel disordine globale, Jaca Book, Milano 2005, p. 210.
24 Ibidem.