Intervento alla Conferenza di Programma e di Organizzazione della Federazione RdB Statali - Roma 27 e 28 maggio 1999 - del Prof. Luciano Vasapollo, Professore della Facoltà di Statistica dell’Università La Sapienza di Roma e Direttore Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali “Cestes-Proteo” [1].
Volevo svolgere le mie considerazioni dividendole in due parti fondamentali, in modo da fare una relazione tecnica che ci aiuti a capire quello che sta succedendo nel Paese.
Nella prima parte, analizzare il piano di riforma e parallelamente vedere quello che succede poi in termini di finanza pubblica, quindi di bilancio pubblico, per vedere se effettivamente questi tagli alla spesa pubblica e questa rivisitazione dello Stato sociale sono dovuti a processi di efficienza reale oppure si scontrano con problemi di altra natura.
La seconda parte, invece, contiene considerazioni a carattere generale su quello che sta succedendo in termini di Welfare State e quindi di modifica d’intervento dello Stato in economia.
Leggendo le relazioni illustrative di questa bozza di decreto che cominciano a girare sulla riforma della pubblica amministrazione, in particolare dei ministeri e del governo, si vede praticamente un piano di grandi buone intenzioni, cioè le regole dell’Amministrazione Centrale dovrebbero cambiare in termini di efficienza per meglio regolare, dicono le varie relazioni, il mercato e quindi il rapporto con i cittadini.
Cioè la pubblica amministrazione si affaccia alle soglie del terzo millennio con una logica effettivamente di efficienza e di mercato, tralasciando gli scopi sociali.
La prima considerazione da fare è che nel momento in cui i documenti ufficiali della pubblica amministrazione parlano espressamente di mercato, significa che una scelta di campo già la si è fatta, perché il mercato non è un’entità astratta, ma il mercato vive di leggi ferree, centrate sul rapporto di efficacia economica capitalista che significano massimizzazione dei profitti e minimizzazione dei costi.
Pertanto nella fattispecie ci accorgeremo che il costo che in prima battuta dovrà essere tagliato è il costo del lavoro; e questo lo leggeremo poi da una serie di dati ufficiali.
Il secondo criterio che mi pare pervadere un po’ tutte le relazioni è il criterio dell’efficienza con parametri strettamente di mercato.
Se per efficienza si intendesse semplicemente miglior rapporto con i cittadini, un miglior rapporto quindi di servizio pubblico come lo intendiamo noi, come lo intendono i lavoratori, ben venga, ma il problema mi sembra è che i criteri messi alla base di tutto siano i criteri dell’efficienza dell’impresa privata nella rincorsa sfrenata al profitto.
Il termine “efficienza “ in genere in un’azienda privata è il risultato di una serie di rapporti e di parametri basati su un’entità di costi a numeratore e su un’entità di ricavi a denominatore; un rapporto tra input e output. Il ragionamento dell’imprenditore è: a fronte di un determinato risultato che voglio raggiungere, quali sono i costi che posso sopportare.
Considerate che già ci troviamo in una società terziarizzata; le ultime proiezioni che abbiamo fatto più di un anno fa ci davano nel 2010 una società italiana con il 70% dell’occupazione nel terziario (considerate che fino a pochissimi anni fa questo 70% era nell’industria); una società in assoluta trasformazione, una società che ha visto un intenso processo evolutivo in termini di assetto produttivo, che anche sul piano culturale e sociale è cambiata moltissimo in questi ultimi 10-15 anni e continua a trasformarsi in chiave prettamente terziaria, dove un ruolo fondamentale ancora, e mi auguro per molto tempo, in questo terziario lo dovranno avere i servizi pubblici.
In una società fortemente terziarizzata qualsiasi analisi statistica, qualsiasi studio statistico-economico, rivela una grandissima difficoltà nell’andare a determinare la produttività del lavoro.
In tutte le relazioni di riforma della pubblica amministrazione si parla di incremento di efficienza e di produttività e quindi mi pongo il problema: quali sono i costi che si andranno a tagliare, e questo è il primo problema, perché non si può determinare da subito un incremento di profitto per quanto riguarda i servizi pubblici proprio per la loro natura. Quindi in quegli indicatori di efficienza di cui vi parlavo prima probabilmente non è tanto l’aumento del profitto, ma l’obiettivo della riforma è la riduzione dei costi, in particolare di quelli del lavoro. Altro problema, quello che vi dicevo della produttività.
Un coefficiente di produttività qualsiasi si determina facendo un rapporto tra valore aggiunto, per esempio, e costo del lavoro oppure numero degli occupati o numero delle ore lavorate. Il valore aggiunto nella costruzione di una penna è immediatamente rilevabile; in termini semplici, come si fa a rilevare il valore aggiunto? Si rileva il prezzo della penna, quindi il valore delle vendite potenziali della penna, da questo si tolgono i costi intermedi, i costi per le materie prime, per esempio, per i beni e servizi, che sono all’interno di questa penna, di natura intermedia; la differenza dà il valore aggiunto. Questo valore aggiunto diviso per il costo del lavoro, oppure per il numero di ore lavorate, o per il numero dei lavoratori, ci fornisce la produttività del lavoro.
Se è facile rilevare il valore aggiunto di una penna è estremamente difficile rilevare il valore aggiunto di un qualsiasi servizio. Qual è il valore aggiunto di una visita medica, qual è il valore aggiunto di una lezione di un docente, qual è il valore aggiunto di un servizio effettuato da un portantino all’interno di un ospedale? Avevamo detto che bisogna togliere dal prodotto vendibile i costi di natura intermedia. Voi sapete che, per esempio, per la visita di un medico, oppure qualsiasi altro servizio a forte contenuto di conoscenza, di know-how, di apprendimento, ecc., è difficile dire tolgo soltanto i costi per le materie prime e per i beni utilizzati per quel servizio, perché c’è un introito di capacità, di know-how, di conoscenze, di informazione, di preparazione, di professionalità del lavoratore, che ha la persona, che in particolare nel terziario è difficilmente quantificabile.
E’ ancora più difficile la rilevazione per i servizi della pubblica amministrazione che proprio come definizione non hanno un prezzo di mercato; la pubblica amministrazione fornisce dei servizi senza una controprestazione immediata in denaro. Cioè da un punto di vista statistico-economico il servizio prestato è gratuito, è gratuito perché non c’è una domanda immediata di mercato, il servizio viene "pagato" nel momento in cui a posteriori c’è l’imposizione fiscale e quindi ci sono le entrate nel bilancio dello Stato.
Per cui il primo problema che ci poniamo immediatamente qual è? Manca il primo parametro, cioè il valore aggiunto perché non è determinabile facilmente per i servizi in genere. Inoltre di fatturato della pubblica amministrazione, in effetti, non si può parlare, sto dicendo teoricamente, poiché non solo non è facilmente determinabile il valore aggiunto di un servizio, ma in particolare per un servizio pubblico non è neppure rilevabile il prezzo di mercato.
Per cui vedete che già la determinazione del valore aggiunto e quindi del prodotto lordo, diciamo come ragionamento generale, è difficilmente determinabile per il terziario in sé. Diventa ancora più difficile per quanto riguarda la pubblica amministrazione proprio perché non c’è un prezzo, diversamente per quanto avviene per il servizio privato che poi ha un prezzo di mercato. Questo prezzo, chiamiamolo così, di mercato legato alla domanda non c’è per quanto concerne il servizio pubblico e quindi la determinazione del valore aggiunto può avvenire solo per via indiretta.
E allora quando si parla in queste relazioni del quadro di riforma della modifica dei ministeri con un criterio di accorpamento in modo da rendere i servizi più efficienti e nello stesso tempo si parla di maggiore efficacia e di quindi maggiore produttività, di quale produttività si parla?
Permettetemi, al di là adesso del discorso da economista che vi sto facendo, di fare un ragionamento anche un minimo in termini politici; allora, in effetti, questa riforma che cosa significa? Significa aumento della produttività ma ciò è ottenibile solo attraverso la riduzione del costo del lavoro e il "taglio delle teste", cioè meno occupazione: a fronte della riduzione dei ministeri, si avrà uno scorporo del 40-50% forse anche di più di manodopera e quindi di lavoratori. Cioè significa tagliare fortemente il costo del lavoro diretto. Ci sono forme di taglio anche di costo di lavoro in forma indiretta, per esempio l’aumento dei carichi di lavoro, l’aumento dei ritmi, per esempio, e l’incremento di una produttività che è comunque difficilmente misurabile. Faccio un esempio semplice per capire questo passaggio: nella produzione delle penne se un operaio invece di produrre in un’ora due penne realizza dieci penne è più produttivo, e quindi è più efficiente per l’impresa. Portare questo stesso criterio con gli stessi parametri nella pubblica amministrazione é assurdo; facciamo l’ipotesi dell’infermiere o del portantino, significa che l’infermiere o il portantino che nella giornata riesce ad accudire invece che due malati dieci malati, è più efficiente ed è più produttivo. Lo sarà per l’azienda Italia di un governo questo padronato e vogliono fare questo tipo di scelte di privatizzare la funzione pubblica, non lo è sicuramente per il lavoratore e non lo è sicuramente per il povero malato che sicuramente ha un minor livello di attenzione e di cure.
Quando si trasferiscono in maniera immediata i parametri dell’azienda privata, della produttività, del mercato, nell’azienda pubblica, bisognerebbe prestare particolare attenzione. Tranne che, e qui ve lo lascio come messaggio e come provocazione - e poi questo lo analizzeremo, non si voglia fare anche del pubblico un gran mercato, con regole del privato e quindi logiche di profitto, logiche di profitto che stanno passando anche all’interno del Welfare State come poi vedremo.
Si parla di una nuova organizzazione unitaria, nel senso che bisogna non solo ridurre i ministeri ma fare un accorpamento per quanto riguarda le attività degli enti locali, delle regioni, ecc.. Lungi da noi, da chiunque dei presenti, dire che non siamo per un maggior dialogo con gli enti locali e per una maggiore vicinanza con l’utente finale del servizio pubblico. Un discorso di maggior vicinanza al cittadino farebbe piacere a ciascuno di noi; però quando si dice in questi documenti che l’assetto decentrato deve rispondere alla ragione dell’appartenenza all’Unione Europea, mi rivengono in mente i parametri di Maastricht, parametri che non hanno avuto assolutamente nulla a che fare con la parametrizzazione sociale. Infatti voi sapete che i parametri che sono stati imposti sono stati tutti di tipo monetario e finanziario, sono stati legati alle dinamiche del debito pubblico, guarda caso a quella parte però del debito che non era necessariamente dovuta a forme di spreco da parte degli alti funzionari o degli alti dirigenti della struttura pubblica legati alle clientele partitocratiche, ma ridurre il deficit pubblico e ridurre il debito pubblico è significato in questo paese lacrime e sangue per i lavoratori, cioè taglio della spesa sociale e cioè taglio del Welfare .
Una riduzione della spesa sociale e della spesa pubblica che ha portato ad un abbattimento della domanda, alla contrazione dei redditi e dei consumi. Si è fatto un gran dire in questi ultimi due o tre anni che una delle battaglie dei governi della sinistra è stata quella di garantire nei parametri di Maastricht anche la riduzione del tasso di inflazione. Ma la riduzione del tasso di inflazione e anche su questo dobbiamo stare attenti, ha avuto due ripercussioni: sapete che l’inflazione, detta in maniera semplicistica, è l’aumento dei prezzi, questo aumento dei prezzi di solito perché avviene? Per fenomeni monetari o per fenomeni legati alla dinamica dell’offerta e della domanda. Non mi sembra che in questi anni, andando ad analizzare i documenti ufficiali della Banca d’Italia e dell’ISTAT, si sia realizzata una riduzione dell’inflazione per capacità generali di controllo da parte dei nostri governanti. Ormai ci dicono tutti che la diminuzione dell’inflazione è stata dovuta ad una diminuzione della domanda; cioè che la gente ha minor reddito disponibile da spendere e quindi domanda di meno.La minore domanda fa sì che l’offerta, per quanto possa essere in qualche modo limitata dalle politiche di giacenza e dalle politiche di magazzino, superi comunque la domanda e questo fa sì che si riducano i prezzi. Secondo: qual è la ricaduta anche sulla spesa pubblica di questa politica antinflazionistica? La ricaduta è stata la riduzione dei costi del personale. Per esempio sono ormai tanti anni, e voi lo sapete meglio di me proprio per l’attività sindacale che fate, che non c’è assolutamente il ricambio, è bloccato il turn-over nella pubblica amministrazione, sono ferme le assunzioni .Altro dato che non dice nessuno, riguarda gli investimenti pubblici, quindi il piano di sviluppo del modello keynesiano, basato cioè sull’allargamento della spesa pubblica, nel nostro paese è completamente bloccato; per cui questo significa non costruire scuole, non costruire strade, non costruire ospedali, non migliorare i servizi pubblici, non creare occupazione, cioè si esce definitivamente dalla logica dello Stato interventista e dello Stato occupatore. Avevamo negli anni passati uno Stato regolatore e mediatore in una economia quasi modello come quella italiana, nonostante tutte le sue pecche; con tutto quello che è successo, tangentopoli, le mazzette e tutto quello che abbiamo visto e che erano all’ordine del giorno, una classe dirigente ed una classe politica assai corrotta, però c’era questo modello di economia mista, cioè di un’economia privata e di un’economia pubblica, nella quale, al di là di quelli che poi erano i fenomeni di distorsione e di corruzione pubblica, si garantiva però comunque un’espansione della domanda, si garantivano da parte dello Stato dei livelli di occupazione nell’amministrazione pubblica, venivano garantiti gli investimenti pubblici. Questi oggi vengono a mancare in maniera definitiva per le politiche monetariste restrittive.
Si parla in queste bozze che stavo leggendo di superamento della frammentazione, della suddivisione in dipartimenti e, in particolare, nella suddivisione in agenzie.
A me sembra - guardate posso essere smentito nei prossimi mesi, ma vi do una prima interpretazione - che la dislocazione in agenzie non sia altro che una via alla privatizzazione dei servizi pubblici. Cioè si tratta di affidare le funzioni pubbliche ad una figura di manager che risponde ad una logica di mercato e ad una logica di profitto incentrata sul taglio degli stipendi e taglio dell’occupazione, quindi riduzione del costo del lavoro, politiche di efficienza e di produttività privatistica all’interno della pubblica amministrazione. Agenzie che cominciano ad essere delle “sottoaziende” private già compresenti nella struttura pubblica, ma che poi dovranno sostituire interamente la struttura pubblica. Mi viene da pensare subito alle agenzie per il lavoro interinale, le agenzie di sostituzione del ruolo svolto dagli uffici pubblici di collocamento.
Le attività dello Stato vengono suddivise in missioni, cioè l’insieme delle missioni dei ministeri costituisce i compiti dello Stato.
Da sempre ho considerato lo Stato come un regolatore dei conflitti, come una sovranità che dovesse essere al di sopra delle parti, per regolare parti che in una società normalmente sono in conflitto e guardate, non mettiamoci paura della parola “conflitto” perché una democrazia sana ha bisogno del conflitto per crescere. Lo Stato era fungere da regolatore per mettere davanti gli interessi per esempio dei più bisognosi, dei meno abbienti, dei lavoratori salvaguardando nel contempo gli interessi degli industriali; ma per lo Stato rimane prioritario andare comunque incontro a quelle fasce emarginate, quelle fasce marginali che appunto il mercato non può assolutamente soddisfare.
A questo proposito, invece, oggi, superiamo questo tipo di logica e si entra in un contesto assolutamente privatistico; le missioni allora sono dei compiti che vengono a coordinare delle funzioni, che sono funzioni però di uno Stato che si fa parte e non sopra le parti.
A questo proposito, come Centro Studi Cestes, abbiamo coniato già da molto tempo una definizione, che a me sembrava estremamente semplice e facile perché individuava un percorso di trasformazione dello Stato che vedo in questi documenti, cioè il passaggio dal “Welfare State”, cioè lo Stato che doveva fare gli interessi anche dei più deboli e quindi si doveva occupare anche delle politiche di benessere, al “Profit State”, cioè lo Stato che non è più regolatore, non è più sopra le parti, ma diventa la lunga mano della Confindustria, la lunga mano degli interessi del grande capitale, la lunga mano degli interessi finanziari di questo paese e dei grandi gruppi di potere economico-finanziario internazionali.
Quando si comincia a parlare di missioni con potere di vigilanza che rispettino dei criteri di bilancio comparati alla logica di mercato, allora di queste parole ho assolutamente paura, perchè vedo che si è fatta una scelta o si sta facendo una scelta all’interno della pubblica amministrazione, che è quella del profitto.
Se poi guardiamo in maniera più specifica i dati questa tendenza diventa ancora più evidente. Mi sono andato a vedere la ristrutturazione non di tutti i ministeri, non perché non fosse importante, ma in particolare sono andato a vedere la ristrutturazione dei ministeri economici.
La prima cosa che si può individuare è che si parla di riforma dell’amministrazione periferica dello Stato che ha come fine la soppressione di alcune autonomie, il che anche qui significa tagli del costo del lavoro; e poi però c’è questa contraddizione: nel momento in cui si tagliano delle autonomie si vuole dare un peso maggiormente autonomista allo Stato stesso. Permettetemi di dire che non ho capito; cioè l’autonomia significa allargare la democrazia di base, allargare la democrazia partecipativa, invece quello che sembra emergere da questi documenti è una logica accentratrice, una logica “autoritaria”, che passa come logica sociale maggiormente autoritaria sia a fini istituzionali che a fini economici. A fini istituzionali, vedete, per esempio, le campagne referendarie, le raccolte delle firme contro forme di voto più democratico come potrebbe essere il voto proporzionale, la logica della repubblica presidenziale, il voto diretto da parte del cittadino del premier e del Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda la struttura economica anche in questo ambito significa involuzione accentratrice dei poteri; nessuno parla, per esempio, di una regionalizzazione della fiscalità in chiave solidaristica. Voglio dire, preparare una fiscalità a livello regionale mantenendo però un livello di solidarietà tra le regioni più forti economicamente e quelle più deboli; ciò sarebbe una cosa che condividerei in pieno, cioè le regioni hanno una loro autonomia, all’interno di questa autonomia ognuno per una parte concorre con le proprie imposte e i propri tributi alle spese regionali, un’altra parte va ad un fondo di solidarietà per aiutare regioni economicamente deboli in quanto abbiamo una sviluppo assolutamente dicotomico; dal Lazio in giù abbiamo una economia quasi da terzo mondo, è per questo che la fiscalità regionalizzata deve però essere in chiave solidaristica. Invece si parla di autonomia completa da parte delle regioni e questo significa spaccare il paese nettamente in due. Regioni che avranno probabilmente dei servizi abbastanza efficienti ed altre regioni nelle quali chi può, il professionista e notabile del paese che hanno un alto reddito, potrà permettersi forme di assicurazione privata sulla salute, ecc., altri no; realizzando così, un modello di capitalismo anglosassone tipico degli Stati Uniti dove chi può manda il figlio all’università pagando fior di milioni l’anno, chi può si permette un ospedale decente, gli altri muoiono sotto i ponti; perché poi questa è la sintesi, è il darwinismo sociale voluto dal modello anglosassone. -----
Mi mette paura di conseguenza leggere questo grande accentramento dei ministeri economici, guardate anche lo stesso nome, del “ministero del mercato e delle attività produttive”. Penso che anche senza puntare soltanto su un economia pubblica, anche in una logica di economia mista ed accettando la logica anche di mercato e quindi di economia privata, penso che al mercato, proprio perché questo nasce e si sviluppa rispetto all’imprenditoria privata, debbano pensare i privati; non è lo Stato che può fare un ministero del mercato, tutt’al più può disciplinare e regolare socialmente il mercato. Invece qui non si parla di disciplina delle storture del mercato, cioè rendere un mercato, per esempio, più stabile e più sociale, invece si disciplina con un apposito ministero il mercato come divinità e predominio su ogni attività produttiva.
L’altro passaggio sul quale bisogna riflettere e che in questo ministero del mercato e delle attività produttive viene inserita tutta la normativa riguardante la materia delle comunicazioni, che meriterebbero un attenzione invece del tutto particolare e un controllo pubblico, perché si tratta di sono risorse strategiche. Voi sapete, e lo dicevamo all’inizio di questo intervento, che la società del terziario avanzato - si parla ormai di società del quaternario e del quinario addirittura - è basata non più tanto sulle risorse materiali, cioè sui beni materiali, quanto sulle risorse immateriali, sulle risorse intangibili; cioè le nuove risorse del futuro dei prossimi anni, ma già da ora, sono la comunicazione, l’informazione, i dati informativi, il know-how, i brevetti, le conoscenze, cioè tutto ciò che va sotto il nome di “capitale intangibile” o di beni e servizi a carattere immateriale. Il processo di ridefinizione dello Stato, quello che vi dicevo prima e che noi chiamiamo “Profit State”, sta avvenendo su una diversa interpretazione dei processi di accumulazione del capitale: lo Stato vuole controllare le risorse immateriali della comunicazione per favorire l’accumulazione flessibile dell’impresa. Il capitale fino ad oggi si è accumulato sulle risorse tangibili e c’è stata una accumulazione materiale; questa accumulazione materiale oggi è in crisi e la soluzione si trova nelle forme di accumulazione flessibile e finanziaria e con le guerre economiche e militari di espansione e di regolazione fra poli imperialisti. Ci sono crisi di sovrapproduzione e non è un caso che la guerra in Jugoslavia sia una guerra di natura politica ed economica. Lasciamo perdere la fraseologia NATO da “guerra umanitaria”; le guerre umanitarie non esistono, la guerra non è umanitaria, dietro la guerra in Jugoslavia c’è semplicemente un progetto di ridefinizione dei grandi poli imperialistici; vi dicevo prima il polo anglosassone, con il modello di darwinismo sociale americano, poi abbiamo il polo europeo, e oggi gli Stati Uniti temono questo polo perché la sua espansione significa l’affermazione dell’euro, significa l’affermazione di un altro polo imperialista che può togliere sicuramente risorse agli Stati Uniti. La grossa occasione è rendere la Russia mercato non internazionale ma mercato locale, la Russia potrebbe espandersi verso tutti quelli che erano i paesi dell’ex blocco socialista; cioè l’entrata prepotente della NATO in Jugoslavia significa “quelli sono mercati nostri, non sono mercati disponibili per nessuno”. Si ha paura del potenziale russo dopo avere distrutto il mercato delle “tigri asiatiche” con la finanziarizzazione dell’economia, aver dato una bella botta anche al Giappone; questa guerra significa una minaccia per la Russia, un’avvertimento al cosiddetto polo euro-asiatico: non deve esistere una configurazione economica con grossi interessi fra Cina, Russia e India, perché, tali aree nel loro complesso, significano due miliardi e mezzo, tre miliardi di persone, e questo è l’altro polo che si affaccia, e che può mettere in discussione il dominio USA. Nell’area dei Balcani c’è il problema dei metanodotti, dei gasdotti, delle risorse quindi di prima necessità, delle materie prime che andranno a sostituire il petrolio, ci sono le risorse di tutta l’area del Caspio e tutta l’area del Caucaso. Significa, e ritorniamo a noi, anche controllare il costo del lavoro. Se voi leggete qualsiasi documento ufficiale dell’OCSE, dell’ISTAT, della Banca d’Italia, vi accorgete che gli investimenti che non vengono fatti in Italia, il taglio degli investimenti che c’è in Italia invece non c’è all’estero; cioè gli imprenditori italiani hanno investito fortemente in centro-Europa, hanno investito fortemente nei mercati orientali, hanno investito nei Balcani e lo sapete perché? Perché si investe lì, per esempio, e non in Africa? Perché in Africa è vero che c’è un costo del lavoro basso, ma il lavoratore è poco specializzato, invece in quelle aree, in Jugoslavia, per esempio, in Romania, in Ungheria si trova costo del lavoro basso ad alta specializzazione e quindi, oltre le risorse e le materie prime, è lì che bisogna effettuare la delocalizzazione produttiva, con tutti i processi di esternalizzazione produttiva .
Ma oltre agli investimenti privati è anche, come abbiamo detto precedentemente, l’economia pubblica che cala. A fronte degli investimenti pubblici che calano, a fronte di forti tagli allo Stato sociale l’unica parte di economia pubblica che regge è quella in investimenti militari, è quella della difesa.
Come struttura di bilancio pubblico, le uniche voci che aumentano, a fronte di grossissimi tagli nella spesa sociale, sono quelle militari, quelle della difesa. E’ per un assurdo, e per un inciso anche allo stesso tempo, vi dico che mentre l’Europa in questi ultimi due anni era occupata semplicemente a rendere possibili e stabili i parametri di Maastricht, avevamo invece l’economia pubblica americana che tirava con l’economia di guerra; e ora l’Europa si è uniformata.
Il conto delle spese e delle entrate del nostro Paese, sia per quanto riguarda la parte corrente sia per quanto riguarda la parte in conto capitale, trova un incremento altissimo delle entrate. Per cui la fiscalità generale, la tassazione sui lavoratori continua ad aumentare fortemente; invece il taglio delle spese avviene in voci fondamentali: le competenze ai dipendenti e ai pensionati, con un taglio grosso tra il 1993 e il 1997; acquisto di beni e servizi: basta entrare in pronto soccorso di un ospedale, a volte hanno difficoltà anche per avere a disposizione immediata la siringa oppure un vaccino antitetanico. Eccoli i tagli dove sono: quelli ai dipendenti li vivete direttamente, quelli ai pensionati basta guardare le pensioni oggi a che livello di miseria sono ridotte; l’altro taglio è sui trasferimenti, sotto la voce dei trasferimenti nel bilancio dello Stato va tutto quello che chiamano “Welfare State”, cioè formazione, lavoro, assistenza, previdenza e via discorrendo.
Per esempio. Le competenze a dipendenti e pensionati dal 1993 al 1997 passano da 118.000 miliardi a soli 120.000 miliardi, in pratica in cinque anni c’è l’aumento solo di 2.000 miliardi di competenze a dipendenti e pensionati; inoltre i piccoli aumenti di stipendio che ognuno di noi ha avuto vengono colmati dal taglio sul turn-over, dall’aumento dei ritmi e dei turni, dalla mancanza di assunzioni.
La spesa militare, invece, passa da 8.000 miliardi del 1993 a circa 10.000 miliardi del 1997, lo stesso incremento di 2.000 miliardi, però in un caso passiamo da 118 a 120 nell’altro caso da otto a 10, e le proporzioni sono ben diverse.
Altri incrementi sono per spese delle forze di polizia in genere che passano da 14.000 miliardi a 23.000 miliardi; il personale in quiescenza passa da una spesa di 30.000 miliardi ad una spesa, badate bene, di 3.000 miliardi, cioè il personale in quiescenza dello Stato ha una riduzione di 27.000 miliardi, cioè da 30.000 a 3.630.
Anche per quanto riguarda il piano dei trasferimenti al settore privato si sono avuti pesanti tagli, e state bene attenti quando si dice settore privato nella pubblica amministrazione non si intendono le imprese, si intendono le imprese e le famiglie quindi anche i trasferimenti che ha ognuno di noi come cittadino; penso che le esigenze del settore privato e delle famiglie dal ’93 al ’97 siano aumentate, invece le spese passano da 32.000 miliardi a 19.000 miliardi, quindi un taglio netto di 13.000 miliardi sui trasferimenti correnti alle famiglie. In particolare, gli interventi assistenziali sui dipendenti pubblici passano da 15.000 miliardi a 5.000 miliardi, quindi un taglio netto di 10.000 miliardi. Per quanto riguarda il settore pubblico, quindi i contributi agli enti pubblici erogati dallo Stato, si passa dal ’93 con 102.000 miliardi a 89.000 miliardi, per cui abbiamo un taglio di 13.000 miliardi da questo punto di vista.
Due percentuali, e con questo finisco questa parte: la difesa nazionale: vi fornisco l’ultimo dato disponibile, le spese per la difesa nazionale tra il ’95 e il ’96 aumentano dell’11%, le spese per la giustizia aumentano del 32%, le spese per la sicurezza pubblica aumentano del 20%; invece, ad esempio, gli interventi per le abitazioni diminuiscono del 22%.
Quindi vedete che aumenta la spesa per il settore militare, di difesa o comunque legato alla giustizia, diminuiscono le spese per le abitazioni, diminuiscono le azioni in campo economico, diminuiscono del 13% gli interventi a favore delle regioni, della finanza regionale locale. Mi pare che questo sia in assoluta contraddizione con quanto invece ci viene detto da queste relazioni e da queste bozze di decreto che stanno sviluppandosi in questi giorni.
Qual è la considerazione finale? In effetti, se confrontiamo i dati che vi ho fornito in maniera velocissima con quelle che sono le linee di intervento che si propone questa riforma della pubblica amministrazione, notiamo che l’unico modo per raggiungere l’efficienza e quello di arrivare ad una veloce privatizzazione di interi comparti e di interi settori dell’amministrazione pubblica e di tagliare il costo del lavoro e diminuire l’occupazione nel pubblico impiego.
Ciò passa sia per il taglio del Welfare State, e quindi scuola, sanità, formazione, lavoro, passaggio ai fondi pensioni, quindi obbligo di tagli pensionistici e ricorso ai fondi privati, e con la mancanza assoluta di compatibilità delle politiche keynesiane.
Fino a qualche anno fa nel nostro paese erano compatibili le politiche keynesiane, e ciò significava, quindi, profitto ma parallelamente sviluppo; oggi lo sviluppo non è più possibile, non è più compatibile perché non è bastato raggiungere i parametri di Maastricht, ma ora "le lacrime e il sangue" dovranno continuare per mantenere quella sorta di parametrizzazione finanziaria a danno della spesa sociale e degli investimenti pubblici.
Questa bozza di decreto per la riforma dell’organizzazione del governo usa come criterio di privatizzazione selvaggia non soltanto quello del taglio diretto del costo del lavoro e quindi il blocco delle assunzioni, ma anche il taglio indiretto, Taglio indiretto significa ricorso alle agenzie private, delocalizzazione produttiva anche per quanto riguarda i servizi pubblici; una parte dei beni necessari per i servizi pubblici dovranno, cioè, essere prodotti all’estero, significa che ci sarà una riduzione del personale e del costo complessivo del lavoro e quindi dei contributi versati per la sanità e per le pensioni.
In questi giorni su tutti i giornali ci sono titoli enormi, sollecitazioni dal Fondo Monetario Internazionale: se la guerra continua, bisogna rimettere mano alla finanziaria, al bilancio pubblico, subito taglio delle pensioni. Guardate che parallelismo tra guerra, ristrutturazione dello Stato, riforma dei bilanci dello Stato e poi tagli alla spesa sociale.
Quali sono le proposte? Noi abbiamo elaborato come Centro Studi Cestes-Proteo delle proposte sia per quanto riguarda l’assunzione nella pubblica amministrazione dei lavoratori socialmente utili; abbiamo individuato addirittura 180.000 tagli diretti di occupati e abbiamo detto che semplicemente assumendo i lavoratori socialmente utili, che mi pare siano 130.000, si ritornerebbe al livello occupazionale della pubblica amministrazione del 1992, e si incrementerebbe ulteriormente l’occupazione. Ma per ritornare al 1992 bisogna regolarizzare la vergogna del nostro paese data dalla ufficializzazione del precariato, lo Stato che istituzionalizza il precariato. Una volta lo Stato perseguiva coloro che facevano lavoro nero o coloro che davano lavoro nero e lavoro precario, oggi lo istituzionalizza.
L’altra proposta che portiamo avanti come Centro Studi insieme ad altre strutture e ad altri centri studi è il riconoscimento di un reddito per i disoccupati. Parliamo di Reddito Sociale Minimo che non è il reddito universale di cittadinanza. Noi diciamo che in un paese in cui non si riesca a garantire l’occupazione bisogna da subito garantire il reddito ai più bisognosi. Il primo livello è quello ovviamente di costruire possibilità di occupazione, da questo punto di vista siamo assolutamente lavoristi, non siamo per la società dell’ozio perché è attraverso il lavoro che la gente si organizza e prende coscienza del proprio vivere insieme; ma fintanto che non si può garantire lavoro, per evitare le forme di precariato, la gente che lavora a 5-600 o 800mila lire al mese, noi chiediamo che venga istituzionalizzato un Reddito Sociale Minimo con un milione al mese ai disoccupati, ai precari, a coloro che perdono il lavoro e con il riconoscimento di servizi pubblici gratuiti per i disoccupati, per i precari e per coloro che hanno un basso livello di reddito.
Molti ci hanno detto, ma queste vostre proposte sono d’impostazione keynesiana; bene, guardate oggi ben torni un modello keynesiano, cioè noi siamo per il ritorno ad uno Stato interventista, ad uno Stato occupatore, uno Stato che non tagli teste ma che crei occupazione, per poi riproporre un terreno di intervento politico, sociale ed economico, che non sia solo di resistenza e di difesa ma capace di rilanciare un’offensiva del mondo del lavoro attraverso una riverticalizzazione del conflitto capitale-lavoro.
[1] Ci scusiamo per la forma che non é quella dei calassici interventi scritti in quanto si tratta di uno sbobinamento effettuato direttamente da un discorsotenuto dal Prof. L. Vasapollo.