Scienza economica senza idee?

VALERIO RAPPUOLI

Ancora sul problema della “trasformazione” in Marx

1. Quali “idee” economiche

Andrea Micocci nel suo articolo intitolato “La presunta varietà delle idee economiche”, nell’ultimo numero della rivista “Proteo” (2005/1) scrive: “Per Smith, come Ricardo e poi per Marx, il lavoro è la fonte del valore: intuitivamente ciò appare giusto, ma siamo ancora in attesa di una dimostrazione.”

Questa conclusione ha però dello stupefacente. In primo luogo perché sembra uscire dalla penna di un invidioso parruccone akkademico (ruolo in cui si appiattiscono economisti “della cattedra” anche sedicenti “progressisti” e “di sinistra”) nel mentre Micocci spara ad “alzo zero” non solo contro questi ultimi ma contro l’intero edificio della “scienza economica”. In secondo luogo perché Micocci è un profondo conoscitore sia della letteratura economica “ufficiale” e falsamente “non ufficiale” che di quella irriducibile ad ogni ortodossia in qualche modo codificata. Più in particolare Micocci si è conquistato nel tempo il ruolo di qualificato cultore della vasta opera scientifica di Vittorangelo Orati che accoppia alla sua solida reputazione di studioso a livello internazionale quella del più “rivoluzionario” critico della teoria economica tout court, a cui propone soluzioni ai suoi più rilevanti e da sempre irrisolti punti di crisi. A meno che Micocci non voglia limitare i propri apprezzamenti ad Orati là dove pubblica in lingua inglese (cosa che escluderei), resta un mistero il fatto che sul problema dei problemi della “scienza triste” (dismal science), cioè quello del “valore”, che nella tradizione classico-marxiana ha preso le sembianze del “problema della trasformazione dei valori in prezzi”1, abbia taciuto addirittura più di quanto persino in Italia testimoniano “schizzi adrenalinici di verità”, poi seguiti da un fragoroso silenzio. Tant’è che ormai appare fondato il giudizio di Valerio Evangelisti che a proposito del “problema della trasformazione” afferma: “Come ho già accennato, sono stati spesi fiumi d’inchiostro per trovare una via d’uscita soddisfacente al “problema della trasformazione”, che rimediasse alla svista di Marx e, al tempo stesso, salvasse l’essenziale della teoria dello sfruttamento. Solo in un caso l’operazione ha avuto successo, nella soluzione rigorosissima ed eterodossa proposta dall’economista italiano V. Orati, rimasta purtroppo misconosciuta”. 2 Orati infatti già nel 1984 dava luogo a una soluzione di tale secolare problema con Produzione di merci a mezzo lavoro3 formulando la teoria del “valore-opportunità” che Micocci non può non conoscere avendo segnalato il libro nel suo articolo-recensione, A. Micocci, A Theory of Economic Theory4. E tale libro non ha visto la luce in un clima di clandestinità scientifica, in quanto: 1 - una recensione di Produzione di merci a mezzo lavoro, che assume toni quasi da scoop, è apparsa nella “Rivista Internazionale di Scienze Economiche e Commerciali”5; 2 - Orati ha inoltre avuto modo di notificare il valore della sua ricerca, a partire dal seminale Produzione di merci a mezzo lavoro, a buona parte del Gotha della scienza economica italiana partecipando a un dibattito su “Il Ponte”, dibattito sfociato poi in un libro a cura di P. Sylos Labini6; 3 - Orati ha persino polemizzato con Samuelson7 fondando i suoi argomenti sugli esiti della sua ricerca e principalmente su quelli conseguenti alla sua soluzione del problema della “trasformazione dei valori in prezzi”, problema sulla cui centralità si dirà di qui a poco. Escludendo il sospetto di condiviso conformismo censorio, resta da valutare se Micocci nel suo impeto veementemente critico non ritenga vana la posizione di Orati, che permetterebbe di salvare l’“anima” alla scienza economica, ancorché nella sua versione sovversiva contro cui si erige, in un raro esempio di ottusità e indifferenza, l’akkademia italiana (quella sì, e non solo essa, senza idee). Infatti tale impeto sembra travolgere anche la Critica della Economia Politica attaccando la “DIALETTICA” e la relativa degenerazione cui sarebbe stata sottoposta l’eredità scientifica di Marx ad opera dei molti “marxismi”. In tal senso questi sembra far proprie le posizioni di Della Volpe e dell’ultimo Colletti (quello beninteso morto senatore berlusconiano), i quali rimproverano al “marxismo dialettico” di essere inconciliabile con il principio cardine della logica: “il principio di (non) contraddizione”, senza il quale non si può fare scienza. Tale principio è compatibile con le “opposizioni reali” (il brutto e il bello, il negativo e il positivo, acido e basico, caldo e freddo ecc.) ma non ammette le “contraddizioni dialettiche” che si traducono nella possibilità per uno stesso “ente” di assumere contemporaneamente il predicato A e non-A (ad esempio acido e basico). Secondo la linea interpretativa Della Volpe-Colletti-Micocci, la “contrapposizione dialettica” nel suo dispiegarsi filogenetico (storico) conserverebbe lo stigma della contraddizione; contraddizione che nel caso del capitalismo consisterebbe nella violenza e nello sfruttamento che la sottende. Ciò incatenerebbe il marxismo come “filosofia della prassi”, non permettendogli di portare a compimento l’autentica Rivoluzione, consistente proprio nella eliminazione/cancellazione di tale contraddizione. Per dirla con Marx “scienziato” e quindi anti-dialettico (secondo Della Volpe, Colletti, Micocci), con la “dialettica” sarebbe impossibile il passaggio dal “regno della necessità” a quello della “libertà” ovvero dalla storia (minuscolo) alla Storia (maiuscolo). Ma una tale assimilazione al “materialismo dialettico” dell’opera di Orati è ingiustificata. Infatti questi nel libro “svolta” del 1984 si libera, tra l’altro, della “dialettica” e con essa del falso dibattito incentrato sul rapporto “dialettica-scienza” confuso con il rapporto “filosofia-scienza”, insieme alla cattiva maschera scientifica con la quale Colletti si è presentato da vero filosofo e vero scienziato. E ciò nel quadro complessivo della soluzione offerta da Orati al “problema della trasformazione”, la cui centralità è indubbia come riconosce implicitamente lo stesso Micocci nella frase riportata all’inizio di questo scritto. “Problema” che non ha in sé e per sé alcuna contiguità se non letterario-metaforica con la “dialettica”, come dimostra Orati8. In altri termini, la “dialettica” sarebbe un semplice espediente retorico che nulla aggiunge e nulla toglie alla profondità dei risultati dell’analisi marxiana. Per tutto quanto abbiamo finora detto ci sembra di poter avanzare il giudizio che quello di Micocci rappresenti un caso particolare di “dissonanza cognitiva” à la Festinger9. Adesso, e senza salti logici sul piano argomentativo, entriamo nel merito di quanto è sfuggito a Micocci nella sua “dissonanza cognitiva”. Appare a questo punto opportuno accennare seppur brevemente alla soluzione più volte richiamata del “problema della trasformazione” dopo alcune opportune premesse. Di soluzioni più o meno ad hoc ne sono state fornite più d’una, tutte però risultate completamente insoddisfacenti. Motivo fondamentale di tale giudizio è la sottovalutazione del fatto che esse erano ampiamente alla portata di mano di Marx che le ha evidentemente respinte per la loro artificiosità e/o banalità10. Tra queste, la meno impresentabile è la cosiddetta soluzione “iterativa”, di cui Orati si libera facilmente11 come anche delle altre. Tutte queste “soluzioni” sono viziate da un problema che risulta ineliminabile: il tranello di trasformare “valori iniziali” in “prezzi finali”. Se non si vuole realmente cadere nella fallacia del regressus ad infinitum bisogna “sin dall’inizio” trattare o con valori o con prezzi sempre in coerenza alle condizioni di equilibrio (che ricordiamo consistono nell’eguaglianza reciproca della domanda e dell’offerta dei due settori e nella presenza di unico tasso di profitto) al di fuori dei quali tutto (e quindi niente) è possibile dire (“legge di Duns Scoto” più volte richiamata da Orati sul piano epistemologico). In altri termini la questione non è tanto quella di partire con delle grandezze (valori) e poi finire per risolvere un banale sistema di equazioni, vincolato agli equilibri richiamati, facendo soccorrere il tutto dall’intervento della distribuzione, vero incesto metodologico in termini marxiana; il problema va risolto a livello della sola produzione. Un esempio di questo fuorviante modo di procedere è contenuto nell’articolo di G. Carchedi su Proteo12. Qui l’autore inizia il suo articolo predisponendo un sistema economico a due settori che non rispetta la condizione di equilibrio intersettoriale (infatti C2 ≠ V1 + S1 in quanto 60 ≠ 20 + 20), poi continua negando l’esistenza del problema della trasformazione con la costruzione di un altro sistema ad hoc ottenuto aritmeticamente attraverso la perequazione del saggio di profitto senza spiegare economicamente il mutamento delle variabili in gioco, ritenendo sufficiente “ipotizzare che il settore 1 investe 73.3c e 26.7v”. Ma da dove saltano fuori questi numeri? Giocando con la matematica è possibile trovare altri sistemi che soddisfino gli stessi vincoli posti dall’autore, essendo sufficiente esplicitare tali vincoli attraverso un sistema di equazioni, ma ciò non è ne una dimostrazione generale ne tanto meno economica. Affermare che Marx e gli studiosi successivi si siano arenati davanti a un banale sistema di equazioni mi sembra eccessivo! Possiamo qui di seguito esercitarci a trovare altri valori che soddisfino altrettanto bene i vincoli che si vogliono imporre, ma saremmo sicuri di aver così, con un colpo di spugna o un pugno di numeri, cancellato il “problema della trasformazione”? Esemplifichiamo ricorrendo a un sistema non troppo complesso (il significato delle variabili è il medesimo che esplicitiamo nelle tabb. A e B più oltre. Utilizzando i valori di C2 = 60 e V2 = 40 assunti da Carchedi ed imponendo la condizione che il nostro sistema produca sia nel settore 1 che nel settore 2 il medesimo valore finale, per esempio 150, impostiamo il sistema di equazioni imponendo altresì le condizioni fondamentali di equilibrio (quello intersettoriale C2 = V1 + S1 e quello di un medesimo saggio di profitto nei due settori S1/(C1+V1) = S2/(C2+V2) e per non appesantire ulteriormente il sistema ipotizziamo anche S1 = S2 = S. Facendo le dovute sostituzioni numeriche otterremo il sistema di 4 equazioni e di tre variabili/incognite. Tenendo conto che le equazioni 1 e 2 ne costituiscono di fatto una sola (eguagliando i rispettivi termini a sinistra del segno eguale) il numero delle equazioni e delle variabili/incognite si pareggiano.

1) C1 + V1 + S = 150 2) 60 + 40 + S = 150 3) 60 = V1 + S 4) S/(C1+V1) = S/(60 + 40)

da cui si ricavano le seguenti soluzioni: C1 = 90, V1= 10, S1 = S2 = S = 50 e quindi il seguente sistema: dove si rispettano tutte le condizioni in base a semplici manipolazioni, senza una teoria sottostante. È da notare che così operando abbiamo evitato, a differenza di quanto avviene in G. Carchedi, ogni perequazione su un sistema iniziale di valori poi trasformati in prezzi. Il che permette di evitare il circolo vizioso della fallacia del regressus ad infinitum che malgrado le intenzioni dell’autore inficia la sua argomentazione, visto che i valori da cui parte nella terza e conclusiva argomentazione non sono in equilibrio (quello intersettoriale): le grandezze iniziali che cosa sono dunque, valori o prezzi? In ogni caso se i valori iniziali non soddisfano i requisiti richiesti di generalità del modello ed essi vanno cambiati, occorre una teoria per farlo e non limitarsi a sostituire numeri con altri per costringere il sistema a rispondere a esigenze di mera congruenza aritmetica. Ciò detto passiamo alla “teoria del valore opportunità” che per ragioni di spazio ci costringerà necessariamente a rinviare al testo di Orati per una più estesa e quindi chiara trattazione della soluzione del “problema della trasformazione”, che come si vedrà esige una ricostruzione epistemologica (cioè dei principi e del metodo di impostazione) dell’intera questione, rivedendo lo stesso Marx (in scivolata positivistica sull’argomento) con il Marx teorico del materialismo storico (non dunque del materialismo dialettico). A questo proposito è opportuno evidenziare come la scienza economica nella sua veste “ufficiale” abbia sempre avuto come essenziale preoccupazione di tagliare i ponti con la filosofia per evitare che quest’ultima la contaminasse con “giudizi di valore”, rendendola non “obiettiva”. Orati dimostra invece che stando proprio alla definizione della scienza economica, come scienza “pura” o “positiva” (che si vuole cioè svicolata da qualsiasi visione o interpretazione del mondo comportanti “giudizi di valore”) contenuta nel Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica13 di Lionel Robbins, le scelte economiche coinvolgono necessariamente una dimensione filosofica. “Con il termine “prova epistemologica di Robbins”, l’autore designa [infatti] un celebre argomento con il quale Lionel Robbins (1932) criticava le definizioni classificatorie della disciplina economica e poneva le basi della definizione analitica da lui stesso proposta e da allora divenuta punto di riferimento praticamente universale.”14 Tale “prova” escludeva, lasciandolo aperto, il problema della scelta tra economico e non economico concentrandosi solo sul primo (aspetto materiale). La reinterpretazione che ne deriva consiste quindi nel cogliere la circostanza per cui la scelta economica implica una scelta filosofica ineliminabile in quanto fra l’economico (tempo di lavoro) e il non economico (tempo di non lavoro) si esaurisce il tempo della vita (Lebenswelt) e quindi quella scelta implica un giudizio di valore di natura ineluttabilmente filosofica. Quindi l’autonomia “positiva” (positivistica) della dimensione economica è illusoria. Vedremo come questo avrà effetti concreti sulla soluzione del “problema della trasformazione”, inverando il monito di Arturo Labriola secondo cui: “Marx economista era ancora Marx filosofo. Studiato dai puri economisti, il suo sistema doveva essere fatalmente frainteso. Il mio studio serve appunto a provare che l’economia verrà a capo della parte economica del marxismo, solo quando la studierà con spirito filosofico”15.

2. Esposizione del problema della “trasformazione” Ricapitoliamo velocemente i termini del “problema della trasformazione”. Marx, nel III libro del Capitale (rimasto incompiuto insieme al libro II) abbassando il grado di astrazione sin lì adottato, passa da uno schema di riproduzione del processo capitalistico ove si ipotizzano identiche tecniche produttive per merci diverse (la forzatura è evidente, il fatto che con una medesima “ricetta produttiva” si possano ottenere merci diverse costituisce una “licenza scientifica”, che va rimossa appena si voglia rappresentare con rigore un mondo con più di una merce), ad uno schema di riproduzione più generale dove le tecniche sono diverse nei due settori fondamentali (il settore I dove si producono beni di investimento e il settore II dove si producono beni di consumo). A questo punto Marx si trova davanti ad una difficoltà: il saggio del profitto non è uniforme in tutto il sistema. La situazione è rappresentata in tabella A. Dove: C = valore del capitale costante che si trasferisce attraverso la sua progressiva usura tale e quale alla merce finale durante il processo produttivo; V = valore del capitale variabile, cioè valore del salario di sussistenza dei lavoratori; S = plusvalore; W = valore della merce al termine del processo di produzione-valorizzazione; s’ = saggio di sfruttamento ottenuto dal rapporto S/V; p = saggio del profitto dato dal rapporto S/(C+V); q = composizione organica del capitale individuata dal rapporto C/V o C/(C + V) parametro attraverso il quale si misura lo stato delle tecniche o ricette produttive ovvero il livello o grado di automazione; R = “prezzi relativi” ovvero il rapporto tra il valore delle merci e quello dei beni di consumo presi come numerario (unità di misura); 1,75 e 1 sono ottenuti dividendo rispettivamente il valore dei beni di investimento (7) e dei beni di consumo (4) per l’unità prescelta, cioè il valore dei beni di consumo (4).

L’equilibrio tra i settori è assicurato dalla condizione di uguaglianza tra offerta e domanda reciproca da cui si ricava l’equazione C(II) = V(I) + S(I)16 quindi 2 = 1 + 1. Facendo dei semplici calcoli matematici17 si comprende immediatamente come a diverse composizione organiche del capitale (C/(C+V)) - che misurano lo stato delle tecniche produttive nei singoli settori (incidenza del capitale costante sul capitale totale) o se si vuole il livello o grado di automazione, o nel suo valore medio (riferendosi cioè all’aggregato) lo stato della tecnologia dell’intero sistema - e a parità del saggio di plusvalore, il saggio del profitto non può che essere diverso nei due settori. Appurato ciò, Marx cerca di porre rimedio, ridistribuendo i valori in modo da ottenere un uniforme saggio del profitto (la media generale del sistema aggregando le variabili: 2/9). La distribuzione così ottenuta dà però luogo a un mutamento del valore delle merci, il cui risultato sono dei “prezzi” che non hanno relazione con i valori iniziali, facendo inoltre venir meno l’equilibrio intersettoriale (2 < 1 + 1).18 Sfuma così (vedi tabella B) la relazione essenziale che deve esistere tra le grandezze in termini di valore-lavoro onde poter univocamente stabilire origine ed entità dello sfruttamento (le grandezze che eccedono i valori-lavoro a cosa attribuirle?). In ciò consiste in breve la irrinunciabile centralità del “problema della trasformazione dei valori in prezzi”: fondamentalmente perché, con esso irrisolto viene meno la univoca derivabilità dello sfruttamento come valore del lavoro “non pagato”, cioè la quintessenza del paradigma economico marxiano. E non solo di quello se a Marx ripugnava qualunque teoria di mutamento sociale non fondato sulla scienza (nel caso economica). In tal senso nella sua conseguente polemica con i “socialisti utopisti” Marx avrebbe del tutto coerentemente potuto fregiarli del titolo di “filosofi della rivoluzione”. Definizione riduttiva e spregiativa quest’ultima che mai, quindi, avrebbe potuto accettare per sé, se non ammettendo il fallimento dell’intera sua opera di pensatore.

3. Una soluzione “storica”

Il titolo del lavoro di Orati, Produzione di merci a mezzo lavoro, è un evidente richiamo polemico all’opera che Piero Sraffa concepì a Cambridge e pubblicò nel 1960 con il titolo Produzione di merci a mezzo di merci19 e a seguito della quale si è sviluppato, specialmente in Italia, un dibattito che si è protratto fino agli anni Settanta, sancendo a livello “ufficiale”, sebbene con alcuni distinguo, il fallimento della teoria del valore-lavoro classico-marxiana a favore della “rigorosa soluzione” sraffiana. I punti dell’opera di Sraffa che vengono presi in esame sono due: a) dove si afferma che la simultanea determinazione dei prezzi e del saggio di profitto consente di verificare che qualsiasi altra misura diversa dal valore-lavoro può essere utilizzata (cosiddetto Rasoio di Occam applicato alla teoria del valore-lavoro); b) dove si afferma che per determinare i prezzi delle merci è necessario tener conto oltre che delle quantità di lavoro erogate nel presente, anche di quelle erogate in periodi passati. Quindi accanto al lavoro vi sarebbero altri fattori (tempo) che spiegherebbero la formazione dei prezzi. Il giudizio di fallimento della teoria del valore-lavoro, emesso in quegli anni, si basa sulla convinzione dell’inconciliabilità tra i concetti dialettico-filosofici, quali in particolare quello di alienazione, e la parte quantitativa, matematica presente negli schemi di riproduzione marxiani, questi ultimi chiamati a rispondere al “principio di (non) contraddizione” e per ciò non conciliabili con i primi. Ciò in quanto le grandezze presenti in tali schemi risultano fondati sul concetto di “lavoro alienato” da cui discende il concetto di “lavoro astratto” e quindi quello di “sfruttamento,” che individua la differenza in termini di valore lavoro (astratto) tra tempo di lavoro erogato e quella sua frazione che costituisce il salario (in termini di tempo di lavoro astratto contenuto nelle merci salario). Sfruttamento che è dunque possibile perché il lavoro del produttore immediato (il lavoratore salariato) è “alienato” (categoria “filosofica”) cioè non gli appartiene, insieme ai suoi frutti, sia nelle sue modalità qualitative che quantitative. Sorgono così due diverse ma convergenti interpretazioni del pensiero di Marx. Una prima, di cui Althusser è stato il principale sostenitore, riscontra una coupure (rottura) epistemologica tra il Marx “filosofo” e il Marx “scienziato” rispettivamente coincidente con un Marx “giovane” e uno “maturo”. L’altra di cui si fanno interpreti gli economisti più sensibili alla centralità del concetto di alienazione in economia, tra i quali l’indimenticato Claudio Napoleoni, riconoscono una forte interconnessione tra gli aspetti quantitativi (scientifici) e gli aspetti qualitativi (filosofici), in quanto questi ultimi definiscono le condizioni storico-sociali all’interno delle quali i primi si iscrivono. Il problema della “trasformazione dei valori in prezzi” scaturirebbe proprio da questo ineliminabile contagio che genererebbe una idiosincrasia tra le categorie filosofiche e gli aspetti quantitativi, a danno della congruenza di questi ultimi. Orati, come già abbiamo avuto modo di accennare più sopra, ribalta tale giudizio riconsiderando le categorie filosofiche marxiane, in primo luogo l’alienazione, come chiavi per dischiudere le porte alla soluzione. Per fare ciò bisogna rileggere gli schemi marxiani “marxianamente”, vale a dire in termini storico-relativi20. Questo modo di procedere evidenzia immediatamente la distanza che separa Marx da Sraffa. I due si muovono su differenti livelli d’analisi. Basta richiamare alla mente gli schemi sraffiani per rendersi conto che non hanno nessuna collocazione temporale, sono completamente fuori dalla storia, ma non solo. Nell’opera di Sraffa la teoria del valore-lavoro, privata di significatività scientifica, non viene sostituita da nessuna alternativa teoria del valore. La “misura invariabile dei valori” si limita a registrare l’aumento fisico delle merci in un intervallo di tempo “neutrale” (meramente cronologico e quindi astorico ovvero storicamente muto), senza spiegare quale sia l’origine del sovrappiù che si ipotizza come dato, cosicché “respingere la teoria del valore lavoro tramite Sraffa vuol dire fare giustizia scientifica grazie ad un dogma”.21 Vi è da aggiungere che sul piano prettamente analitico il sistema di Sraffa non “regge”, in quanto i prezzi non soddisfano le condizioni di equilibrio che consentono la riproduzione, ancorché a livello statico-stazionario, del sistema stesso. Inoltre quando si passa da una economia statica ad una dinamica, la “misura invariabile dei valori” cessa di avere significato. Infatti affinché questa possa servire da unità di misura è necessario che i beni di cui è “costituita” siano sempre i medesimi che definiscono il sistema e per di più nelle medesime proporzioni. Ciò significa che se venisse introdotta una innovazione o venisse prodotto un nuovo bene (cosa che caratterizza per definizione una economia capitalistica!) in assenza di una teoria del valore e seguendo Sraffa, non saremmo più in grado di rapportare gli output ottenuti agli input nel tempo, cioè non potremmo determinare la misura della “crescita” ovvero della quintessenza capitalistica.22 Una volta sgomberato il campo dalla possibilità di criticare Marx con Sraffa, la soluzione viene incentrata sulla “prova di Robbins” nel modo seguente. La società capitalistica dispiegata viene confrontata con la società mercantile semplice, suo antecedente storico-economico. In questa società, a differenza di quella capitalistica, i lavoratori non essendo alienati dal possesso delle condizioni sociali di produzione e/o dal possesso del frutto del proprio lavoro possono decidere, ammesso un livello di produttività e di produzione che consenta di passare dall’autoconsumo allo scambio e alla conseguente divisione del lavoro, di allocare liberamente il proprio tempo tra lavoro e non lavoro (tempo libero). I settori I e II delle tabb. A e B possono essere visti come “città” e “campagna” precapitalistici, in cui lo scambio in equilibrio deve tener conto delle diverse produttività ovvero delle diverse condizioni tecniche che caratterizzano i due settori. Così se nella stessa unità di tempo e se la “città” grazie alla sua maggiore dotazione di capitale costante (macchine, attrezzi, immobili etc.) produce un valore doppio della “campagna”, per aversi equilibrio nello scambio, il tempo di lavoro deve essere dimezzato in “città” o raddoppiato in “campagna”. Una volta che il capitalismo si è incuneato storicamente all’interno del modo di produzione mercantile semplice e quindi delle condizioni tecniche suddette, sappiamo che ha imposto un’unica e fissata lunghezza della giornata lavorativa in tutti i settori. Ferme rimanendo le tecniche produttive, in questa prima fase del capitalismo, dove il plusvalore si concretizzerà sotto forma di plusvalore assoluto (aumento del tempo di lavoro e/o diminuzione del salario) il precedente equilibrio (precapitalistico) verrà meno. Una volta che la giornata lavorativa sia fissata e i capitalisti si approprino del medesimo numero di ore di lavoro nei due settori si capisce immediatamente come il grado di sfruttamento risulterà diverso tra i due settori tenuto conto della condizione di equilibrio storicamente precedente. Infatti l’alienazione dalle condizione oggettive di produzione include, ricordiamolo, anche la perdita della “libertà” che il lavoratore aveva fin li avuto di decidere su come spendere il proprio tempo tra lavoro e riposo. Il confronto tra il modo di produzione capitalistico e il modo di produzione mercantile semplice argomentato storicamente tende a evidenziare come la tab. A (o tabelle simili) su cui si è imbastita da sempre la querelle sulla “trasformazione” sia erronea alla radice, implicando proprio il rifiuto del metodo storico: il capitalismo non nasce tutto e contemporaneamente sostituendo il modo di produzione precedente ma si insinua in quest’ultimo di cui conserva lo stato delle tecniche produttive con la sola novità di un eguale durata della giornata lavorativa in tutto il sistema. Pertanto nella tabella A (o equivalenti) la presenza del valore S=1 in entrambe i settori, nasconde ciò che dovrebbe essere disvelato: il diverso grado di sfruttamento che è sotteso alla diversità dei rapporti capitale/lavoro nei due settori una volta che il capitalismo si inscrive tra le pieghe del modo di produzione mercantile semplice, e che finalmente quest’approccio fa emergere chiaramente. In tal senso il plusvalore nel settore I non è solo determinato dall’eccesso del tempo di lavoro su quello “necessario” ma da questo più il tempo di non lavoro precedentemente goduto (specificamente nel settore I che per ipotesi è relativamente più dotato di capitale rispetto al lavoro). Una volta che il capitale non venga interpretato come “cosa” ma come rapporto storico di produzione, rappresentante lavoro passato immobilizzato, e una volta che l’alienazione possa, grazie a questa operazione, portare alla quantificazione dello sfruttamento anche come tempo di lavoro altrimenti goduto, cioè come tempo di “non lavoro”, si comprende come in un sistema a due settori, quindi dove siano presenti due diverse composizioni organiche del capitale (rapporto tra capitale e lavoro) economicamente in equilibrio (cioè con un unico saggio di profitto), il saggio di sfruttamento sia necessariamente diverso. Ciò significa mettere in luce che è frutto di un errore “metodologico” pensare che l’effetto di diverse composizioni organiche del capitale sui lavoratori dei diversi settori, con eguale salario ed eguale tempo di lavoro, sia quello di un medesimo grado di sfruttamento. Ciò in buona sostanza sintetizza eroicamente la teoria del “valore-opportunità”. Non si può ridurre il contenuto di un intero libro nello spazio di un articolo. In queste righe si è voluto mettere in risalto il percorso, il metodo e i principi che hanno ispirato la soluzione di Orati. Per una più approfondita ed esaustiva trattazione non si può che rimandare direttamente alla lettura dell’opera. Qui ci preme sottolineare che la soluzione dell’annoso “problema” non è stata raggiunta attraverso una chiave semplicemente e quindi posticciamente matematica, ma reinterpretando opportunamente (in senso storico- materialistico) le categorie marxiane, senza divorziare per questo dalla matematica stessa e quindi dalla scienza e ancor meno facendo divorziare filosofia e scienza. Ciò che probabilmente ha ostacolato Marx nella erronea (e non definitiva) impostazione dei termini di quello che è poi passato alla storia come il “problema della trasformazione dei valori in prezzi” è stata la necessità di mantenere il vincolo di un uguale tasso di sfruttamento nei diversi settori che è una necessità solo dal punto di vista del “filosofo della rivoluzione” in quanto un diverso grado di sfruttamento del proletariato sembrava mettere in crisi il relativo concetto di “classe”quale soggetto storico della rivoluzione. Ciò che si fa nel testo di Orati, raccogliendo una provocazione di F. Seaton, è di ripulire l’economia non già dalla filosofia ma dalla “cattiva” filosofia. Più in particolare si rifonda epistemologicamente la scienza economica come una dimensione sui generis della filosofia (scelta o giudizio tra tempo di lavoro e non lavoro). Dimensione matematizzabile per il fatto di essere definita convenzionalmente in un ambito concettuale dove l’attività economica, in modo storicamente problematico, si svolge durante la giornata di ventiquattro ore.23

4. Conseguenze euristiche della soluzione La risoluzione del “problema della trasformazione” appena illustrata non è stata fine a se stessa ma ha permesso di venire a capo di altri nodi essenziali irrisolti della scienza economica mostrando così la sua ricchezza euristica. Essa ha infatti consentito di dispiegare le potenzialità dell’analisi marxiana che a causa dell’ostacolo del “problema della trasformazione” erano rimaste inespresse. La prima importante questione sulla quale Orati ha potuto gettar luce è stata quella delle crisi “classiche” (cicliche) e più in generale dell’instabile dinamica capitalistica. In quale maniera? Disponendo di una coerente rappresentazione di un mondo a due merci (due settori), cosa finora preclusa ai paradigmi ufficiali e non, Orati ha così potuto verificare l’intuizione di Marx circa il “progresso tecnico” quale causa dell’andamento ciclico del capitalismo e delle crisi di sovrapproduzione assoluta. Questa prima rilevante parte del suo sforzo construens permette di capire il motivo dei fallimenti che fino a oggi hanno caratterizzato i vari tentativi di coloro che si sono cimentati su tale tema. Motivi che Orati fa risalire alla falsa pista di costruire una teoria della crisi sulle ceneri della “legge di Say” il cui caso più famoso è quello di Keynes, e più in generale alla mancata individuazione dell’origine del sovrappiù. La “legge di Say”, condensata nella famosa frase “l’offerta crea da sé la propria domanda”, rappresenta ciò che accade in una economia statica, dove cioè il sistema economico si riproduce nel tempo uguale a se stesso, senza un sovrappiù che venga reinvestito per l’accumulazione. La crisi invece consiste proprio nell’interruzione dell’accumulazione e quindi per definizione pertiene a un’economia dinamica una volta che questa si possa rigorosamente rappresentare con un mondo a più merci. Ciò significa quindi che la spiegazione delle crisi trascende la “legge di Say” che in tal senso non rappresenta nessun ostacolo da demolire e quindi una falsa pista teorica. La spiegazione della crisi di sovrapproduzione assoluta si connette ad un altro aspetto: quello della moneta. In un altro successivo libro24 in cui si dà conto della moneta e del suo ruolo analitico - di cui il progetto di ricerca fin lì sviluppato non giustificava le pur necessarie prese di posizione in materia monetaria - Orati ha rigorosamente dimostrato la natura endogena della quantità offerta di moneta, potendo coniugare questa scelta al tema della ciclicità delle crisi e alla loro natura in termini di sovrapproduzione assoluta, potendo disporre, per quanto abbiamo detto, di un mondo con almeno due merci. Infatti, non disponendo di un modello plurisettoriale in equilibrio dinamico, tutti gli altri tentativi di spiegare le crisi in un mondo monomerce sono fatalmente falliti: come può esservi sovrapproduzione assoluta (pletora di merci invendute, “ingorgo” di merci) in un mondo monomerce? Ciò posto è stato agevole sbarazzarsi in via definitiva della “teoria quantitativa della moneta” potendo interpretare, come era nei desiderata di Marx, l’“equazione di Hume” in senso “antiquantitativista”.25 Altro momento teorico notevole è quello che ha permesso con l’impostazione di un modello realmente dinamico dell’accumulazione capitalistica di spiegare il fenomeno della stagflation (stagnazione e contemporanea inflazione) che si è manifestata nei primi anni Settanta mettendo in ginocchio la teoria economica ufficiale e non, che escludevano la possibilità della duplice coesistenza dei fenomeni suddetti. Ai molti inutili tentativi di venire a capo di questa “anomalia” da parte delle maggiori “teste d’uovo” della professione, l’analisi di Orati è stata in grado di opporre quanto segue. I circa trent’anni di politiche keynesiane, in quanto fondate su un’erronea teoria dell’instabilità capitalistica, avevano funzionato nel breve periodo covando però, sotto le ceneri, l’emergere della “paradossale” stagflation. Infatti le politiche anticongiunturali di stampo keynesiano, ignorando i motivi della ragione capitalistica che impone le crisi di sovrapproduzione avevano mantenuto livelli accettabili di disoccupazione ritardando però l’esplicarsi “benefico” (dal punto di vista capitalistico) del progresso tecnico26 cioè l’aumento del rapporto medio capitale/lavoro vera causa delle crisi. Da ciò la conseguenza di una diminuzione dell’efficienza (produttività) del sistema economico nell’unità di tempo (progressiva stagnazione) e un artificiale mantenimento nel mercato di aziende altrimenti extramarginali o tecnologicamente obsolete (inflazione), entrambe in conseguenza della “miopia” causata dalla “fallacia degli aggregati” alla base della logica della macroeconomia (quintessenza della così detta “rivoluzione keynesiana”). A questo punto l’ultimo tassello: la critica alla teoria ufficiale del commercio internazionale (Ricardo, Hoeckscher-Ohlin, Samuelson, ecc), teoria inconsistente alla radice non fosse che per il fatto che non può esservi divisione del lavoro rappresentabile solo e soltanto con una merce (sorvolando, per non appesantire ulteriormente il discorso, sulle molte altre ragioni delle sue debolezza analitiche). Ne conseguono le note difficoltà sulla impossibilità di dar conto della realtà del sottosviluppo e del “Paradosso di Leontief” che trovano invece finalmente spiegazione nella teoria alternativa del commercio internazionale e dello sviluppo economico ineguale proposta da Orati27. Tutto ciò credo sia sufficiente a spiegare la rilevanza della soluzione della “trasformazione dei valori in prezzi” su cui ci siamo intrattenuti, i cui corollari sono soluzioni ad altri annosi black holes (“buchi neri”) della scienza economica. Quindi non si può che invitare a rileggere, come da “perentorio” invito di Pier Luigi Porta, almeno il fondamentale libro di Orati del 1984. Ciò vale naturalmente in primo luogo per i suoi estimatori e studiosi. Un’ultima considerazione sul rilevante tema aperto da Micocci sulla obiettiva asfissia intellettuale di cui soffre la scienza economica. Da quanto abbiamo visto relativamente al caso di Orati, trova nuova conferma il fatto che per la storia delle scienza sociali e della loro regina, la scienza economica, è del tutto insufficiente e idealistico fermarsi al puro mondo delle idee. Questo va penetrato attraverso la costante analisi e denuncia della realtà le cui contraddizioni, in questo non possiamo che concordare con Micocci, trascendono qualunque “dialettica da tavolino”, implicando l’esigenza della lotta contro il potere tout court. Quanto ancora è storicamente fondata il tragico imperativo dell’undicesima glossa su Feuerbach?

“Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpetrirt, es kommt aber darauf an, sie zu verändern”28.

Note

* Dottorando di ricerca internazionale in “La tradizione europea del pensiero economico” presso l’Università degli Studi di Macerata.

1 Tale problema, che qui può soltanto essere accennato, è del tutto analogo a quello della indeterminatezza del tasso d’interesse nell’Equilibrio Economico Generale (versione più compiuta e coerente del paradigma neoclassico), con la differenza che la conseguente incapacità che ne deriva di non poter costruire una curva aggregata di produzione, e più in generale di non poter estendere ciò che si assume a livello micro a livello macroeconomico, è stato completamente “rimosso” come problema scientifico non solo dai neoclassici ma dalla teoria economica “ufficiale” tutta .

2 V. Evangelisti, Dio maledica il capitale variabile, www.carmillaonline.com. In realtà un tentativo di richiamare l’attenzione sul libro in oggetto è da ascrivere a Lorenzo Esposito, Produzione e lavoro, “Il Grande Vetro” n. 130, 1995, p. 9 che a proposito delle idee della scienza economica e del libro di Orati afferma “siamo assolutamente certi che fra non molto...le esigenze della società costringeranno l’economia a riprendere in mano i problemi seri e veri, ovvero quelli che Orati qui discute, buttando a mare le tonnellate di deduzioni astratte che non valgono la carta su cui sono scritte”.

3 V. Orati, Produzione di merci a mezzo lavoro. Per la riabilitazione della teoria del valore-lavoro e la ridefinizione epistemologica della scienza economica. Saggio attraverso Marx, Keynes, Schumpeter in occasione di un triplice centenario. Liguori, Napoli 1984.

4 Vedi A. Micocci, A Theory of Economic Theory, in “International Journal of Applied Economics and Econometrics”, n. 1, 2003, pp. 161-171. Il titolo dell’articolo ha come oggetto il lavoro di V. Orati, Una teoria della teoria economica, Utet, Torino 1996, (due volumi).

5 L’autore è Pier Luigi Porta il quale dopo aver parlato di numerosi “colpi si scena” che rendono “avvincente il volume” conclude così: “L’ampia ricerca teorico-storico-metodologica offerta dal presente volume è invito perentorio ad una lettura del pensiero economico che - pur prendendo le mosse da qualcosa che dovremmo poter chiamare certo “romanticismo marxista” - prospetta numerosi significativi spunti originali” (Rivista Internazionale di Scienze Economiche e Commerciali n° 10-11/1985, pp. 1118-9, corsivo mio).

6 P. Sylos Labini, Carlo Marx: è tempo di un bilancio, Laterza, Roma/Bari, 1992, pp. 133-144. Sylos Labini che altrove Orati accusa di essersi presentato non come curatore del testo. (Prefazione a V. Orati, Una teoria della teoria economica, Utet, Torino 1996, vol.I)

7 V. Orati, Kreislauf and Great Aggregates: the Missing Link in the Work of Professor Samuelson, in “International Journal of Applied Economics and Econometrics”, n° 1 vol. 2001 pp. 79-120 e in K. Puttaswamaiah (ed.) P. Samuelson and the Foundations of Modern Economics, Transaction Publishers, New Brunswick (USA) and London (UK) 2002, pp. 79-120 dopo i saggi dei premi Nobel Klein e Solow.

8 V. Orati, Produzione di merci a mezzo lavoro, pp. 177-182.

9 La “dissonanza cognitiva” riguarda una percepita incongruità fra le capacità di una persona e il suo comportamento. Vedi L. Festinger, A Theory of Cognitive Dissonance, cit. in. A. Bullock, O. Stallybrass (editors), The Fontana Dictonary of Modern Thought, Fontana/Collins, Bungay, Suffolk, 1977, p. 109.

10 K. Marx conosceva molto bene la matematica, quindi è difficile dedurne che alcune banali “soluzioni” di carattere matematico gli possano essere sfuggite. Circa la cultura matematica di Marx si veda: K Marx, Manoscritti matematici, Presentazione di Lucio Lombardo Radice, p. 273 e segg. e K. Marx, Sul concetto di funzione derivata, p. 278 e segg. in “Critica marxista”, quaderno n. 6, “Marxismo e le Scienze”, 1972.

11 Cfr. V. Orati, Produzione di merci a mezzo lavoro, parte terza, pp. 171-214. Della fuorviante interpretazione che i neo-ricardiani attribuiscono a Sraffa secondo Orati, parleremo oltre.

12 G. Carchedi, Il problema inesistente: la trasformazione dei valori in prezzi in parole semplici, Proteo n. 2, 2001. Ma anche A.Freeman e G.Carchedi, Marx and Non-Equilibrium Economics, Edward Elgar, 1996.

13 Il titolo originale dell’opera è L. Robbins, Nature and Significance of Economic Science, McMillan, Londra 1932.

14 P. Porta, .cit., p. 1119.

15 Arturo Labriola [1908], Studio su Marx, Morano Editore, Napoli 1926, p. 103.

16 Tale equazione di ottiene eguagliando le componenti dell’offerta (C2 + V2 + S2) dei beni di consumo con le componenti della domanda degli stessi beni (V1 + V2 + S1 + S2) e facendo le opportune semplificazioni.

17 Con alcuni immediati passaggi algebrici si vede come p = S/(C+V) possa essere scritto nella forma p = s’/(q+1). Espressione con la quale è chiaro come a parità di s’ nei due settori se le composizioni organiche del capitale sono diverse allora lo sarà necessariamente anche il saggio di profitto.

18 Qui si ferma il brogliaccio di Marx.

19 P. Sraffa, Production of Commodities by Means of Commodities. Prelude to a Critique of Economic Theory. Cambridge University Press, 1960. Tr. It Einaudi, Torino 1960.

20 Cosa che Marx non fa ancorché nella sua opera incompiuta a proposito del “problema della trasformazione”, contrariamente al suo metodo storico-materialistico, trattando ipostaticamente (cioè in modo astorico, e in ciò consisterebbe il suo cedimento “positivistico”) le “variabili” che alimentano da lui in poi il “problema della trasformazione”.

21 V. Orati, Produzione di merci a mezzo lavoro. p. 24.

22 Per chi voglia approfondire il tema si rimanda a V. Orati, Una Teoria della Teoria, vol. II, pp. 643 e segg.

23 V. Orati, Produzione di merci a mezzo lavoro, p. 79 e segg.

24 V. Orati, Il (corto)circuito, ovvero una moneta per l’economia, Isedi, Torino 1992.

25 In sintesi estrema. Mentre la “teoria quantitativa” spiega l’aumento (diminuzione) dei prezzi in termini di un aumento (diminuzione) della quantità offerta di moneta (variabile indipendente) la posizione “antiquantitativista” di Marx (anche essa rimasta indimostrata per l’irrisolto “problema della trasformazione”) va in senso causalmente opposto: sono i prezzi (valori) che determinano la quantità di moneta in circolazione.

26 Vedi V. Orati, L’anomalia della stagflation e la crisi dei paradigmi economici. Una soluzione neomarxiana, Liguori, Napoli 1984.

27 V. Orati, Globalization Scientifically Unfounded. Esquire Publications, Bangalore, 2003. La prima edizione del testo sia in italiano che in inglese è disponibile sul sito www.iiaess.net.

28 “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo”, (K. Marx, Tesi su Feuerbach, in “Marx Engels, opere complete”, Vol. 5, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 5).