Rita Martufi e Luciano Vasapollo presentano nel loro libro (Profit state, redistribuzione dell’accumulazione e reddito sociale minimo, La città del sole) la tesi del reddito sociale minimo con ampiezza di argomentazioni e documentazioni. Il problema che presentano è senza dubbio reale. L’evoluzione del capitalismo, il processo della globalizzazione in atto si traducono in una condizione sempre più inaccettabile di parte decisiva della popolazione. La disoccupazione si somma e si integra con una diminuzione dei redditi oltre le esigenze vitali nel mondo di oggi e con la caduta di garanzie sociali essenziali, dalla sanità alla previdenza. L’idea che si debba reagire a questa condizione è due volte valida. In primo luogo sul piano politico e culturale. Gli elementi di diseguaglianza e di ingiustizia che vengono a pesare più del passato devono essere documentati e denunciati. Non si può subire una cultura che in nome dei diritti individuali non fa che costituire cassa di risonanza dei crescenti privilegi di una parte limitata della popolazione, mettendo in secondo piano il disagio crescente della maggioranza. In secondo luogo bisogna che questa denuncia si traduca nella indicazione di obiettivi sociali che contrastino il crescere dell’ineguaglianza e l’impoverimento di parte decisiva della popolazione.
Da questo punto di vista generale l’esigenza proposta con la parola d’ordine del reddito sociale minimo deve essere sostenuta e valorizzata, ma credo si possa discutere l’indicazione concreta nella quale viene tradotta. L’obiettivo essenziale proposto è quello di un risarcimento in termini di reddito sociale, monetario e di prestazioni sociali. Mi pare si possa riflettere sul carattere di questa indicazione. Voglio essere inteso, nel senso che non ho alcuna intenzione di fare il classico discorso del più uno. Credo invece che si debba tenere conto che ogni aspetto della condizione sociale va posto in relazione al modo come sono determinati i rapporti di lavoro e le relazioni fra la domanda e l’offerta di lavoro. La prima esigenza per contrastare e condizionare le disuguaglianze e le ingiustizie prodotte dall’evoluzione capitalistica in atto è di proporre una rivendicazione che non sia soltanto di carattere economico ma intervenga sui rapporti di forza e di potere fra imprese e lavoratori. In proposito si può ricordare che la forza dei grandi movimenti di lotta del ‘68 è stata proprio quella di proporre no solo e non tanto esigenze economiche in senso stretto, quanto un mutamento dei rapporti di forza e di potere nelle imprese.
Ma proprio tale questione presenta oggi una nuova complessità che riguarda precisamente l’attuale struttura dei rapporti di lavoro e delle relazioni fra domanda e offerta di lavoro. Quello che a me sembra più impressionante e che siamo di fronte ad un nuovo processo di disumanizzazione del lavoro che merita un’attenta e rinnovata analisi.
La disumanizzazione del lavoro è una caratteristica del capitalismo, una qualità del processo produttivo nella rivoluzione industriale analizzata in un’amplissima letteratura, che del tutto schematicamente può essere indicata nella contrapposizione fra prodotto e produttore, nella vendita da parte del lavoratore della sua capacità ad un’organizzazione del lavoro determinata interamente da chi acquista ed utilizza la forza lavoro, nella rigidità delle operazioni che sono comandate, nel carattere gerarchico di un’organizzazione fondata sulla disciplina. Questo processo raggiunge il massimo nella fase del fordismo e del taylorismo.
Le trasformazioni introdotte nel lavoro nella fase attuale del capitalismo, nel contesto della globalizzazione, particolarmente con l’elettronica e l’informatica, tendono a cambiare questa condizione del lavoro. La rigida organizzazione collettiva in cui è disciplinata una massa di lavoratori viene progressivamente smembrata ed articolata in fasi di lavoro ed in gruppi limitati di lavoratori, fino al limite nel singolo individuo, con compiti specifici individuati e coordinati come consente l’informatizzazione.
Questo cambiamento, il non identificarsi l’impresa informatizzata, che opera nel mercato globale, nella rigida disciplina delle masse di lavoratori ordinate dalla “organizzazione scientifica del lavoro”, è potuto sembrare un superamento o almeno un alleggerimento della disumanizzazione del lavoro propria delle fasi precedenti del processo capitalistico. Ma non è così: siamo entrati in un’altra, diversa disumanizzazione del lavoro. Il fatto risulta evidente guardando ai nuovi processi per quello che sono complessivamente, fatti tecnici ed economici ma con rilevantissime ed inevitabili implicazioni sociali, giuridiche e culturali, che costituiscono parte decisiva degli attuali rapporti sociali ed istituzionali.
Dalla fine del secolo scorso ad oggi la disumanizzazione del lavoro indotta dalla rivoluzione industriale fino al taylorismo è stata combattuta e condizionata in misura tale che la protezione del lavoratore in quanto persona e poiché cittadino, delle sue condizioni di vita e di lavoro, della sua libertà e dignità, è divenuta un elemento sempre più importante dei complessivi rapporti sociali ed istituzionali, nei contratti, nel welfare, nella legislazione e nella giurisprudenza.
La stessa concezione della libertà ne è stata influenzata. E’ parso necessario, in linea di principio e di fatto, che la debolezza in cui si trova il lavoratore rispetto al sistema delle imprese debba essere compensata da norme contrattuali e di legge che limitano l’arbitrio delle imprese per sostenere la dignità e la libertà del lavoratore. Questa protezione si può considerare un elemento costitutivo di una moderna società democratica, estendendosi dai contratti fino ai principi costituzionali. Si tratta della più profonda influenza che ha avuto il movimento operaio proiettando i condizionamenti imposti alla disumanizzazione del lavoro nel rapporto fra i lavoratori e le imprese e nel contesto generale delle relazioni sociali ed istituzionali, quali principi costitutivi dell’eguaglianza democratica. E’ stato un processo che ha coinvolto profondamente la cultura, in particolare, ma non solo, la cultura economica e giuridica.
Naturalmente questi sviluppi sociali e civili sono limitati, non costituiscono di per sé un cambiamento del sistema, in particolare rimanendo una disuguaglianza connaturata al sistema capitalistico in quanto tale. Ma costituiscono un elemento di progresso sociale e civile compromesso dalla nuova fase del processo capitalistico che interviene pesantemente nei rapporti di lavoro e nelle modalità delle relazioni fra domanda ed offerta del lavoro. Il cambiamento decisivo è costituito dal fatto che una parte crescente di questa relazione non è più l’acquisto di una capacità di lavoro da ricondurre in un contesto collettivo, regolato da norme contrattuali e sociali e da principi giuridici di protezione del lavoro, o almeno lo è in misura minore che nel passato. Guardiamo ad un limite estremo raggiunto da questo processo che oggi è ancora limitato, ma tende a generalizzarsi: l’impresa che domanda lavoro non si rivolge più ad un lavoratore, cioè a una persona, ma domanda determinate prestazioni di lavoro, in una determinata quantità e per un certo tempo, ad un’impresa che offre lavoro. Il lavoratore non è più una donna o un uomo, una capacità di lavoro di quella persona, e nemmeno un cittadino: è un’impresa che offre lavoro. Il rapporto non è più fra l’impresa ed il lavoratore da questa dipendente, ma fra imprese. In questo senso in discussione non è soltanto il posto di lavoro fisso, ma il posto di lavoro, la figura del lavoratore che offre la sua capacità, come tale assunto secondo determinate norme contrattuali, sociali e giuridiche.
Tale evoluzione è consentita dallo sviluppo dell’informatizzazione e dalla globalizzazione, riguarda una parte soltanto, oggi, del mercato e dei rapporti di lavoro. Tuttavia, prima ancora che questa novità sia generalizzata, la sua introduzione, anche se parziale, viene impugnata per demolire i condizionamenti della disumanizzazione del lavoro già ottenuti nel passato con gli esiti sociali, giuridici e culturali, che prima sono stati richiamati. Però la demolizione di quelli che fino a ieri sono stati considerati essenziali diritti sociali ed istituzionali non corrisponde ad un effettivo superamento nei rapporti economici e sociali dell’inferiorità e della debolezza dei lavoratori, anche se essi appaiono come imprese. Le nuove tecnologie consentono alle imprese di articolare la domanda di lavoro come precedentemente non era pensabile, ma, anche se estremamente differenziata, questa domanda è l’espressione di un potere imprenditoriale sempre più concentrato, sempre più lontano dal momento in cui si definisce il rapporto completo fra offerta e domanda, sul quale decide sempre più potendo astrarre dal contesto sociale ed umano in cui questo si colloca.
Fra la libertà di scelta dell’impresa che domanda lavoro e la costrizione e la precarietà dell’impresa che offre lavoro, identificata nel singolo lavoratore, vi è una differenza abissale, come enorme è la distanza in termini di potere economico fra lavoratore il singolo lavoratore assunto in termini tradizionali e l’impresa che ha acquistato la sua capacità. Ma tanti singoli lavoratori nella medesima condizione di dipendenza nel tempo si sono associati per pretendere, e in parte ottenere, garanzie contrattuali, diritti sociali, protezione giuridica. Questa volta, tuttavia, poiché il rapporto è formalmente fra imprese, non vi sono normative contrattuali, leggi e giurisprudenza sul lavoro che limitino l’arbitrio imprenditoriale e sostengano i diritti materiali e morali dei lavoratori.
L’evoluzione del processo capitalistico ha fatto tornare parte crescente dei rapporti di lavoro a relazioni fra individui, cioè ad una disparità grande quanto la differenza di potere economico dei contraenti. Il solo potere dell’impresa-lavoratore sta nella qualità e nella appetibilità per la domanda delle prestazioni di lavoro che può vendere. Una minoranza di lavoratori può forse ricevere vantaggi da questa condizione, ma è realisticamente vero che una disuguaglianza così profonda getta una parte crescente di lavoratori in una situazione di precarietà e di dipendenza dall’arbitrio imprenditoriale, ancor più grave perché mascherata in una rapporto fra domanda ed offerta di lavoro formalmente solo fra imprese. La teoria e la pratica della flessibilità e della precarietà, quale fondamento del mercato del lavoro moderno, sono il ponte verso questa liquidazione di ogni diritto dei lavoratori.
D’altra parte indietro non si torna, il precedente armamentario di queste garanzie è strutturalmente compromesso nella nuova fase del processo capitalistico. Una parte del movimento sindacale e della sinistra dà un’interpretazione rovesciata della situazione, identificando nella condizione del lavoratore-impresa una nuova cittadinanza, non un vuoto di diritti, non un’ulteriore inferiorità rispetto ad un potere imprenditoriale svincolato dalle norme protettive del lavoro conquistate in un secolo di lotte. I diritti dei lavoratori si presenterebbero come diritti del cittadino.
Certo nelle relazioni regolate soltanto in ambito istituzionale si può sostenere che il singolo individuo è posto alla pari di ogni altro, anche se la collocazione sociale è diversa. Ma certamente non è così nelle relazioni sociali, tanto che anche a livello istituzionale ci si è dovuto porre il problema di questa disuguaglianza, del come salvaguardare i diritti di libertà per la parte che si trova in condizioni socialmente subalterne. Questione nuovamente attuale. Come pensare che abbiano gli stessi diritti una grande impresa ed il lavoratore-impresa che vende la sua prestazione di lavoro nella spietata concorrenza di un numero enorme di altri lavoratori-imprese? Non si possono chiudere gli occhi davanti alla nuova realtà sperando di tornare al passato su una linea solo difensiva e perdente, ma nemmeno si può guardare questa realtà alla rovescia.
Il problema è come impostare un’azione che si riproponga di affrontare nelle nuove condizioni il problema dei diritti dei lavoratori, dei lavoratori-impresa che tuttavia sono persone, cittadini, come prima, più di prima, parte debole della società. Il che impone una nuova problematica contrattuale, giuridica e di cultura, sulla quale credo si imponga una riflessione da parte di chi, come i promotori del reddito sociale minimo, ha una visione così liberamente critica del sistema.