Le aree metropolitane nel contraddittorio sviluppo economico-produttivo italiano (QUARTA PARTE)

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Il contesto dell’economia metropolitana tra internazionalizzazione e regionalizzazione

Quella che si presenta è un’analisi in cui si fornisce un generale quadro strutturale economico-produttivo regionale italiano all’interno dell’andamento macroeconomico internazionale. Tale fotografia di sintesi sui fondamentali strutturali dell’economia può aiutare a meglio comprendere il ruolo della produzione metropolitana all’interno della territorializzazione dell’economia italiana. Con tale quadro in questa Quarta Parte dell’analisi-inchiesta possiamo per il momento chiudere un primo studio di visione macroeconomica e strutturale sulla nuova dimensione metropolitana dell’assetto economico-produttivo italiano; è ovvio che non reputiamo l’analisi-inchiesta sviluppata nelle quattro puntate esaustiva ma può certamente costituire una base per ulteriori sviluppi su singoli aspetti di carattere politico-economico e socio-economico.

1. Il quadro internazionale ed europeo3

In un contesto di crisi internazionale continuano i processi di finanziarizzazione dell’economia anche se con esiti controversi e comunque dannosi per l’economia reale. Ed infatti le ripetute crisi finanziarie che hanno caratterizzato questi ultimi 20 anni (crisi asiatica, crisi dei paesi sudamericani, ecc.) hanno rivelato quanto sia vulnerabile il mercato dei capitali che è ancora più accentuato dal tentativo di unificazione internazionale. Nel decennio tra il 1980 e il 1990 si è verificato un aumento intenso delle transazioni internazionali; la stasi economica dovuta alla sovrapproduzione, ed anche al sottoconsumo, hanno provocato un minore sfruttamento delle capacità produttive e una diminuzione degli utili delle imprese che hanno iniziato a far affluire i propri capitali all’estero, in particolare verso la speculazione finanziaria internazionale. Gli anni 2002-2003 sono stati anni di interruzione di un ciclo in parte positivo, anche se a crescita “pompata” per i maggiori paesi industrializzati. Ora si ha l’impressione che i grandi poli stiano uscendo da una fase di rallentamento (e in qualche caso di recessione) a velocità diversa. Può essere interessante interrogarsi sia sulle ragioni della diversa “dinamicità” economica delle grandi aree, sia sulle prospettive di evoluzione a breve termine. Negli ultimi mesi del 2004 e i primi mesi del 2005 l’economia mondiale ha continuato a crescere a un ritmo relativamente positivo. Anche se l’azione di stimolo delle politiche economiche è in diminuzione la crescita mondiale continua ad essere sostenuta da condizioni tipiche dell’economia di guerra a guida USA. Nonostante ciò negli Stati Uniti l’attività economica ha rallentato verso la fine del 2004. Ciò è dipeso soprattutto dal contributo fortemente negativo del commercio estero, che ha in parte compensato l’andamento ancora sostenuto dei consumi privati finanziati da un forte indebitamento interno e degli investimenti delle imprese in tecnologie, attrezzature e software soprattutto riconducibili direttamente o indirettamente al settore bellico e al suo indotto. L’elevato tasso di incremento dell’economia mondiale che si è registrato nell’anno 2004 è da imputarsi in larga parte alla crescita sempre maggiore dell’economia asiatica. Nelle economie emergenti dell’Asia, infatti, si è avuta una crescita dell’attività produttiva con valori vicini all’8 per cento, anche se alcune economie, specializzate in produzioni a tecnologia avanzata, hanno registrato un rallentamento causato da una diminuzione della domanda di questi articoli. Tra i paesi asiatici spicca per il suo sviluppo la Cina, paese in cui per il 2004 si confermano gli andamenti positivi degli anni precedenti dovuti soprattutto ad un forte ampliamento degli investimenti, ad una buona domanda interna e ad una efficace domanda estera. Nell’anno 2004 il PIL della Cina è arrivato al 9,5 per cento e questa percentuale si è mantenuta al 9,5% nel secondo semestre del 2005. Negli anni tra il 1978 e il 2004 il ritmo medio di sviluppo dell’economia cinese è stato più alto del 7% all’anno. I dati a disposizione3 indicano che nel 2004 il valore aggiunto del settore primario e’ aumentato del 6,3%, il settore secondario dell’11,1% e il settore terziario dell’8,3%. Le esportazioni sono cresciute del 35,4 % mentre le importazioni del 36%, Anche gli investimenti esteri nel 2004 sono cresciuti di circa il 13,3%. Alla fine del 2004 si è arrivati a circa 66 miliardi di dollari USA affermando la Cina come il più grande mercato di attrazione di capitali dall’estero. I principali partner commerciali della Cina sono stati l’Europa e gli USA. Va inoltre segnalato che la Cina è ormai diventata un importante mercato sia come luogo di produzione sia come mercato di sbocco; infatti, oltre ad essere specializzata nella produzione di beni finali, sia di consumo sia di investimento, è divenuta un paese che acquista molti semilavorati dai paesi vicini fungendo anche da propulsore dello sviluppo dell’intera area asiatica. Nonostante gli alti livelli di crescita registrati in questi ultimi dieci anni, permane ancora alto il numero di cinesi che vivono in estrema povertà (circa 150 milioni) anche perché la distribuzione del reddito e la possibilità di avere accesso ai servizi essenziali quali istruzione, sanità, trasporti, ecc. sono sempre molto diversificati tra le grandi metropoli e le aree rurali. È per tentare di rimediare a questa situazione che il piano quinquennale (anni 2006-2010) prevede una attenzione particolare all’aumento della spesa pubblica, anche le ultime indicazioni delle istituzioni economiche accentuano l’attenzione sul rilancio dello Stato sociale per ovviare queste incongruenze. La tabella 1 mostra, che anche la Corea del Sud, Taiwan, Singapore ecc. seguono un andamento molto positivo. Anche l’India ha registrato un notevole sviluppo economico; nell’anno 2003-2004 si è avuta una crescita pari all’8,5% grazie ad un aumento sia del settore agricolo sia del settore dei servizi che hanno raggiunto un valore pari al 50% del PIL. In questo paese è ancora molto alto il peso dell’economia agricola che rappresenta circa il 20% del PIL; inoltre quasi il 70% della popolazione vive in territori rurali. Anche se si è avuto un miglioramento rispetto agli anni ‘90 in cui circa 320 milioni di persone (36% della popolazione totale) vivevano al di sotto della soglia di povertà, ancora oggi sussistono gravi squilibri (il 25 % della popolazione, circa 270 milioni di persone è ancora al di sotto della soglia di povertà); a ciò si aggiunga che il tasso di analfabetismo è molto elevato soprattutto tra le donne e gli abitanti delle zone agricole. La percentuale delle esportazioni mondiali che era di quasi l’1% nel 2004 è prevista in aumento (il governo vorrebbe portare entro il 2009 questo valore all’1,5%). Le esportazioni e le importazioni di beni e servizi dell’India sono pari al 25% del PIL. Si è registrata anche nel 2005 una elevata percentuale del PIL passando dal 7,2% del 2004 all’8,1% nel secondo semestre del 2005. I maggiori impulsi si sono avuti nel settore dei servizi (informazione, comunicazione, assicurazioni e informatica) e nel settore manifatturiero. Questa situazione ha facilitato una diminuzione del disavanzo pubblico in rapporto al PIL. In Giappone la ripresa economica è stata molto lenta nel corso del 2004 nel contesto del persistere di moderate pressioni deflazionistiche con un ridimensionamento delle scorte nel settore manifatturiero, e più in particolare nel settore informatico. L’economia continua ad attraversare un periodo di debolezza con un PIL che nell’ultimo trimestre del 2004 segnala una diminuzione dello 0,1% a causa di un contributo negativo dei consumi privati e delle esportazioni nette anche se in funzione di una buona performance dei primi trimestri la crescita complessiva del PIL del 2004 è stata del 2,3%. Nei primi mesi del 2005 l’attività economica è rimasta debole. Comunque persiste ancora una forte fragilità nel sistema economico che risulta essere molto legato alla domanda estera e quindi soggetto alla flessibilità dei cambi. Nell’anno 2005 la crescita è aumentata al 2,6% grazie anche a una nuova spinta delle esportazioni di beni di alta tecnologia e al deprezzamento dello yen. In America Latina si è avuto nel 2004 un miglioramento dell’economia dovuto ad un flusso positivo delle esportazioni e della domanda interna soprattutto in Brasile e in Messico. Si è cercato di contenere l’inflazione per migliorare i bilanci pubblici. In Argentina, dopo la grave crisi del 2001 si sono avuti segnali di una ripresa economica; nel 2004 si è registrato un PIL del 9% che è arrivato nel secondo semestre del 2005 al 10,1%; in Brasile si è avuta una accelerazione dell’attività economica, grazie anche all’alta percentuale di esportazioni (18 % nel 2004); il PIL che era nel 2004 del 5% è però sceso nel secondo semestre del 2005 al 3,9%. Anche in Messico, soprattutto per l’aumento delle importazioni e per una ripresa degli investimenti si è avuta una crescita dall’1,4% del 2003 al 4,4 per cento del 2004; nel 2005 si è avuta una riduzione del PIL che è passato nel secondo semestre del 2005 al 3,1%. In Venezuela, sempre nel 2004 si è avuta una espansione dell’attività economica (17,3 per cento) ed ha riguardato anche il settore non petrolifero. La fase di difficoltà che ha attraversato il sistema economico statunitense dagli anni ‘70 ha portato con sè una diminuzione delle capacità produttive nel paese sia dei beni di consumo (automobili, auto, elettronica) sia dei macchinari, sia dei materiali di base (tessile, acciaio). Tutto questo si è accompagnato a un notevole deficit della bilancia commerciale. La conseguenza sono stati quindi licenziamenti e sempre più accentuate differenze tra i redditi e rendite e i patrimoni. Si è avuto un notevole peggioramento nella qualità della vita in quanto sono aumentati i disagi di coloro che non sono più in grado di mantenere una condizione adeguata soprattutto a causa della instabilità del salario, del lavoro e dell’assistenza sanitaria. Nell’ultimo trimestre del 2004 molto chiaro è stato il rallentamento dell’attività economica negli USA anche se nel complesso del 2004 il PIL in termini reali è aumentato complessivamente del 4,4% e ciò sicuramente grazie al sostegno della domanda relativa all’industria bellica e all’indotto dell’industria a tecnologia avanzata riconducibile comunque all’economia di guerra. Nel 2005 si è avuta una flessione dovuta soprattutto all’aumento del prezzo del greggio. Il prezzo del petrolio, infatti è aumentato dai 39 dollari al barile di dicembre 2004 a oltre 60 dollari al barile registrati ad agosto e settembre 2005; anche il prezzo del gas naturale ha risentito delle tensioni sul mercato del petrolio, infatti a dicembre 2005 il suo costo è stato quasi il doppio rispetto a quello di dicembre 2004. Negli USA la crescita del PIL che si era attestata al 4,2% nel 2004 è scesa nei primi sei mesi del 2005 al 3,6%. Va ricordato che le famiglie americane, incoraggiate dalle favorevoli condizioni di finanziamento, hanno contratto debiti sempre maggiori; se questa situazione si protrae ancora per molto ciò porterà sicuramente ad uno sfaldamento della solidità finanziaria degli USA. Il debito complessivo degli USA (ossia il debito delle amministrazioni pubbliche, dei privati e delle imprese) ha superato la soglia dei 35 mila miliardi di dollari. Anche l’attività produttiva cresciuta nel 2005 del 3,5% ha continuato a sostenersi grazie alla forte espansione dei consumi molto al di sopra al reddito disponibile. L’economia statunitense è in fase di moderato rallentamento anche se non si possono escludere i rischi di una frenata più brusca dovuta non solo ai disastri naturali avvenuti recentemente (uragani, ecc.) ma anche allo squilibrio di fondo che caratterizza l’economia USA (ad esempio la minima propensione al risparmio dei consumatori e il sempre maggior ricorso al debito). Nel Regno Unito invece si è avuto nel 2005 un rallentamento della fase espansiva; il PIL e’ cresciuto dell’1,8%. IL modesto valore della crescita del PIL è dovuto sia all’incerto quadro congiunturale internazionale, sia alla crescita dei prezzi delle materie prime. L’Office for National Statistics nei suoi studi riguardanti il quarto trimestre del 2005 ha registrato un PIL in crescita solo dell’0,6; nell’anno 2006, la crescita del PIL dovrebbe essere intorno al 2-2,2%. E la tabella 2 che analizza il PIL nei principali paesi industriali conferma per gli USA il rallentamento della crescita del PIL, così come per i paesi dell’area dell’euro e per il Regno Unito; stabile risulta il Canada mentre in lieve crescita il Giappone. Le differenze della crescita fra le diverse aree economiche sono comunque rimasti molto grandi; la svalutazione del dollaro rispetto alle principali valute iniziato nel 2002 è continuato anche se sono state messe in atto tecniche in grado di contrastare, in molti paesi emergenti, il rafforzamento delle proprie valute per consentire riserve di dollari americani. In Africa si è avuto in questi ultimi anni un ritmo nello sviluppo leggermente più favorevole rispetto al passato; infatti soprattutto nell’Africa subsahariana si è avuto un incremento del reddito reale pro capite (nel 2004 ha registrato il 2,8%). Questo sviluppo non è stato però sufficiente a ridurre la percentuale della popolazione che vive in condizioni di miseria estrema che nel 2001 era di quasi il 50% del totale. Questo anche perchè questi paesi dipendono molto dalle esportazioni di materie prime e non hanno sistemi finanziari in grado di supportare l’economia interna; a ciò si aggiunge il fatto che con la liberalizzazione del commercio internazionale dei prodotti tessili e dell’abbigliamento porterà sicuramente ad un peggioramento della situazione anche a causa della sempre maggiore concorrenza dei produttori asiatici. Comunque l’attività economica africana resta sempre molto sensibile alle calamità naturali e alle incertezze del mercato degli scambi. Come negli anni passati, anche nel 2004 le principali economie dell’area dell’euro hanno avuto andamenti differenti. Il numero degli occupati ha continuato a crescere a tassi elevati in Spagna (2,1 per cento); si è ridotto in Francia (-0,4 per cento); è rimasto stabile in Germania,dopo essere diminuito nel 2002 e nel 2003; in Italia è aumentato dello 0,7 per cento. In ogni caso la maggior parte dei nuovi occupati sono attribuibili a lavori cosiddetti “atipici”, comunque precari. Il tasso di disoccupazione, calcolato al netto dei fattori stagionali, dopo essere risalito dall’8 per cento del 2001 all’8,9 nel 2003, è rimasto stabile su questo livello nel corso del 2004 e i primi mesi del 2005. Nel contesto di una sensibile ripresa in atto nell’economia internazionale, trainata dagli Stati Uniti e dai paesi emergenti dell’Asia (Cina in testa), Eurolandia è, dunque, l’unica grande area economica a crescita ridotta. Se si considerano, in particolare, i quattro maggiori paesi, il quadro appare altalenante; permangono molti dubbi, infatti, sullo stato di salute tedesco e italiano, mentre le economie francese e spagnola si presentano con fondamentali macroeconomici meglio impostati. Il cambio forte, poi, da un lato contribuisce a contenere la dinamica dei prezzi in Europa, ma comprime la crescita delle esportazioni. Lo sviluppo dell’economia mondiale ha fatto registrare una ripresa minima nell’area dell’euro che ha portato il PIL (a prezzi costanti) dallo 0,9 del 2002 all’1,8 del 2004. Nell’area dell’euro la crescita del PIL nel 2005 è diminuita ed è stata solo dell’1,3%. L’introduzione della moneta unica ha causato forti incertezze tra gli operatori, le famiglie e le imprese e l’innalzamento dell’inflazione percepita cominciato con l’introduzione dell’euro non si è ancora esaurito. A ciò si aggiunga il fatto che il basso livello dei tassi di interesse non ha facilitato gli investimenti nelle imprese ma ha facilitato solo delle opere di ristrutturazione interne. Anche in Europa poi è sempre maggiore il fenomeno dei prestiti bancari alle famiglie. L’ipotesi euro continua, comunque, a prendere consistenza e profilarsi come strumento di guerra commerciale, pertanto gli USA cercano di fare il possibile per soffocarla, per impedirne l’affermazione come superpotenza concorrente. Gli USA, dunque, temono una moneta destinata a favorire le esportazioni europee e, nel tempo, a minacciare il rango del biglietto verde come valuta di riserva mondiale. La crescita nell’area euro è stata sostenuta dalla forte espansione del commercio mondiale e della stabilizzazione del cambio effettivo dell’euro. Le principali economie sono state però caratterizzate da sviluppi diversi. In Germania l’attività è stata sospinta dalle esportazioni:i consumi hanno ristagnato, gli investimenti si sono contratti. In Francia e in Spagna la domanda interna ha continuato a espandersi, compensando l’andamento nel complesso negativo dell’interscambio estero. Nell’area dell’euro la crescita ha mostrato segnali di debolezza nella seconda metà del 2004 a causa di un andamento lento del commercio con l’estero; complessivamente nel 2004 il PIL è aumentato dell’1,8% nonostante che Germania e Italia continuino a caratterizzarsi per una crescita più lenta rispetto agli altri paesi dell’area, mentre cresce a ritmo sostenuto la Spagna e in parte la Francia. Il basso andamento del PIL risente fortemente dell’interscambio con l’estero e dalla contenuta crescita dei consumi delle famiglie e ciò nonostante le esportazioni abbiano ripreso ad espandersi a ritmo sostenuto (6%) ma con una concomitante accelerazione delle importazioni, anche per l’apprezzamenrto dell’euro, che ha annullato il contributo della domanda estera netta alla crescita del prodotto. Nel 2004 e i primi mesi del 2005 la crescita dell’occupazione nell’area dell’euro è stata molto contenuta, come già nel 2003. Nel terzo trimestre del 2004 si è registrato un rallentamento dell’economia francese e dell’economia della Germania; la Spagna invece ha registrato un andamento economico più attivo. Anche nel 2005 è continuata la fase di rallentamento dell’attività economica; in Germania si è passati dall’1,6% del 2004 allo 0,9% del 2005; in Francia si è avuta una crescita del PIL dell’1,4% e in Spagna del 3,4%. La produzione industriale è cresciuta nel 2005 per i paesi dell’area dell’euro dell’1,2% (è cresciuta del 3,5% in Germania, dello 0,7% in Spagna, è rimasta stabile in Francia ed è diminuita in Italia (-0,8%)4. I consumi delle famiglie sono cresciuti nell’area dell’1,3% registrando una diminuzione rispetto al 2004 ed anche il saldo della bilancia dei pagamenti ha registrato un peggioramento passando da un avanzo di 45,6 miliardi di euro (nel 20049 a un disavanzo di 29 miliardi di euro. I nuovi paesi membri dell’Unione Europea hanno registrato una crescita nell’anno 2004 pari al 4,8% anche se questo non ha portato ad un aumento dell’occupazione nei dieci nuovi paesi interessati.; a ciò si aggiunge una sempre maggiore inflazione che ha colpito questi paesi. Anche nell’anno 2005 si è registrato un elevato sviluppo economico che si è attestato intorno al 4,6% complessivamente. Il rapporto della Banca Centrale Europea però rileva che l’inflazione complessiva si attesta intorno al 2,1% dovuto in parte anche alla crescita dei prezzi del petrolio che nel 2004 ha continuato a crescere. Gli incrementi salariali sono stati comunque molto ridotti nel 2004 anche perché è stata minima la crescita dell’occupazione; con una percentuale di disoccupazione che arriva quasi al 9% (8,8%). Si è avuta una diminuzione degli occupati nell’industria e un aumento degli occupati nel settore dei servizi, la maggior parte con lavori a tempo e cosiddetti “atipici”.

2. L’Italia5

Se si analizzano gli anni che vanno dal 2000 al 2004 si osserva che il PIL dell’Italia ha registrato una crescita media inferiore all’1%. Nell’anno 2003 il PIL si è mantenuto al 2,8% nel settore dell’agricoltura, silvicoltura e pesca mentre si è avuto un 22,9% per l’industria in senso stretto, da evidenziare un 25,4% registrato nel settore delle intermediazioni monetarie e finanziarie, attività immobiliari e imprenditoriali. Nell’anno 2004 si è avuta una lieve crescita della percentuale del PIL nel settore agricolo (è arrivato al 3%), mentre nel settore dell’industria in senso stretto si è avuta una lieve flessione (22,7%) e nel settore delle intermediazioni monetarie e finanziarie (25,1%) (cfr. Tab.4). Nel 2004 il PIL è cresciuto dell’1,1% (a fronte di una previsione dell’1,4%); nel 2005 invece si è registrata una crescita pari a zero e nel 2006 l’economia italiana dovrebbe crescere di appena l’1,3% e tornare ai valori del 2004. La fase di ristagno è da ricondurre a una serie di fattori negativi, dalla persistente debolezza della domanda interna a causa della compressione del salario diretto e indiretto alle difficoltà delle esportazioni per il rafforzamento del cambio e la crisi di importanti mercati di sbocco. Quindi anche in Italia l’andamento stagnante ha visto nella diminuzione del potere di acquisto salariale il maggior contributo negativo alla crescita con una compressione del reddito disponibile delle famiglie, con un potere d’acquisto in crescita zero tra moderazione salariale, inflazione sempre significativa ed elevata pressione fiscale, che hanno determinato una forte contrazione dei consumi privati. In Italia nel 2004 il PIL è aumentato appena dell’1,1% e le esportazioni sono cresciute solo del 3,2%, con una diminuzione della produzione industriale dello 0,4% accrescendo così il divario dell’Italia e le altre principali economie dell’area dell’euro; si pensi che a fine 2004 la produzione e industriale italiana era inferiore di oltre il 5% rispetto al livello medio del 2000 mentre quello di Francia e Germania era di oltre 2 punti superiore. L’economia italiana continua ad evidenziare una debolezza nelle produzioni ad alto contenuto di innovazione tecnologica mentre la domanda internazionale cresce proprio in questo settore, e la crisi industriale italiana tocca anche i settori classici come quelli del tessile, dell’abbigliamento, delle pelli e delle calzature in costante calo dal 2000. Nel 2004 infatti i settori dei servizi e dell’agricoltura hanno concorso alla crescita del valore aggiunto per l’ 0,8% (servizi) e lo 0,3 %(agricoltura) mentre per l’industria ha contribuito solo per lo 0,2%. Nel settore industriale il PIL è cresciuto del 2,3 % nel Nord Ovest, (soprattutto per i settori delle costruzioni, dell’energia e dei prodotti in metallo) mentre si è registrata una diminuzione nel settore dei mezzi di trasporto. Nel Nord Est invece si è avuto un calo (-0,5 %) dovuto soprattutto alle difficoltà dei comparti manifatturieri tradizionali.

3. L’andamento economico produttivo italiano per aree regionali e aree metropolitane6 Nell’ambito dell’analisi economica dell’area del Nord Italia acquistano una importanza fondamentale le già analizzate (vedi i precedenti numeri di PROTEO) “aree metropolitane”. Tra queste sicuramente un ruolo principale è assunto da Milano che rappresenta la provincia che concorre maggiormente alla formazione del valore aggiunto nazionale (arriva a circa il 10%). L’area metropolitana di Milano infatti raggruppa nel 2004 circa il 42% delle imprese della Lombardia e il 6,5% del totale delle imprese italiane, il reddito procapite disponibile arriva a circa 19.902 euro e i consumi finali interni procapite sono di 18.224 euro. Il tasso di disoccupazione risulta essere nel 2004 del 4,6% e quindi molto inferiore alla media nazionale (8%). Da rilevare che nella regione Lombardia nell’anno 2005 si è avuta una crescita delle persone occupate pari all’1% a fronte di un 1,6% nel 2004; questo aumento è dovuto soprattutto alla regolarizzazione dei lavoratori immigrati e di quelli a orario ridotto. Se si tolgono questi inserimenti si è avuta un realtà una diminuzione dello 0,1%. Anche il PIL della Lombardia nel 2005, secondo gli studi di Prometeia, ha registrato una diminuzione dello 0,3%. Anche nell’area metropolitana di Torino si registra una discreta tendenza del mercato del lavoro con un tasso di disoccupazione del 5,96% nel 2003 e intorno al 6,1% nel 2004. Se si guardano i dati riguardanti le imprese si rileva che nel 2004 circa il 35% delle imprese della regione si concentra nell’area torinese. Nella regione Piemonte il settore dei servizi costituisce il 60% degli addetti totali mentre si è avuta una stabilità nell’occupazione nell’edilizia. Va rilevato che la crescita dell’occupazione si è registrato sia per una un aumento del numero di lavoratori in Cassa Integrazione Guadagni (i lavoratori sono classificati dall’Istat come occupati); sia per la regolarizzazione dei lavoratori stranieri. Il tasso di disoccupazione della regione, nella media dell’anno, è stato del 4,7%. L’area metropolitana di Genova ha rallentato molto negli ultimi anni la sua crescita anche per gli intensi processi di deindustrializzazione non accompagnati da un equilibrato sviluppo del terziario. Nell’anno 2005 nella regione Liguria si è avuta una crescita del numero di occupati pari al2,2% (superiore a quello nazionale cresciuto dello 0,7%); anche in questo caso questa crescita si è avuta soprattutto per la regolarizzazione dei lavoratori immigrati. L’aumento dell’occupazione ha interessato quasi tutti i settori (con l’esclusione del commercio) ed è stato considerevole nell’industria in senso stretto. Da rilevare che un buon numero di imprese della regione ha fatto ricorso alla forma contrattuale dell’apprendistato introdotto dalla legge Biagi. L’area metropolitana di Venezia registra un tasso di disoccupazione inferiore a quello nazionale attestandosi nel 2004 intorno al 4,9% anche se è più alto di quello dell’intera regione veneta (4,2%). Nella regione Veneto nel 2005 si è avuto un aumento della crescita media dell’occupazione dell’1,0%, (superiore alla media nazionale 0,7%). Questo dato va però valutato come negli altri casi con prudenza in quanto risente della regolarizzazione dei lavoratori immigrati. La crescita dell’occupazione ha riguardato soprattutto i lavoratori dipendenti mentre si è avuto un calo per l’occupazione indipendente è diminuita (-4,4 %).Questo anche perché si è avuta una forte crescita dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa (Co.Co.Co.) prevista dalla legge Biagi che a fine anno 2004 rappresentavano il 5,6 per cento degli occupati nelle imprese del campione dell’indagine della Banca d’Italia. La crescita della flessibilità cioè della precarietà del mercato del lavoro ha inciso molto nelle dinamiche del mercato del lavoro. Gli effetti statistici legati alla regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari hanno aiutato la diminuzione del tasso di disoccupazione nella prima metà dell’anno 2005 mentre nella seconda parte, con la riduzione di questi effetti, il tasso di disoccupazione è aumentato. Al Centro si è avuto un discreto sviluppo del settore delle costruzioni e dell’energia (1,6 %) mentre si è avuta una diminuzione nelle attività tradizionali Considerando le aree metropolitane del Centro-Nord va subito evidenziato che Bologna nell’anno 2004 ha registrato un tasso di crescita del PIL dell’1,2%; in una situazione generale poco favorevole l’economia dell’area metropolitana di Bologna ha vissuto una fase di stagnazione anche se di minore entità rispetto al 2004. Anche se il quadro generale è abbastanza rallentato vale la pena di sottolineare che le esportazioni sono cresciute nel 2004 ad una percentuale del 9,7% a fronte di un tasso regionale del ‘9,1%; le importazioni sono cresciute del 5,9% (la percentuale nazionale è del 6,08%); questa situazione ha portato ad un saldo della bilancia commerciale positivo. Le esportazioni sono rappresentate per il 72,7% dal settore metalmeccanico. Per quanto riguarda il mercato del lavoro si è avuta una crescita del tasso di disoccupazione che nel 2003 era del 2,3% ed è arrivata nel 2004 al 3,1% con un picco maggiormente elevato in città (4,7%). L’area metropolitana di Firenze che si caratterizza per il più alto numero di abitanti del Centro Italia (dopo Roma) ha una densità imprenditoriale pari al 10,35% (percentuale superiore sia al dato nazionale che è dell’8,7%, sia a quello regionale che è del 9,8%). Molto alti sono le percentuali del settore del commercio con un 26,9% del totale imprese e l’industria in senso stretto che con il suo 20,5% è il settimo a livello nazionale. Nell’anno 2005 l’occupazione è aumentata in Toscana dell’1,5% rispetto all’anno 2004; anche in questo caso tale aumento è stato determinato soprattutto dalla regolarizzazione dei lavoratori immigrati. Il tasso di disoccupazione del 2005 in Toscana è stato del 5,3%, di poco superiore rispetto al 2004. Per quanto riguarda l’altra grande area metropolitana del Centro Italia ossia Roma, va subito segnalato che si caratterizza per una sua specificità economico-produttiva; la sua superficie infatti costituisce il 24% dell’interro territorio a fronte del 16% di Genova, del 10% di Napoli e del 9,2% di Milano. I dati riguardanti il valore aggiunto per l’anno 2004 collocano la provincia di Roma al 7° posto a livello nazionale con un risultato molto al di sopra della media nazionale. Va segnalato che nel 2004 l’85,5% del valore aggiunto è assegnato al settore dei servizi pubblici e privati a fronte di una percentuale nazionale del 71%; il settore maggiormente rappresentativo dell’attività economica è quello del commercio che in termini di numerosità delle imprese arriva al 35,2% del totale imprese. Nel 2004 si è avuto un valore del +10,3% delle esportazioni e le importazioni sono diminuite del 2,1% Il tasso di disoccupazione nel 2003 è stato dell’8% in aumento rispetto all’anno precedente e risulta essere alto se confrontato con quello delle province del Nord Italia. Al Sud pur essendosi registrato un aumento nel settore delle costruzioni si è avuto un forte calo nel settore industriale in senso stretto.; anche le esportazioni sono state di modesta entità. Nell’area metropolitana di Napoli risulta molto elevata la densità della popolazione, considerando che tale provincia da sola rappresenta metà dell’intera regione Campania; per quanto riguarda la struttura economica si è registrato negli ultimi 10 anni un crisi della grande industria che ha portato a una marcato diminuzione degli occupati. Il settore terziario ha rappresentato nel 2004 l’82,3% del valore aggiunto provinciale (commercio legato al turismo e pubblica amministrazione) mentre l’industria in senso stretto rappresenta il 24,4% degli occupati e l’agricoltura il 6,2% del totale. Il tasso di occupazione nel 2004 è stato per le persone in età compresa tra i 15 e i 64 anno pari al 42,8% (a fronte di un tasso regionale pari al 45% e di un tasso nazionale pari al 57,4%). Il tasso di disoccupazione nel 2004 è del 18,9% (quasi l’11% maggiore della media nazionale); pur essendo inferiore a quello registrato nel 2003 (23,6%) è comunque molto elevato e risulta essere il 7 peggiore a livello provinciale del Paese. Nella provincia di Bari invece si situano circa il 40% delle imprese della regione pugliese; va comunque evidenziato che il 90% delle imprese attive hanno un numero di addetti inferiore alle 9 unità e quindi si tratta in sostanza di piccolissime imprese. Il valore aggiunto dell’industria in senso stretto è di circa il 16% del totale.Il tasso di disoccupazione si attesta introno al 13,5% molto al di sopra della media nazionale. Nell’anno 2005 l’occupazione nella regione Puglia è diminuita in misura superiore rispetto alla media delle regioni meridionali; il numero di persone occupate si è ridotto dell’1,1% rispetto al 2004. Nel 2005 l’occupazione temporanea,dei contratti a termine, delle collaborazioni coordinate e continuative e delle prestazioni d’opera occasionali ha riguardato il 15,4 % degli occupati. Il tasso di disoccupazione nella regione è stato nel 2005 del 14,6 % a fronte di un 15,5 % nel 2004, un livello di poco superiore alla media delle regioni meridionali (14,3%). Nella regione Sicilia l’occupazione è cresciuta del 2,2% rispetto al 2004; anche qui ha sicuramente influito la regolarizzazione dei lavoratori stranieri; larga parte dell’occupazione ha interessato il settore terziario mentre minore è stato l’aumento del settore dell’industria in senso stretto. Molto alta è nella regione la percentuale dei lavoratori irregolari (nel 2003 era del 26%) e per questo la Sicilia è stata nel 2003 la regione con il tasso di lavoro irregolare più alto dopo la Calabria Nel 2005 il tasso di disoccupazione è stato del 16,2% ed è oltre il doppio rispetto alla media nazionale e il più alto nelle regioni italiane. Palermo risulta essere la sesta provincia italiana per numero di abitanti; si caratterizza per la minima densità imprenditoriale; le imprese sono di piccolissima dimensione e sono ristrette al mercato locale. Il tasso di disoccupazione arriva al 20,3% mentre il 70% delle persone impiegate lavorano nel settore terziario; circa l’80% del valore aggiunto della provincia infatti è da imputarsi al settore terziario (soprattutto dipendenti della Pubblica Amministrazione). Una situazione simile alla precedente si trova nell’area metropolitana di Catania che registra un tasso di occupazione del 73,8% nel settore terziario con una percentuale di disoccupati di circa il 15 %. Il settore economico più importante nel territorio è quello del commercio all’ingrosso e al dettaglio che rappresenta il 45% a fronte di un 30% a livello nazionale.

4. Gli ultimi dati sui fondamentali macroeconomici7 Ritornando al quadro e alle dinamiche economico-produttive generali del nostro Paese, si rileva negli anni che vanno dal 1996 al 2004 le quote di mercato del nostro Paese sul commercio mondiale,valutate a prezzi correnti, sono diminuite maggiormente nel Nord Ovest che nel Nord Est e nel Centro mentre sono sempre le stesse al Sud. I settori in cui maggiormente è specializzata l’Italia (abbigliamento, cuoio, calzature, ecc.) avvertono molto la concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione Le esportazioni italiane poi sono indirizzate soprattutto ai paesi dell’area dell’euro. Da evidenziare poi una crescita abbastanza elevata delle esportazioni verso i paesi dell’America Centro-Meridionale soprattutto da parte dell’Italia del Nord-Est e del Centro. L’analisi dei dati evidenzia nel 2005 una diminuzione rispetto al 2004 degli occupati nell’industria in senso stretto del -0,2%; si arriva a questo valore negativo soprattutto a causa dell’alto valore negativo registrato nel Sud e nelle isole (-0,7%) e nel Nord-est (-2,7%). Sempre nel 2005 si è registrata una diminuzione delle persone in cerca di occupazione del -3,7% rispetto all’anno precedente (si è avuto un -5% al sud e alle isole). Il tasso di disoccupazione è diminuito nel 2004 all’8% a fronte di un 8,4% del 2003; da rilevare che, alla diminuzione della disoccupazione nel Sud (si passa dal 16,1% del 2003 al 15% del 2004) e al Centro (al 6,9 al 6,5 per cento) si è contrapposto un aumento nelle regioni del Nord (nel Nord ovest si passa dal 4,4% al 4,5% e nel Nord Est dal 3,6% al 3,9%). L’esame dei dati Istat precedente mostra un aumento della occupazione dipendente temporanea in tutte le regioni; in particolare nel Nord -ovest si passa dal 5,3% del 2000 al 6,3% del 2004; nel Nord-Est dal 6,2% del 2000 al 7,4% del 2004; al centro dal 6,6% all’8,2% e infine nel Sud e nelle Isole dal 10,6% all’11,9%. Nel totale Italia si è passati da una quota di occupazione dipendente temporanea del 5,2% nel 1995 all’8,5% nel 2004. Nei primi mesi del 2005 il comparto industriale evidenzia una tendenza negativa, continua ad manifestarsi allo stesso tempo un andamento lento dei consumi delle famiglie anche perché nel 2004 il reddito disponibile a prezzi costanti è cresciuto solo dell’1,5%. La crisi dei consumi è anche dovuta al fatto che l’aumento delle retribuzioni unitarie è stato solo del 3% in termini nominali nel 2004 con una lievissima espansione del numero di unità di lavoro dipendente nonostante il grande ricorso al lavori precari, mentre i redditi da lavoro autonomo continuano a crescere a ritmo sostenuto. Anche nell’anno 2005 prosegue per il quinto anno consecutivo la diminuzione della produzione industriale (rispetto al 2004 si è avuto uno -0,8%) ed ha riguardato tutti i settori anche se la maggiore contrazione si è avuta nei beni di consumo e nei beni strumentali. Il nostro è stato l’unico nei paesi dell’area euro a registrare un valore negativo della produzione. I settori tradizionali nei quali il nostro Paese è specializzato sono risultati in calo (abbigliamento, tessili, pelli e calzature) soprattutto a causa della concorrenza dei paesi emergenti. La situazione di crisi ha riguardato anche i settori delle macchine e apparecchiature elettriche e dei mezzi di trasporto. Per quanto riguarda la spesa delle famiglie anche nel 2005 si è confermato il trend negativo del 2004. Le esportazioni hanno registrato una diminuzione (dall’anno 1995 sono calate dal 4,6% al 2,7%) sia nei mercati dei paesi dell’Unione Europea sia in Cina e negli Stati Uniti mentre si è avuto un aumento di esportazioni verso la Russia. Nei cinque anni tra il 2000 e il 2005 si è avuta una perdita di circa il 30% della competitività di prezzo delle merci del nostro Paese a causa soprattutto di un notevole peggioramento dell’efficienza e capacità di adattamento del nostro sistema produttivo. Nell’anno 2005 si è avuta anche la ripresa del processo di privatizzazione delle società controllate dal settore pubblico (Enel, Alitalia, ecc.). A luglio ad esempio si è avuta la vendita della quarta tranche del capitale dell’ENEL (il 9,3%). La tabella seguente mostra che al 31 dicembre 2005 Il Ministero dell’Economia e delle Finanze detiene il 20,3% del capitale dell’ENI, il 21,8% dell’ENEL, il 34,0% di Finmeccanica, ecc. Sempre nel 2005 si è registrato anche l’occupazione ha registrato una diminuzione così come il rapporto debito pubblico/PIL. L’andamento del mercato del lavoro ha riflettuto la crisi dell’attività produttiva. La diminuzione dell’occupazione è stata del -0,4% anche se si è avuto un lieve aumento delle persone occupate (+0,2%); questo si spiega dall’aumento delle posizioni lavorative a orario ridotto, intermittente, precario. Ala diminuzione dei lavoratori dell’industria in senso stretto (-1,6 per cento) e di quelli dell’agricoltura (-8,0 per cento) si è avuto un limitato aumento dei servizi e una migliore crescita delle costruzioni (rispettivamente +0,3 e +2,3 per cento), in cui maggiormente si evidenziano i lavori a tempo determinato, stagionali, quindi precari in ogni caso. Come si può osservare nella tabella 12 si è avuta una forte diminuzione nel settore dell’agricoltura e in quello dell’industria in senso stretto, anche se vi è stata una crescita nel settore dei servizi e delle costruzioni. La diminuzione nel settore industriale è da imputarsi principalmente al calo dell’attività produttiva nel Paese. Nell’anno 2005 il si è registrato un allargamento ancora maggiore rispetto agli altri anni della differenza tra andamento dell’occupazione nelle diverse aree del paese; a fronte di un aumento di occupati nel Nord e nel Centro (rispettivamente +1,2 e +0,8 per cento) si è avuta una diminuzione nel Mezzogiorno (-0,3 per cento). Per quanto riguarda il tipo di occupazione si è avuto uno sviluppo delle posizioni stabili più rilevante al Nord (+2,8 per cento) e al Centro (+2,5 per cento) mentre al sud si è registrato solo un +0,5 per cento; la crescita ha riguardato soprattutto il settore terziario. Si è avuto un forte aumento del lavoro a termine arrivando nel 2005 al 12,3%; anche l’occupazione a tempo parziale è cresciuta rispetto al 2004 dell’1,9 per cento (pari a 55 mila unità in più). Se si guarda il tasso di disoccupazione nell’anno 2005 si è registrata una percentuale del 7,7% a fronte di un 8% nel 2004. Per quanto riguarda l’indebitamento delle famiglie si è registrato in questi ultimi dieci anni un aumento molto alto dei valori si è passati da un indebitamento del 18% del PIL nel 1996 a un indebitamento del 30% del PIL nel 2005); questo valori molto alti sono da imputarsi principalmente ai finanziamenti per l’acquisto delle abitazioni. Questi dati sono allarmanti anche se in netta misura inferiori alle percentuali registrate nell’area dell’euro (56%) e negli Stati Uniti (90%). La tabella con i dati per l’anno 2002 mostra che le famiglie indebitate sono in percentuale maggiori al Nord e al centro e meno al Sud e nelle Isole, e comunque con una netta predominanza delle famiglie appartenenti alle classi più alte di redditi. Anche i dati riguardanti la concessione di mutui bancari alle famiglie conferma la tendenza maggiore registrata al Nord e al centro piuttosto che al Sud e alle isole. Per quanto riguarda la spesa sociale va ricordato che l’Italia è al di sotto della media dei paesi dell’UE pur essendo il nostro un paese con una altissima presenza di anziani e con livelli di fecondità più bassi. Considerando le spese per la sanità, la protezione sociale e l’istruzione, nel nostro Paese la percentuale di queste spese in rapporto al PIL è stata del 30,2% per cento nel 2004; in ambito europeo si passa dal 20,7% dell’Irlanda al 38,7% della Svezia Un altro elemento importante da considerare è la popolazione straniera residente in Italia che il 1° gennaio 2005 è arrivata a 2,4 milioni, ossia il 4,1 % della popolazione residente. La maggior parte della popolazione straniera vive al Nord, seguita poi da quelli residenti al Centro, mentre al sud vivono solo l’8,9 per cento, e nelle isole il 3,6%.

5. Previsioni e tendenze macroeconomiche

Negli anni 2004-2005 il PIL mondiale è stato intorno al 5% e il Fondo Monetario Internazionale, ha previsto che il PIL mondiale nell’anno 2006 dovrebbe crescere di circa il 4,9% e nel 2007 di circa il 4,7% a causa di un progressivo rallentamento delle aree che fino ad ora hanno guidato l’economia mondiale; si prevede infatti un rallentamento nella crescita degli Stati Uniti (dal 3,5% del 2005 al 3,3% nel 2006), della Cina (dal 9,9% al 9,5%) e dell’India (dall’8,3% al 7,3%)12. Sono interessanti i dati della Tab. 16 che analizza le variazioni del PIL mondiale negli ultimi anni secondo le previsioni dell’ISAE (Le previsioni dell’ economia italiana, Roma, 2005) A conferma si rileva che nel quarto trimestre del 2005, l’economia degli USA è aumentata dello 0,4% mentre nel trimestre precedente si era avuto un +1,6% annualizzato, ed è il valore più basso degli ultimi tre anni. È previsto che il tasso di crescita del PIL nel 2006 sarà di circa il 3,3% in diminuzione rispetto agli anni precedenti. A gennaio 2006 l’inflazione al consumo si è attestata al 4% mentre l’inflazione di fondo si è mantenuta al 2,1%. Va comunque detto che l’economia degli USA presenta chiari segni di debolezza in quanto pur essendo in crescita il mercato finanziario, nonostante lo scoppio della bolla speculativa, vi è una crescente stagnazione dei settori tradizionali; la distribuzione del reddito è peggiorata in questi ultimi anni. L’indebitamento delle famiglie è ormai alle stelle senza possibilità di risparmio. La società americana oggi è formata da una vasta parte di popolazione che vive al limite della povertà, a cui si contrappone un 20% di benestanti che hanno la stragrande maggioranza della ricchezza del paese. In questi ultimi anni gli Stati Uniti sono tornati ad avere una quota intorno al 30% del PIL globale, grazie alle spese militari. Gli USA sono consapevoli che senza egemonia militare non potrebbero imporre al mondo il finanziamento dei loro deficit, che gli consente di mantenere la loro posizione-guida anche in campo economico ma in maniera del tutto artificiale, fittizia, senza alcuno stabile e strutturale retroterra in alcun fondamentale macroeconomico. E non si dimentichi che la crescita del PIL degli USA è sostenuta per oltre i due terzi dall’economia di guerra. Una diminuzione delle spese militari negli USA comporterebbe oggi una profonda crisi dell’intero sistema economico americano e aggraverebbe la già forte crisi economica, arrivando a livelli forse peggiori di quella del ‘29 (crisi risolta anche allora con la crescita degli armamenti nel corso della seconda guerra mondiale e anche dopo). Nell’ambito quindi della nuova divisione internazionale del lavoro e nell’attuale riorganizzazione economico produttiva va assolutamente considerato in chiave di prospettiva l’asse Cina-India come competitore strategico sicuramente alternativo agli USA. Tra l’altro i destini futuri del dollaro si giocheranno proprio sull’asse India-Cina anche in considerazione del fatto che le banche centrali asiatiche complessivamente hanno un attivo in valuta straniera che supera i duemila miliardi di dollari e ciò semplicemente perché solo in questo modo hanno potuto impedire l’apprezzamento delle rispettive monete e divise sul mercato internazionale dei cambi, cosa che sarebbe potuta succedere se le grandi economie asiatiche avessero cambiato i dollari in eccesso. Tutto ciò è servito per tenere alta la propensione delle potenze asiatiche all’export. Per quanto riguarda il Giappone si è avuto nell’ultimo trimestre del 2005 un rinvigorimento dell’economia e questo fatto a portato alcuni organismi di previsione a cambiare i valori di previsione per il 2006 (si passa dal 2% del Fondo Monetario Internazionale a un 3,3%). Nei paesi emergenti dell’Asia (Indonesia, Singapore, Thailandia) hanno registrato una espansione dell’attività economica. In America Latina si conferma il trend di crescita degli anni precedenti; in Brasile ad esempio nell’ultimo trimestre dell’anno 2005 si è avuta una crescita del PIL rispetto all’anno precedente dell’1,5%, in Messico del 2,7% (sempre nell’ultimo trimestre 2005 rispetto all’anno precedente) mentre in Argentina il PIL in termini reale è aumentato dello 9,1% nel quarto trimestre 2005. Nel Regno Unito, invece si è avuta nell’ultimo trimestre del 2005 un moderata crescita con un aumento del PIL in termini reali dello 0,6%; il mercato del lavoro ha registrato una diminuzione e si è avuto un aumento della disoccupazione. La crescita nel 2005 è stata molto inferiore rispetto all’anno precedente (l’1,8% a fronte di un 3,2% nel 2004) valori registrando valori che non si avevano da anni (dal 1992). In Russia l’economia continua ad espandersi a ritmi elevati anche grazie all’elevato prezzo del petrolio; la crescita del PIL per il 2004 ha superato il 7%. L’economia nei paesi dell’area dell’euro dovrebbe crescere nel 2006 e nel 2007 in modo molto modesto a causa di una riduzione generale dell’economia mondiale (si prevede che il PIL nell’area dell’euro si attesti intorno al 2% nel 2006 e all’1,7% nel 2007). I dati dell’Eurostat infatti ci dicono che la crescita del PIL nell’ultimo trimestre del 2005 è stata di appena lo 0,3% (meno della metà rispetto al trimestre precedente) e in generale quindi la crescita media annua dei paesi dell’area UE hanno registrato un valore pari all’1,3%. Questo perché le economie di Francia, Italia e Germania non sono cresciute o sono cresciute in misura molto ridotta (0,2%). Per quanto riguarda le attese d’inflazione le rilevazioni effettuate dalla Banca d’Italia prevedono per il 2006 una percentuale del 2,1% a fronte di un 2% per l’area dei paesi dell’euro; per l’anno 2007 è previsto un calo percentuale per il nostro Paese (che si attesterebbe all’1,9%) a fronte di valori sempre al 2% per i paesi dell’area dell’euro(cfr. tab.). Nonostante i dati segnalino una crescita del PIL europeo inferiore a quella statunitense, è proprio l’Europa candidata ad assumere un ruolo centrale nella mondializzazione capitalista. Innanzitutto l’Europa con l’allargamento ad est è diventato il più grande mercato mondiale con il più alto livello di esportazione risultando al contempo il più grande investitore estero. Alcuni paesi del Nord Europa rappresentano oggi i più alti livelli di competitività nell’economia internazionale e gli stessi PECO (Paesi dell’Europa Centro-Orientale) crescono a ritmi considerevoli in particolare in termini di PIL pro-capite. Gli USA hanno un PIL più alto perché, confrontati con i singoli paesi europei, hanno un maggior tasso demografico e un numero di ore-lavoro più alte rispetto all’Europa. La maggiore crescita statunitense quindi non è dovuta ad andamenti della produttività del lavoro più alti, in quanto già da prima della metà degli anni novanta la produttività oraria europea è stata sempre maggiore di quella statunitense. Si consideri inoltre che l’Europa ha un risultato della bilancia commerciale positivo e una moneta attualmente molto più forte, mentre il dollaro è soggetto attualmente a forti processi speculativi e la bilancia commerciale USA è perennemente deficitaria. Nel contesto generale europeo, nonostante l’andamento altalenante dei dati macroeconomici, ed è anche questa una precisazione di controtendenza dovuta, la Germania continua a svolgere un ruolo di traino con una economia industriale ancora altamente competitiva. Negli ultimi dieci anni Germania e USA hanno avuto mediamente lo stesso saggio di crescita della produttività con un tasso di aumento dei salari minore nell’economia tedesca, con un CLUP (Costo del Lavoro per Unità di Prodotto) quindi, inferiore rispetto agli USA. Tutto ciò identifica una maggiore competitività internazionale della Germania, supportata da un livello delle esportazioni che è tre volte quello degli Stati Uniti e con una crescita costante tedesca sul commercio internazionale. Anche sul piano dei mercati finanziari le performance borsistiche della Germania degli ultimi anni sono sempre migliori di quelle statunitensi. A fronte della continua crescita dell’indebitamento interno ed esterno degli Stati Uniti risulta invece significativamente più alta la propensione al risparmio delle famiglie tedesche e in genere della propensione al risparmio europeo capace di finanziare maggiormente gli investimenti. Quindi sembra chiaro che l’assetto macroeconomico europeo, pur nella crisi internazionale di accumulazione che si protrae da circa 30 anni, è basato su fondamentali più coerenti ed equilibrati rispetto a quelli degli Stati Uniti.

6. Conclusioni: il bisogno del sidacato metropolitano per rilanciare l’offensiva di classe La “stabilità” politico-economica imposta dalla mondializzazione capitalista necessita di sempre nuove aree di intervento, poiché il capitale internazionale nelle sue diverse configurazioni ha comunque bisogno di rigenerare investimenti produttivi che siano funzionali ed abbiano il loro sbocco, la loro forza, in una economia sorretta da una spesa pubblica a connotati fortemente militari attivi. È quindi vero anche oggi che, come avviene da sempre per sostenere l’accumulazione capitalista per evitare i rischi di una recessione o per uscirne quando il capitalismo è in fase di crisi, lo strumento capace di risolvere i problemi è l’allargamento dei fronti di guerra per consentire di rilanciare la produzione, spendere per produzioni belliche e di aumentare l’intervento pubblico per produzioni di tale tipo di massa (armi e produzioni ad esse collegate). Solo così il capitale internazionale tenta di uscire dalla sua crisi strutturale rilancia a forti ritmi i processi di accumulazione capitalistica. L’analisi del quadro è complessa: non sono in gioco soltanto le future politiche economiche (più o meno prevedibili perché ancora neoliberiste anche se temperate da un keynesismo militare a sostegno della domanda aggregata e della spesa pubblica legata al settore della difesa a discapito della spesa sociale), ma anche il comportamento futuro dei cambi in particolare tra dollaro e euro che influenzano la competitività relativa e che sono difficilissimi da prevedere. La limitata ripresa ciclica internazionale, avviatasi negli Stati Uniti dalla primavera del 2003 dovuta all’economia di guerra e sostenuta anche dalla crescita delle economie dell’Asia, si è estesa nel 2004 e 2005 a tutte le aree internazionali, seppure con intensità differenziata. Ma se il sistema economico fordista era indirizzato ad un azione pubblica rivolta sia al sostegno della domanda aggregata sia all’ampliamento degli interventi di Welfare con la globalizzazione neoliberista e il postfordismo invece si realizza il declino del Welfare e dei salari; si riaffacciano forme di lavoro servili simili alla schiavitù, determinati spesso su basi etniche. Tutto ciò deve portare ad una diversa impostazione dei diritti sociali dei lavoratori che nel sistema fordista avevano una validità universale e venivano protetti da leggi, mentre nel sistema postfordista sono le sole leggi del mercato a comandare, ad imporre qualità e quantità in tempo reale e a determinare i modi dell’intera qualità della vita sempre in uno stesso ambito di relazioni produttive in parallelo ad un lavoro che diventa sempre più costrittivo e senza garanzie. La constatazione generale è che lo sviluppo socio-economico è stato caratterizzato da una specifica dinamica delle forme di accumulazione del capitale determinate dai processi di ristrutturazione e di collocazione internazionale del capitalismo nell’era della competizione globale. L’aspetto territoriale-settoriale assume un ruolo sempre più determinante con il passaggio da una produzione di massa, concentrata, ad una di tipo flessibile e diffusa basata nel contempo sulla mobilità, flessibilità e precarizzazione della forza lavoro e quindi sul sociale messo direttamente a produzione. È solo così che si può dare una corretta interpretazione dello sviluppo delle forze produttive, dei mutamenti dei rapporti di forza capitale-lavoro così come si esplicitano anche nel sociale e delle continue evoluzioni nella composizione di classe relativamente ad un dato livello di sviluppo che mutano la struttura sociale del territorio diversificandone i bisogni, a partire dalla fabbrica metropolitana. Nell’attuale società postfordista dei paesi a capitalismo maturo si estende la produzione diffusa metropolitana con le grandi contraddizioni e diseguaglianze sociali che si dispiegano proprio a partire dalla dimensione socio-economico-produttiva della metropoli. E così, ad esempio, con la crescente atipicità e precarietà dei rapporti di lavoro si richiede un miglioramento degli istituti di tipo generale oltre che una più attenta dinamica della contrattazione sindacale. Per capire i cambiamenti del e nel lavoro, del e nel sociale, diventa fondamentale svolgere in continuazione diverse approfondite analisi-inchieste di classe incentrata sulla composizione della soggettualità del lavoro e del non lavoro a caratterizzazione territoriale e in particolare nella dimensione metropolitana. Inoltre considerato che nell’attuale società postfordista si sono accentuate le disparità sociali in un diverso e più articolato contesto di “cittadinanza” politica, economica e sociale, vanno ancora più garantite le coperture sociali di bisogni sempre più pressanti quali la salute, la pensione, i diritti dei migranti, il Reddito Sociale garantito. Un nuovo sindacato di classe metropolitano che a partire da una contrattazione sociale complessiva leghi la questione della lotta contro il carovita, per la gratuità dei servizi sociali, per i diritti sociali, per il reddito per tutti, alle lotte per il diritto al lavoro e del lavoro.Una grande nuova stagione di lotte, di conflitto sociale e del lavoro che unisca i soggetti del lavoro, del non lavoro, del lavoro negato della fabbrica metropolitana in un’unica grande battaglia di civiltà che diventa di rilevanza strategica per il nuovo movimento operaio.

note

1 Ricercatrice socio-economica, membro del Comit. Scient. di CESTES e del Comit. Progr. Scientifica di PROTEO.

2 Univ. “La Sapienza”; Direttore Scientifico CESTES e della rivista PROTEO.

3 Cfr. Relazione Economica Banca d’Italia, 2004-5-6; Bollettino economico Banca d’Italia vari, 2004-5-6; FMI, World economic outlook, vari 2005-6.

4 Cfr. http://www.ice.gov.it/estero2/cina/default.htm

4 Cfr. Bollettino Economico Banca d’Italia n.46, marzo 2006 , pag.23.

5 http:// www.confindustria.it/ancong.nsf/e5e343e6b316e614412565c5004180c2/776542090407ad3cc125716500522689/$FILE/NOTE%20ECONOMICHE.pdf Note economiche Numero 0 - 26 Aprile 2006; cfr. Istat, Conti economici regionali; Banca d’Italia, Sintesi delle note sull’andamento dell’economia delle regioni italiane, 2004-5-6.

6 Cfr. riferimenti di nota 5.

7 Si vedano oltre ai riferimenti di note 5 e 6 anche Istat, rilevazione continua sulle forze di lavoro e indagine trimestrale; Istat, Rapporto annuale sulla congiuntura economica, 2005-6.

8 Cfr. Banca d’Italia “Assemblea generale ordinaria dei partecipanti , relazione del Governatore sull’esercizio 2005, pag.95.

9 Isae, Le previsioni per l’economia italiana, cit., pag. XVII.

10 Nostra elaborazione. Cfr. Relazione economica Banca ..., op. cit. pag.39.

11 Fonte: Rapporto annuale ISTAT La congiuntura economica nel 2005.

12 Cfr. http:// www.confindustria.it/ancong.nsf/e5e343e6b316e614412565c5004180c2/5dd1f0982028956bc12571390054ecbf/$FILE/CF%20marzo_2006.pdf

13 Fmi, World Economic Outlook, cit., pag. 2.

14 Isae, Le previsioni per l’economia italiana, cit., pag. 1