Sindacalizzare il territorio. Una ipotesi di lavoro

Sabino de Razza

Il governo Berlusconi ha lasciato in eredità un pacchetto di leggi, attualmente in vigore, che hanno nei fatti scompaginato le relazioni tra le persone e con esse le relazioni tra le rappresentanze, fra queste i sindacati tutti. Legge 30 precarietà del lavoro e legge Bossi Fini sulle politiche migratorie sono quelle più evidenti e ad oggi con i risultati dell’ultimo referendum confermativo, sono stati bloccati, per fortuna, i tentativi di modificare in peggio anche la Costituzione. Questo quadro normativo ad oggi non sembra essere messo veramente in discussione dall’attuale maggioranza di centro sinistra, anche perché fortemente in continuità con le leggi Treu e Turco-Napolitano. Probabilmente ci saranno modifiche di facciata, sicuramente non sostanziali, e dai primi passi del nuovo governo traspare chiaramente la volontà di escludere i sindacati di base e alternativi a Cgil, Cisl e Uil, da ogni tipo di riconoscimento, con la scusa che non sono firmatari dei contratti collettivi nazionali di lavoro, e anche in questo senso non si segna una inversione di tendenza. Come per i governi precedenti, si chiede ai sindacati alternativi una sorta di impegno alla “collaborazione” per il “bene comune” sulle politiche del lavoro: questo si chiama concertazione. La situazione appena descritta apre una riflessione anche nei sindacati di base, in modo particolare nelle RdB/CUB, sul modo di operare. In diverse città sono state sperimentate dal movimento antiglobalizzazione delle vere e proprie camere del lavoro chiamate - a seconda delle situazioni - del precariato, per la difesa dei beni comuni, per i diritti o sportelli informativi, che hanno sperimentato percorsi di costruzione forte di conflitto nelle realtà metropolitane. Nella maggior parte dei casi queste esperienze non hanno avuto una adeguata risonanza come modelli a livello nazionale, se si esclude la esperienza nella lotta per la casa di ACTION a Roma che ha avuto uno sviluppo abbastanza significativo ed è ancora oggi in vita. Queste esperienze di “sindacato metropolitano” non hanno avuto nelle realtà meridionali alcuno sviluppo significativo, anche se penso che proprio nelle realtà del sud possano rappresentare una forma di organizzazione utile, visto che nel mezzogiorno d’Italia si sperimentano in modo drammatico tutte le forme di flessibilità e precarietà del lavoro, quasi sempre accettate e condivise dai sindacati confederali, oltre che una diffusione del lavoro nero ed illegale, nel quale è compreso anche il lavoro dei cittadini migranti utilizzati in modo consistente nelle attività edili e in agricoltura. Queste nuove situazioni, unite alla drammatica condizione di disoccupazione e di uno sviluppo diseguale dal nord, possono richiedere la costituzione di un nuovo modello di sindacato conflittuale, che non si pone più solo il compito di difendere chi un posto di lavoro ce l’ha, e che si intrecci fortemente al territorio per specificità e complessità. Essere oggi una alternativa ai sindacati concertativi è possibile, se i sindacati di base si pongono l’obiettivo sì di difendere ed allargare i diritti dei lavoratori, ma anche quello di costruire vertenze territoriali, ad esempio lottare e battersi per dei trasporti efficienti, per una sanità pubblica e di qualità, contro l’inquinamento delle città, per la realizzazione di spazi di socialità, per il reddito sociale, insomma per un diverso modello di sviluppo. A partire da questo è possibile costruire una nuova cultura del sindacato. Di queste idee parlano le iniziative avviate dalla Federazione delle RdB/CUB: promozione di un movimento nazionale per il reddito sociale minimo con la costruzione della rete per il reddito, che ha visto anche forti momenti di mobilitazione nazionale e costretto tutte le realtà di movimento a porsi questo obiettivo, fino alla presentazione di proposte di legge al parlamento; la costituzione con le associazioni dei consumatori dei Comitati per la quarta settimana che hanno posto la questione del carovita insieme con la necessità dell’adeguamento dei salari, attraverso il ripristino della scala mobile; la costruzione di una ipotesi di sanatoria con la presentazione di un disegno di legge per l’assunzione dei precari a partire dalla pubblica amministrazione; sono questi, oggi, tentativi di costruire nuovi percorsi del conflitto che senza lasciare il terreno dei posti di lavoro ma allargandone i confini provano a definire un nuovo modello di sindacato. Tutto ciò è ancora più evidente nelle iniziative e lotte al fianco e con i lavoratori immigrati, sui quali si ripercuotono con più forza le contraddizioni dell’attuale modello di sviluppo e l’incapacità dei sindacati concertativi; infatti, non è più possibile (contrariamente a quanto comunemente si ritiene) affrontare la questione degli immigrati come pura questione umanitaria ma è bene che si cominci a discutere della questione immigrazione come di una questione politica complessa che tiene dentro la questione lavoro e pone come preliminare il diritto di ogni cittadino del mondo di poter liberamente circolare; oggi i flussi migratori pongono una problematica di diritti del lavoro e ogni cittadino migrante irregolare è un potenziale attore di pratiche di lavoro precario ed in nero. In conclusione, queste nuove sfide necessitano anche di una modifica concreta della modalità e della struttura sindacale che non deve essere più pensata come finalizzata solo alla difesa degli occupati ma come struttura aperta alle nuove situazioni e alla complessità delle sfide in campo. Si tratta di sperimentare nuove forme come gli sportelli informativi e gli sportelli legali per costruire vertenze di lavoro singole o, meglio, collettive; sportelli per organizzare il conflitto dei cittadini migranti; per una equa redistribuzione del reddito; nuove camere del lavoro per i nuovi diritti. Penso che le RdB/CUB possano avviare in tutto il territorio nazionale questa sperimentazione dando anche una prospettiva di consolidamento, diffusione e durata.

note

* Federazione RdB per il Reddito Sociale e i Diritti.