Note sul sindacalismo metropolitano:una discussione non più rinviabile da affrontare a tutto campo

MICHELE FRANCO

1. Nuove necessità per le organizzazioni di base dei lavoratori

Da tempo affiora nelle riflessioni del sindacato la necessità di adeguare l’intervento politico alle nuove forme dell’organizzazione capitalistica fuori dai tradizionali luoghi di lavoro. I nostri congressi, i seminari di approfondimento, l’elaborazione del Cestes-Proteo hanno, periodicamente, prodotto materiali con messe a punto di carattere analitico per inquadrare le novità intervenute. Uno sforzo finalizzato all’enucleazione, di volta in volta, di elementi di linea politica e di possibilità di azione concreta da verificare tra i lavoratori e nell’intera società. Si tratta ora, alla luce della nuova situazione politica caratterizzata dalla vigenza del governo Prodi e dei suoi nefasti effetti, sia socio-economici e sia sul piano delle relazioni sindacali, di accelerare questa discussione per poter meglio attrezzare il nostro agire ai compiti della fase attuale. Tra le questioni che più urgentemente, nell’ultimo periodo, sono al centro del dibattito dei militanti e degli attivisti c’è il tema del sindacalismo metropolitano, ossia di come immaginare e configurare una modalità d’intervento politica ed organizzativa dentro le grandi aree metropolitane capace di intercettare/individuare non solo quei soggetti sociali espulsi/estranei/marginali rispetto alle ordinarie filiere produttive ma anche come organizzare il conflitto attorno a tematiche e questioni che attengono la generalità delle condizioni di vita e di riproduzione. Non è la prima volta che questo rompicapo si affaccia nel dibattito della sinistra e delle formazioni sindacali. L’intera letteratura di movimento è ricca di elaborazioni e di prefigurazioni su questo argomento. Tantissime volte abbiamo partecipato a discussioni ed incontri che si interrogavano su tali problematiche argomentazioni. Spesso, però, questa autentica tensione analitica, specie quando si è sviluppata in maniera estranea o separata da significativi momenti di protagonismo e di lotte sociali, è approdata o a paradigmi teorici astratti ed irrealizzabili o, nel migliore dei casi, ha confuso e, poi, assolutizzato alcune specificità/particolarità (...esse stesse prodotte dal corso della crisi del capitale) con presunte tendenze ritenute oggettive, mature e già vigenti nel mondo del lavoro e nell’ intera società. Diciamo subito che la scelta di iniziare un ragionamento sul sindacalismo metropolitano è - all’oggi - una condizione obbligata che dobbiamo collettivamente assumere senza delegare a presunti specialisti del settore questo compito. L’orizzonte analitico da sviscerare ed approssimare è un obiettivo che riguarda tutti i militanti e gli attivisti per l’importanza strategica che riveste già oggi e, sempre più, ricoprirà nel prossimo futuro. L’intera organizzazione sindacale - l’RdB, la Confederazione Unitaria di Base, quanti, a vario titolo, si cimentano con le manifestazioni del conflitto e dell’autorganizzazione - sono chiamati a questa scommessa politica la quale è, necessariamente, orientata a prendere atto e misurarsi politicamente con l’ulteriore e generale complessificazione delle forme e dei meccanismi dello sfruttamento e del dominio del capitale. Attardarsi su comode e rassicuranti ricette, utili per tutte le stagioni politiche, probabilmente, al momento, ci eviterebbe traumi e defatiganti dibattiti ma condannerebbe la nostra azione sindacale ad un mero continuismo, senza nessuna reale possibilità espansiva, ed alla fine renderebbe inutile la nostra stessa ragione d’essere forza organizzata che punta, legittimamente, alla rappresentanza ed all’organizzazione conflittuale di precisi interessi sociali.

2. Generalizzazione dello sfruttamento ed espansione delle aree metropolitane: un sapiente intreccio per ricombinare e valorizzare il capitale! È certo che, mai come ora, anche osservando empiricamente la nostra quotidianità e le relazioni sociali a cui siamo costretti, l’estensione del rapporto di produzione capitalistico, fino a comprendere e mediare settori e rapporti sociali esterni alla dimensione della lavorazione delle merci (...l’intera nostra vita!) appare più chiaramente e percepibile rispetto a pochi anni fa. Questa tendenza, già chiaramente evidenziatasi nel corso degli anni settanta/ottanta, a seguito dei poderosi cicli di ristrutturazione e riconversione a scala globale, attraversa oggi uno dei suoi momenti topici, particolarmente riscontrabile nelle grandi aree metropolitane, dove il capitale esemplifica la sua articolata opzione di comando1 dentro una dimensione di nuova ed ulteriore socializzazione e valorizzazione privatistica del lavoro e dei lavori. Per molti studiosi ed osservatori questa realtà è foriera di insopprimibili ansie post/industriali dove l’antagonismo ed il conflitto sociale (divenuti forma-liquida...) sparirebbero o sarebbero ricondotti ad un puro e residuale dato endemico, facilmente controllabile e governabile agevolmente dai collaudati meccanismi di gestione ed amministrazione2. Con buona pace di quanti vaneggiano di cyborgs/operai e di liberazione dal lavoro già immanente dobbiamo affermare - purtroppo - che la maledizione del lavoro salariato (in tutte le sue variegate forme di cui è capace la modernità della mondializzazione del capitale3) si è dilatata fino a divenire, in termini spaziali e temporali, una forma totalizzante dell’esistenza umana e di tutte le forme di vita. Naturalmente restano da comprendere appieno le modificazioni quantitative e qualitative di questo lavoro, il suo rapporto con il plus-valore prodotto realmente, il legame con l’intervenuta rivoluzione micro-informatica ed il nesso profondo con i processi di ristrutturazione urbanistico territoriale degli spazi metropolitani. Insomma, volendo sintetizzare, possiamo ritenere che la contraddizione capitale/lavoro, scevra da ogni assurda ed inservibile fissità ideologica, resta un parametro fondamentale dello sviluppo capitalistico, perpetuando il regime della divisione sociale del lavoro e lasciando inalterato il dato dello sfruttamento della forza-lavoro, ovunque dislocata, all’interno delle variegate dinamiche produttive. In questi anni abbiamo, più volte, evidenziato come il processo di diffusone della produzione non si identifica semplicemente con il decentramento produttivo ma configura in tutti i settori della società una forma particolare del processo di accumulazione fondata su diversi rapporti di produzione, su nuove relazioni aziendali, su una composizione tecnica e politica del mercato del lavoro profondamente mutata anche rispetto al recente passato. Questa accennata territorializzazione della gestione del processo economico-sociale, che investe per altro in modo generale il ruolo del governo del territorio, è motivata attraverso l’analisi delle sue trasformazioni d’uso, innanzitutto in rapporto alla nuova (e più flessibile) forma del processo di accumulazione. Schematizzando potremmo elencare i principali aspetti in questi punti:

* Espansione del centro metropolitano nella regione produttiva: il “riuso” delle aree periferiche delle regioni metropolitane Il processo di blocco e riduzione della produzione diretta di merci nelle aree ritenute centrali e di riarticolazione del processo produttivo nelle aree periferiche secondo i modelli del “decentramento” e della “diffusione” della produzione, comporta un “riuso” nel nuovo contesto produttivo dei centri urbani minori e del tessuto rurale. La “metropolizzazione” di queste aree periferiche non consiste nella semplice riproduzione decentrata dei fattori inerenti al sistema della grande fabbrica, ma nel riutilizzo, sotto il comando della grande impresa e nella forma della “fabbrica diffusa” del tessuto sociale e produttivo, “residuale” rispetto alla fase della concentrazione produttiva. Queste aree non vengono solamente utilizzate e valorizzate in quanto bacini di forza-lavoro ma in quanto sede di preesistenze culturali, associative e di forme specifiche di integrazioni del reddito e di controllo sociale tipiche delle “economie periferiche” della precedente fase di accumulazione. In questo contesto va interpretato l’assorbimento della piccola e media impresa, del lavoro autonomo, dell’artigianato4, del doppio lavoro, del part-time, nel circuito di comando delle grandi holding a scala globale e multinazionale.

* La trasformazione del mercato del lavoro e dei servizi sociali È evidente che la modificazione del ruolo produttivo delle aree metropolitane si pone in stretta relazione con l’espansione delle funzioni centralizzate del comando, della sua gestione, dei meccanismi dell’informazione e della circolazione produttiva e finanziaria. La riorganizzazione di queste funzioni segue i criteri della ristrutturazione (riduzione della base lavorativa contrattualizzata, espansione e generalizzazione della precarietà e dell’insicurezza, decentramento ed esternalizzazione normativa e territoriale dei cicli di produzione) facendo venir meno le classiche distinzioni tra mercato del lavoro industriale e terziario. Probabilmente - ma su questo aspetto è aperta la discussione ed il confronto - a seguito dell’accertata permeabilità tra i diversi comparti in cui si esercita il nuovo comando e le modalità dello sfruttamento possiamo iniziare ad intravedere, non in maniera sociologica ma come soggetto collettivo cooperante ed in azione, una figura sociale tendenzialmente unificata e circolante nel tessuto produttivo metropolitano5. Una figura sociale, non immediatisticamente politica, ancora tutta da scandagliare ed inchiestare ma, soprattutto, da organizzare conflittualmente. Da questo punto di vista possiamo affermare che questa acquisizione teorica comporta il superamento, interpretativo e politico, di quello schema che si incentrava sulle sequenze: grande fabbrica e/o garanzia e stabilità del posto di lavoro - sindacalizzazione - acculturazione urbana ed afferma un percorso incardinato sull’approccio/impatto mobile, articolato e polivalente nella produzione. Per concludere, in maniera più che sintetica, possiamo affermare che il completamento dei processi di decentramento produttivo (in una dimensione che spazia globalmente in tutto il pianeta e particolarmente in un rinnovato rapporto di schiacciamento e di dipendenza del Sud del Mondo sotto i colpi della cupola finanziaria dei paesi dominanti dell’Occidente) inducono una nuova filosofia d’uso del territorio6 e nuove forme di dominio della giornata lavorativa sociale.

3. Il cerchio è quadrato?

Siamo convinti che il territorio delle aree metropolitane, in quanto sede di radicali contraddizioni fra concentrazione di risorse umane e produttive e problemi sociali di riproduzione, diventa un laboratorio sociale per la riorganizzazione dei rapporti tra le classi inscrivibili in un nuovo modello di accumulazione che oramai si diffonde dappertutto. In un contesto che si va - velocemente - ridefinendo la definizione progettuale di una corretta ipotesi di sindacalismo metropolitano sconta, purtroppo, limiti analitici non superabili immediatamente o con formulette volontaristiche. Dobbiamo sapere che anche nelle fila del sindacalismo di base, nell’RdB/CUB, tra diversi attivisti e tra molti lavoratori, che pure partecipano alla vita dell’organizzazione, ci sono prevenzioni e dubbi circa la validità e l’opportunità di arricchire ulteriormente questa ricerca e la pratica politica che sottende. Una prevenzione che fonda le sue basi materiali non solo nel generale clima politico di difficoltà che, tutti insieme, riscontriamo ma, soprattutto, in retaggi aziendalistici e particolaristici che ancora permangono in alcune zone d’ombra dell’organizzazione. Retaggi (...ed incomprensioni!) che comprendiamo pienamente e che ascriviamo al lungo e tormentato percorso che numerosi compagni hanno dovuto compiere per mantenere in vita, per tanti anni, in centinaia di aziende ed in significativi settori sociali, in primis della Pubblica Amministrazione e dei servizi, un barlume di organizzazione sindacale indipendente dai sindacati collaborazionisti e dalle preponderanti compatibilità padronali. Non ci meraviglia, quindi, che i messaggi e le spinte politiche organizzative che spingono l’attività dell’organizzazione verso nuovi settori d’intervento, fuori ed oltre i tradizionali comparti di intervento, possono suscitare freddezza ed, in alcuni accertati casi, pure indifferenza. Non è un dramma. Anzi, questa difficoltà ci segnala un problema vero che deve sollecitarci non solo ad uno sforzo d’analisi e di comprensione delle questioni sul tappeto di tipo straordinario, ma farci riflettere sulle modalità più opportune da mettere in atto per socializzare, nell’organizzazione e fuori da essa, la discussione e la condivisione pratica collettiva dei compiti politici di questa fase. Su questo tema, però, come su altri, non partiamo dall’anno zero ma crediamo di aver già prodotto alcuni importanti elementi di linea politica. Lo scorso Congresso di Fiuggi7 ha avuto l’indubbio merito di non limitarsi a fare il mero punto contabile dell’attività dell’RdB/CUB ma ha saputo indicare, nei materiali preparatori e nel ricco dibattito svolto, alcuni capisaldi interpretativi della fase politica e di come il sindacato deve predisporsi ad affrontarla. Inoltre, prima e dopo il congresso, l’intera organizzazione, ed alcune federazioni specificatamente, si sono cimentate su temi di battaglia politica e di vera e propria sperimentazione organizzativa che hanno politicamente arricchito, complessivamente, i compagni e l’intera struttura dell’ RdB/CUB. Precarietà del lavoro e della vita, immigrazione e politiche razziste, carovita e lotta alle nuove povertà, questioni urbane a partire dal fondamentale diritto alla casa, interazione con associazioni di consumatori e di piccoli produttori, opposizione al complesso di quelle che definiamo produzioni di morte (inceneritori, discariche, stoccaggi di scorie); tanti sono stati i compiti nuovi affrontati negli ultimi due anni di attività sindacale. Certo non sempre siamo riusciti a svolgere quel ruolo di funzione politica indipendente e di ricomposizione del blocco sociale a cui, da tempo, aspiriamo ed a cui dobbiamo tendere, sempre più, specie in un periodo come questo dove la “sindrome da governo amico” sembra contagiare anche ambienti politici e soggettività che si erano messi in movimento durante la vigenza del governo del Cavaliere. Molte volte, su queste questioni, ci siamo dovuti accontentare di una presenza testimoniale e di pura visibilità, ma - nel complesso - il quadro attivo e militante dell’RdB/CUB ha superato dignitosamente queste prime (complicate) prove di riarticolazione, di riqualificazione e di ulteriore dispiegamento dell’azione politica e sindacale in una fase sostanzialmente nuova8 e con una mutazione avvenuta del quadro strutturale e politico in cui agiamo. Gli stessi compagni che si sono limitati a stare ai margini di questo nuovo impegno (giudicandolo, magari, “poco sindacale”) hanno - oggi - a loro disposizione materia sociale viva su cui riflettere adeguatamente per partecipare a pieno titolo ed in maniera più convinta alle future iniziative dell’organizzazione su questi terreni. Del resto, a distanza di qualche anno, considerando anche il punto politico da cui siamo partiti, possiamo affermare che almeno per quanto riguarda i titoli delle questioni da affrontare, la loro tempistica e periodizzazione nel corpo delle contraddizioni di classe ed il legame di queste con le trasformazioni economiche e sociali in atto nella società abbiamo centrato l’obiettivo che ci eravamo prefissati. Si tratta ora di capitalizzare ed investire ulteriormente, in avanti, queste competenze acquisite per poter essere in campo conflittualmente nei prossimi mesi ed anni che ci stanno davanti indirizzandoci, con una metodologia che ci piace definire di approssimazioni successive, verso più adeguati paradigmi analitici.

4. Qualche idea, un suggerimento per prime, parziali, temporanee sperimentazioni Nelle esperienze finora verificate emerge, seppur con differenze non da poco tra aree geografiche diverse di cui tenere conto, la necessità di strutturare un intervento territoriale in forme stabili e continuative. Abbiamo oramai acquisito che oltre all’indispensabile radicamento nei tradizionali comparti lavorativi9 c’è bisogno di una progettazione di tipo territoriale in cui far confluire e mettere in relazioni questioni sociali al momento incomunicanti e, spesso, in contraddizione/competizione tra loro. L’universo del precariato e della precarizzazione/incertezza, la politiche della casa e le problematiche urbane, la generalità della questione dei migranti, il terreno dell’assistenza legale, fiscale ed il rapporto con l’arcipelago delle associazioni dei consumatori sono tutti filoni d’intervento sindacali che investono le condizioni di lavoro e di vita nelle metropoli i quali andrebbero ricondotti in un contenitore unico10. Un contenitore/collante che senza annullare le singole particolarità dovrebbe essere in grado di produrrebbe un effetto politico generale rigenerante ed espansivo. Ci si dirà che su questi aspetti, o su alcuni di questi, già è in atto una attività da parecchio tempo. Bene, ci fa piacere e dobbiamo impegnarci tutti per potenziarla ulteriormente. Permane però il problema politico e, di conseguenza, organizzativo di intravedere una cornice politica unitaria in cui incasellare queste questioni per determinare non solo un risultato soddisfacente per tutti, sul piano dello svolgimento delle singole vertenze, ma per far crescere uno slancio in avanti verso nuovi e più ambiziosi risultati anche su questioni ritenute, spesso ed in maniera errata, poco abbordabili dalla quotidiana azione sindacale. C’è l’esigenza di una connessione forte tra quanto espresso - ad esempio - dalla Rete per il Reddito ed i Diritti, con le domande politiche e i messaggi veicolati, nei mesi scorsi, dai Comitati per la Quarta Settimana oppure tra l’opposizione ai progetti generali di ridisegno affaristico e speculativo di un territorio e le esperienze di comitati di lotta per la casa o delle associazioni di inquilini che operano in quella zona. Ancora il grande tema dell’organizzazione sui posti di lavoro dei migranti, non solo quando questi soggetti sono lavoratori-dipendenti, ma anche (come avviene nella maggioranza dei casi dentro le aree metropolitane) quando i migranti svolgono una sorta di “lavoro autonomo” oppure quando sono costretti a sopravvivere dentro i gangli infernali dell’economia marginale e/o extra-legale. C’è bisogno - insomma - di declinare un sindacalismo capace di avere, prioritariamente, sensori sociali adeguati nei punti di crisi delle città e di assumere, accanto al dato (politico) costitutivo della confederalità, l’elemento innovativo dell’assunzione delle contraddizioni metropolitane come uno degli assi centrali su cui svilupparsi e produrre azione, vertenze e conflitto nel prossimo futuro. Naturalmente anche su tale questione non esiste (fortunatamente) una modellistica organizzativa precostituita da far valere come un presunto manuale da apprendere e fedelmente applicare. Come sempre dobbiamo affidarci all’inchiesta militante, al radicamento sociale ed alla messa in rete di relazioni e rapporti tra settori sociali che, ad una prima fugace osservazione, potrebbero apparire in antitesi tra loro a causa dei nefasti effetti delle ristrutturazioni e degli sconvolgimenti abbattutisi sulla società, conseguenze del corso della crisi capitalistica. Un lavoro di lunga lena da sostenere ed implementare per collocare - finalmente - la discussione sul sindacalismo metropolitano nei suoi ambiti e contesti naturali.

note

* Federazione Regionale dell’RdB/CUB della Campania.

1 Per una documentazione più esauriente sulle grandi aree metropolitane, partendo da quelle statunitensi, rimandiamo ai testi del sociologo americano e ricercatore critico, Mike Davis. I suoi libri in Italia sono pubblicati dalla Manifesto Libri e dalla Feltrinelli.

2 Sul tema della cosiddetta governance sono state scritte migliaia di pagine. È questo uno dei concetti più mistificati da parte di quanti sono interessati, unicamente, all’amministrazione dell’esistente escludendo qualsiasi processo di vera trasformazione sociale. Di solito questa categoria è interpretata come capacità di mettere in atto relazioni e dispositivi politici capaci di imbrigliare e compatibilizzare ogni tendenza dissonante con la stabilità, la continuità e la riperpetuazione del dominio capitalistico.

3 Come in altri articoli, pubblicati su Proteo, richiamiamo l’attenzione su un recente libro dell’economista brasiliano Ricardo Antunes Il lavoro in trappola, Jaca Book, 2006, in cui l’autore svolge un accurata rassegna critica sulle variegate forme con cui si esplica il moderno sfruttamento capitalista, nelle aree principali del mondo, attraverso le multiformi tipologie del lavoro e dei lavori. Per una recensione più completa a questo libro rinviamo al numero 2/06 di Proteo in cui sono pubblicati articoli che riguardano specificamente il testo citato.

4 Con l’avanzare dei processi di centralizzazione e di concentrazione del capitalismo, il lavoro autonomo e le principali forme riconducibili all’artigianato tendono, sempre più, a configurarsi come sedi diffuse di lavoro a cottimo e parcellizzato riconducibili, però, al di la dei momentanei involucri formali con cui si rappresentano, alla grande impresa a rete che gestisce ed amministra l’intero ciclo generale delle merci e la loro capillare diffusione.

5 Le due recenti ondate di esplosioni sociali in Francia - nelle banlieue e la rivolta antiprecarietà - ci consegnano argomenti e lezioni politiche per riflettere adeguatamente sull’imprescindibile nesso tra condizione urbana in una grande area metropolitana e le nuove espressioni (...per certi versi inedite, spurie e difficilmente catalogabili!) del disagio e della lotta.

6 Nei numeri precedenti di Proteo (1/06 e 2/06) sono stati pubblicati articoli che presentano un modello di analisi economica e produttiva delle principali città (ed aree metropolitane) del paese iniziando a delineare una possibile griglia interpretativa utile alla nostra azione sociale e sindacale.

7 Consigliamo al lettore la visione dei materiali dell’ ultimo congresso dell’RdB/CUB (Sogni, Bisogni, Conflitto), giugno 2005, scaricabili dal sito internet: www.rdbcub.it.

8 Quando parliamo di fase politica nuova non ci riferiamo solo al governo Prodi o - se l’esecutivo sarà chiamato a scelte profondamente antipopolari - ai tentativi di “grande coalizione” che pure sono in agguato. Intendiamo, invece, per fase nuova, la determinazione con cui i poteri forti (...in primis la Confindustria di Montezemolo e le teste d’uovo della Banca Centrale Europea) spingono per demolire in maniera sistematica ciò che residua del vecchio “compromesso sociale” mettendo mano, strutturalmente, alle pensioni, alla sanità ed alla previdenza pubblica in modo da adeguare fortemente l’Azienda/Italia nell’ambito dell’accresciuta competizione globale internazionale.

9 Molto spesso si tende a relegare il lavoro sindacale nel Pubblico Impiego e nei servizi come un’attività che riguarderebbe lavoratori, tutto sommato, garantiti e particolarmente legati al proprio specifico aziendale. Sicuramente questo aspetto è presente e bisogna prioritariamente saperlo. C’è da dire, però, che lo sviluppo di lotte sull’organizzazione del lavoro nei comparti di produzione e di amministrazione dei servizi pur essendo lotte “di settore” investono direttamente la politica di gestione del territorio, in quanto mettono in discussione le finalità di produzione dei servizi stessi, in rapporto alla moderna morfologia delle metropoli ed ai bisogni emergenti nei vari contesti socio/territoriali.

10 Non bisogna equivocare la nostra proposta. L’idea di un contenitore unico va interpretata non in chiave formalistica ed organizzativistica ma come il tentativo di far dialogare esperienze sociali le quali - sotto i colpi dell’azione disarticolante del capitalismo - stentano a riconoscersi come parte di un unico schieramento di classe.