1. Cenni storici
Il 27 Ottobre 2005, a Clichy-sous-bois, comune dell’Ille de France alla periferia est di Parigi, due adolescenti, Zyed Benna di 17 anni e Bouna Traoré di 15, muoiono fulminati da un trasformatore all’interno di una cabina elettrica, e un terzo, Muhttin Altun di 17 anni, rimane gravemente ferito; il fatto avviene in circostanze non chiare: secondo alcuni testimoni i tre ragazzi erano inseguiti dalla polizia. Ma il prefetto locale François Molins ed il ministro degli Interni Nikolas Sarkozy negano che i ragazzi siano stati “fisicamente inseguiti”. Ciononostante, la sera del 27 cominciano gli scontri tra diverse centinaia di giovani banlieusards e le forze di polizia; la mattina del 29 Ottobre viene organizzata una marcia silenziosa, cui partecipa anche il sindaco del comune ed i parenti delle vittime, per chiedere a Sarkozy un’indagine ufficiale sui fatti; il clima si arroventa ulteriormente il 30 Ottobre, quando si diffonde la notizia che è stata lanciata una granata a gas lacrimogeno nella moschea Bilal di Bousquets: il ministro degli Interni nega ogni responsabilità ma le forze di polizia ammettono che la granata è dello stesso tipo usato dai poliziotti antisommossa francesi. Non solo: Sarkozy calca verbalmente la mano contro i manifestanti, definendoli “racaille”, feccia, e annuncia una politica di tolleranza zero per fare fronte alla crisi delle periferie. Nonostante gli appelli alla calma di Chirac e De Villepin, da allora in poi sarà praticamente guerriglia urbana che si protrarrà per ben tre settimane, costringendo il presidente della Repubblica a dichiarare, l’8 Novembre, lo stato di emergenza, imposto in precedenza l’ultima volta nel 1955, a seguito della guerra d’indipendenza algerina. Ciò dà le misure dei termini nei quali il governo e la politica intendono affrontare la questione. Il 9 Novembre, inoltre, il ministro degli Interni cala il pugno di ferro sui manifestanti, disponendo l’espulsione di tutti gli stranieri colpevoli di aver preso parte alle rivolte. La crisi sembra rientrare solo alla quarta settimana, quando la polizia francese comunica che nella notte del 16 Novembre sarebbero stati bruciati “soltanto” 98 veicoli, il che indicherebbe un “ritorno ad una situazione normale in tutta la Francia”, essendo tale cifra corrispondente alla media degli atti vandalici a notte prima dell’inizio dei disordini. La risposta del governo alla crisi delle periferie si prefigura già nei giorni della rivolta: da un lato la repressione e la “tolleranza zero” messe in atto dal ministero degli Interni; dall’altra parte l’appello del presidente Chirac, il 14 Novembre, per la creazione di “pari opportunità per i giovani”. Quest’ultimo concetto sarà infatti ripreso dal primo ministro De Villepin, quando l’11 Gennaio 2006 presenta un progetto di legge “per l’eguaglianza delle opportunità”, contenente dispositivi specifici atti a favorire l’inserimento nell’apprendistato e nel lavoro dei giovani in difficoltà, insieme a misure contro le discriminazioni e per la creazione di occupazione nelle aree urbane depresse. E’ chiara la caratterizzazione del provvedimento legislativo come risposta alla crisi delle banlieues, ma ciò che inizialmente viene presentato come una serie di misure a sostegno di fasce sociali disagiate si trasforma rapidamente in altro: il 16 Gennaio infatti il premier annuncia, come seconda tappa del suo “processo per l’occupazione”, la creazione del Cpe, “contratto di primo impiego”, introdotto sotto forma di emendamento al progetto di legge “per l’eguaglianza delle opportunità”, pur prevedendo soprattutto la possibilità per l’imprenditore di licenziare senza giusta causa i dipendenti di età inferiore a 26 anni durante i primi due anni di occupazione, ed essendo dunque un provvedimento che riguarda la totalità dei giovani lavoratori, e non solo categorie particolari. Di fronte all’opposizione totale da parte degli studenti e dei sindacati, con i quali non è stata condotta la benché minima concertazione riguardo la messa in atto del provvedimento, De Villepin ricorre alla procedura accelerata per la discussione in Parlamento della legge, che viene approvata il 9 Marzo. Tuttavia la mobilitazione massiccia contro il Cpe da parte degli studenti, supportati da sindacati e opposizione socialista, che conosce il suo culmine il 28 Marzo, con la discesa in piazza di ben tre milioni di persone in 150 città francesi, costringe ben presto il premier ad abbandonare la linea dell’intransigenza e della non disponibilità al confronto. Inoltre a De Villepin comincia a venir meno il sostegno del governo e del presidente Chirac, per la crescente preoccupazione suscitata dall’eventualità di un braccio di ferro ad oltranza con l’ampio fronte di opposizione alla legge. Tali timori emergono dalle dichiarazioni del 31 Marzo da parte di Chirac, che sembrerebbero rivelare, come nota J. Freyssinet, “una concezione surrealista del diritto”1; dall’Eliseo infatti si decide di promulgare immediatamente la legge (“nel rispetto della democrazia” dichiara Chirac), tuttavia vengono imposti degli emendamenti che di fatto snaturano la legge concepita da De Villepin: in pratica “la legge è promulgata per salvare la faccia del primo ministro, ma il presidente s’impegna a non farla applicare”2. Ma i movimenti studenteschi, che vogliono il ritiro, continuano nella protesta, che passa per una seconda grande giornata di manifestazioni il 4 Aprile, per poi concludersi, il 12 Aprile, con la vittoria del movimento studentesco e appunto il ritiro della legge sul Cpe da parte di Chirac. “Non sono stato capito” commenterà poi il grande sconfitto, De Villepin.
2. Segregazione e precarismo: la questione lavorativa e le tensioni sociali La delimitazione ideologica della lettura che la destra al governo ha dato delle rivolte dei banlieusards è netta: la questione è unicamente di ordine pubblico, e riguarda solo incidentalmente l’integrazione dei cittadini di origine immigrata nello splendente blob della “Republique”, nella misura in cui l’influsso di fantomatiche milizie islamico-integraliste3 eserciterebbe, attraverso l’induzione ad una violenza “organizzata”4 una rottura nella coesione repubblicana per sedurre con le sirene della violenza parte dei “cittadini”5. Indubbiamente la questione-banlieues si compone di istanze etnico-razziali, ma questa dimensione del problema non può in alcun modo essere scissa da quella sociale, violentemente sociale, della segregazione civile, lavorativa e geografico-urbanistica degli immigrati di origine coloniale. Dalle cifre emerge con chiarezza l’esclusione dei cosiddetti beurs, figli e nipoti di immigrati, da qualsiasi possibilità di autorealizzazione personale e sociale: il tasso di disoccupazione, tra i figli di immigrati algerini, è del 23,2% per la forza lavoro maschile e del 22,3% per quella femminile, cui va aggiunto il 13,1% di completa inattività; per quanto riguarda lavoratori e lavoratrici di origine tunisina e marocchina, le percentuali di disoccupazione sono rispettivamente del 19,4% e del 21,7%, oltre al 11,9% di inattività; i disoccupati tra lavoratori e lavoratrici di origine subsahariana sono rispettivamente il 19,2% e il 18,8%, oltre al 9,8% di completa inattività; laddove per i figli e nipoti di immigrati di origine italiana e spagnola le percentuali sono il 10,3% per i lavoratori e il 14,3% per le lavoratrici, oltre al 11,3% di inattività6, dato, quest’ultimo, che rientra pienamente nella media nazionale. C’è dunque, ed è forte, una discriminazione verso i figli e nipoti degli immigrati provenienti dalle colonie, i quali secondo la retorica repubblicana sarebbero pienamente “cittadini” francesi, ma che nei fatti sono chiaramente considerati “cittadini” di serie B, che subiscono lo shock portato nella società francese da un processo di decolonizzazione tormentato, problematico, e mai compiuto fino in fondo, essendosi fermato ad uno stadio che R. Genovese descrive attraverso il concetto di “ibridazione culturale”, che “indica in primo luogo uno stato di impasse e d’impotenza della modernità occidentale (in questo caso quella francese) che non ce la fa a portare a termine la decolonizzazione in modo positivo. In altre parole, una volta ‘importate’ nella madrepatria, le colonie restano colonie”. Questa condizione di incompletezza del riassorbimento, imposto dal modello dell’integrazione repubblicana, da parte dello Stato laico francese delle diversità culturali ed etno-razziali, pesa gravemente sugli immigrati di seconda e terza generazione, “doppiamente penalizzati per le loro caratteristiche etno-razziali e per l’esistenza di una congiuntura nettamente sfavorevole sul piano della crescita economica e dell’impiego”7; in altre parole, i beurs, oltre ad essere soggetti a quello che R. Genovese chiama “multirazzisimo”8, fenomeno sorgente dal cuore di tenebra coloniale della società francese, sono coinvolti in quella che è la precarizzazione di alcune fasce sociali conseguente alla ristrutturazione capitalistica della società, risultando dunque doppiamente emarginati; tale status dei “cittadini” di origine immigrata si concreta e si riflette in un processo di “segregazione urbana”9, che colloca gli immigrati precarizzati nel confino delle periferie, in una ripartizione geografico-urbanistica discriminatoria che in pratica riproduce l’impianto coloniale all’interno della madrepatria. “Questa ribellione” - dunque - “rappresentava, soprattutto, un problema di classe. Si trattava fondamentalmente di una ribellione dei giovani delle classi urbane più precarie. (...) Che molti giovani siano di origine straniera (in maggioranza nord-africana e subsahariana) non può far perdere di vista il fatto che il punto comune di questi ribelli (...) è certo la loro povertà”, notava giustamente R. Herrera sullo scorso numero di Proteo10. La risposta, chiaramente ispirata da un paternalismo patronale di stampo ottocentesco, data al grido di dolore delle banlieues da parte del governo, che ha teso, come abbiamo visto, a dissimulare le cause sociali del fenomeno, si è mossa su due binari: quello reazionario della pura repressione da un lato, quello neoliberista dell’attacco al Cdi (contratto a tempo indeterminato) dall’altro. Per quanto riguarda i provvedimenti repressivi, oltre all’instaurazione dello stato di emergenza e all’espulsione di tutti gli stranieri colpevoli di aver preso parte alle rivolte, è particolarmente significativa, a posteriori, la vergognosa legge sull’immigrazione concepita da Sarkozy, la quale, secondo le dichiarazioni del ministro degli Interni, dovrebbe segnare il passaggio da un’immigrazione “subita” ad un’immigrazione “scelta”, attraverso una cernita del materiale umano immigrato da accogliere operata sulla base delle “competenze e talenti” e dell’”integrazione repubblicana”, sbarrando invece di fatto la strada dell’asilo a quelli che il ministro definisce “immigrati sotto-qualificati”11. L’attacco al Cdi, l’altra faccia della risposta reazionaria del padronato, parte invece da più lontano, e affonda le proprie radici nel neo-liberismo di ispirazione europeista: la destra neo-liberista12 sostiene da diversi anni un progetto di “ristrutturazione” del mercato del lavoro volto a combatterne la “rigidità”, in favore di una “flessibilità” conforme alle leggi del liberismo economico13; e in questo solco si colloca la cosiddetta “battaglia per l’occupazione” voluta dal premier francese De Villepin, la cui prima tappa è stata l’approvazione, nell’Agosto 2005, del Cne, “contratto di nuova assunzione”, forma contrattuale riservata alle imprese con meno di 20 addetti, che ha in comune con il Cpe la possibilità di licenziamento senza giusta causa per i primi due anni di impiego. Tale provvedimento14 costituisce chiaramente una sorta di prefigurazione del Cpe, del quale condivide lo spirito: il fine ultimo è demolire il Cdi, la necessità del cui superamento, secondo gli alfieri del neo-liberismo, è data, ovviamente, dalla non conformità di tale forma contrattuale alle esigenze padronali di riduzione della classe lavoratrice ad una schiavitù legalizzata per l’ottenimento di un più elevato margine di profitto. In quest’ottica il governo francese decide di proseguire per tappe: attraverso l’indebolimento dello statuto contrattuale di diverse categorie di lavoratori, si vuole restringere il campo di applicazione del contratto a tempo indeterminato, ponendo le condizioni per la sua sostituzione con un differente impianto che preveda la concessione di più ampi margini di libertà all’imprenditore nell’ambito del rapporto contrattuale, di fatto rimuovendo “i limiti imposti alla logica del capitale dalle lotte della classe operaia in materia di protezione contro i licenziamenti arbitrari”15, e sottoponendo incondizionatamente i lavoratori all’abuso del padronato. Il Cpe, facente parte del progetto di legge “per l’eguaglianza delle opportunità” presentato in risposta alla rivolta delle periferie, nasconde dunque sotto un velo di retorica il doppio intento del premier: da un lato gli consente di ostentare la sua buona disposizione da padroncino gentile nei confronti dei banlieusards, che intanto Sarkozy continua a vessare con provvedimenti discriminatori, dall’altro di portare a compimento un’altra tappa del processo di precarizzazione dei lavoratori dipendenti16; ciò gli consente inoltre, per cercare di indebolire la mobilitazione anti-Cpe, di far leva sulla caratterizzazione fittiziamente assistenzialista della misura legislativa per introdurre una spaccatura nel fronte di protesta, tra i giovani scolarizzati e i cosiddetti casseurs: i primi sarebbero i veri “reazionari”, in quanto nel loro unico interesse lottano contro quella che viene presentata come una misura di previdenza sociale a vantaggio dei secondi17, in una semplicistica e pateticamente sottolineata opposizione tra “giovani fortunati” e “giovani meno fortunati”18. In realtà tale tentativo non ha ottenuto altro risultato che aumentare la coesione del movimento anti-Cpe: l’intransigenza del governo De Villepin ha portato ad una “alleanza improbabile di classi di età e di gruppi interni ai giovani che si differenziano radicalmente per luoghi di vita, risorse, formazione”19, un’alleanza tra i giovani già proletarizzati/esclusi e i giovani che sentono forte la minaccia della proletarizzazione, cementata intorno all’obiettivo comune della lotta contro il precarismo20 che si vorrebbe imporre ad una “fascia subalterna” di lavoratori, attraverso una destrutturazione e una riconfigurazione dello statuto del lavoro salariale sulla base di interessi capitalistici miranti a pressare sul fondo di una precarietà di vita sempre più insostenibile il lavoro dipendente, in modo da rendere quest’ultimo un fondo fortemente proletarizzato da cui attingere a mani basse forza-lavoro a prezzi infimi, consoni alla preservazione di un ampio margine di profitto da parte del padronato.
3. La “sinistra” fantasma
Tuttavia, pare che tali problematiche economico-lavorative indi sociali passino inosservate alla sconfinata autoindulgenza di socialisti e sindacati, il fronte della cosiddetta “sinistra” francese, il cui interventismo durante le settimane di rivolta delle banlieues ha oscillato tra le timidissime dichiarazioni del segretario generale della Cgt Bernard Thibaut21e il vuoto pneumatico di iniziative da parte del partito socialista, rapito dai preparativi di un difficile Congresso nazionale, in totale smarrimento e crisi di identità22. Nell’ambito della mobilitazione anti-Cpe il ruolo di socialisti e sindacati è stato appena maggiormente in rilievo, ma in un contesto sostanzialmente più complesso, in cui il traino del movimento era costituito dalle assemblee autonome degli studenti, supportati da Cnt, parasindacato anarcosindacalista, dai trozkisti della Lcr e dal Sud, del sindacalismo di base; in modo complementare all’ala anarchica si è mosso il sindacalismo studentesco, con l’Unef di Bruno Juillard, divenuto uno dei volti mediatici della novella primavera francese, mentre sono stati semplicemente “al traino degli studenti (...) i più importanti sindacati francesi, la radicalcomunista Cgt, la socialista Cfdt e la corporativa Fo”23, dimostrando per l’ennesima volta il distacco del sindacalismo di mediazione dalle impellenti questioni socio-economiche poste dal dittico di avvenimenti banlieues-”no al Cpe”. Distacco e cecità evidentemente dovuti proprio al carattere mediatore di tali forze(?) sindacali, che le ha rese mere appendici di un potere politico poco interessato se non per motivi elettorali alle questioni lavorative e occupazionali, portandole così a diventare il ventre molle della protesta: proprio il Cgt, insieme con l’Unef, è stato coinvolto durante i primi giorni di mobilitazione in un tentativo di aprire una “trattativa al ribasso”24 da parte di Chirac attraverso il suo emissario Sarkozy, tentativo poi miseramente fallito; ancora, la rigidità ideologica di tali formazioni sindacali ha fatto sì che alcuni inevitabili momenti di tensione tra banlieusards e studenti nell’ambito dei cortei parigini degenerassero in episodi di violenza, tra cui alcuni piuttosto gravi, primo tra tutti quello del 28 febbraio, quando “la manifestazione (...) è stata ultrainfiltrata da agenti in borghese e la Cgt si è dotata di un proprio servizio d’ordine stalinista che ha menato a destra e a manca chi proprio non c’entrava niente, ma la pensava diversamente dall’artritico sindacato di sinistra”25: il sindacato autocooptatosi tra le forze reazionarie! Ciò ci porta a pensare che le difficoltà nel far confluire studenti e banlieusards nell’unico fronte della lotta comune al precarismo indotto non derivi da una non comunanza di obiettivi, ma dall’incapacità da parte della sinistra francese e di un sindacato debole - sia costituzionalmente26, sia in quanto ulteriormente indebolito nella sua capacità di offrire effettivo sostegno alla classe lavoratrice dai suoi contatti con la politica dei partiti - da un lato di rispondere al grido di dolore che viene dalle periferie della segregazione, e dall’altro di assumere realmente la guida della lotta dei lavoratori e dei futuri lavoratori contro la tendenza alla precarizzazione della vita imposta dal capitale, non essendo riusciti prima a farsi promotori di una vera politica “di sinistra” in favore delle parti sociali colpite dalle politiche governative, e rischiando poi di creare nel movimento anti-Cpe un vuoto, una spaccatura nella quale la destra populista ha tentato di incunearsi. Ma senza riuscirvi, per i motivi che abbiamo visto27. 4. Il “caso francese” e le aspirazioni di una “riforma” in senso capitalista Le “Cassandre della ‘Francia allo sfascio’”, che “descrivono un Paese che affonda in una disperazione collettiva”, imputano tale stato di ipotetico degrado ad una atavica “assenza di riforme”, che porterebbe questa “Francia malata”28 ad un attendismo anti-modernista e al mantenimento di un sistema sclerotizzato. Ma qual è la cura miracolosa che invocano questi “paladini della modernità”, ancora una volta? Ovviamente, la ricetta sarebbe un “risanamento liberista”, che attraverso la deregulation del mercato del lavoro, quella che dovrebbe sostituire il Cdi con una sorta di contratto-capestro per il lavoratore, libererebbe finalmente gli imprenditori dai tormenti e dalle preoccupazioni che gli impediscono di assumere, oppressi come sono dal timore di non poter a sufficienza dispiegare le proprie possibilità di sfruttamento della forza-lavoro. Ma è chiaro che la protesta francese tutto è tranne che l’espressione di una retriva chiusura sociale: è anzi il fronte avanzato di una protesta che in tutta Europa muove contro “la globalizzazione selvaggia, che significa la cessione di tutto il potere alla finanza. E l’abbandono dei cittadini all’arbitrio delle imprese, mentre lo Stato” - come la politica, anche quella di una certa timida “sinistra” - “se ne lava le mani”29, contro il precarismo selvaggio e imposto, contro le suddivisioni classiste della società in patrizi e plebei, contro il sacrificio, sull’altare del profitto di pochi padroni, di ogni possibilità per un’ampia fascia di lavoratori, in larga parte giovani, di avere una vita dignitosa. Questa è la battaglia che ora si consuma in tutta Europa. E la Francia è in prima linea in questa lotta. E resiste.
Bibliografia
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note
* Ricercatore dell’Osservatorio Meridionale di Cestes-Proteo.
Note
1 cfr. J. Freyssinet, La rivolta in Francia, da “Eguaglianza & Libertà”, www.eguaglianzaeliberta.it.
2 cfr. ibid.
3 Questo nonostante le moschee francesi abbiano più volte condannato i fenomeni di violenza, “temendo”, nota giustamente R. Genovese, “quella etnicizzazione che la destra ha comunque messo in atto” (cfr. R. Genovese, Il grido delle banlieues, da “Aprile” n. 132); si veda a tale proposito la denuncia del 17 Novembre da parte dei musulmani francesi dei tentativi di attribuire loro la responsabilità delle rivolte nelle periferie.
4 Come il 5 Novembre ebbe ad affermare, tra gli altri, Yves Bot, pubblico ministero della città di Parigi.
5 Si lega chiaramente a certa paranoia anti-islamica di matrice atlantica tale lettura, la cui base, come chiariscono H. Lagrange e M. Olberti, sarebbe la convinzione che “la sfida che il multiculturalismo pone alla Francia rinvierebbe a una dimensione religiosa, quella dell’islam, che troverebbe difficilmente una sua collocazione in una società caratterizzata a un tempo da una forte presenza cattolica e da una cultura politica laica” (cfr. H. Lagrange e M.Olberti, Integrazione, segregazione e giustizia sociale. La Francia a confronto con Gran Bretagna e Italia, in La rivolta delle periferie. Precarietà urbana e protesta giovanile: il caso francese. a cura di H. Lagrange e M. Olberti, ed. Bruno Mondadori, p.4).
6 Le cifre sono tratte da R. Genovese.
7 cfr. Lagrange - Olberti, pp. 20-21.
8 in contrasto al concetto di “multiculturalismo”, cfr. R. Genovese.
9 cfr. Lagrange - Olberti pp. 30 sgg.
10 cfr. R. Herrera, No alla Costituzione europea, sommosse nelle periferie, mobilitazione contro il “CPE”. I tre tempi della ribellione francese (aspettando il seguito)..., da “Proteo” n. 2/06.
11 Qui si intrecciano chiaramente la retorica francese laicista più deteriore, nel principio dell’”integrazione repubblicana”, appunto, e una “concezione iper-tecnologica e scientista della knowledge-based economy (...) il cui obiettivo principale è di condurre ad una segmentazione artificiale della composizione di classe del lavoro cognitivo fondata sulla contrapposizione di due settori e di due componenti della forza-lavoro”. Secondo questa visione, “in un primo settore si concentrerebbe una sorta di ‘elite’ del lavoro intellettuale specializzata nelle attività più redditizie dell’economia della conoscenza (...). Questa componente della forza lavoro vedrebbe la propria remunerazione e le proprie competenze riconosciute”, laddove “in un secondo settore si concentrerebbe invece una manodopera la cui qualifica non sarebbe riconosciuta. In tal modo questi lavoratori subirebbero un massiccio fenomeno di ‘déclassement’, cioè una svalorizzazione delle condizioni di remunerazione e di impiego rispetto alle competenze effettivamente utilizzate nello svolgimento della propria attività lavorativa” (cfr. C. Vercellone, Analisi sulle lotte contro Cpe in Francia, da “Multitudes web”, http://multitudes.samizdat.net/). Tale concezione è alla base del tentato declassamento e precarizzazione dei lavoratori dipendenti che si cerca di operare mediante l’introduzione del Cpe, ed esemplifica la visione classista del padronato capitalista che divide, all’interno del genere umano, un “rango superiore” nobilitato dal possesso del capitale e dall’aspirazione al profitto mediante la valorizzazione del capitale stesso, e un “rango inferiore” che si configura semplicemente come serbatoio di forza-lavoro a bassissimo costo a disposizione dei padroni, affinché questi ultimi possano risultare competitivi secondo le regole del libero liberissimo mercato.
12 Supportata, tra gli altri, da organizzazioni come Ocde (Organisation de coopération et de développement économiques) e in Francia da Medef (Mouvement des enterprises de France, la Confindustria francese), oltre che da istituti-cardine dell’economia europea ed europeista come la Bce (Banca centrale europea), il cui presidente, Jean-Claude Trichet, in un’intervista rilasciata il 20 Marzo 2006 al canale tv francese Lci, ha esortato i governi dei paesi della zona euro ad adottare una “maggiore duttilità” nel mercato del lavoro.
13 Tale ristrutturazione sarebbe finalizzata soprattutto a sciogliere quelli che gli economisti ortodossi riconoscono come i due maggiori problemi che la “rigidità” di cui sopra comporterebbe: “gli effetti negativi esercitati sulle decisioni relative alla creazione di lavoro dalla previsione dei costi e dei forti ritardi in caso di una futura necessità di licenziare”, per cui le imprese rinuncerebbero ad assumere per evitare tali complicazioni, e “gli effetti perversi del dualismo del mercato del lavoro generati dalla coesistenza di due regimi giuridici, i contratti di lavoro a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato”, che spingerebbero gli imprenditori a stipulare unicamente contratti del secondo tipo, ovviamente più vantaggiosi perché più flessibili. Di qui la necessità, secondo tali economisti, di pensare ad un unico contratto di lavoro che conceda agli imprenditori una relativa libertà, limitata da pochi vincoli, di operare licenziamenti (cfr. J. Freyssinet).
14 Che è stato accompagnato da altre misure dello stesso segno, tra cui in particolar modo l’esclusione dei giovani sotto i 26 anni dal calcolo dei lavoratori effettivi.
15 cfr. R. Herrera.
16 Ancora una volta retorica repubblicana e retorica neo-liberista viaggiano a braccetto: la coesione dello Stato laico francese è salvaguardata da misure legislative “per l’eguaglianza delle opportunità”, dirette ai “giovani meno fortunati”, dunque una dimensione del problema viene qui sfruttata per occultarne l’altra, quella etnico-razziale, in quanto tali “misure sono presentate come misure ‘sociali’, salvando così il dogma repubblicano” (cfr. Lagrange - Olberti, p. 32), mentre attraverso gli stessi provvedimenti si conduce contemporaneamente un duro attacco contro il diritto del lavoro, con incidenza qui realmente sociale, mostrando il fine puramente strumentale, e dal punto di vista elettorale e dal punto di vista economico-liberista, della risposta ai disagi delle banlieues da parte del governo De Villepin.
17 Coerentemente con la retorica reazionaria che presenta i liberisti come “‘modernizzatori’, coraggiosi innovatori decisi a sormontare ‘le pesantezze’, ‘i blocchi’, ‘gli immobilismi’, i’tabù’ della società francese; come ‘riformatori’, indomiti avversari di tutti i ‘conservatorismi’(...)ecc.” (per lo sviluppo del concetto, cfr. F. Lebaron e G. Mauger, La rivolta contro l’occupazione mal pagata, da “Le Monde Diplomatique” dell’Aprile 2006).
18 Quanto c’è di classismo e di razzismo da età coloniale in questa visione!
19 cfr. H. Lagrange e M. Olberti, Il movimento anti-Cpe e l’unità dei giovani, in Lagrange-Olberti, p. 181.
20 Per il concetto di precarismo applicato alla “questione francese”, cfr. L. Flagiello, Génération précaire. La transnazionalità del proletariato precarizzato, da “Proteo” n. 2/06.
21 Limitatosi a dichiarare in un’intervista a Le Monde che che “non c’è nessun problema etnico, politico o religioso, ma soltanto un problema sociale nelle banlieues in fiamme”, cfr. intervista a M. Padovani, Francia, le ‘primarie’ della destra sulla pelle dei giovani, da “Eguaglianza e Libertà”.
22 Tale crisi risulta in maniera più che evidente dalle esternazioni di uno degli uomini forti del Ps, Jean-Christophe Cambadèlis, che mentre lo scontro tra governo e rivoltosi aumentava di intensità, dichiarava: “Siamo costretti ad appoggiare il governo, ma la verità è che non sappiamo cosa fare e cosa dire. Tutto però cambierà quando avremo scelto il candidato per le presidenziali”, cfr. F. Ronchi, Gioventù bruciata, da “Diario” del 17 Novembre 2005.
23 cfr. A. Foti, “Non à la Précarité!”. Note al ritorno da Parigi in rivolta, da Multitudes web.
24 cfr. ibid.
25 cfr. ibid.
26 La Francia è un paese in cui, scrive Barbara Spinelli su “La Stampa”, “il sindacato è debolissimo (...); dove solo il 9 per cento dei salariati è sindacalizzato, e però la percentuale di lavoratori coperti da contratti collettivi è abnorme (il 95 per cento dei salariati, contro una media del 70 negli altri paesi Ocse)”, cfr. B. Spinelli, Francia, Italia. La rabbia dei precari, da “La Stampa” del 21 Marzo 2006.
27 cfr. supra.
28 cfr. I. Ramonet, La Francia è malata?, da “Le Monde Diplomatique” dell’Aprile 2006.
29 cfr. ibidem.