Le politiche pubbliche e la relazione con l’innovazione tecnologica in America Latina

Ileana Dìaz Fernandez

1. Globalizzazione e Competitività

Il concetto di competitività evoca una nuova era nel commercio internazionale, che ha reso praticamente obsoleta la teoria dei vantaggi comparati, per lasciare il passo alla teoria dei vantaggi competitivi. Per anni lo scambio commerciale si è fondato sui vantaggi comparati, sia stato per una molteplicità di fattori o per vantaggi relativi di produttività; vale a dire che la differenza tra paesi si basava sulla differenza tra funzioni di produzione e non sulle diverse combinazioni di fattori all’interno di una stessa funzione di produzione. Eppure l’evidenza empirica non giustifica in tutti i casi che il posizionamento di un prodotto si basi su tali teorie, ma piuttosto sul fatto che sono le marche e le forme specifiche di tecnologia a fare la differenza tra le imprese. Vale a dire che coesistono imprese buone e cattive, caratterizzate da differenze tecnologiche e economiche rispetto alla frontiera tecnologica. Diversi studi hanno dimostrato che le differenze tra paesi e settori derivano da differenze di livello tecnologico, di costi relativi e di forme di organizzazione industriale dei settori (Dosi, G. K. Pavitt e L. Soete, 1990). Il mondo di oggi presenta asimmetrie tanto nel livello tecnologico tra industrie e paesi quanto nella diffusione tecnologica (come meccanismo di convergenza). Determinati paesi e, specficamente, determinate industrie dispongono di un vantaggio quasi assoluto dovuto al loro predominio tecnologico che si manifesta in un processo continuo di innovazione “vincolato alle opportunità di sviluppo tecnologico - sia esso generato endogenamente, all’interno dell’impresa, o raggiunto grazie ai progressi conseguiti nelle scienze pure da istituzioni non lucrative o realizzati in altri settori industriali - processo che è guidato dalla prospettiva dell’acquisizione di benefici economici e basato su capacità specifiche (e differenziate), tecniche e organizzative di ciascuna azienda” ( Dosi, G. K. Pavitt e L. Soete, 1990, 126). La causa di questo cambiamento è da ricercare nello sviluppo tecnologico e tecnico-scientifico che ha favorito il processo di globalizzazione dell’economia. In realtà come segnala Porter (1990), esattamente nello stesso momento in cui veniva formulata la teoria dei vantaggi comparati, la Rivoluzione Industriale superava alcune sue stesse premesse; infatti mentre accelerano i cambiamenti tecnologici i settori si vanno trasformando sempre più in conoscenza intensiva e si creano le condizioni per la concorrenza globale; pertanto i fattori vanno perdendo di importanza relativa. E’ per questo che analizzando la competitività nel quadro della globalizzazione non è possibile focalizzarla prendendo in considerazione solo il fattore costo, tanto che si è passati ad uno studio strutturale della competitività che la analizza come fenomeno alla cui determinazione concorrono un insieme più ampio di fattori: non si esclude l’influenza dei costi, solo che essi devono essere integrati con altri elementi. Secondo Alonso (1992) esistono tre considerazioni fondamentali da cui trae origine la competitività strutturale:
  Cogliere la maggiore complessità che rivelano i meccanismi attraverso i quali si esercita la concorrenza nei mercati, come le strategie imprenditoriali che ricorrono ogni volta di più a strumenti come la qualità del prodotto e il suo livello di adeguamento alla domanda, i servizi “post-vendita”, e in generale tutte le pratiche di differenziazione commerciale e tecnica.
  Il concetto di competitività strutturale cerca di rispondere al ruolo da protagonista(alla centralità raggiunta, nella concorrenza, dai processi di creazione, diffusione e adeguamento tecnologico a qualunque livello della catena di valore.
  Integra l’importanza che detengono i fattori di tipo organizzativo e istituzionale alla configurazione dell’apparato produttivo nazionale, o le interconnessioni tra settori e attività economiche, alla qualità delle relazioni tra gli agenti e all’infrastruttura fisica e tecnologica in cui operano. Cos’è dunque la competitività? In realtà essa è stata studiata a diversi livelli: nazione, settore, regione e impresa; per gli scopi di questo lavoro verranno analizzate solo la prima e l’ultima. Molti studi, la maggior parte de quali abbastanza empirici, cercano di spiegare i fattori determinanti della competitività e il modo in cui essa possa essere misurata, ma nel loro insieme permettono di giungere a determinate considerazioni generali:
  la relazione dialettica impresa-ambiente circostante esige che la competitività non possa essere considerata come concetto astratto ma con una vera e propria identità (come soggetto vero e proprio); al tempo stesso però questa identità non può concepirsi come concentrata univocamente in una delle due, impresa o nazione, ma nel loro insieme, pur senza sottostimare i fattori esplicativi di ciascuna di esse prese singolarmente.
  Ciascun modello di competitività deve essere trattato con carattere sistemico, che emana tanto dall’impresa come dalla nazione, cioè comprendere le interrelazioni tra le due, così come le loro singolarità, ognuna a livello sistemico.
  La competitività è sempre un risultato comparato e relativo, in relazione con i concorrenti, dell’azione di mercato. Esistono autori che definiscono la competitività di una nazione come “l’atteggiamento di un paese nell’ affrontare la concorrenza a livello mondiale...” (Chesnais, 1981); questa definizione però si limita, in pratica, allo scambio, e non prende in considerazione gli obiettivi di welfare. Così Fagerberg (1988) la definisce come “la capacità di un paese di raggiungere gli obiettivi principali della politica economica, in special modo l’aumento del reddito e dell’occupazione, senza ricorrere a difficoltà nella bilancia dei pagamenti”. La definizione precedente prende in considerazione il perseguimento di obiettivi relativi all’innalzamento della qualità della vita, ma l’esperienza internazionale dimostra, in paesi altamente competitivi, che tali obiettivi si possono raggiungere anche con difficoltà nella bilancia dei pagamenti. Se ci soffermiamo sulla precedente definizione e cerchiamo il fattore che riflette lo sviluppo e la crescita economica di un paese, questo è rappresentato dalla produttività ed è esattamente in questo modo che M. Porter (1990) definisce la competitività di una nazione. La competitività riflette “la capacità dell’industria di innovare e migliorare”, cosa che garantirà “l’obiettivo principale di una nazione: produrre un alto e crescente livello di qualità della vita per i suoi cittadini”. Con questo stesso significato Fajnzylber (1988) definisce la competitività come “...la capacità di un paese di sostenere ed espandere la propria partecipazione ai mercati internazionali, e aumentare simultaneamente il livello di vita della propria popolazione. Ciò esige un incremento della produttività e pertanto l’integrazione del progresso tecnico”. La produttività però non nasce dalla Nazione come ente astratto ma (come ente) che si realizza concretamente nei diversi settori ed imprese di un paese, e non tutti dovranno essere competitivi, lo saranno solo quei settori in cui “si diano” o “si creino” le condizioni a questo favorevoli. Ecco perchè si parla del concetto di competitività imprenditoriale e in questo senso la maggior parte delle definizioni si muove nei termini di avere una posizione nel mercato nel confronto con la concorrenza, come per esempio: “... quell’impresa risulta vincente (o in buona posizione) nel confronto con i suoi concorrenti nel mercato“ (C.A. Michlet, 1981). “La capacità degli industriali di creare, produrre e vendere merci e servizi le cui caratteristiche di prezzo e qualità costituiscono un insieme più attraente di quello dei concorrenti” (European Management Forum, 1993) “La capacità delle industrie di un paese dato di creare, sviluppare, produrre e vendere i propri prodotti in concorrenza con imprese radicate in altri paesi” (J. Alic, 1987). D’altra parte l’autore spagnolo José A. Alonso (1992) la definisce così: “La capacità di un’impresa di mantenere o incrementare in modo sostenuto la propria quota in un determinato mercato”; sebbene la sua definizione va nella direzione di raggiungere una posizione nel mercato, enfatizza che lo sia in modo sostenuto, cosa che è molto importante per comprendere che si tratta di un processo continuo e che è necessario uno sforzo sistematico. Così come gli autori J. Mathis, J. Mazier e D. Rivaud-Danset (1988) considerano che è “l’atteggiamento per vendere ciò che si è prodotto”, e trattandosi di una definizione incompleta, è importante il concetto di atteggiamento, inteso come condizioni per essere competitivi. Da parte sua Porter (1985) sostiene che “la leadership nel settore industriale non è una causa ma un effetto del vantaggio competitivo” e aggiunge che “l’obiettivo strategico per le unità di affari dovrebbe essere conquistare il vantaggio competitivo”. Questi criteri, sebbene possano sembrare limitati o ristretti, esprimono il concetto centrale della competitività imprenditoriale, detenere un vantaggio competitivo, concetto che include in se stesso il senso di rivalità e preferenza da parte del mercato rispetto ai concorrenti. D’altra parte secondo Porter (1991) per la concorrenza mondiale valgono i seguenti principi:
  Il vantaggio competitivo deriva fondamentalmente dal progresso, dall’innovazione e dal cambiamento
  Il vantaggio competitivo comprende tutto il sistema di valore
  Il vantaggio competitivo si mantiene solo grazie a miglioramenti progressi incessanti
  Per mantenere il vantaggio è necessario che si perfezionino le sue origini
  Per mantenere il vantaggio è richiesta una pianificazione mondiale della strategia Questa pianificazione mondiale della strategia, in corrispondenza col processo di globalizzazione, spinge le organizzazioni alla specializzazione, cioè a incentrarsi sulle proprie competenze di base, che gli concedono un vantaggio e permettono di generare catene produttive su scala globale. D’altra parte le catene produttive su scala globale permettono alle organizzazioni di incentrare le proprie risorse e i propri sforzi sugli obiettivi strategici soprattutto in due direzioni: lo sviluppo delle proprie competenze di base e la crescita dell’organizzazione sulla base di esse (G. Hamel e CK Prahalad 1994). Tutto ciò riconduce ai redditi sull’investimento. Questo modo di operare non esclude l’importanza del paese ospitante e del suo mercato interno, a differenza di quanto sostiene la visione fondamentalista circa gli effetti della globalizzazione; infatti la strategia globale fa da complemento e consolida il vantaggio competitivo creato su base nazionale. L’unico modo di inserirsi nelle catene produttive globali è avere un vantaggio che permetta di offrire un valore superiore alla concorrenza e che pertanto venga scelto dal cliente. Creare un vantaggio competitivo richiede un atteggiamento strategico dell’organizzazione nella ricerca costante di nuove fonti di vantaggio o di consolidare la fonte esistente e implica un’attenzione da parte del management che stimoli un atteggiamento incentrato sull’apprendimento tecnologico che garantisca l’innovazione e/o l’adattamento tecnologico. La tecnologia non è un bene libero (dato) che si trasmette automaticamente in tutto il sistema economico, vale a dire che non è esogeno all’organizzazione, così come sostiene la teoria economica classica; al contrario il processo di “distruzione creativa” sostenuto da Schumpeter è localizzato e specifico di un’impresa e la sua diffusione all’esterno è piena di incertezza, tanto che l’innovazione è endogena al processo economico, dal momento che il cambiamento tecnico è frutto di uno sforzo di investimento e apprendimento, cioè le opzioni tecniche che affronta l’industria sono “idiosincratiche” come sostengono Nelson e Winter (1982), nella misura in cui risultano dalla sua stessa esperienza e specialmente dai suoi successi e insuccessi nelle azioni di ricerca. Il mercato non è capace di assegnare in modo efficiente le risorse di Ricerca&Sviluppo, per il fatto che il cambiamento tecnico produce continuamente situazioni temporanee di monopolio e di conseguenza strutture di mercato imperfette; tutto ciò giustifica la necessità di creare condizioni esterne e interne alle organizzazioni per poter intraprendere l’apprendimento. Imparare non significa accumulare informazioni ma stabilire le relazioni logiche e le interconnessioni con il bagaglio accumulato che deriva tanto dall’esperienza quanto dalla conoscenza acquisita per vie formali e informali, come l’imparare facendo (learning by doing), imparare dal contatto con i clienti (learning by using), imparare dalla ricerca di nuove soluzioni (learning by searching) e imparare dalle relazioni con fornitori, soci stranieri, università etc. (learning by interacting). La capacità dell’industria di ottenere un vantaggio competitivo inimitabile e sostenibile sarà in relazione diretta con la combinazione giusta di conoscenza codificata e conoscenza tacita2. “Tanto più tacita è la conoscenza dell’azienda, tanto più sarà difficile riprodurla per l’azienda stessa o per i suoi concorrenti.” (Teece, D. e G. Pisano, 1998). La conoscenza tecnologica incorporata dall’esterno è complementare a quella posseduta internamente dall’organizzazione, che adeguerà tecnologia incorporata tenendo conto della conoscenza tacita e di quella codificata accumulata dall’organizzazione e appropriandosi della conoscenza implicita e tacita della tecnologia trasferita; così si creano le capacità tecnologiche. Lo sviluppo della tecnologia (sia che avvenga per autogenerazione che per assimilazione) è un processo cumulativo di apprendimento in cui interagiscono e vengono socializzate la conoscenza codificata e quella tacita, per cui quelle imprese che hanno un dominio tecnologico si trovano in migliori condizioni per mantenere il proprio vantaggio. Pertanto la dinamica del vantaggio o svantaggio competitivo è un processo microeconomico di innovazione/imitazione/diffusione, condizionato dalle caratteristiche di opportunità, appropriazione e conoscenza di ciascuna tecnologia e dalle variabili specifiche di ogni paese come ad es. il livello dei salari, particolarità del mercato e politiche pubbliche concernenti le capacità tecnologiche. L’innovazione, una volta create le condizioni macroeconomiche di stabilità, e partendo dall’esigenza e dalle caratteristiche dei mercati, implica l’apprendimento che è un processo sociale e collettivo, per cui l’acquisizione di conoscenza codificata e tacita richiede abilità tanto individuali quanto dell’organizzazione: Abilità Individuali: Conoscenze basiche del capitale umano e profilo particolare di competenze (capacità di soluzione dei problemi, di apprendimento e diffusione della conoscenza, di gestione di mezzi di informazione, di sviluppo di relazioni interpersonali, di controllo della tecnologia3....) Abilità dell’Organizzazione: richiede un forma specifica, per ogni impresa, di organizzazione del lavoro e di abitudini organizzative che permettano ai lavoratori di interagire tra loro (sfruttando le proprie competenze e capacità individuali) e che la creazione della conoscenza non sia esclusiva di un gruppo all’interno dell’organizzazione ma una forma di comportamento, parte della cultura dell’organizzazione e questa va costruita. L’innovazione è centrale per il conseguimento di vantaggi e perciò della competitività. L’innovazione è rottura e cambiamento. Si è scritto molto su questo tema riguardo ai paesi sottosviluppati, cercando di capire le cause per cui essi non raggiungono livelli di sviluppo tecnologico attraverso l’innovazione, che sia nella creazione di nuove tecnologie, o attraverso l’imitazione, o attraverso progressi nel rendimento di processi e prodotti.

2. America Latina: cosa è successo

L’America Latina è stata caratterizzata da una composizione tradizionale del commercio estero e la sostituzione di importazioni e industrializzazione non hanno implicato la creazione di vantaggi competitivi, cosicchè il predominio di filiali estere ha impoverito la capacità di integrazione con i sistemi nazionali di scienza e tecnologia e “per quanto le imprese si sforzarono per creare tecnologia propria, e per quanto molte di esse avessero al proprio interno unità di ricerca, la maggior parte si limitò a miglioramenti tecnologici minori e non apportarono molto in termini di ricerca di base nell’ambito della conoscenza tecnologica” (Katz, 1998). La ragione per cui alcune industrie hanno successo ed altre no sono molteplici, ma tra queste le più argomentate sono la deformata struttura economica ereditata, i difetti nel mercato, l’accesso imperfetto al finanziamento di lungo periodo e alle conoscenze tecnologiche, cose che potrebbero essere compensate dalla necessaria capacità e stile di direzione (management). Le cause precedenti si sono viste rinforzate dalle politiche governative intraprese, che in una prima fase della riforma sono state più attentamente dedicate a tutti i mezzi di apertura in condizioni di purezza ideologica e hanno sottostimato azioni in campo tecnologico e industriale, avendo considerato che la modernizzazione tecnologica si sarebbe conquistata attraverso la liberalizzazione del commercio, le privatizzazioni e la promozione di investimenti esteri diretti. Questa politica è in linea con le dottrine della teoria economica ortodossa che considera la scienza e la tecnologia fondamentalmente come variabili esogene. Allo stesso tempo oggi la stabilità macroeconomica si ottiene molto nel breve periodo e con una grande incertezza rispetto al futuro. Tutto ciò fa sì che le imprese si sentano più stimolate a realizzare investimenti a breve periodo piuttosto che investimenti di ordine produttivo e tecnologico; lo studio del CEPAL prima menzionato segnala: “i temi riguardanti produzione e tecnologia sono stati abbandonati, processo molto spesso rafforzato dall’importazione di beni di capitale con esigenze minime di adeguamento”. L’America Latina mantiene un attaccamento sbilanciato ai vantaggi comparati, che continuano ad essere la base delle politiche di crescita economica, ma senza che vengano trasformati in vantaggi competitivi, né valorizzando gli svantaggi relativi che potrebbero essere impulso alla creazione di profitti. Un effetto di quanto detto in precedenza, che genera un circolo vizioso, è la mancanza di integrazione dell’economia osservata in: una rete di supporto scarsa, la scarsa cooperazione tra produttori e fornitori e tra questi e i loro clienti. Le industrie sudamericane intraprendono alcuni tipi di attività innovative legate all’introduzione di prodotti e processi innovativi nelle economie locali e all’introduzione di cambiamenti nel processo produttivo o nelle caratteristiche di un prodotto, attraverso l’imitazione o attraverso miglioramenti incrementali di processo e di prodotto. In generale l’imitazione si realizza attraverso l’adozione di innovazioni incorporate nella tecnologia “dura” e di prodotti intermedi importati, essendo dunque imprese di settori “dominati dai fornitori”4. Però la conoscenza tecnologica incorporata dall’esterno è in buona misura complementare a quella che le industrie devono possedere al proprio interno, cioè “l’imitazione non è una attività tecnologica prioritaria” (Burachik, G., 2000). Ciò vuol dire che per quanto l’organizzazione importi tecnologia e realizzi processi di adeguamento o, in generale, per estrarre la conoscenza tacita incorporata, in entrambi i casi è indispensabile l’accumulazione storica delle conoscenze. Da parte loro i miglioramenti incrementali di processi e prodotti sono una pratica abituale nelle industrie dell’America Latina, ma si focalizzano soprattutto sulla conoscenza per l’applicazione della tecnologia e non dei suoi fondamenti e principi basilari. In generale gli investimenti orientati all’assimilazione di conoscenza sono insufficienti; questo spiega che il processo di apprendimento si interrompa di frequente, poichè non viene raggiunta l’accumulazione necessaria di conoscenze che favorisca tanto l’imitazione quanto i miglioramenti incrementali e in generale che serva come base ai processi di creazione di tecnologia o di adeguamento; infatti la somma di piccoli adeguamenti può dar luogo a una nuova funzione di produzione. Allo stesso tempo si adottano tecnologie soft, come quelle di management, in corrispondenza spesso con la tecnologia importata, che vengono copiate o in certe occasioni prostituite, dato che sono solamente un nome senza altri effetti di cambiamento all’interno e all’esterno dell’organizzazione. I cambiamenti tecnologici impongono nuovi modelli di efficienza industriale, settoriale e sociale e poiché attualmente i processi di diffusione tecnologica sono tanto accelerati, l’importazione pura e semplice di tecnologia (incorporata o scorporata) per l’America Latina deve portare con sé l’abbandono dei modelli tradizionali di efficienza in favore di quelli che esigono i cambiamenti tecnologici hard e soft, ma tutto questo adeguandoli ai nostri contesti. Perciò si importa, come regola (non si produce) tecnologia “dura”, con adeguamenti primari e in corrispondenza si adottano dai paesi sviluppati (cioè non si producono neanche queste) tecnologie di gestione, alcune appariscenti (solo come “moda”) e altre senza adeguamento alle condizioni concrete e culturali di coloro che le importano, così che è possibile osservare due situazioni: passività nella produzione di conoscenza accumulata, mimetismo in rapporto alla tecnologia “blanda” o al contrario inerzia nei modelli di gestione e negli strumenti organizzativi in generale. Questo mimetismo impone una cultura importata, con l’adozione di modelli di condotta e comportamento in posizione subordinata che approfondisce la nostra eredità di dipendenza invece di invertirne la direzione, cosa che ci va sfigurando ogni giorno di più. E’ necessario dunque domandarsi: perché accade quanto sopra descritto nelle organizzazioni dei paesi sudamericani tanto diversi per grandezza dei mercati, possesso e qualità di strumenti e sistema socio-economico imperante? Per quale ragione esiste questa bassa capacità di innovazione? Quali sono le cause per cui le organizzazioni assumono un atteggiamento passivo nei confronti della tecnologia?

3. Quali cause? Tecnologia e bassa capacità di innovazione

Si è scritto molto sulla competitività in America Latina, soprattutto con un taglio macro-economico rispetto a quali sono state le conseguenze socio-economiche delle riforme o delle politiche di adeguamento portate a termine nei diversi paesi e a come hanno contribuito alla competitività dei paesi nel commercio internazionale e ai loro effetti sui gruppi industriali sudamericani. Esistono alcuni lavori sulle strategie sviluppate in tali contesti dai grandi gruppi industriali, dalle imprese transnazionali (impiantate nella regione) e dalle piccole e medie imprese con lo scopo di inserirsi in modo competitivo nei mercati internazionali. Ma come nota Macario (1999) “Si dovrebbero studiare in modo più approfondito le strategie delle diverse imprese e la loro capacità di apprendere e di adeguarsi a nuovi contesti” E’ stato pubblicato poco (sebbene esistano studi in ambito universitario) sulla componente manageriale e sulla sua incidenza sulla competitività delle organizzazioni sudamericane e in particolare sui valori dominanti nelle organizzazioni; meno ancora sulle cause di tali atteggiamenti. Gli studi empirici conosciuti hanno peccato di parzialità sopravvalutando le politiche economiche (la maggior parte di essi) o piuttosto analizzando le cause interne per oggetti di studio limitati a imprese sparse. Ciò nonostante dagli studi realizzati si possono enumerare un insieme importante di fattori che rispondono agli interrogativi posti in precedenza, come: 1. Struttura economica deformata e dipendente 2. Finanziamento (accesso e costo) 3. Polarizzazione della ricchezza e stratificazione sociale 4. Regime politico e politiche di governo (portata e integrazione) Inoltre bisognerebbe anche menzionare le politiche di settore e tutte quelle condizioni di partenza di cui possano godere o no, nel proprio settore di attività, le organizzazioni, che siano vantaggi concorrenziali oppure svantaggi relativi che conducano alla creazione di profitti o al contrario ad assumere una posizione subordinata ed inefficace. Se si adotta un taglio basato sul determinismo economico quindi, la causa più generale sarebbe la struttura economica deformata e dipendente. La struttura deformata, la mancanza di accesso al finanziamento ed il suo costo accentuano la polarizzazione della ricchezza e riproducono sistemi politici che acuiscono o per lo meno non risolvono i problemi relativi alla ristrutturazione economica. Il che esprime un circolo vizioso che solo apparentemente potrebbe essere spezzato da un cambiamento nel Nuovo Ordine Economico Internazionale, che contribuisca a una ristrutturazione, o da una rottura interna ad ogni paese con una maggiore partecipazione della società civile che influisca sulla presa di decisioni più trasparenti. Se adottiamo una posizione in cui il fattore determinante sia quello sovrastrutturale, si leggano in questo caso i regimi politici, il circolo vizioso può essere lo stesso, salvo che si diano determinate condizioni molto specifiche che modifichino il modo di operare di tali regimi e che adottino una cultura incline alla competitività. Secondo l’opinione dell’autrice la tecnologia e tutta la base materiale che la accompagna è fondamentale; sono le forze produttive della società e il loro sviluppo implicherà cambiamenti nei rapporti di produzione e di conseguenza nella base economica, solo che tali cambiamenti saranno favoriti o ostacolati a seconda del funzionamento economico. La cultura però fa parte della sovrastruttura (così come l’ideologia, la politica, la religione, ecc.) che si crea in corrispondenza della base economica e che si modificherà in funzione della dialettica forze produttive-rapporti sociali di produzione. Ma nel rapporto dialettico base-sovrastruttura quest’ultima esercita influenza sulla base economica, altrimenti non staremmo parlando di dialettica. La cultura organizzativa delle istituzioni di un paese tende a modificarsi più lentamente della base tecnologica da cui trae origine. I cambiamenti nei paradigmi tecnologici si succedono dopo anni di accumulazione di conoscenza, spingono la società a nuove forme di dinamica economica, ma perchè il nuovo modello tecnologico contribuisca alla struttura economica la cultura organizzativa dovrà adeguarsi, corrispondere ai cambiamenti che richiede la tecnologia; l’inerzia della cultura precedente però influisce e in certi casi (se non si stimola il suo cambiamento) ostacola lo sfruttamento della tecnologia e ancor più si converte in un freno all’innovazione e di conseguenza allo sviluppo delle forze produttive. Per stimolare l’innovazione la cultura di un’organizzazione dovrà prima di tutto stimolare la creatività, essere aperta a nuove idee e a sfide da affrontare, cosa che generalmente implica rischi, cioè deve essere una cultura aperta, forte e condivisa, che si distingua per essere attiva. E’ difficile tanto fare una diagnosi della cultura attuale delle organizzazioni quanto realizzare i cambiamenti necessari a raggiungere quella desiderata, poichè è un lento processo di rottura e di equilibrio di forze che stimolano ed ostacolano la formazione di valori all’interno dell’organizzazione. La cultura non si cambia per decreto, ma si stimola sotto la pressione del contesto o dell’interno dell’impresa. 4. Politiche pubbliche e cultura dell’organizzazione?

A porre l’enfasi sulla cultura non si stanno sottostimando altri fattori anch’essi importanti per l’innovazione nelle organizzazioni. La cultura, tra le altre definizioni, è: “L’insieme di idee, valori, percezioni, atteggiamenti e modelli di comportamento che plasmano le istituzioni e le condotte in una società e in un’epoca determinate” (Tomassini, 1998). La cultura implica valori che si fondano su fedi e credenze e generano atteggiamenti e comportamenti e pertanto è “un modo di fare le cose” che distingue i gruppi gli uni dagli altri e che può rappresentare o no uno stimolo per l’innovazione e su cui la società esercita la propria influenza. Se parlassimo di una cultura orientata all’innovazione dovremmo definire i tratti che la identificano. Alcuni autori sostengono che a livello individuale sono necessarie: creatività, intraprendenza, propensione al rischio e disponibilità alla mobilità e, a livello dell’organizzazione: capacità di far fronte alle necessità, rigore nell’organizzazione e la facoltà di tenere sotto controllo scadenze e costi. Si parla anche di onestà, integrità, sicurezza, rispetto dell’individuo, e di creatori di idee, imprenditori, comunicatori (Bosh, H., 2000). Così il Primo Piano per l’Innovazione in Europa sostiene che “innovare esige in primo luogo una disposizione di spirito in cui si associano creatività, intraprendenza, propensione al rischio e disponibilità alla mobilità geografica e professionale (Confederazione imprenditoriale di Madrid, ww.oei.org/bibliotecadigital/innovaciontecnologica) Cercando di cogliere gli elementi comuni alle diverse definizioni si considera che i tratti più rappresentativi di una cultura orientata all’innovazione dovrebbero essere:
  Imprenditorialità
  Accettazione della differenza
  Tolleranza nei confronti del fallimento e dell’incertezza
  Accettazione di rischi e sfide Quanto detto in precedenza implica l’autonomia del management imprenditoriale riguardo al processo del come, l’esistenza di obiettivi e mete chiare, assegnazione del personale nel posto adeguato (che rappresenti una sfida e produca motivazione), assegnazione di tempo e denaro ai progetti, configurazione attenta dei gruppi di lavoro (persone con diversi approcci e modi di pensare), tolleranza di criteri diversi e del rischio, e una supervisione che stimoli il cambiamento e la creatività. Ma non sono sufficienti le intenzioni e i desideri dei dirigenti, poichè la cultura è influenzata dalla cultura della società e da altri fattori del contesto. L’industria, in quanto sistema aperto, si trova in permanente interazione con il contesto, affronta problemi strategici ogni volta più interdipendenti e complessi. Tali problemi necessitano di decisioni di alta qualità che siano ben accette; per cui il processo che si segue per la soluzione dei problemi stessi influisce in modo determinante sul raggiungimento della competitività. Studi condotti in paesi sviluppati mostrano che nelle organizzazioni competitive c’è un’atmosfera che spinge verso il progresso, che favorisce un atteggiamento e una mentalità che le rendono differenti dalle concorrenti, capaci di superare l’autocompiacimento e l’inerzia, cioè valori che permettono di agire in consonanza con le nuove opportunità e circostanze. Questi valori sono influenzati dalle esperienze governative che, attraverso politiche, regolamenti ecc. influiscono sull’attività delle organizzazioni in quanto parte del contesto in cui esse operano. Perciò uno studio sulla cultura dell’organizzazione non sarebbe completo se non si analizzano il contesto generale e i modelli culturali che si concretizzano nelle politiche di governo, in particolare, che mostrano l’atteggiamento del governo come freno o come propulsore della competitività. Ancor più quando si parla di innovazione, processo in cui l’azione delle politiche pubbliche è decisiva. L’importanza delle politiche pubbliche per l’innovazione vale tanto per i paesi sviluppati che per quelli in via di sviluppo, tanto in poltiche direttamente collegate al tema attraverso sistemi nazionali di innovazione ma anche per tutte quelle politiche che permettano di:
  Favorire un clima sociale e lavorativo stabile che favorisca l’attività imprenditoriale
  Stabilire politiche fiscali che diano incentivi ai programmi imprenditoriali di R&S
  Favorire un mercato finanziario adeguato alle caratteristiche dei progetti di R&S
  Promuovere normative adeguate sulla proprietà industriale e intellettuale
  Promuovere le tecnologie autoctone del proprio paese Questo aspetto, in generale, non viene analizzato in questo modo nelle teorie sulla cultura dell’organizzazione, ma è imprescindibile considerarlo in paesi come quelli sudamericani, in cui la vulnerabilità delle economie rende le organizzazioni molto dipendenti dalle decisioni di governo, indipendentemente dal sistema economico adottato. Molto diverso è stato l’atteggiamento dei governi nei Paesi di Nuova Industrializzazione (NICs): «Le esperienze dell’Est Asiatico rispetto alla conoscenza, all’apprendimento e all’innovazione non potrebbero essere più in contrasto...Queste esperienze sono ben note (Johnson, 1982; Amdsen, 1989; Hou e gee, 1993; Kim, 1997). Meno noto è come sono state presentate, soprattutto dalle istituzioni finanziarie internazionali, come modello per lo sviluppo del Sud America: senza spendere una parola su conoscenza ed educazione, è stata tramandata la ricetta dell’apertura totale dell’economia, della riduzione dell’intervento pubblico e del massiccio investimento estero (Fajnzylber, 1983: 80). Ma le politiche del Sud Est Asiatico, soprattutto il modo in cui si sono fatte carico della conoscenza prodotta in tutto il mondo, l’enfasi sulla maggiore importanza dell’educazione a tutti i livelli, la crescita costante dell’investmento in R&S e la realizazione di istituzioni dirette al progresso della tecnologia e all’investimento sono stati attentamente studiati in America Latina. Uno degli elementi importanti di paragone era riferito alla protezione (tutela) industriale: nelle parole di Fajnzylber, mentre in Sud America la protezione è stata «frivola» nel Sud Est Asiatico tali politiche hanno incluso «una protezione (tutela) lucida, selettiva ed attenta del processo di apprendimento dell’industria nazionale» (Arocena; R e Judith Sutz). Politiche elaborate per stimolare l’innovazione promuovono una cultura dell’organizzazione diretta in quel senso.

5. Innovazione tecnologica e cultura dell’innovazione. Che succede in questo senso in America Latina Nella prima parte di questo lavoro abbiamo esposto brevemente una caratterizzazione dell’innovazione e della competitività in America Latina. Non riteniamo necessario citare cifre già ampiamente divulgate relative all’effetto economico e sociale di una simile situazione, nè indicatori specifici dell’attività di innovazione che non fannno altro che argomentare quanto esposto finora. Quello che ci interessa è focalizzare l’attenzione e segnalare le particolarità di alcune politiche di paesi sudamericani che evidenziano è stata costantemente sottostimata la ricerca di strumenti e vie per lo sviluppo e la divulgazione di conoscenza e apprendimento. Si parla spesso del fatto che queste politiche non sono possibili per il fatto che esistono problemi più urgenti di sopravvivenza in cui vive da sempre tutta la regione; ma il predominio di ciò che è urgente su ciò che è importante mina le basi dello sviluppo lasciando la regione priva di futuro. L’innovazione ha bisogno di lavoratori con conoscenze sempre aggiornate che permettano di appropriarsi degli ultimi ritrovati della scienza e di applicarli, che sia per produrre nuove tecnologie o per adeguarle. In ogni caso il tema dell’educazione è stato un elemento rispetto a cui sono state continuamente segnalate insufficienze. Così il Rapporto 2001 della BID sostiene: «In Sud America i sistemi di abilitazione tendono a rinforzare e non a correggere le lacune dell’educazione primaria, quando in pratica il loro ruolo dovrebbe essere quello di aiutare le industrie ed i lavoratori ad assimilare lo sviluppo tecnologico». Da cui si deduce che tanto l’educazione primaria quanto l’abilitazione presentano dei punti deboli che le politiche educative non hanno saputo risolvere, soprattutto se si considera che gli schemi neoliberali e le politiche di adeguamento del FMI mirano a ridurre fondi ed incentivi per questo settore. Molto legati a quanto finora detto sono i rapporti tra le organizzazioni e i Centri di ricerca e le Università, che non sono stati stimolati nè promossi dai governi. «Tutti i dati empirici indicano una limitata ed inadeguata cooperazione tra le imprese e tra la comunità imprenditoriale e le università e gli istituti di ricerca. Queste sono le istituzioni di base di qualunque sistema di innovazione, sebbene risulti evidente che in Sud America entrambe le parti non stanno cooperando come dovrebbero» (BID, 2001). Tra le cause di tutto ciò nello stesso Rapporto si sostiene che le istituzioni scientifiche non hanno molto da offrire e che i ricercatori universitari realizzano le proprie ricerche sulla base di discipline sviluppatesi nei paesi industrializzati, per cui sono di scarsa utilità per le industrie dei loro paesi in via di sviluppo. E’ evidente che queste ragioni manifestano la scarsa attenzione rivolta a questo aspetto dai governi che non rendono prioritari questi rapporti come strumento per lo sviluppo tecnologico, nè incentivano gli scienziati, che devono quindi cercare i finanziamenti nei paesi sviluppati ecc. Per altro verso se ci siamo giustamente riferiti a diversi tipi di politiche che incidono sulla creazione di condizioni o stimoli all’innovazione non è meno certo che una politica molto importante e generalmente non analizzata negli studi sull’innovazione è la politica economica, dal momento che si suppone che essa debba creare la stabilità necessaria per la condotta degli agenti economici. In questo senso si sostiene che: «I segnali che emette il contesto macroeconomico sono contraddittori perchè per quanto ci sia stabilità nel breve periodo, le condizioni in cui essa viene raggiunta generano incertezza, speculazione finanziaria e aumento delle previsioni di instabilità nel futuro» (BID, 2001). Tutto ciò porta a mettere in atto un comportamento di breve periodo, di passività tecnologica e con un atteggiamento tipico di chi vive di rendita (ricerca del massimo profitto col minimo sforzo) nelle organizzazioni. Si potrebbe pensare che il fulcro della soluzione sia nelle decisioni economiche che definiscono la stabilità e l’accesso al finanziamento, ma se si considera che questo è un fattore fondamentale l’economia di qualunque paese è un sistema che non può essere definito solo attraverso le politiche ecnomiche, ma sono vitali anche le politiche commerciali, le politiche di promozione delle esportazioni, le politiche educative, ecc. Così come ha argomentato molto bene Fajnzylber (1988) nel suo lavoro «La competitività internazionale: evoluzione e lezioni». Se ci soffermiamo ad analizzare nell’insieme le politiche sopra menzionate (in modo sintetico)5 si osserverà che esiste una logica di funzionamento. Difatti le politiche economiche garantiscono nel breve periodo la stabilità della sopravvivenza, ma non dello sviluppo, il che comporta che non esistano strategie per l’Investimento Estero (che può rappresentare uno strumento di finanziamento) o che siano strategie passive6 e non è stata data tutta l’importanza necessaria (nella pratica reale, non nella teoria) all’educazione e ancor meno ai rapporti tra scienza e produzione. Ma questo che cosa ci dice? L’azione e l’influenza delle politiche sulle imprese non è solo puntuale e congiunturale, ma queste politiche esprimono anche valori, atteggiamenti, supposizioni e modelli di comportamento, vale a dire che anche le politiche mostrano tratti culturali che si insinuano nella cultura dell’organizzazione e pertanto incidono direttamente sull’atmosfera culturale delle organizzazioni, che sia come stimolo o come freno ai valori dell’organizzazione creati o ancor più forgiando questi stessi valori; vale a dire che se le organizzazioni ragionano sul breve periodo, sono passive e legate al passato questo accade tra gli altri aspetti perchè il contesto lo favorisce e le politiche lo stimolano. E’ certo che le politiche esprimono determinate caratteristiche culturali che ci trasciniamo da un passato coloniale e che permeano le organizzazioni. Al tempo stesso queste ultime sono fatte di uomini e donne che in un modo o nell’altro fanno i conti con questa struttura coloniale. Nel quadro n.1 viene mostrata, a titolo di esempio, una caratterizzazione breve e molto generica di quanto si è fin qui sostenuto. Naturalmente non in tutti i paesi si manifestano le stesse influenze, e non nella stessa forma. 6. L’innovazione tecnologica come aiuto al riscatto dell’America Latina Ciò significa che ci troviamo in presenza di fatalismo culturale? Esistono forti supposizioni, nei paesi più sviluppati, che una cultura come la nostra non potrebbe mai contribuire all’innovazione; eppure la Spagna, la cui cultura è parte importante della nostra miscela, è passata da paese sottosviluppato (nella sua epoca di Metropoli) a ritrovarsi tra i paesi sviluppati, sebbene non sia tra quelli al più alto livello di sviluppo. Oltretutto la nostra cultura è ricca della sua stessa diversità, di sfumature e potenzialità e presenta altri elementi di interesse come dimostra lo Studio Globe realizzato in 64 paesi, di cui 10 sudamericani, a 1400 manager della regione. Si può brevemente riassumere così:
  I paesi del Sud America continuano ad avere culture che ben sopportano l’incertezza...culture in cui accadono molti eventi inaspettati, non si hanno regole certe nè politiche ben definite, c’è scarso ordine e molta improvvisazione. Se evitare l’incertezza è auspicabile nelle società latine, sopportare l’ambiguità è una delle grandi virtù del vivere in queste culture. Ciò rende la popolazione meno rigida, si sviluppa una mentalità più creativa e capace di sopravvivere nel caos quotidiano. Se fosse possibile diminuire il caos e mantenere la tolleranza.
  I risultati indicano che nei paesi sudamericani si percepisce un orientamento all’individualismo.
  Nessun paese sudamericano si è descritto tra quelli più orientati al futuro. I risultati relativi alla desiderabilità di una società orientata al futuro sono evidenti: tutti i paesi sudamericani si sono classificati al di sopra della media internazionale
  I risultati dei paesi sudamericani sono in linea con la media internazionale per quanto riguarda l’orientamento al riscatto.

Lo scarso orientamento al futuro, vivere il presente, è un risultato logico per società le cui economie e le cui politiche incoraggiano il breve periodo, eppure la tolleranza e l’ambiguità hanno effetto sulla creatività e si relazionano con persone più flessibili, cosa tanto più necessaria nei processi innovativi. In ultimo il fatto che l’orientamento al riscatto abbia raggiunto un valore vicino alla media internazionale significa che l’attenzione e la chiarezza dei manager è simile a quella dei paesi sviluppati, e perciò tutto sta nel saper approfittare di questa forza e nello stimolarla. L’America Latina si ritrova prigioniera della sua eredità di dipendenza, ma non per questo è condannata a morte; per conquistare la libertà dovrà trovare la propria strada, dovrà sistematizzare le proprie esperienze, dovrà produrre conoscenza delle sue stesse realtà.

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Professoressa Titolare del Centro Studi di Tecniche di Direzione. Università de L’Avana.

Esistono 4 tipi di conoscenza che l’impresa deve ricercare, il know-what, che non è altro che gli avvenimenti, l’informazione; know-why, che è legato alle leggi e ai principi naturali; know-how, che è costituito dalle abilità sviluppate per fare le cose e il know-who, che consiste nella conoscenza sviluppata all’interno delle organizzazioni. Le prime due sono conoscenze codificate, mentre le ultime due rappresentano conoscenza tacita.

Cfr. Yoguel, G.: Creaciòn de competencias en ambientes locales y redes productivas. Rivista CEPAL 71. Agosto 2000.

Esistono differenze nel ruolo che ricopre la tecnologia nei differenti settori, secondo i diversi gradi di appropriatezza, cumulabilità e opportunità; questo dà luogo alla creazione di tassonomie settoriali che cercano di spiegare il cambiamento tecnico per i diversi tipi di settore. Tra queste quella di K. Pavitt (1984) che li classifica in: basati sulla scienza, intensivi, somministratori specializzati e dominati dai fornitori.

L’analisi delle politiche richiederebbe uno studio specificamente ad esse dedicato; qui se ne presentano alcune solo a titolo di esempio.

Così le definiscono M. Mortimore, J. Katz e S. Vergara nel loro lavoro “La competitividad internacional y el desarrollo nacional: implicancias para la polìtica de inversiòn extranjera directa en América Latina.” Serie Desarrollo Productivo CEPAL, Santiago del Cile, 2001 (versione elettronica). In questo lavoro infatti è presente un’implicita valutazione secondo cui le strategie passive sono predominanti.