Un’osservatorio sui confini d’Europa intesi nel loro significato più ampio, ovvero nelle procedure di gestione della circolazione delle persone dentro/fuori lo spazio europeo, può rivelarsi un fondamentale punto di vista per afferrare la sostanza del processo di costituzionalizzazione formale e materiale che sta investendo l’Unione allargata. Nella dialettica tra i processi di governo delle migrazioni e l’azione soggettiva dei migranti si rivela un scenario molto più complesso di quello che potrebbe sottintendere ad una divisione duale del corpo sociale rispetto ai diritti di cittadinanza (ovvero tra cittadini e non-cittadini). Assistiamo invece ad una disarticolazione dello spazio della cittadinanza con la rottura di un percorso lineare tra accesso ed esclusione dalla stessa. Quello che emerge è una struttura socio-giuridica effettivamente nuova, nella quale una molteplicità di figure sociali ci vengono raccontate piuttosto che dalla qualificazione dei diritti di cui godono, dalle procedure e dai dispositivi che le investono. Un quadro decisivo con cui dovrà necessariamente misurarsi qualsiasi azione politica e sindacale nel prossimo futuro. A raccontare questo scenario, partendo da un approccio storico e giuridico, è intervenuta la recente pubblicazione di Enrica Rigo, una ricercatrice attiva nei movimenti di lotta dei migranti sia in Italia che negli altri paesi europei: “EUROPA DI CONFINE. Trasformazioni della cittadinanza nell’Europa allargata” (Ed. Melteni - 2007). Ne riportiamo un interessante stralcio in cui la trasformazione dei modelli di cittadinanza viene ricondotta alla categoria dei processi “postcoloniali”.
“1. Cittadinanze postcoloniali - Analizzare il processo di costituzionalizzazione della cittadinanza europea focalizzando l’attenzione sui suoi confini esterni significa assumere, come punto di partenza, l’ipotesi che la questione dell’appartenenza alla comunità politica non possa essere separata da quella dell’ammissione dei non-cittadini o, in altre parole, che il confine tra cittadini e stranieri sia inscritto all’interno dello stesso rapporto di cittadinanza. Questo assunto richiede di specificare nuovamente il contesto e le categorie che orientano l’analisi. In primo luogo, l’indagine non viene limitata alle definizioni della cittadinanza che emergono dai trattati dell’Unione, ma si estende alle determinazioni normative che trovano esecuzione a livello nazionale, al funzionamento delle pratiche amministrative che limitano la circolazione delle persone attraverso i confini e alle politiche di governo delle migrazioni. In secondo luogo, i confini sono concepiti come “un insieme eterogeneo di pratiche discorsive e non discorsive, e di regimi di verità e condotta” (Dean 1992) che si estendono all’interno e all’esterno del territorio europeo. Questa nozione di confine mette in discussione ogni tradizionale rappresentazione della cittadinanza come status omogeneo che trova applicazione all’interno delle frontiere nazionali. Adottare i confini, e le loro trasformazioni, come schema di analisi permette di coniugare due diverse linee di ricerca: la relazione tra la legge e il territorio, da un lato, e quella tra la legge e la persona (lo status), dall’altro... ....I confini sono il locus dove il rapporto tra legge e territorio e tra legge e persona converge e, allo stesso tempo, diviene incongruente, e dove il codice binario di legalità/illegalita del diritto positivo palesa i suoi limiti. L’Europa non è l’unica forma politica nella quale si sono manifestati fenomeni simili a quelli appena descritti. La “territorializzazione” della legge è un processo che è coinciso storicamente con la formazione dello Stato moderno, ma di cui non è possibile tracciare uno sviluppo lineare. Concettualizzato nelle parole di Jellinek addirittura come un presupposto per il compimento della cittadinanza - che “ha raggiunto per la prima volta il suo pieno sviluppo con la caduta dell’ordinamento dello Stato a ceti e feudale; l’unità del territorio statale, l’accentramento dell’amministrazione e della giustizia” (1900. p. 200) - la realizzazione di tale condizione è immediatamente smentita dal giurista tedesco che, avendo inserito il passaggio nei paragrafi dedicati alle “conformazioni statali a unità imperfetta” come i protettorati o i territori coloniali (ivi, pp. 199-208), è costretto ad affermare che “tuttavia, vi sono degli Stati nei quali indubbiamente non esiste questa unità generale di tutti gli elementi statali” (ivi, p. 200). Si sarebbero potuti scegliere altri passi, tratti dallo stesso autore o da altre opere della giuspubblicistica tradizionale, per dare conto di come l’unità di legge e territorio sia stata assunta a condizione di un pieno sviluppo della cittadinanza. Tuttavia, quando si vogliono mettere i confini al centro del discorso, non è casuale la scelta di un brano in cui Jellinek, portando ad esempio l’unità imperfetta dei territori coloniali, lascia intravedere che si tratta di una condizione probabilmente mai realizzata. Proprio i sistemi coloniali rappresentano, infatti, l’altra faccia dello Stato nazionale moderno che, nella sua missione universalistica, ha opposto l’omogeneità interna del cittadino alla differenza con ciò che veniva collocato “al di fuori”, e lo ha fatto esportando i propri confini a livello globale... ... Il successo globale del sistema territoriale statale trasformò ogni frontiera di espansione in una linea di demarcazione tra entità politiche omogenee e simmetriche (Strassoldo 1982), mettendo in ombra ogni altro significato dei confini politici e territoriali. Innanzitutto, i confini non solo dividono, ma congiungono le entità di cui costituiscono delimitazione e, di conseguenza, la loro principale funzione riguarda non tanto la “separazione”, quanto piuttosto la “differenziazione”. Questa caratteristica è stata sottolineata da Luhmann, che ha analizzato i confini territoriali come limiti di sistema e li ha definiti “strumenti di produzione di relazioni” che consentono una crescente differenziazione e complessità delle società moderne (1982, p. 237). Inoltre, i confini producono due ordini di relazioni: il primo, tra sistemi politici distinti, il secondo, tra il sistema politico e l’ambiente circostante (ivi, p. 236). In altri termini, essi non solo generano e regolano rapporti tra gli Stati, ma anche immediatamente rispetto alle persone che stanno al di fuori del sistema politico. Anche nel caso dell’Europa, è necessario richiamare la dimensione ambivalente della frontiera, come area permeabile di contatto, per rivendicare la soggettività di coloro che ne stanno “al di fuori” e per comprendere la loro posizione rispetto ai confini della nuova entità politica. Solo considerando i confini come strumenti che producono relazioni immediatamente rispetto agli individui è possibile, infatti, afferrare alcune delle loro caratteristiche principali come la loro “asimmetria”: ovvero, il fatto che essi non costituiscono una soglia di delimitazione tra entità omogenee, ma assolvono a funzioni diverse a seconda del lato dal quale vengono attraversati (Balibar 2001, p. 210). L’Europa condivide con lo Stato nazionale moderno un’ambizione universalistica, e come nel caso dello Stato la legge è chiamata a mediare tra le istanze di universalità e l’inevitabilità della vita circostanziata della polis (Fitzpatrick 1995). La posta in gioco consiste, quindi, nel cercare di capire fino a che punto il processo di costituzionalizzazione di un’appartenenza europea sia in grado di superare i limiti della sua eredità storica e teorica. La letteratura sull’allargamento europeo ha spesso fatto riferimento, esplicitamente o allusivamente, al riemergere di un potere neo-coloniale esercitato nei confronti dei paesi candidati, o aspiranti tali, palesemente diminuiti nella loro collocazione rispetto ai centri decisionali dove sono state imposte le condizioni dell’agenda politica (per esempio, Olgiati 2006). Una simile posizione analitica non può però essere condivisa, se non altro per il carattere consensuale che ha avuto e continua ad avere il processo di allargamento. Altro è evidenziare la condizione postcoloniale1 che si trova a vivere l’Europa contemporanea, soprattutto quando si guardi alla sfida che le migrazioni internazionali pongono per la definizione di una cittadinanza europea. I migranti si presentano all’Europa come soggetti allo stesso tempo artefici e assoggettati a questa sfida, sia per l’eredità della storia che rappresentano, sia perché contestano radicalmente il “posto” assegnato loro dai confini politici, giuridici e simbolici dell’Europa. Questo non significa tuttavia che essi, opponendosi a tali confini, vi “resistano”. Al contrario, adottare un punto di vista postcoloniale sull’espansione europea, significa rovesciare una prospettiva che, semplicisticamente, divida i contendenti tra coloro che conducono il gioco e coloro che lo subiscono. In un libro dei primi anni Sessanta dedicato alla decolonizzazione - e spesso citato anche dalla letteratura postcoloniale contemporanea - John Plamenatz ha efficacemente messo in luce come, nella rivendicazione di autonomia dei popoli colonizzati, fossero gli stessi ideali occidentali a essere giocati contro l’Occidente: “la libertà, come essi [gli europei occidentali] la concepiscono, è qualcosa di più che assicurare il godimento di diritti consuetudinari e autonomie; è il diritto di ogni uomo di mettere in questione ogni cosa, non importa fino a che punto questo sia consentito dalla tradizione, è il suo diritto di scegliere come vivere” (1960, p. 18). L’Europa e la cittadinanza europea rivivono oggi un’analoga sfida. I migranti, non solo chiedono di essere ammessi a giocare secondo quelle stesse regole di diritto che segnano i confini della cittadinanza europea, ma attraversandoli li revocano in dubbio: ne rimettono in gioco le regole esercitando una libertà “tutta europea”. Esistono per lo meno altre tre ragioni, di carattere più analitico, per adottare una prospettiva postcoloniale sulla cittadinanza europea e sulla sfida posta dall’allargamento. La prima ha a che vedere con la scelta di mettere al centro del discorso i confini. Una scelta che non può prescindere dalla considerazione che il loro carattere eminentemente politico, così come lo conosciamo a partire dalla modernità, se da una parte ha le sue radici nell’Europa degli Stati, dall’altra si carica di un significato universale proprio attraverso la loro espansione fuori dall’Europa. I confini sono sì un’istituzione europea, ma di un’Europa la cui storia viene restituita a una trama decentrata. La seconda ragione riguarda la critica del diritto come strumento analitico che si arricchisce quando si disvelino le continuità e le discontinuità di una linea di sviluppo che è tutt’altro che omogenea e cronologicamente ordinata. L’espansione dello spazio giuridico europeo (l’esportazione del suo jus publicum) è risultata, nei sistemi coloniali, in una scomposizione gerarchica degli ordinamenti che ha stabilito e naturalizzato la distinzione tra cittadini e sudditi (cfr. ad es., Saada 2004; Mezzadra e Rigo 2006). In modo simile, dal governo dei confini dell’Europa di oggi scaturiscono sospensioni e discontinuità dello spazio giuridico che moltiplicano le figure dell’appartenenza alla comunità politico-giuridica, frammentando il suo stesso soggetto di diritto. L’ultima ragione è strettamente legata alle osservazioni appena formulate, e ha a che vedere con la rappresentazione della cittadinanza come una parabola di cui è possibile riconoscere un punto di “pieno sviluppo”, quasi che, oltre a poterne tracciare la storia, questa fosse sempre progressiva. Restituire l’Europa alla sua trama decentrata significa revocare in dubbio lo sviluppo lineare della cittadinanza, a prescindere dal fatto che si voglia vedere il punto più alto della sua parabola nella cittadinanza statuale o che questo sia ancora di là da venire...”
Due esempi concreti, fra tanti, dimostrano l’attinenza con la “provincia italiana” delle riflessioni che Enrica Rigo ci propone in questo stralcio e sviluppa poi nel corso del libro : 1. L’ingresso nella comunità europea di Romania e Bulgaria non ha significato automaticamente l’accesso dei suoi abitanti allo status di una generica e universale “cittadinanza europea”, anzi... Il cosiddetto “periodo transitorio” rende invece evidente la frantumazione dei modelli di cittadinanza nell’Unione con contraddizioni paradossali solo in apparenza. Nell’esercizio di un diritto fondamentale come quello alla salute, ad esempio, i migranti rumeni e bulgari che non dispongono di un contratto di soggiorno sono impossibilitati a ricevere la normale tessera sanitaria, ma allo stesso tempo erano esclusi dalla copertura medica prevista per i “clandestini”, il cosiddetto protocollo STP. Una recente circolare del governo italiano ha deciso di continuare ad utilizzare il codice STP anche per questi nuovi “cittadini” dell’Unione, ma solo perché la presenza rumena in Italia è troppo numerosa per ignorare il problema. Nello stesso limbo infatti vivevano gli immigrati dalla Polonia fin dal suo ingresso nella UE. 2. Nel regolamento di attuazione della legge “Bossi-Fini” si specifica che le ambasciate italiane all’estero devono “validare” la documentazione prodotta nei paesi di provenienza degli immigrati, nel caso serva per procedure inerenti l’amministrazione italiana. Classico il caso della documentazione anagrafica richiesta per le pratiche di ricongiungimento familiare così come per le domande di accesso alla cittadinanza. In teoria si tratterebbe di verificare la corrispondenza tra i documenti presentati dagli immigrati e appositi atti emessi dalle amministrazioni dei paesi d’origine per “scoprire” eventuali falsi. In realtà il termine “validazione” va inteso ormai in senso proprio! Nei casi di ricongiungimento familiare infatti capita spessissimo che si esprima un “dubbio” non sulla “origine” dei documenti, ma sull’effettiva corrispondenza con la composizione “biologica” dei rapporti di parentela, invitando gli immigrati a “test volontari del DNA”, pena l’affossamento della pratica a tempo indeterminato... Così viene forzatamente “ri-costruito” lo stato civile del migrante. In sostanza, tramite l’immigrato, il confine dello spazio giuridico europeo e le sue pretese normative si estendono fin nel paese di provenienza ed in generale si “ridefinisce” lo status del migrante secondo una costruzione che possiamo definire appunto postcoloniale .
Collettivo No Border, Napoli Esiste una vasta letteratura sugli studi postcoloniali; per un’introduzione, si vedano Young (2003) e Mellino (2005). Sulla condizione postcoloniale dell’Europa si vedano Chakrabarty (2000) e, in Italia, Mezzadra e Rahola (2005). Per i più recenti sviluppi del dibattito, si veda Loomba et al. (2005).