Il mito della ricchezza privata e i bisogni sociali

MICHELE PROSPERO

U na nuova mitologia circola nelle culture politi- che oggi prevalenti in Italia, ed è la convinzione che il lavoro non costituisca più un ancoraggio

solido poiché l’estrazione del plusvalore avviene ormai fuori dell’Europa, che può dedicarsi così alla leggerezza della finanza e del consumo e può permettersi di non pen- sare più alla dura produzione dei beni. Questa fuga dal la- voro come base di un progetto politico è stata anche l’illu- sione di Blair che comunque vantava una centralità finan- ziaria dell’Inghilterra difficile da imitare altrove. La sua sconfitta, così come la palude del “nuovo centro” matura- to in Germania, non sembrano però aver scalfito le certez- ze dei neofiti della concorrenza come ultimo traguardo delle libertà di una economia che non produce, non scam- bia beni ma conosce flussi monetari. I corollari del discor- so sono piuttosto trasparenti. La concorrenza al posto del- la produzione. Il consumatore al posto del lavoratore. Pro- blemi di eguaglianza non sono all’ordine del giorno della società degli individui declinata come raggiunto paradiso della abbondanza delle chances di vita. Che il disagio so- ciale esista solo in Africa o nel sud est asiatico e che in Eu- ropa non resti più nulla da fare è una caricatura terzo- mondista che purtroppo sta regalando alla destra un paese dopo l’altro. Il sistema sociale è in realtà sempre più un meccanismo unico. L’85 per cento dei personal computer oggi viene prodotto in Cina da lavoratori che non percepi- scono più di 80 dollari al mese e vengono rivenduti in oc- cidente a 1500 euro. Questa è la nuova vocazione del capi- tale globale: far navigare gli investimenti verso paesi sen- za diritti umani e sociali in cui la forza lavoro è pressoché gratuita rispetto ai parametri dei paesi evoluti e riportare nei paesi ricchi i prodotti semilavorati per rivenderli al lo- ro giusto prezzo di mercato, quello occidentale ovviamen- te, dopo averli ricoperti con etichette alla moda.

Non solo chi è fuori dei processi produttivi (diversi mi- lioni di anziani con pensioni minime vicine ai 500 euro mensili: l’80 per cento dei pensionati è al di sotto dei mil- le euro), ma anche chi è dentro i meccanismi creativi del- la ricchezza versa in condizioni oggettive di disagio e per- sino di privazione. Le opportunità di consumo sono sem- pre più mantenute vive solo grazie all’indebitamento. Il credito al consumo è il segreto di una propensione al con- sumo peraltro contratta con la decapitazione del potere d’acquisto dei salari seguita all’euro. L’incertezza nella col- locazione lavorativa, con la proliferazione di contratti pre- cari che esaltano la flessibilità, determina ansie, insicurez- ze, contrazione degli orizzonti temporali della vita. Gli in- terventi legislativi degli ultimi anni hanno completato una sperimentazione ardita che ha istituzionalizzato la forma del lavoro intermittente. Grazie alle nuove figure contrat- tuali la legge assimila gli imperativi della domanda e del- l’offerta fin dentro gli schemi giuridici: si lavora solo quan- do serve. Il passaggio dal diritto del lavoro al mercato del lavoro è drastico: l’impresa compera la mera disponibilità a lavorare e in cambio di questo acquisto a buon mercato del tempo di lavoro potenziale nessuna copertura più in- terviene a proteggere il soggetto. Si acquista sul mercato non più il tempo di lavoro che produce merce ma la mera disponibilità a recarsi alle dipendenze di un’impresa quan- do essa ne avrà effettivo bisogno. Il lavoro a chiamata è l’e- sasperazione della follia del contratto: l’impresa non ricor-

re al contratto per determinare l’utilizzo dell’energia lavo- rativa per un certo tempo di lavoro, essa sigla contratti su una chiamata ipotetica e senza alcuna predeterminazione del periodo di prestazione lavorativa. Il vincolo di subordi- nazione che abbraccia la prestazione di lavoro viene così disarticolato e privato di antiche garanzie. Il soggetto co- me lavoratore intermittente è completamente ridotto a va- riabile del mercato e per contratto vende un tempo di non lavoro e di attesa senza avvalersi di alcuna significativa co- pertura economica e normativa.

Un giovane che supera gli scogli dei contratti a termi- ne, schiva le angustie dei lavori a progetto, scavalca la mi- seria dell’indennità di disponibilità legata al lavoro a chia- mata e riesce a ottenere un impiego regolare, non prende più di mille euro al mese. Se vuole mettere su casa e però vive in una grande città, non gli bastano 900 euro per un monolocale. Chi in città si trova per studiare deve sborsa- re anche 500 euro per un posto letto. A proposito di case. Che fine hanno fatto le politiche pubbliche per le abita- zioni dopo che l’aggressione liberista ha sbeffeggiato ogni equo canone? Nelle città infinite si versano oceani di ce- mento, immensi spazi vengono ricoperti da centri com- merciali, da edilizia residenziale che fa spuntare micro città periferiche come funghi, ma mancano investimenti per la casa. Perché le bolle speculative legate al mattone contano di più del diritto alla casa? Sotto le leggerezze ap- parenti di politiche simboliche, di notti bianche si na- sconde una nuova costituzione materiale delle metropoli, che non è troppo diversa da quella che negli anni cin- quanta decideva il sacco delle città.

Sarà anche vero, come pretende il senso comune do- minante, che è molto vecchio insistere sul disagio socia- le. Ma se il disagio esiste per davvero e non se ne parla la politica diventa falsa coscienza e viene respinta come oc- cupazione privilegiata di una casta ostile. E’ troppo co- modo scorgere ovunque antipolitica se poi l’agire politico non incide sulla vita e suscita apatia o rigonfia con le schede le facili promesse di sicurezza e di tolleranza zero fatte dalla destra. C’è una retorica della società della co- noscenza che ostruisce la visibilità del mondo reale e dei suoi nuovi poteri. Conta certo il sapere, il cervello sociale che si oggettiva nelle macchine e nelle merci. I laureati in materie tecniche e scientifiche sono però oggi inferiori ri- spetto a quelli di quindici anni. I lavori che offre la società della conoscenza si esauriscono spesso in un call center. L’innovazione tecnologica e la ricerca sono sempre più centrali e la tecnoignoranza rappresenta una nuova pos- sente macchina di esclusione sociale. Ma un ricercatore, che non entra in ruolo prima dei 40 anni e un lungo pre- cariato, prende 1500 euro. Non arrivano oltre questa so- glia, dopo decenni di carriera, gli insegnanti. Molti giova- ni ingegneri non sfiorano gli 800 euro. E poi c’è una fuga dei cervelli perché il mercato non richiede se non in ma- niera marginale lavori di qualità e non offre mansioni a competenza elevata. Nella società dell’informazione quanto prendono, e che contratto hanno, le migliaia di ra- gazzi che lavoro per giornali, agenzie, tv?

La realtà è che il postmoderno produce delle struttu- rali forme di povertà sociale in chi lavora, non solo negli esclusi. I nuovi lavoratori non solo andranno in pensione molto più tardi, ma con cedolini da fame, pari al 45 per cento del loro misero stipendio. Dietro questo c’è il noc- ciolo duro del capitalismo globale che immette sul merca- to immense quantità di forza lavoro priva di diritti che in- tascano anche due o tre dollari al giorno. Ma i riformisti italiani inventano la nozione del conflitto generazionale come diversivo di comodo. Sarà pure retrò, ma le forme di vita espresse dal capitalismo immateriale non possono es- sere ridotte alla contesa tra padri e figli, esse continuano a reclamare conflitto, lotta sociale per il miglioramento del- le condizioni dell’esistere. C’è un peggioramento effettivo della situazione del lavoro che non produce rivolta, ma si- lenziosa disperazione, senso di frustrazione per la man- canza di ogni pubblica visibilità. La favola della fine del la- voro e della impossibilità di un consenso a politiche eco- nomiche espansive nasconde che i dipendenti sono ben 18 milioni e 5 milioni sono gli operai d’industria. Resta tre- mendamente vero che l’essere del soggetto dipende dal suo avere. La forma della merce domina ogni poro del so- ciale, non solo si impossessa di ogni bene comune (aria, acqua) ma anche la spazzatura diventa merce lucrosa. Sbagliava Keynes a pronosticare un accorciamento drastico del tempo di lavoro (15 ore settimanali come tet- to massimo) entro il 2020. Si ingannava perché l’econo- mia politica reale non coincide mai con la promessa della tecnologia. Malgrado la tecnologia, e forse anche in virtù delle nuove tecnologie, si lavora di più, non di meno e si riceve di meno, non certo di più. Altro che fannulloni: i dati Ocse mostrano che i dipendenti italiani lavorano più di quelli europei, raggiungono le stesse ore di lavoro de- gli americani, ricevendo salari molto inferiori, sia a quel- li della media europea che a quelli ameircani. C’è per tut- ti lo spettro del lavoro infinito anche perché con i fax, con i cellulari, con internet si è sempre reperibili. Anche il li- cenziamento, non solo la chiamata, viene comunicato con l’Sms. Il tempo di lavoro inghiotte ogni tempo di vita. E il sapere, la scienza, entro relazioni sociali dominate dal pri- vato, garantiscono l’innovazione solo esprimendo nel contempo momenti di esclusione e dipendenza. Per que- sto alla mera crescita economica stimolata dalla competi- zione di mercato occorre aggiungere una forte guida pub- blica per scongiurare gravi privazioni sociali e per riaffer- mare la dignità del sapere e della conoscenza come bene pubblico. Senza una grande funzione pubblica la crescita economica non porta affatto al miglioramento della vita. Basta calcolare con quanti stipendi si poteva comprare ca- sa trent’anni fa e con quanti anni di mutuo si riesce inve- ce a coprire oggi il costo di una casa minuscola.

Il mito che la ricchezza privata rende inutile ogni in- vestimento pubblico deve essere demolito. Questa fun- zione equilibratrice del pubblico è stata la scoperta euro- pea, la più importante. Però negli ultimi decenni il rap- porto tra politiche pubbliche e Pil si è quasi dimezzato. Oggi la sfera pubblica è stata demolita con la retorica fa- sulla che allo Stato tocca solo regolare e non gestire. Con questa tavoletta, recitata con ineffabile trasporto ideolo- gico negli anni ‘90, non esiste più un ambito pubblico e proliferano invece esternalizzazioni, amministrazioni private parallele. Paradossale è poi la fortuna della for- mula scandinava della flexsecurity fatta propria da go- verni che reclamano come segno d’innovazione proprio la riduzione delle tasse. Nei paese scandinavi (collocati al vertice degli indici di sviluppo umano) gli interventi sul- l’assistenza, sulla mobilità sono possibili solo perché esi- ste avere una non trascurabile pressione fiscale superio- re al 50 per cento del pil. Senza un ritorno del pubblico non si garantiscono diritti e beni pubblici. La sanità pub- blica fornisce prestazioni così a rilento che sembra una succursale per il privato verso il quale dirottare facoltose risorse. La sussidiarietà, la governance multilivello, la

compartecipazione pubblico privato, la nuova declinazio- ne del pubblico come servizio erogabile anche da opera- tori privati hanno determinato immense fortune. Nella sanità privata, nella scuola privata maturano ricchezze determinate proprio dal cimitero dei beni pubblici. A Ro- ma il rimborso comunale per ogni posto all’asilo nido privato è di 650 euro mensili, che si aggiungono alla ret- ta che gli utenti comunque pagano.

I lavoratori intanto pagano più tasse (il 70 per cento del carico fiscale proviene da tassazione alla fonte) per sostenere uno Stato che diventa sempre più minimo, in- timorito dalla voce grossa dei governatori delle banche centrali o dei tecnocrati europei che vorrebbero ridurre il governo politico a mera amministrazione dell’equili- brio finanziario. E magari sempre più lavoratori votano, ulteriore e terribile paradosso, per quei politici espres- sione di ceti sociali che le tasse non le pagano e gridano contro il fisco e la bancarotta dell’Inps, che invece sareb- be in attivo senza gli impropri dirottamenti dei suoi in- troiti verso l’assistenza e gli oneri non da lavoro. L’eva- sione fiscale (che raggiunge il 20 per cento del Pil, oltre 270 miliardi di euro ogni anno, addirittura 7 volte in più rispetto agli anni ‘80) è lo strumento per distorcere il momento della concorrenza e per definire una redistri- buzione rovesciata del reddito tutto a favore del capitale. E poi c’è chi si invaghisce tardivamente del mito della concorrenza e del consumatore finale e ritiene che solo così si cavalca la tigre del moderno. A parte il fatto che il consumo è sempre determinato dalla produzione, per consumare bisogna pur sempre avere. La produzione continua ad essere la fonte del sistema delle disugua- glianze nell’età del riassetto del sistema economico glo- bale. I confini della reale libertà di ognuno in una società di mercato si arrestano dinanzi alla disponibilità di dena- ro, di carte di credito, di bancomat. Contro i profeti del- la concorrenza come ultima frontiera della libertà dei moderni, occorre riformulare un’idea altra di libertà. Una libertà dal mercato e dalle sue crescenti incertezze. Nuo- ve garanzia rispetto al dispotismo dell’impresa che in no- me della flessibilità e della competitività assume linee di comando autoritarie. Insomma una libertà socialista non può essere derubricata come archeologia in una società che ha nella esclusione dalla conoscenza come bene pub- blico comune una fonte di nuova oppressione. E se inve- ce di tante futili declamazioni noviste ricominciassimo proprio da qui, da una critica radicale di tutto ciò che og- gi esiste ed è alla base dei nuovi meccanismi globali di creazione della ricchezza?