I nonni attendono la rivalutazione, i nipoti sfiduciano i Fondi Pensione
Nonni contro nipoti: uno a zero. Inizio secondo tempo: si riparte! In Italia, dove una sfida di pallone è sentita in maniera più forte di un’elezione politica, la metafora calcistica appare quanto mai azzeccata per spiegare la partita ‘pensioni’. O meglio, quello a cui sembra essersi ri dotta (o a cui vogliono ridurre) la complessa questione previdenziale nel Belpaese. L’accordo siglato dal Governo a luglio con Cgil Cisl e Uil ha dato aumenti da 333 a 505 euro l’anno a 3 milioni e 100 mila pensionati previdenziali con un reddito fino a 654 euro al mese, che arriverà a 700 grazie alla clausola di salvaguardia, calibrati in base agli anni di contribuzione e differenziati a seconda si tratti di pensionati da lavoro dipendente o autonomo; soldi che andranno a circa 300 mila pensioni assistenziali (pensioni e assegni sociali, invalidi civili, ciechi e sordomuti) in modo da portare il reddito mensile individuale a 580 euro al mese. Per tutti, poi, fino a 5 volte il trattamento minimo, varrà il recupero totale dell’inflazione in modo da coprire le pensioni previdenziali per il 100% della variazione dei prezzi. Al beneficio hanno accesso uomini e donne con 64 anni di età, complessivamente 3 milioni 400 mila persone. Ovvero solo il 15% dei pensionati italiani.
1. I nonni: viaggio in un mercato romano
L’aumento delle pensioni minime di 33 euro non basta. Servono aumenti reali che tengano conto dell’inflazione
Gli anziani, ex lavoratori a riposo, in questo match al- l’ultimo euro, sembrano in vantaggio rispetto ai giovani precari, futuri lavoratori a vita: guadagnando ben 33 euro (in media) in più al mese. “Una cifra da capogiro, se si pensa che con un euro al giorno si possono comprare ben quattro mele di ottima qualità. E si sa: una mela al giorno leva il medico di torno. Figuriamoci quattro!”, così scherza nonna Tilde, 84 anni, vedova da oltre 20. Da quando il marito, impiegato di banca, è morto, lei, ex maglierista, prende circa 900 euro al mese di reversibilità. “La cosa più brutta”, spiega l’anziana signora, “è che io non vorrei, che ne so, i soldi per gli sfizi, ma a volte quelli che prendo non mi bastano neanche per fare la spesa al supermercato e comprare da mangiare quello che mi va. Dopo una vita di sacrifici, ancora sacrifici”. A questo si sono aggiunte le fisioterapie che nonna Tilde deve fare per poter camminare e che, da quest’anno, a causa dei tagli alla sanità, sono diventate a pagamento. Senza contare che quasi paralizzata com’è, a causa dei “non fondi” per l’autosufficienza, non può permettersi nemmeno una compagnia che l’aiuti nei lavori di casa.
“Ma non serve certo essere un economista per capire che un aumento di soli 33 euro circa al mese, e solo per gli over 64 che vivono con una pensione inferiore ai 654 euro, è solo un’elemosina”, dice Paolo Leonardi, Coordinatore Nazionale RdB/CUB. “Non è con questi criteri - continua - che si restituisce potere d’acquisto alle pen-sioni più basse, ma attraverso una rivalutazione periodica che riagganci tutte le pensioni alle dinamiche retributive ed inflattive reali”. “Affamare i giovani, precarizzare la loro esistenza e scagliarli poi contro coloro che difendono il
proprio diritto ad andare in pensione dopo aver lavorato per 35 anni, è un modo laido di fare politica”, aggiunge il sindacalista, “piuttosto bisognerebbe spiegare ai ragazzi che allungare l’età pensionabile rappresenta un ulteriore rinvio del loro ingresso nel mondo del lavoro”.
Negli ultimi 10 anni il potere d’acquisto delle pensioni ha perso ben il 30%, cifra questa di cui dovrebbe tener conto una reale rivalutazione delle pensioni, costante- mente adeguate e agganciate alle retribuzioni dei comparti di provenienza.
Del resto, se non serve essere economisti per fare un rapido calcolo del reale beneficio di un aumento di soli 33 euro mensili per i pensionati al minimo, basta fare un gi- ro al mercato per rendersi conto di quanto la vita sia aumentata con l’entrata della moneta unica.
Franco, 64 anni, da quando è in pensione, al mercato di Villa Gordiani, a Roma, ci va ogni mattina: “la frutta è aumentata tantissimo”, dice, “ e con una pensione da metalmeccanico a 1100 euro, una moglie a carico e due figli laureati senza lavoro fisso, la carne più che un lusso è un miraggio. E a chi parla poi di alzare l’età pensionabile, il cosiddetto scalone di Maroni, vorrei dire: vienici tu a lavorare 40 anni dietro una pressa e poi vienimi a parlare di aumenti”. “Questi non hanno capito che se non andiamo in pensione noi, i giovani quando lavorano?”, gli fa eco Mario, romano doc di 76 anni (portati bene, dice lui, che ne vuole campare altri 100), “e poi co ‘sta storia dell’età media che s’è alzata e ce vogliono fa lavora’ de più sembra quasi che ce stanno a tirà li piedi. Portassero sfiga?”.
Superstizione a parte, quello che è certo è che la logica dell’ultimo periodo vede contrapposte non due generazioni, ma due modi diversi di vedere le cose: il prima e il dopo programma dell’Unione. “Quando ho votato per la sinistra” dice Walter, ex cuoco di 70 anni, pensionato al minimo, “mi ricordo che il programma l’ho letto bene: la riforma Maroni, scalone e scalini dovevano essere eliminati. Invece adesso, saliti al potere, stanno solo proseguendo la politica di Berlusconi. Io intanto mi posso comprare solo i fagioli e mi faccio una minestra dopo 30 anni di lavoro, mentre uno come Padoa Schioppa prende 11mi- la euro di pensione per 25 anni di lavoro in Banca d’Italia e si mangia i gamberetti in Parlamento. Perché non la aumentano a lui l’età pensionabile?”.
E non è l’unica cosa caduta nel dimenticatoio di questo governo, anche i dati Inps sono stati accantonati. “C’è una assoluta non veridicità sui conti dell’Inps”, spiega Leonardi, “che non sono in perdita, tutt’altro. All’Inps so- no stati dati oneri pesanti, come i debiti dell’Inpdai, ovvero del fondo previdenziale dei dirigenti di azienda e di industria, che ammontano a 4.500 miliardi di euro di buco. Se si continuano a scaricare sull’Inps i debiti delle lobby, ci sarà un vero disastro. Per questo bisogna rilanciare il sistema previdenziale pubblico, come dimostra la vicenda del Tfr, che in tanti hanno destinato all’azienda, se non si vuole un futuro di pensionati poveri”.
Il mercato si svuota. Nonna Tilde alza le poche buste che ha in mano: “30 euro e non ho comprato quasi niente. Ma quello che mi dà più pensiero sono i giovani. Io al- meno ho imparato a fare la maglia e il lavoro ce l’ho sempre avuto, ma a loro invece cosa insegnano? E poi con questi pochi soldi che ci sono...”. “La cosa che mi dispiace di più”, conclude Tilde guardandosi le scarpe, “è che mentre prima l’anziano era rispettato in casa perché sapeva più cose e tramandava storie ed esperienza, adesso invece sembra un peso morto per la famiglia e per lo Stato. Quasi la causa del malessere dei giovani. Questa è veramente la cosa che mi dispiace di più”.
2. I nipoti: la difficile arte di lavorare
La precarietà e i contratti atipici sono il vero problema, per i giovani la pensione sarà solo un vago ricordo se non si elimina legge 30 e Dini.
Mentre Walter Veltroni attende che il “patto tra gene- razioni” si concluda e che i nonni smettano di pesare sui nipoti, quello che è certo è che per la maggior parte dei giovani il vero peso non sono le pensioni degli anziani, ma un lavoro incerto, mal pagato e precario, tassi dei mutui a livelli macroscopici (come bacchetta Draghi: i più alti d’Europa) e garanzie per il futuro nulle. “Quello che vera- mente ha rovinato noi giovani è stata la legge 30, che ancora non è stata abolita, e poi la riforma Dini, che ha introdotto il sistema contributivo”. Così Francesca, 29 anni, che lavora in un call center per 800 euro mensili, e finora ha sempre avuto contratti di non più di sei mesi l’anno, deve aspettarne 24 di mesi per riuscire a farne 12 di contribuzione. “È la riforma Dini che ha spaccato in due le generazioni”, dice la giovane, “se non la aboliscono insieme alla Biagi è inutile che Veltroni parli ancora di patti. E poi, se i vecchi non vanno in pensione quando ce lo la- sciano il posto di lavoro?”. A differenza di quello che si pensa, i cosiddetti giovani non sono così sprovveduti da non capire che è anche il loro futuro a essere in gioco. “Quando la gente mi dice che sono giovane”, racconta Sara, 27 anni, precaria del mondo del giornalismo, “mi viene da rispondere che mia madre alla mia età aveva tre figli, un lavoro stabile, una casa con un affitto decente e la prospettiva di andare in pensione presto e bene. Altro che giovane, quando c’è il precariato di mezzo anche l’età diventa precaria”.
“Se essere giovani significa formarsi” dice Antonio 26 anni, laureato da due e in cerca di una prima vera occupazione, “bisogna però anche porre un limite. Io tra stages, tirocini e collaborazioni varie non ho raggiunto ancora un mese di contributi, se continua così la pensione non la vedrò mai. Senza considerare che se le persone che possono smettere di lavorare non lo fanno, sarà sempre più difficile avere qualche prospettiva di essere assunti”.
L’idea che questo balletto sulla previdenza crea nelle generazioni future è gravata dal fatto che negli ultimi 15 anni il sistema pensionistico è stato riformato tre volte e in tutta questa incertezza lavorativa presente la prospettiva di pagare i contributi per la pensione è totalmente assente dai pensieri di chi ha un contratto co.co.pro. di soli sei mesi. “Se è vero che l’Inps è in attivo, che si versano più contributi di quante pensioni vengano pagate, dov’è il problema? Mandassero la gente che è arrivata al limite di versamenti in pensione e investano un po’ di più nella ri- cerca e in altri settori strategici per la crescita del Paese. Solo così c’è la speranza di andare avanti e di non ritrovarsi tra cinque anni di nuovo con lo stesso problema, a raschiare il fondo per appianare debiti di anni di finanza creativa, sprechi e cattiva gestione pubblica, dando la colpa a chi invece ha lavorato una vita con le trattenute previdenziali prese in anticipo sulla busta paga”. Dice Andrea, 32 anni, co.co.pro. in un’industria farmaceutica, che guadagna 1200 euro al mese e a comprarsi una casa non ci pensa proprio: “con questi mutui che ci sono! E poi a me chi lo dà un mutuo senza garanzie”. Non certo i suoi genitori: il padre è pensionato al minimo dopo una vita da artigiano (con pochi contributi versati), mentre la madre a 55 anni e 34 di contributi aspetta con ansia il momento di andare in pensione anche lei.
I giovani, quando non ci pensano, guardano con diffidenza al sistema previdenziale. “Qui il problema è ben altro” stigmatizza Marco, operaio 34enne in una conceria del solforano, “il lavoro è mal pagato e spesso i datori di lavoro ti assumono giusto il tempo di prendere i contributi dalla stato e poi ti mandano via. Quello di un con- tratto d’apprendistato sono gli unici contributi che ho. Il mio contratto più lungo: 15 mesi”.
“In Italia si è sempre confusa previdenza e assistenza, in tanti non hanno versato i contributi per decenni, gli stessi che oggi profittano degli incentivi all’assunzione sotto forma di sgravi contributivi, che impoveriscono l’In- ps. Quello che avevamo dello stato sociale lo stanno smantellando, e vengono a parlarci di pensioni e Tfr. In- vece di incentivare i fondi pensioni privati, perché non pensano a far funzionare la previdenza pubblica?”, domanda Daniela, 30 anni, ricercatrice precaria a 1000 euro al mese. “Per me il patto tra generazioni non c’entra nulla - continua - il problema dei conti dell’Inps è legato ad alcuni comparti in passivo, come il fondo per i dirigenti. E poi la smettessero di mettere sempre in mezzo la questione dell’equiparazione dell’età pensionabile tra donne e uomini. Nel resto del mondo civilizzato funzionerà pure così, ma lì la parità c’è veramente, non come da noi, che alle donne tocca pensare alla casa, ai figli, al lavoro e, quando si ammala un anziano, se non hai i soldi per farlo assistere, anche a lui”.
“Prima”, conclude la giovane, “almeno se lavoravi una vita potevi avere una vecchiaia dignitosa, ora, precario è il lavoro e precarie sono diventate pure le pensioni. Mi spia- ce tanto per chi ha lavorato tutta una vita credendo di fa- re una vecchiaia serena. Io, come dice il film, speriamo che me la cavo”.
3. Alcune considerazioni. Guardando all’Europa
L’Europa ha bacchettato l’Italia per le pensioni e le ha ricordato di pagare prima i debiti. E proprio in nome di questi debiti si continua erroneamente a collegare lo stato sociale al loro livello, facendo andare il destino dell’u- no di pari passo con l’andamento degli altri. Una sorta di immiserimento generale, conseguente ai dictat dell’Ue, è la conseguenza di una politica nazionale poco coerente e attenta alle necessità reali del Paese. Il ministro dell’economia Padoa Schioppa dice che i soldi entrano, anche grazie alla lotta all’evasione; l’Europa gli ha risposto che quelle entrate devono essere usate per il riportare il debito entro i parametri, affermando che la media europea dell’età pensionabile è più alta che in Italia. C’è da do- mandarsi se anche la media di euro mensili, rapportata al caro vita, sia la stessa. La risposta è no, ovviamente.
In un sistema paese che si vuole sempre più simile a un’azienda c’è chi, come Sarkozy, ha scelto di adoperare l’extra gettito per aumentare le pensioni e per le spese sociali. Non per buon cuore, ma perché facendo circolare più moneta all’interno della Nazione anche l’economia ne trarrà beneficio. Se avrà ragione lo dirà il tempo.
L’Italia in tutto questo, anziché adeguarsi alle regole del mercato che tanto corteggia, che vedono nei longevi anziani un mercato sempre più appetitoso e allettante, ha preferito allargare di poco il portafoglio e “spruzzare” so- lo miseri contributi su quello che invece doveva essere un “settore” di investimento, come il mercato dei “nonni”. È infatti noto che le spese degli anziani incidono sul lavoro delle generazioni presenti e future: tagliandole e limitandole anche la moneta in circolo diminuisce.
Il liberismo nostrano e internazionale sta causando un generale impoverimento della classe media, senza che la più parte degli Stati mettano in atto politiche di welfare adeguate a sostenerne l’impatto, ma anzi, soggiacendo alle regole di una globalizzazione sbagliata, che crea divisione sociale e fasce di povertà sempre più delineate. Senza parlare di un generale modello di società latore di valori sbagliati, come dimostra il tratta- mento che riserva nei confronti delle fasce più deboli come i pensionati.
Una possibile soluzione sta, a nostro avviso, nel bloccare la privatizzazione annunciata della previdenza pubblica (come è stato tentato con i fondi pensione e il Tfr, che anziché favorire i consumi rischiano di favorire la speculazione finanziaria), destinandole invece più fondi, prendendoli, se necessario anche dalle fiscalità generale. Cosa questa che si fa anche per le spese militari. Ogni anno, infatti, le pensioni perdono il 2,5% del loro potere d’acquisto, mentre se venissero collegate automatica- mente alla dinamica delle retribuzioni e all’aumento dell’inflazione questo non succederebbe. Questa rivalutazione va fatta in maniera sostanziale anche per le pensioni già in essere, per cui un aumento che non tenga conto della perdita di potere d’acquisto degli anni prece- denti rischia di essere inutile, nonché gravoso per lo stato. Inoltre, migliorare le condizioni di lavoro esistenti darebbe ai giovani l’opportunità di maturare una buona pensione pubblica, senza contare che il fondo lavoratori dipendenti dell’Inps è destinato a crescere sia per la regolarizzazione dei migranti, sia per la lotta in essere al- l’evasione ed elusione fiscale (che va comunque incentivata), sia per l’aumento dei contributi dello 0,3% deciso nella finanziaria. La separazione di assistenza e previdenza, poi, porterebbe a una maggior onestà intellettuale, visto che la prima andrebbe sicuramente a carico del- la fiscalità generale, come è giusto che sia (e come è già in Europa).
In ultimo è necessario, per ripristinare l’equità socia- le, che la legge di Dini del 1995 sia soppressa. A parità di anni lavorati, infatti, un anziano prende l’80% e un giovane - che ugualmente lavora quarant’anni - il 40%. Proprio per i giovani e per il miglioramento delle loro condizioni di lavoro passa la questione delle pensioni. Se per alcuni la frase “lavorare meno, lavorare tutti” ha perso di significato e valore, bisognerebbe forse aggiungerci “lavorare bene e giustamente retribuiti, per lavorare meno e lavorare tutti”.
*Giornalista free lance