Tre percorsi, un obiettivo

Arturo Salerni

1. Introduzione

Imposteremo la fase di avvio del lavoro di ricerca e discussione propria del settore giuridico del Centro Studi CESTES-PROTEO muovendoci su alcuni terreni che riteniamo essenziali:

a) l’analisi delle modifiche intervenute nel campo del diritto del lavoro nell’ ultimo ventennio;

b) l’individuazione - o meglio il tentativo di individuazione - di obiettivi di trasformazione normativa unificanti per ampi settori del mondo del lavoro;

c) la lettura delle trasformazioni intervenute nel campo del diritto sindacale e della legislazione in materia di diritto di sciopero, ovvero con riferimento ai tradizionali strumenti di organizzazione e di lotta del movimento operaio e del mondo del lavoro.

Nell’ articolo che compare in questo numero zero della rivista cercheremo in particolar modo - tenendo presenti le linee fondamentali della nostra attività di ricerca - di valutare gli intrecci esistenti (a nostro avviso) tra la modificazione della struttura economico-produttiva e gli interventi legislativi che si sono succeduti nell’ ultimo ventennio in Italia sul terreno del diritto del lavoro (o forse è meglio dire della trasformazione - della mutazione genetica - del diritto del lavoro).

Nella necessaria generalizzazione propria di un intervento di natura introduttiva, peccheremo (inevitabilmente) di schematismo, difetto che nel corso delle pubblicazioni cercheremo di abbandonare.

2. Le trasformazioni del diritto del lavoro

Possiamo innanzitutto affermare che sino alla metà degli anni settanta la tendenza seguita dal movimento sindacale, e - sia pure con inevitabili contraddizioni e lacune - recepita dal nostro sistema normativo, era quella di perseguire la tutela della stabilità del lavoro mirando a fare emergere quale forma dominante (anzi quasi esclusiva) del rapporto di lavoro quella del lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Ovvero si mirava a limitare (principalmente con la legge 18 aprile 1962, n. 230) le ipotesi di lavoro a tempo determinato, a stabilire una tutela incisiva dai licenziamenti ingiustificati (art. 18 dello Statuto dei Lavoratori del 1970 e legge 15 luglio 1966, n. 604), ad impedire la intermediazione e la interposizione nella gestione della manodopera (legge 23 ottobre 1960, n. 1369), ad imporre le assunzioni di personale per chiamata numerica (legge 29 aprile 1949, n. 264).

In tal modo si mirava sostanzialmente a limitare il potere di ricatto e di intimidazione in capo al datore di lavoro (“fai quello che ti dico, non avanzare rivendicazioni, in caso contrario ti butto fuori dall’ azienda”), e attraverso l’ obiettivo strategico della stabilità si creavano i presupposti per una maggiore incisività e forza del complesso dei lavoratori (o meglio del movimento sindacale dei lavoratori) nei momenti decisivi di contrattazione dei livelli salariali, degli orari, dei ritmi, delle condizioni - anche ambientali - del lavoro.

Affermare ed imporre la oggi tanto vituperata “rigidità del lavoro” ha significato (sia pure non come conseguenza meccanicamente discendente e sempre a costo di conflitti durissimi) imporre conquiste significative sul piano della complessiva dignità e qualità del lavoro.

E tale avanzamento non ha prodotto i suoi riflessi solo nell’ ambito lavorativo (ed in primo luogo nella fabbrica) ma si è riverberato sull’ interezza dei rapporti sociali, sul complessivo grado di democrazia del nostro Paese.

La crisi economica determinatasi a metà degli anni settanta, l’ esplodere della disoccupazione e la contestuale strategia di decentramento delle lavorazioni (con l’ incrinarsi progressivo della centralità produttiva - e politica - della grande fabbrica, come luogo di sviluppo massimo delle contraddizioni sociali) è stata occasione anche per una inversione di tendenza sul piano della produzione legislativa.

Quello che scorgiamo, volgendo lo sguardo al recente passato, è la subalternità del movimento sindacale tradizionale a tale (per ora apparentemente inarrestabile) inversione di tendenza..

A tale subalternità ha corrisposto - e corrisponde - un riconoscimento del nuovo ruolo svolto dal sindacato nella determinazione e nella gestione delle nuove linee guida del processo di crisi/ristrutturazione/nuova legislazione.

Anzi, più che di subalternità bisogna parlare di protagonismo, di ruolo fattivo e creativo del movimento sindacale “ufficiale” nella determinazione dei momenti portanti e qualificanti della legislazione lavoristica “dell’ emergenza”.


3. Modello concertativo e involuzioni normative

Intorno all’ “emergenza” (quale pietra angolare della nuova produzione normativa, quale prospettiva per affrontare le emergenze sociali non solo - come è ben noto - in materia di politiche del lavoro) il ruolo delle grandi confederazioni sindacali si trasforma e si ridefinisce.

Il ruolo via via assunto dal “sindacato ufficiale” (“moderato e responsabile”) ha in un certo senso scavalcato il ruolo proprio dei partiti politici nel processo di produzione normativa. Si è creata così una dialettica perversa e stringente tra organizzazioni sindacali, padronato, e ministeri sempre più apparentemente tecnici.

La concertazione delle politiche di crisi e la cogestione del nuovo modello produttivo e normativo (caratterizzato da sempre maggiore concentrazione delle ricchezze e decentramento delle produzioni) ha sempre più determinato il comportamento delle tradizionali confederazioni sindacali.

Ciò spiega - almeno in parte - l’ apparente paradasso della coesistenza di una significativa crisi di rappresentatività del sindacato tradizionale (crisi di rappresentatività che costituirà, come abbiamo accennato, uno dei nostri campi di ricerca) e la crescita contemporanea del suo “peso” su un piano generale (nei primi anni novanta assistiamo ad un crollo della tradizionale rappresentanza politica ed alla “tenuta” del sindacato quale supporter e consigliere dei governi chiamati ad applicare dure politiche di attacco alle conquiste dei lavoratori ed ai livelli raggiunti dalla spesa pubblica).

Quali sono le parole d’ ordine che caratterizzano questa (ormai ventennale) inversione di tendenza? Flessibilità e precarizzazione.

I momenti centrali di tale evoluzione (o involuzione) normativa sono segnati dalla legge 19 dicembre 1984 n. 863, dalla legge 56 del 1987, e da ultimo dal cosiddetto “pacchetto Treu” del 1997.

Intendiamo concentrare l’ attenzione soltanto su tali passaggi legislativi, pur avendo ben presente che essi si accompagnano ad una miriade di interventi che vanno nel senso che cercheremo di indicare.

L’ art. 3 del Decreto Legge 30 ottobre 1984 n. 726 (recante significativamente in rubrica “Misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali”), convertito nella legge n. 863 del 1994, dispone al primo comma che “i lavoratori di età compresa tra i quindici ed i ventinove anni possono essere assunti nominativamente, in attuazione dei progetti di cui al comma 3° [ovvero progetti predisposti dalle imprese ed approvati dalla Commissione regionale per l’ impiego], con contratto di formazione e lavoro non superiore a ventiquattro mesi e non rinnovabile, dagli enti pubblici economici e dalle imprese che al momento della richiesta non abbiano sospensioni dal lavoro in atto.

Imposteremo ai sensi dell’ art. 2 della legge 12 agosto 1977 n. 285, ovvero non abbiano proceduto a licenziamenti nei dodici mesi precedenti la richiesta stessa, salvo che l’ assunzione non avvenga per l’ acquisizione di professionalità diverse da quelle dei lavoratori interessati alle predette sospensioni e riduzioni del personale”.

Ed ancora il comma 1 bis dello stesso articolo, introdotto successivamente con il D.L. n. 108 del 1991, prevede che nelle aree interessate dagli interventi nel Mezzogiorno e nelle aree svantaggiate del Centro-Nord “l’assunzione con contratti di formazione e lavoro è ammessa sino all’ età di 32 anni”.

Il contratto di formazione e lavoro, è un contratto a tempo determinato (in cui quindi il datore di lavoro ha il vantaggio di poter scegliere al termine del periodo prestabilito se instaurare o meno un rapporto di lavoro a tempo indeterminato) che può instaurarsi fuori dai limiti rigidi posti dalla legge 230/1962.

Infatti l’ art. 1, primo comma, della legge 18 aprile 1962, n. 230, prevede che “il contratto di lavoro si presume a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate” (e qui il legislatore del 1962 elenca le tipologie possibili per il contratto a tempo determinato: lavoro stagionale, sostituzione di lavoratori che hanno diritto alla conservazione del posto, esecuzione di un servizio od opera predeterminata, personale dello spettacolo e del trasporto aereo con riferimento a particolari attività).

Ma al vantaggio derivante dalla possibilità di interrompere senza motivazione e senza oneri il rapporto di lavoro alla scadenza del termine prefissato, il datore di lavoro aggiunge quello di notevoli sgravi contributivi e del costo del lavoro (oltre a quello - ormai però divenuto regola generale - di procedere a chiamata nominativa).

In cambio il datore deve procedere nei confronti del neo-assunto ad attività di formazione, spesso risibili con riferimento a qualifiche con basso contenuto di professionalità (per le quali peraltro con più frequenza si ricorre all’ utilizzo di questo strumento) e specie con riferimento a contratti di formazione e lavoro che possono raggiungere la durata di ventiquattro mesi.

Il paradosso è che la possibilità per il datore di lavoro di avere a sua disposizione lavoratori facilmente allontanabili (e che se vogliono la trasformazione del rapporto al termine della formazione-lavoro devono trasformarsi in soggetti pronti a tutto), pagati meno di altri che svolgono le stesse mansioni e che portano un minore onere contributivo viene presentata come un intervento in favore del giovane disoccupato (“misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali”).

Si tratta di una delle tante concessioni da parte del sindacato, che viene invece sbandierata come una conquista dei lavoratori (ottenuta in cambio del cedimento nel 1984 sui punti di contingenza), e nella quale al maggior potere datoriale in ordine alla gestione della manodopera (flessibile e ricattabile) si accompagna un maggior potere del sindacato inteso come istituzione (attraverso la sua presenza nelle Commissioni regionali per l’ impiego che devono approvare i progetti di formazione e lavoro).

È una operazione che nasce prima del 1984, assecondatata dalla legislazione che favorisce ed accompagna le massiccie riduzioni del personale che caratterizzano il periodo fine anni ‘70/inizio anni ‘80, e che vedremo meccanicamente ripetersi negli anni a seguire.

La stessa legge del 1984 prevede, all’ art. 5, l’ istituzione e la regolamentazione del contratto a tempo parziale, anche qui con la individuazione di un ruolo fondamentale assegnato alla contrattazione collettiva anche aziendale, e l’ introduzione della chiamata nominativa per il cinquanta per cento degli avviamenti al lavoro.

Della legge 28 febbraio 1987, n. 56 (recante “Norme sull’ organizzazione del mercato del lavoro”), approvata anch’ essa sotto la Presidenza del Consiglio Craxi, e che contiene la definitiva affermazione - nella globale riforma del collocamento al lavoro - dell’ istituto della chiamata nominativa, ciò che in questa sede interessa esaminare è l’ art. 23.

L’ art. 23 di detta legge, che è assolutamente significativo in relazione agli elementi di lettura che abbiamo prospettato, detta “disposizioni in materia di contratto a termine”, e dispone che “l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro, oltre che nelle ipotesi di cui all’ art. 1 della L. 18 aprile 1962, n. 230, e successive modifiche [.....] è consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. I contratti collettivi stabiliscono il numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato”.

Tra l’ altro ai sensi dell’ art. 25 della stessa legge è possibile alle commissioni regionali per l’impiego, “al fine di incentivare l’ incontro tra domanda ed offerta di lavoro”, “proporre deroghe ai vincoli esistenti per le imprese in materia di assunzioni di lavoratori”.

È facile vedere il legame esistente tra le deroghe alla cosiddetta “rigidità” del lavoro ed il ruolo preminente che in cambio dell’ assenso a queste deroghe il sindacato ufficiale sempre più assume nella gestione (sempre subalterna comunque alle esigenze delle imprese) - o, forse meglio, nella certificazione - della precarietà e sostituibilità della manodopera.

Si giunge adesso alla legge 24 giugno 1997, n. 196, il cosiddetto “pacchetto Treu”.

In particolare questa legge, di cui in un prossimo numero dovremo analizzare più compiutamente l’ ambito di effettiva applicazione, contiene la disciplina del lavoro interinale (ovvero del lavoro in affitto) e nuove disposizioni di smantellamento delle tutele poste, in tema di lavoro a termine, dalla legge 230 del 1962.

Significativo, anche qui, un dato. La legge viene denominata “Norme in materia di promozione dell’ occupazione”.

In realtà si tratta di altre, nuove ed efficaci misure a sostegno della possibilità fornita ai datori di lavoro di sbarazzarsi senza alcun vincolo della manodopera che inseriscono nuovi devastanti elementi di precarizzazione della condizione di lavoro, in una con la legalizzazione del “caporalato”.

Sempre più ci sarà dato vedere un esercito di lavoratori utilizzati per brevi periodi, sbattuti fuori dai posti di lavoro, resi incapaci - perchè deboli e non stabilmente inseriti nel mondo del lavoro - di contrattare minime condizioni retributive e normative.

Ed ancora si usa la parola magica della lotta alla disoccupazione, per mascherare una realtà innegabile: si stanno approntando sempre nuovi strumenti per facilitare la gestione della manodopera, per ridurre le tutele dei lavoratori, per impedire rivendicazioni e conflitti.

Si è sempre più, anche ideologicamente, uniformemente subalterni alla logica per cui solo un’ impresa con le mani libere e con gli artigli di granito può creare condizioni di benessere e sviluppo complessivi, che possono far derivare benefici effetti anche con riferimento ai generali livelli occupazionali.

La realtà di questi ultimi decenni però - complessivamente - smentisce questo rassicurante messaggio ideologico e la fondatezza delle pseudo-politiche per l’ occupazione.

Il livello di disoccupazione non scende anzi cresce a fronte dell’ innovazione tecnologica e produttiva che determina incrementi di produttività del lavoro e reddittività per le imprese; l’ estensione della concorrenza a livello planetario induce ad una sempre progressiva riduzione delle tutele in favore del lavoro; assistiamo dall’ America all’ Europa alla crescita non dell’ occupazione ma di una massa di lavoratori occupati precariamente, senza tutele e senza propspettive per il futuro.

E tutto ciò si accompagna - come svelano i sociologi - ad un sentimento di insicurezza e precarietà collettiva e ad un profondo mutamento in senso regressivo delle forme di rappresentanza istituzionale.Ciò che di fatto si è ottenuto - a fronte di una fase di complessiva notevole espansione economica e produttiva - è il portare il lavoratore da solo di fronte al mercato del lavoro, alle controparti datoriali, con meno forza, meno diritti, meno tutela, pochi riferimenti sindacali.

E si tratta di un cittadino-lavoratore immerso in uno stato di disoccupazione, che non sa come sbarcare il lunario, come condurre sè e la propria famiglia al giorno successivo, disponibile ad accettare lavori pesantissimi, orari lunghissimi, paghe ridotte, mancanza di regolarizzazione contributiva e previdenziale, ambienti di lavoro malsani, il rischio continuo di incidenti, rapporti di lavoro subordinato mascherati da lavoro autonomo, l’ avvilente mercato delle braccia collegato ad una deregolamentazione del collocamento al lavoro.


4. Una risposta, una proposta: il “reddito sociale minimo di cittadinanza”

È possibile lavorare per invertire questa linea di tendenza che distrugge ogni prospettiva di unità dei lavoratori, che permette agli imprenditori di spremere senza regole chi lavora, che impedisce ogni stabilitàe prospettiva per chi si trova in posizione subalterna?

In questo numero zero vogliamo soltanto sollevare una questione, iniziare ad intravedere un obiettivo, che già si pone alla riflessione collettiva, per contribuire porre un freno al liberismo dilagante e per affermare un diritto da cui nessun cittadino può essere escluso.

Si tratta della questione del reddito di cittadinanza, o comunque - al di là dei termini - di un reddito garantito in presenza di una situazione di disoccupazione o di sottoccupazione.

Nel porre questo obiettivo - e, prima ancora, nell’ individuare un possibile percorso di lotta - si sollevano tre questioni:

a) alla logica del primato dell’impresa - così fallimentare dal punto di vista dell’ interesse generale, quantomeno sul terreno della “lotta alla disoccupazione” - si contrappone la idea-necessità che il soggetto che si affaccia sul mercato del lavoro non sia un soggetto precipitato in uno stato assoluto di disperazione, la cui stessa esistenza si contrappone a quella del già occupato, disponibile ad accettare di tutto per fronteggiare l’ inedia e la miseria, usato come strumento di ricatto nei confronti degli altri lavoratori per spingerli ad accettare inferiori condizioni retributive e normative;

b) l’ affermazione di un principio di democrazia, di civiltà e di solidarietà sociale, che ha antiche radici e che va attualizzato al livello dello sviluppo raggiunto dalle forze produttive e dal modo di produrre (come afferma Darhendorf in Per un nuovo liberalismo, 1988, “se fra i diritti fondamentali non figura quello per cui viene garantita la base materiale della vita, in pratica crolla la società dei cittadini”);

c) la contrapposizione all’ ideologia ed alla pratica dello smantellamento del “welfare state” nella riscoperta della politica anche come strumento per fronteggiare gli stati di bisogno collettivi e per governare lo sviluppo e l’ economia, tenendo ben presente che la disoccupazione è un dato strutturale delle società capitalistiche più avanzate.

Nel saggio di Bronzini e Bascetta, “Il reddito universale nella crisi della società del lavoro” (in AA.VV., La democrazia del reddito universale, Manifestolibri, pagg. 7 e segg.), si afferma, tralaltro, che la proposta di introdurre un reddito universale “è un primo tassello nella definizione di uno Statuto dei diritti del lavoratore post-fordista, che unifichi sotto il suo scudo protettivo ogni forma di prestazione lavorativa”.

Anche al di là dell’ analisi, che occorre necessariamente fare, sulla trasformazione del lavoro, e quindi su come gli istituti giuridici a tale trasformazione si rapportano, su quali garanzie si determinano - o si dovrebbero determinare - per i lavoratori nella nuova situazione (si pensi, solo per fare un esempio, al telelavoro), appare con evidenza che l’ istituto del reddito di cittadinanza (o del reddito garantito o universale) può diventare uno strumento imprescindibile di unificazione degli interessi (oggi spesso apparentemente contrapposti) di occupati, semioccupati, temporaneamente disoccupati, occupati in forme di lavoro inquadrate come autonome.

Si tratta di individuare forme dell’ erogazione del reddito, condizioni e requisiti, entità, costi: anche su questo punto intendiamo nel corso del tempo soffermare la riflessione, per individuare - accanto all’ opportunità ed alla insostituibilità dell’ obiettivo - la praticabilità e la quantificazione dello stesso.

Si tratterà di una ricerca da condurre a più livelli: possibile strutturazione normativa, costi economici, individuazione delle risorse necessarie per fronteggiare i costi, percezione sociale della parola d’ ordine, forze sociali disponibili ad affrontare una vertenza che incontrerà non pochi ostacoli.

E sicuramente sul punto il conflitto sarà aspro proprio perchè si pone al centro di uno scontro più ampio tra l’ ideologia galoppante della piena libertà di impresa (e gli interessi economici e politici sottostanti a tale “visione del mondo”) e la necessità di costruire una prospettiva “altra” rispetto ad un futuro fatto di lavoratori “usa e getta” e di contrazione della spesa pubblica, a partire appunto dalla creazione di una sicurezza economica minimale.

Il Centro Studi Cestes Proteo intende contribuire, unitamente alle forze che ritengono utile impegnarsi per questa soluzione, alla ricerca ed alla definizione delle concrete articolazioni della proposta.