INVITO ALLA LETTURA

REDAZIONE DI PROTEO

IL FAR WEST DEL CAPITALISMO ALL’ITALIANA E L’ALTERNATIVA DI CLASSE

Recensione a L. Vasapollo, Storia di un capitalismo piccolo piccolo, Jaca Book, Milano 2007, euro 26,00

a cura della redazione

Negli studi storiografici ed economici d’ispirazione marxista, segnatamente nel nostro paese, è piuttosto raro imbattersi in una seria disamina del ruolo e delle funzioni svolte dalle strutture produttive del capitalismo nella società italiana industriale. Più consueti sono i percorsi di studio che analizzano l’altra componente fondamentale della società capitalista nell’ottica marxiana, quella del lavoro: i dati, la documentazione, le sintesi di cui disponiamo risultano abbondanti, certe volte persino pletoriche, almeno dalla fine degli anni ’70 in poi. Verrebbe quasi il sospetto, a considerare la provenienza e l’altezza cronologica della gran parte di questa messe di studi, che essi non rispondano a una effettiva esigenza d’analisi storica, quanto piuttosto a una difficoltà di elaborare le drammatiche battute d’arresto del movimento operaio negli ultimi vent’anni. Quest’ipotesi riceve in parte conferma, a nostro avviso, quando si constati invece la difficoltà (o la riluttanza) ad approfondire ciò che è avvenuto nel campo avverso: in particolare, nel corso della sciagurata evoluzione del capitale che ha portato alla progressiva estromissione della componente del lavoro dal processo di creazione del valore. Come? Mediante quella tendenza di lunga portata che ha visto trasformare, progressivamente, i grandi patrimoni industriali - patrimoni per la proprietà azionaria ma anche, indiscutibilmente, per la classe operaia e per il Paese - in capitali finanziari. Di questo fenomeno epocale, che è parte integrante e motore della ristrutturazione capitalista innescata dopo lo shock petrolifero dei primi anni ’70, non si è dato sufficientemente conto: soprattutto se si considera che esso ha avuto in Italia le sue più crude e deflagranti manifestazioni, delineando, anche sui mercati esteri, l’immagine di un capitalismo di rapina, fatto di acquisti mordi e fuggi, di fallimenti pilotati ad arte, di una conseguente, progressiva erosione della quantità, della dignità, della forza contrattuale della manodopera. Sfidando una interpretazione che piuttosto andrebbe definita come una delle concrete incarnazioni del pensiero unico in economia, la quale individua nella crescita del valore misurabile in borsa il criterio fondamentale per valutare la prosperità di un’impresa (ma la vera domanda è: prosperità per chi? e al fine di cosa?), tra gli studiosi d’ispirazione socialriformista, Luciano Gallino ha messo in evidenza le tragiche conseguenze di questa virata, che ha portato alla liquidazione della grande industria italiana nel giro di poco più di trent’anni1. L’ultimo libro di Luciano Vasapollo, dal titolo emblematico: Storia di un capitalismo piccolo piccolo. Lo stato italiano e i capitani d’impresa dal ’45 a oggi, ha il merito non irrilevante di riportare all’attenzione degli studiosi marxisti, del movimento sindacale, delle coscienze non allineate della sinistra il problema di un’indagine approfondita della trasformazione del capitalismo, utile anche a dare conto delle azioni e reazioni di classe di fronti a tali mutamenti. Rispetto al lavoro di Gallino e di altri studiosi dell’evoluzione industriale, tuttavia, il lavoro di Vasapollo compie due passi ulteriori: il primo consiste nella sistematizzazione di questa vicenda in un quadro diacronico unitario, di lunga portata, individuando tendenze sotterranee e alcuni mali originari del capitalismo italiano, che fin dall’origine ne orientano gli esiti. Il secondo passo riguarda la lettura di classe che Vasapollo fornisce della storia del grande capitale nazionale, inquadrandone le più recenti evoluzioni alla luce della teoria del ciclo di espansione, recessione, crisi e ristrutturazione del capitalismo. Per far questo, con un taglio narrativo e - a tratti - quasi giornalistico, il libro prende le mosse dalle vicende più attuali della grande finanza italiana, intraprendendo poi una “lunga marcia” che ripercorre le tappe dello sviluppo nazionale, osservato dal punto di vista dell’oggi, dalla prospettiva dei fallimenti registrati negli ultimi anni, a partire dai nuovi scandali bancari (quasi una riedizione anacronistica dell’età giolittiana), fino ai crack finanziari della Parmalat e della Cirio, alla crisi della Telecom e alla svendita dell’Alitalia.

Di questa storia parla il libro: della nascita e della successiva perversione del capitalismo moderno in Italia, attraverso le biografie dei capitani d’industria e le cronache dell’affermazione e declino delle loro imprese, ripercorrendo le tappe della nascita e della liquidazione del capitalismo di Stato, sostituito dall’allegra gestione delle privatizzazioni e dalla finanziarizzazione dell’ultimo decennio. Il funzionamento dei sistemi capitalistici, ci spiega, infatti, Giuseppe Cusin, si basa su due meccanismi fondamentali i quali hanno lo scopo di ampliare il più possibile la quota del PIL che va ai redditi non da lavoro. “Nel mercato del lavoro è pagato il salario minore possibile, spesso uguale al salario di sussistenza, e nel mercato dei capitali reali e monetari è sottratta ai piccoli risparmiatori buona parte della quota del reddito che essi riescono a mettere da parte”.

I limiti cronologici della storia di cui dice l’autore sono precisi e, a nostro avviso, particolarmente significativi: in un Paese che non ha avuto rivoluzione borghese, e neanche una vera rivoluzione industriale, lo sviluppo contemporaneo fa data a partire dal secondo dopoguerra, quando si verifica la massiccia e programmatica immissioni di capitali stranieri, destinati a rimodernare l’apparato industriale uscito gravemente compromesso dal ventennio, dalla riconversione per sostenere lo sforzo bellico e dai danni del conflitto portato, negli ultimi anni, sul territorio della penisola. C’è da rilevare, inoltre, che la storia dello sviluppo italiano è indissolubile da quella della instaurazione ed evoluzione della democrazia che - come sottolinea Luciano Canfora in suo recente libro2 - registra i suoi maggiori fallimenti proprio nel campo dell’economia, poiché non è riuscita a informare di sé i rapporti tra impresa e manodopera, nonostante i tentativi sviluppati a partire dagli anni ’50 del secolo scorso. E con questo si viene all’ultima chiave di lettura del libro - forse la più importante nelle intenzioni del lavoro. Si tratta del collegamento sotterraneo, implicito e non di rado esplicito che tiene insieme la storia del capitale con quella del movimento operaio: il tentativo epocale, incarnato nelle aspirazioni e nei gesti di uomini e donne, di condividere la ricchezza derivante dal lavoro in proporzioni più eque. Per questo, al di là dei continui riferimenti alla storia sindacale che pure il testo non tralascia, il libro è inscindibile da quello che lo ha preceduto, a firma di Luciano Vasapollo e Donato Antoniello: Eppure il vento soffia ancora. Capitale e movimenti dei lavoratori in Italia dal dopoguerra a oggi3. Soltanto tenendo insieme le due linee, infatti, si può ricostruire correttamente quella che è in fin dei conti un’unica storia: la storia delle forme concrete in cui s’è manifestato il conflitto capitale-lavoro in Italia, le distorsioni che ha subito, gli esiti che finora ha conosciuto. Se dunque la storia - come Marx scriveva a proposito della filosofia - non è solo una fotografia più o meno sbiadita del passato ma lo strumento concreto per cambiare lo stato di cose esistenti, quella tracciata da Vasapollo e i suoi collaboratori in questi anni può contribuire forse alla vasta opera di ricostruzione, su nuove basi, di un’alternativa di classe in Italia, sull’esempio di quanto sta avvenendo in America Latina e in altre aree del pianeta4, a seguito dei conclamati fallimenti di un sistema di sviluppo - quello capitalista moderno - che in duecento anni di storia non ha distribuito benessere, non ha creato comunità pacifiche, non ha saputo combattere il flagello delle povertà (che pure assillava i suoi primi teorici) disattendendo ad una ad una a tutte le promesse di progresso con cui s’è presentato ai popoli.