Le “esagerazioni” di Michael Moore (ovvero sicko et simpliciter)

Maurizio De Santis

Il nervo scoperto dell’assistenza sanitaria in Italia viene incidentalmente ed involontariamente stimolato dal regista Michael Moore a Cannes col suo film Sicko, film che denuncia e criminalizza il sistema sanità degli USA, le lobbies delle assicurazioni e gli ospedali per soli assicurati. Per contro, Moore si meraviglia di alcune realtà della medicina europea di cui esalta i pregi. La pellicola si conclude con un viaggio della speranza per un gruppo di americani malati e indigenti che possono finalmente curarsi approdando, pensate un po’, a Cuba!

E dov’è il nervo scoperto? Nel corso del film si intravvede una statistica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che pone il SSN italiano al secondo posto nel mondo, dopo quello francese. Paolo Baroni, editorialista de La Stampa, il 30 agosto scorso deve essere saltato sulla sua poltrona vedendo al cinema Sicko e, d’impeto, deve aver buttato giù con rabbia un articolo dal titolo “Moore esagera La sanità italiana si scopre malata” e che sottotitola, udite udite: Curarsi in privato è scelta obbligata in molti casi.

Forse proprio qui sta il nervo scoperto: poche parole illuminano più di grandi discorsi. Le veementi parole di Baroni fanno subito alzare le antenne a noi vecchi, smaliziati e convinti uomini di sinistra che subito si domandano a chi conviene che la nostra sanità non funzioni? Una sanità pubblica, che non è il top, ma che viene giudicata di buon livello, è un problema per le compagnie di assicurazione e per la medicina privata. E allora, giù picconate su uno degli ultimi baluardi di civiltà della nostra società. L’articolista de La Stampa chiama a sostegno della sua levata di scudi il Coordinatore del CEIS-Sanità dell’Università di Tor Vergata. E qui inizia il valzer. L’Economista universitario, dice Baroni, afferma tra l’altro che la misura dell’efficienza del SSN valutata dall’OMS con il dato aspettativa di vita (dato numerico, ovverosia oggettivo) è erronea perché invece, sempre a suo parere, è meglio valutare la suddetta efficienza con un altro parametro ovvero l’indice di gradimento (dato qualitativo, cioè soggettivo e opinabile) . A noi sembra un palese errore metodologico. Per capirci meglio: se valutiamo un fenomeno per mezzo di una variabile, è meglio che il risultato sia un valore numerico (nel nostro caso l’aspettativa di vita) piuttosto che una valutazione qualitativa dettata spesso da fattori emotivi o, come accade ai giorni nostri (sic), condizionata da quello che dicono i mass-media. Infatti, qualsiasi misurazione per essere quanto più precisa possibile necessita di un numero; altrimenti è come se chiedessimo a qualcuno quanto dista Milano da Roma e questi rispondesse che è lontano perché sull’autostrada ci sono troppe buche. Innanzitutto bisogna precisare che l’OMS, quando ha stilato quella classifica, ha fatto una valutazione di tipo sanitario: all’OMS, infatti, interessa l’adeguatezza, la disponibilità e fruibilità delle cure e per questo ci posizionava al secondo posto nel mondo. Gli economisti, invece, guardano alla salute da un mero punto di vista economico, cioè sulla base di quel tormentone che è il costo-beneficio che significa che ti curo se conviene finanziariamente, altrimenti fai da te. In un punto forse, ma solo in parte, sono condivisibili le annotazioni del coordinatore Ceis-sanità quando afferma che non si può generalizzare il giudizio sulla sanità italiana quando, come riportato nell’articolo, afferma che il SSN è diverso se parliamo di Bolzano o di Roma, ciò è senz’altro vero per l’Italia come in ogni paese del resto del mondo in cui le zone di eccellenza si alternano a zone di minore efficienza. E anche nell’ambito dello stesso microcosmo di una città le cose cambiano da presidio a presidio. Comunque, questa utopia altoatesina può essere confutata se si pensa che un’urgenza, per un abitante della Val Badia, può essere curata solo a Brunico (circa 40 Km di distanza fatti di curve e di strade intasate da auto d’estate o innevate d’inverno) perché pochi sono i presidi ospedalieri. È capitato pure che qualche valligiano sia nato in auto, strada facendo, per le difficoltà a raggiungere la meta. Nel Lazio, al contrario ci sono tutta una serie di ospedali sparsi per il territorio che sono a portata di mano della popolazione. Quando si vuole descrivere con chiarezza ed onestà intellettuale un evento, non si può prescindere dall’uso di una terminologia corretta ed adeguata all’evento stesso. Se vogliamo sapere se il SSN è in grado di curare al meglio i suoi cittadini, dobbiamo verificare l’adeguatezza delle cure con indicatori obiettivi, come l’aspettativa di vita sana (in un certo senso in grado di definire meglio il quadro della situazione). Se invece siamo interessati a conoscere il valore del rendimento delle strutture mediche, intese come rapporto fra risultati ottenuti e sforzo economico profuso, può essere utile raffrontare il costo pro capite per la sanità con l’aspettativa di vita sana dei cittadini. Tanto per fare un esempio, facciamo un calcolo empirico che si basa sui dati delle tabelle che seguiranno. Rendimento = risultato ottenuto/impegno economico Per l’Italia avremo: attesa di vita sana/euro spesi pro capite per sanità, cioè 70.7/2,266 = 31.2 Per la Germania avremo: 69.6/3,001 = 23.2 Cosa significa questo dato bruto, empirico, poco scientifico quanto si vuole, ma che comunque fornisce un’indicazione di tipo immediato? Significa che in Italia, a ogni mille euro spesi corrispondono 31.2 anni di vita sana, mentre in Germania, con gli stessi mille euro l’aspettativa di vita sana è di 23.2. Un altro importante parametro di valutazione, salito alla ribalta negli ultimi tempi, è l’appropriatezza: misura in cui un particolare intervento è sia efficace che indicato per la persona che lo riceve (accezione clinica) nonché effettuato nei modi e nei tempi dovuti (accezione organizzativa). L’accezione economica del termine sta suscitando numerosi dibattiti perché introduce una valutazione, appunto economica (“la prestazione fa aumentare notevolmente le spese?”) che contrasta con quelle più prettamente sanitarie. In effetti, il contenimento dei costi, la somministrazione della migliore e più omogenea assistenza a tutti e la libertà delle scelte del paziente e del medico sono fini tra loro contrastanti. Comunque, l’appropriatezza trova anche una finalità nel tentativo di ridurre le liste d’attesa. La tesi è questa: se le prestazioni sanitarie richieste fossero quanto più possibile appropriate, verrebbe a ridursi il numero delle prestazioni stesse con l’eliminazione di quelle definibili inappropriate (che purtroppo esistono). Pertanto, ad una riduzione del numero di esami e ricoveri, dovrebbe conseguire una riduzione dell’attesa per le prestazioni. Una delle Regioni italiane che si sta movendo in tal senso è l’Emilia-Romagna con un progetto che coinvolge l’Agenzia Sanitaria Regionale e le parti sociali (e di cui vediamo qui di seguito il frontespizio).

A parer nostro, rappresenta un buon sistema per migliorare l’efficienza ospedaliera senza subire necessariamente l’ossessione del famigerato costo/beneficio. Principi e finalità sono illustrati nella citazione che segue. Il Servizio sanitario deve sviluppare la capacità di soddisfare - con modalità e tempi adeguati - i bisogni assistenziali dei cittadini secondo i principi dell’equità di accesso alle prestazioni, dell’efficienza, dell’efficacia e della trasparenza. La sfida a cui il Sistema è chiamato per ridurre liste e tempi di attesa è “fare la cosa giusta al momento giusto”. Questo significa perseguire la migliore appropriatezza clinica nella prescrizione di visite ed esami specialistici e la contemporanea migliore organizzazione dei servizi: dalla prenotazione alla differenziazione degli accessi per priorità clinica e urgenza, dall’uso pieno e razionale del patrimonio tecnologico e professionale all’erogazione delle prestazioni. La condizione indispensabile per raggiungere questi obiettivi è la effettiva “presa in carico del paziente”, riducendo i rinvii tra specialisti e medici di medicina generale, semplificando le procedure burocratiche di accesso, garantendo comunque la continuità assistenziale. In sostanza, dopo la prima visita, non deve più essere il paziente a muoversi, ma la struttura sanitaria deve essere in grado di programmare (e prenotare) l’intero iter assistenziale al paziente (nuovi accertamenti e visite di controllo). L’efficienza, dal canto suo, è la capacità di funzionare correttamente. In questo caso, allora, possiamo discutere soprattutto sulla base delle impressioni che si percepiscono. Parleremo di tempi d’attesa, della sporcizia e di quant’altro può infastidire il cittadino-paziente. Però, da una piccola indagine, condotta per la RAI all’inizio di ottobre 2007, emerge che il 62% degli Italiani è soddisfatto del SSN; seppure con oscillazioni Nord-Sud del 74% e 43% rispettivamente. Il campione intervistato ha avuto un’esperienza di tipo sanitario diretto o nell’ambito familiare nel corso dei primi nove mesi del 2007. Nell’insieme, i 2/3 degli intervistati traeva dall’esperienza un parere sostanzialmente positivo. Questi dati non sembrano caratteristici di uno sfacelo. La confusione che si genera usando in modo improprio la terminologia di cui si diceva in precedenza, non permette di capire come stanno realmente le cose, e fa sorgere un dubbio: quando si dipingono le catastrofi del SSN, si è mossi da intenti migliorativi o da interessi di parte? (Corrado Guzzanti direbbe: La seconda che hai detto). Dando una scorsa al rapporto CEIS del 2005 sulla sanità (360 pagine di conti economici) ci si rende conto che l’intento è quello di dimostrare la necessità di ridurre la domanda di prestazioni per diminuire il bilancio del SSN. Lungi dal valutare se tale spesa ha avuto ed ha un impatto positivo per la salute dei cittadini (in fondo cosa importa?), il rapporto così concepito dimostra come negli ultimi anni con l’aziendalizzazione, la globalizzazione, il liberismo e quant’altro, il punto di arrivo delle attività mediche non dovrà essere la cura del malato, ma la creazione di un sistema sanitario economicamente ottimale (per chi?). Un’annotazione: poiché è noto, e lo sanno bene gli economisti perché è una legge di economia, che la richiesta di prestazioni sanitarie cresce con il benessere economico, allarma un invito a ridurre la domanda perché induce a credere che il fine ultimo sia solo lo smantellamento del SSN. Andando avanti nell’articolo si nota che l’impeto da crociato alla Goffredo di Buglione di Baroni porta il giornalista ad affermazioni che si contraddicono tra loro: esalta gli USA che spendono il 15.4% del PIL in sanità e depreca l’Italia che tra i paesi del G7 è quello che investe meno in questo campo. Però poi, nel passo successivo, se la prende con lo “spreco” che, nel periodo 1998-2005, ha visto un incremento del 60.7% del bilancio della sanità. Allora, questi soldi si devono spendere o no? E ancora, se non si dovevano spendere, perché prendersela con Michael Moore quando dice che Berlusconi ha incasinato il nostro SSN, se la parentesi governativa berlusconiana è tutta dentro il periodo dello spreco e, in quel quinquennio, la Corte dei Conti ha avuto da penare molto con i suoi rilievi sui bilanci della sanità? (Toghe rosse pure quelle?) Tra il 2001 e il 2004 detto bilancio è stato sottostimato di “soli” 20,748 milioni di euro. Perché l’editorialista scarica la sua rabbia contro i soldi spesi per “mantenere una miriade di strutture, di ospedali e un vero e proprio esercito di persone”, se poche righe prima denuncia quello che lui ritiene una carenza, ovvero il basso numero di posti letto per abitante? Alcune affermazioni, poi, svelano una scarsa conoscenza dei problemi sanitari. Sempre a proposito dei posti letto per abitante, forse è sfuggito che la modernizzazione degli ospedali si è ottenuta, tra l’altro, diminuendo il numero e la lunghezza delle degenze al fine di ridurre l’impatto del disagio psicologico ed economico per i pazienti e i loro familiari nonché per ridurre i costi che ne derivavano alla comunità. Si consideri che oggi molte cure e molti interventi, grazie anche all’affinamento delle terapie medico-chirurgiche, vengono effettuati in regimi di ricovero che prevedono tempi limitati di permanenza in ospedale (Ricoveri protetti, day-hospital, day-surgery, ecc): anche questo potrebbe essere un parametro di valutazione di efficienza del SSN. Come si suol dire dalle parti nostre, sembra che la si voglia buttare in caciara cioè che si voglia solo creare confusione con un unico scopo: la fine della sanità pubblica, un mercato da circa 100 miliardi di euro! Siamo lontani dal pensare che il sistema sanitario nostrano sia il migliore e il più efficiente. Va migliorato ma non distrutto per evitare di favorire gli interessi privati delle lobbies finanziarie. Questo tipo di logica privatistica, che fu caro alla Tatcher in Gran Bretagna, ha comportato che, in seguito, Blair (!) si vide costretto ad emanare una legge che consentiva ai cittadini inglesi di andarsi a curare oltre Manica se i tempi di attesa per un posto letto avessero superato un anno, proprio così, un anno! Il pericolo di privatizzazioni folli è così avvertito che addirittura il 4 giugno 2006 il Presidente della Commissione Episcopale per il servizio della carità e della salute (Conferenza Episcopale Italiana) presentava una Nota Pastorale intitolata Predicate il Vangelo e curate i malati. Nella nota, tra l’altro, si sottolinea che “Un’eccessiva libertà d’iniziativa, ad esempio, rischia di emarginare i soggetti più deboli...”. E ancora che “L’adozione indiscriminata del modello aziendale in ambito sanitario, seppur motivata dall’esigenza di organizzare i servizi in maniera più efficiente, si presta al rischio di privilegiare il risultato economico rispetto alla cura della persona” (!) Sin qui Michael Moore e i paladini della sanità privata. Per fortuna, di recente l’ANAAO ASSOMED, l’associazione più rappresentativa dei medici italiani, ha stilato un rapporto che mette a confronto la situazione della sanità nei 25 paesi dell’Europa Unita (mancano gli ultimi arrivi: Romania e Bulgaria). Si tratta di uno spaccato molto dettagliato supportato da cifre, privo di commenti di parte che consente di avere un quadro piuttosto veritiero di come stanno le cose; ma soprattutto di sapere come funzionano le aziende nel loro impatto con i pazienti e non come imprese a fine di lucro. Per la trattazione che segue si prenderà spunto proprio da questo rapporto. L’intento è quello di dimostrare che, con tutte le lacune che si vuole, la sanità pubblica, un giocattolo che attira la bramosia dei capitali privati, è un caposaldo di civiltà che vale la pena di migliorare certo, e non di distruggere. Ne sanno qualcosa, ad esempio, nei paesi dell’Est europeo dove, prima della caduta del muro di Berlino, l’assistenza sanitaria e gli altri servizi erano tutti gratuiti; oggi che tutto è cambiato, si pagano anche la ospedalizzazione e le cure, per cui la gente è costretta ad emigrare. La Storia, non solo la nostra, ma anche quella di chi ci sta più o meno vicino, è un patrimonio culturale di conoscenza che dovrebbe insegnare a difendere e migliorare quanto si è riusciti a conquistare per evitare che qualcuno ci defraudi di un bene che ci spetta come esseri umani e cittadini. La critica che viene mossa più frequentemente al nostro SSN è l’eccessivo impegno economico che occorre per mantenere in piedi tale sistema. Se si osserva la Tabella n. 1, in cui sono poste a confronto l’attesa di vita alla nascita (ovvero il numero di anni che mediamente un maschio o una femmina nati oggi si possono attendere di vivere) con la spesa sanitaria pro capite dei vari paesi europei, si possono fare già alcune interessanti considerazioni.

Salta all’occhio che il paese che ha un’attesa di vita maggiore (e nonostante le chiacchiere, questo numero indica che la società fornisce gli strumenti per campare di più), dicevo l’attesa di vita maggiore è per i nati in Italia, nonostante l’impegno economico profuso da ogni cittadino non sia quello più alto. Perciò: massima efficacia con costi contenuti. Vediamo in dettaglio. Nel nostro paese si spende circa il 25% in meno che in Germania per la sanità, ma la nostra attesa di vita è superiore. La Svezia, per ottenere un risultato analogo al nostro, spende circa il 23% in più. Una costante: laddove la spesa è inferiore, anche l’attesa di vita è inferiore. Se poi prendiamo in considerazione l’attesa di vita sana (n. medio di anni di vita senza grosse patologie che un individuo nato oggi può aspettarsi) e lo confrontiamo con la percentuale di investimento pubblico nella sanità, ancora una volta possiamo verificare che da noi non va poi così male come si vuol far credere (v. Tabella n. 2).

L’attesa di vita sana per gli italiani maschi è di circa 70.7 anni, mentre per le femmine arriva a 74.7. Solo la Svezia ottiene risultati migliori (71.9 e 74.8 rispettivamente) però con 10 punti percentuali in più di intervento statale sulla spesa sanitaria (85% Svezia e 75% Italia). Forse soldi se ne sprecano e su questo si dovrebbe discutere, ma il fatto che l’attesa di vita sana sia così alta potrebbe significare che, nonostante tutto, quei soldi il loro servizio lo rendono bene alla comunità. Il dato è ancor più veritiero se consideriamo la tabella successiva (v. Tabella n. 3) in cui sono posti a confronto l’attesa di vita sana con la percentuale del PIL impegnato nel SSN.

Esistono paesi come la Germania e la Francia che, pur impegnando risorse maggiori (in termini di percentuale del PIL) hanno un’attesa di vita sana inferiore alla nostra. Anche nel Regno Unito, dove si spende ai nostri livelli, gli anni liberi da malattia sono inferiori. Sempre per fare il punto sul problema della spesa eccessiva, vediamo quanto costano pro capite i ricoveri ospedalieri (v. Tabella n. 4).

Non ci sarebbe nemmeno da commentare: salta all’occhio che, tra i maggiori paesi europei, siamo quello in cui i ricoveri costano meno e l’aspettativa di vita è maggiore. Le note dolenti riguardano, invece, le liste di attesa (v. Tabella n. 5)

Siamo un paese con lunghe liste d’attesa per ricevere prestazioni sanitarie, ma in questo non siamo soli: la stessa cosa capita anche in altri paesi europei, dove, in taluni casi, assumono proporzioni notevoli (Irlanda e Regno Unito). Il confronto liste d’attesa in funzione della spesa sanitaria sembra indicare che quest’ultima non influenza direttamente i tempi per la fruizione delle prestazioni mediche. Paesi che spendono meno di noi (Portogallo, Lituania) hanno attese trascurabili, mentre paesi che spendono di più (Svezia, Danimarca) hanno i nostri stessi problemi. Ma a una lunga attesa non corrisponde una mortalità maggiore (v. tabella n. 6)

Francia e Germania, in cui non bisogna aspettare molto per usufruire di una prestazione medica, hanno una mortalità tra gli adulti di gran lunga superiore a quella nostra, della Svezia e dell’Olanda. Per di più, è di recente pubblicazione (ottobre 2007) la presentazione del rapporto del Ministero della Salute sul trentennale del SSN (anno di varo 1978), con cui si fa un quadro generale della situazione odierna. Discutibile il logo che lo introduce (vedi immagine) ma, in questo mondo mediatico e di apparenza, anche i ministeri (in quanto pure loro aziende) sfruttano la moderna pubblicità per non perdere di visibilità.

Per fortuna, nonostante le apparenze, troviamo un’importante sostanza: il rapporto è ricco di dati utili che aiutano a conoscere meglio quella “sanità malata” di cui parla Paolo Baroni e sgombera il campo dai facili qualunquismi, dannosi per il cittadino e utili per gli speculatori. Vediamone i punti salienti: • Tre principi guida del nostro SSN: universalità, equità e solidarietà. • Sempre meno gli Italiani che si recano all’estero per prestazioni sanitarie. • Italia leader in Europa per numero di farmaci gratuiti offerti ai cittadini. • Primo paese europeo a fornire gratis il vaccino contro il cancro dell’utero a tutte le bambine di 12 anni. • Eccellenza nei trapianti. • Assistenza pediatrica gratuita per tutti i bambini. • Siamo il paese con il più alto numero di TAC e RMN pubbliche pro capite. • Abbiamo in Europa il più basso tasso di infezioni ospedaliere. Si tratta di un lungo elenco di peculiarità che non stiamo a commentare per evitare di tediare chi legge. Ci soffermiamo, invece, su alcune tabelle, molto significative, che riteniamo utili alla comprensione del problema. Un dato che ci è parso interessante è la mortalità per cancro, sia per l’importanza come causa di morte in occidente, sia per il travaglio che comporta e sia per l’approccio psicologico alla malattia.

I numeri che la tabella esprime sono frutto di una serie di fattori convergenti che caratterizzano positivamente il nostro SSN. La minore mortalità per cancro in Italia è conseguenza della precocità di diagnosi, dell’adeguatezza delle cure, dell’affinamento delle terapie e del loro continuo aggiornamento, tutto quanto facilitato dalla fruibilità e gratuità delle prestazioni ospedaliere. A conferma del trend positivo, il rapporto del Ministero della Salute cita anche il dato della sopravvivenza a 5 anni per tumore. Nella donna è pari al 59% contro una media europea del 55%. Analoga situazione per gli uomini (Italia 47%, Europa 45%). Un altro aspetto, su cui focalizza l’attenzione il ministero, è la possibilità per un cittadino di raggiungere in tempi brevi le strutture ospedaliere. Uno dei vanti del nostro SSN è la capillarità è la diffusione di presidi per le prestazioni sanitarie.

È questo un dato estremamente importante, perché la vicinanza dei luoghi di cura consente un precoce inizio delle terapie per le malattie acute, cui consegue una prognosi più favorevole; prognosi che è favorevole pure per quelle croniche, in quanto il paziente è anche meglio disposto a seguire l’iter curativo proprio per la disponibilità di centri sanitari facilmente raggiungibili (criterio sanitario). Alla capillarità della disponibilità di ospedali si contrappongono, ciclicamente, programmi di chiusure, accorpamenti e ridimensionamenti degli stessi al fine di ottenere un risparmio sul bilancio della sanità (criterio economico). Come si vede i due criteri non si sposano mai tra loro. La soluzione del problema è esclusivamente di tipo politico; il fulcro è, da una parte, l’individuo e il rispetto che gli si deve, mentre dall’altra è il budget e la necessità di ridurlo ai minimi termini. Per terminare la trattazione sul dossier per il trentennale del SSN, ci sembra opportuno citare un concetto, espresso nella presentazione del rapporto, che ci impone una seria riflessione: per noi italiani forse è scontato che sia così, ma in realtà sono pochi i Paesi nel Mondo a garantire un’assistenza sanitaria di questo tipo per tutti i cittadini, senza alcuna discriminazione. È forse per questa condizione a cui siamo abituati (e anche per qualche disfunzione reale) che siamo sempre pronti alle critiche. Ma la critica ha un senso solo quando poggia sulla conoscenza piena dei fatti, sull’onestà intellettuale e sul principio della costruttività; il resto è speciosità e qualunquismo. Per concludere, che dire? È evidente che il cittadino ha la sensazione che le cose non funzionino anche perché dai media riceve solo un input al negativo: fanno notizia e si dà massimo risalto soprattutto alle storie di malasanità (che viene intesa solo come malasanità pubblica), mentre si evidenzia poco il molto di buono che caratterizza gran parte della medicina di stato. Negli ultimi anni, la cosiddetta aziendalizzazione dei servizi, con la sua impronta economica a scapito dell’offerta di prestazioni, non ha certamente favorito un buon rapporto tra cittadino e SSN: ne è prova il fatto che la stessa CEI ha compreso e si è fatta carico del disagio, denunciato nella Nota Pastorale di cui si parlava in precedenza. Non da ultimo va ricordato che negli ospedali italiani non si assume più quando qualcuno va in pensione, con il risultato di cronica mancanza di infermieri e personale di varie qualifiche. Come hanno risolto il problema le aziende ospedaliere? Con gli appalti alle agenzie interinali (soldi ai privati). Perciò per gli ospedali transitano persone pagate poco (dalle agenzie), ma che costano alle aziende più del personale di ruolo, perché le agenzie interinali si fanno pagare bene. E il danno non si esaurisce nella sola valenza economica. Questi lavoratori infatti, anche se professionalmente preparati e volenterosi, vagando da una struttura all’altra, difficilmente riescono ad integrarsi in un lavoro simbiotico di squadra con ricadute negative, non solo sul rendimento lavorativo, ma sulla stessa possibilità di lavorare in sicurezza. Le organizzazioni sindacali, da tempo denunciano che una delle cause di incidenti ed errori sul lavoro sia da attribuire proprio alla insufficiente conoscenza reciproca tra i lavoratori. Condizione questa indispensabile affinché, in una sorta di bilancio compensativo, l’uno possa sopperire alle manchevolezze dell’altro o più semplicemente essere in grado di interpretarne i comportamenti. In totale, le cose stanno meglio di quello che comunemente si pensa e che si vuole far pensare. Il nostro SSN, a prescindere da tutto, fornisce degli standard di prestazioni di ottimo livello e l’analisi dei dati precedenti lo conferma. In Italia esistono situazioni di eccellenza anche se, purtroppo, queste variano da zona a zona: un dato oggettivo che, come si diceva, è però comune a tutto il mondo . Le stesse eccellenze, peraltro, sono distribuite sul territorio nazionale a macchia di leopardo: non è vero che al sud tutto è negativo, come non è vero che il nord sia solo un’isola felice. I dati sull’aspettativa di vita sana sono degli indicatori di efficacia che poco si prestano a critiche e ci confortano nell’analisi svolta. Fra i punti d’ombra del nostro SSN c’è la carenza di Medicina Preventiva. Per questo, in effetti, si spende poco. Solo alcuni piani d’intervento stanno funzionando in materia. Esistono progetti di prevenzione per i tumori femminili nelle ultracinquantenni, attuati dalle ASL, che stanno dando i loro frutti, c’è da fare molto di più, non solo per i tumori, ma anche per altre patologie intendendo, ad esempio, le malattie cardiocircolatorie che sono la prima causa di morte nel mondo occidentale. Ben altro discorso va fatto sulle liste d’attesa. C’è qualcosa che non va ed è difficile non essere maliziosi: qualcuno vuole che il cittadino debba attendere e perché? Anche se non è corretto, si può rispondere con un’altra domanda: perché rivolgersi a strutture private in caso di necessità se il pubblico funzionasse? Probabilmente il nocciolo della questione sta proprio qui! Sono gli interessi privati e privatistici che da tempo creano movimenti di opinione per spingere verso una sanità il più possibile privata (a tale scopo è curativo andare a vedere Sicko, il film di cui si parlava). Di certo, non è tutto oro quello che luccica, ma il nostro SSN ha molte luci con qualche ombra. Teniamocelo stretto ed impegniamoci a migliorarlo, e non a distruggerlo: faremmo il gioco di chi vuole fare soldi sulla nostra salute. Non vorrei che un giorno dovessimo attendere il Michael Moore di turno che ci traghetti a Cuba se abbiamo bisogno di cure.

Dirigente 1° livello, Ospedale Regina Elena, Roma