La priorità salariale, una questione di classe

Pierpaolo Leonardi

L’emergenza salariale non nasce negli ultimi mesi, nel momento cioè in cui se ne accorgono cgil cisl e uil. È, purtroppo, una storia che dura da molti anni e che possiamo datare, nella sua versione più dura e devastante, dagli accordi di luglio del ’92 e del ’93 con cui si cancellò la scala mobile e si introdusse il riferimento all’inflazione programmata per la definizione dei CCNL. Da quelle scelte, chiamate di politica dei redditi, la tenuta dei salari e degli stipendi dei lavoratori e delle loro famiglie è iniziata a precipitare ed oggi tocca profondità abissali. Quando i ferrotranvieri, nel dicembre ’93 bloccarono tutto il Paese con i loro scioperi, la parola d’ordine, significativa e chiara, fu salario, diritti, dignità, cioè tre punti irrinunciabili per la vita di ogni lavoratore dipendente e che furono immediatamente fatti propri da milioni di lavoratori di altre categorie spesso meno forti contrattualmente ed economicamente degli autoferrotranvieri. Erano trascorsi dieci anni dall’avvio della politica dei redditi e la pressione dell’aumento dei prezzi e delle tariffe era divenuta insopportabile anche per chi aveva sempre avuto un salario dignitoso. Quasi contemporaneamente i precari, i disoccupati, i pensionati resero evidente la propria drammatica condizione di vita partecipando in massa alle iniziative dei comitati per la quarta settimana e alle mobilitazioni per il diritto al reddito. Oggi la sofferenza economica non riguarda più solo i ceti meno abbienti della società ma è divenuta davvero l’emergenza principale per la stragrande parte delle famiglie dei lavoratori dipendenti che non arrivano a fine mese, faticano a pagare il mutuo e sono piombati di nuovo nell’abisso del debito rateizzato che non finisce mai, per far fronte alle più normali esigenze di vita familiare. La risposta che sembra essere prediletta da tutte le forze politiche, nonché dalle tre centrali concertative, sembra essere quella della riduzione delle tasse sui salari, non tutti e non sempre, ovviamente. Si sostiene cioè che la contrattazione di secondo livello - quella per intendersi che tratta di premi di produttività, straordinari, indennità aziendali particolari ecc. - sia detassata e che tutto finisca direttamente in busta paga. Un’equità fiscale alla rovescia, si potrebbe dire, nel tentativo di avvicinare chi vive di stipendio fisso e paga tutte le tasse fino all’ultima lira, agli evasori grandi e piccoli che della sottrazione di denari al fisco hanno fatto da tempo il proprio sport nazionale. Ma uno Stato che rinunci ad una parte dei propri introiti fiscali, non avendo intrapreso alcuna modifica sostanziale del proprio modello di imposizione e soprattutto esazione fiscale, come potrà far fronte ai propri impegni di sostegno sociale nei confronti dei cittadini che costituzionalmente vengono onorati proprio grazie agli introiti del fisco? Quando a ridosso delle scorse elezioni Berlusconi lanciò la parola d’ordine dell’abolizione dell’Ici tutta la sinistra, sindacati compresi, levarono gli scudi accusando il leader del centro destra di voler ridurre lo stato sociale e mettere in grave difficoltà gli enti locali che, come tutti ricorderanno, all’epoca erano per la maggior parte in mano al centro sinistra. Seppure sia universalmente noto, tranne che al miliardario Padoa Schioppa, che le tasse non siano proprio benvolute dai cittadini e che quindi su questo punto delicato sia sempre piuttosto facile fare presa, soprattutto in fase elettorale - che da noi rischia di divenire perenne - dovremmo saper mantenere, sulla questione, una posizione di classe. La caduta della capacità di acquisto dei salari è dovuta principalmente alla scomparsa della scala mobile e alla modifica che ne è conseguita dell’apparato negoziale. La scala mobile, seppure parzialmente, copriva i salari dall’aumento dell’inflazione, i contratti spostavano ricchezza prodotta dal fattore impresa al fattore lavoro, così definendo un quadro sicuramente insufficiente ma che garantiva alle categorie forti la possibilità, attraverso le lotte contrattuali, di aumentare i propri salari e a quelle più deboli di garantirsi comunque la copertura dall’aumento del costo della vita e in più di usufruire dell’effetto trascinamento creato dalla conclusione delle tornate contrattuali dei più forti. Contemporaneamente era possibile, sotto la pressione popolare, imporre una pur parziale forma di controllo dei prezzi e delle tariffe in quanto all’epoca luce, gas telefono, case popolari erano ancora sotto il controllo pubblico e le Autonomie locali e/o lo Stato erano in grado, volendo, di intervenire per contenerne i costi almeno per le famiglie a basso reddito. La politica dei redditi si occupò anche di questo ma non tenne conto del fatto che contemporaneamente veniva lanciata con forza ossessiva la campagna per la privatizzazione di tutto il privatizzabile, con particolare attenzione a tutto ciò che produceva utili per lo Stato e gli enti locali, che vennero letteralmente regalati al dio mercato e ai propri sacerdoti che, ormai, non si annidavano più solo in Confindustria. Stato, Comuni, Regioni non erano più in grado di assicurare alcunché, i prezzi li decideva il libero mercato, non i consigli comunali proprietari, per conto dei propri cittadini amministrati, delle aziende erogatrici di energia, latte, gas, acqua ecc. ecc.. Per di più, a completare la beffa, nell’accordo di luglio ’93 c’è una clausola che dice che ove si sia registrato uno scostamento tra l’inflazione programmata e quella reale, nei successivi rinnovi biennali dei contratti si sarebbe colmato il divario, escludendo però dal computo l’inflazione “importata”, cioè esattamente quella che proveniva dal continuo aumento del prezzo del petrolio che incideva ed incide moltissimo proprio sulle bollette dell’energia, del gas, sul costo della benzina ecc.. Un accordo davvero da incorniciare! E qui si innesta la facile promessa della riduzione fiscale come grande, ulteriore, regalo ai padroni - che infatti l’hanno subito benedetta e fatta propria - i quali non dovranno più cedere pezzi di utili aziendali per far fronte alle richieste salariali ma potranno erogare buste paga più alte senza tirar fuori un centesimo di tasca propria.

Ora la questione salariale entra a pieno titolo non solo nella nuova agenda politica elettorale e post elettorale, ma è al centro anche della nuova tornata di incontri tra cgil cisl e uil e confindustria sulle modifiche da apportare al modello contrattuale. L’accordo raggiunto tra i tre segretari, e che i padroni ritengono interessante ma non sufficiente, e che sarà alla base del negoziato, prevede la scomparsa di fatto del contratto nazionale che rimarrà, al più, con la funzione di “centro regolatore” e di recupero dell’inflazione “realisticamente prevedibile” (sic!) mentre tutto si incentrerà sulla contrattazione di secondo livello che ovviamente legherà gli eventuali aumenti di salario alla produttività e all’andamento di impresa - notate la sottile ma forte continuità con il programma di Veltroni che parla di minimi contrattuali e di aumenti legati alla produttività - riesumando così quel cottimo mai completamente scomparso ma che aveva in qualche modo ceduto il passo. Così dopo l’accordo sul welfare che ha massacrato i precari lasciando intatta la Legge 30 e aumentato l’età pensionabile per tutti, ora con il nuovo accordo che si profila si attacca direttamente il contratto nazionale, e di conseguenza la funzione negoziale propria delle categorie, e il salario che diverrà variabile e sottomesso unicamente agli interessi di impresa.

Ripristinare immediatamente un sistema automatico di adeguamento di salari e pensioni al costo della vita, reinternalizzare e ripubblicizzare i servizi essenziali quali acqua, luce, gas ecc. e controllarne le dinamiche dei prezzi, costruire case popolari, ridistribuire la ricchezza prodotta, distribuire ai lavoratori dipendenti i proventi del recupero dell’evasione fiscale, ridurre la prima aliquota fiscale solo per i redditi da lavoro dipendente entro i 50.000 euro queste sono proposte praticabili immediatamente per consentire un recupero economico alle famiglie dei lavoratori dipendenti italiani - che si collocano ormai in Europa tra gli ultimissimi posti della graduatoria salariale, superati recentemente perfino dalla Grecia e dal Portogallo - che la CUB sosterrà nei prossimi mesi quale che sarà il governo prossimo venturo e per impedire che si concluda con un altro pesante attacco ai lavoratori il confronto in atto sul modello contrattuale tra padroni e sindacati concertativi.