Com’è che non riesci più a volare? La crisi di Alitalia e il capitalismo di piccolo cabotaggio

Paolo Graziano

Molte di queste tematiche e le tendenze ultime della “via italiana al capitalismo”, sono su “Storia di un capitalismo piccolo piccolo”, (di L. Vasapollo, Jaca Book, 2007)

1. Tra destro populismo e sinistra pavidità

Sofferenza della concorrenza, incapacità di ristrutturazione, crisi industriale; e poi una lunga, imbarazzante - e tutta italiana - sfilata di false soluzioni, che vanno dalla liquidazione dell’azienda alla presentazione di fantomatiche cordate di salvataggio. Il caso Alitalia, che ormai tiene banco sulle pagine di economia dei quotidiani da circa tre anni, è diventato anche per il pubblico profano l’emblema di quella che Gallino ha definito “la scomparsa dell’Italia industriale”1. Nelle cronache politiche di questi tempi, invece, salta agli occhi l’insipienza con cui il nuovo governo ha gestito - ma sarebbe più corretto dire: ha rinunciato a gestire - la crisi del vettore nazionale, dopo averne fatto materia di propaganda nel periodo pre-elettorale. Ecco i toni delle dichiarazioni del futuro premier a poche settimane dalla tornata elettorale:

ROMA - “Ormai sono impegnato io, quindi si fa”. Così Silvio Berlusconi, uscendo da Palazzo Grazioli, replica ai cronisti che gli chiedono quanto sia probabile una cordata italiana per Alitalia. La risposta è chiara: “Penso ci sia la possibilità di concretizzare una cordata italiana in pochi giorni: sono assolutamente fiducioso su questo e credo anche che si possa fare con il sostegno di importanti istituti di credito”. “Vista la posizione di Air France non ci resta che dare vita a un’altra offerta che sarà sicuramente presentata da imprenditori italiani insieme alle banche. Si deve dare ad altri la possibilità di conoscere la situazione” ha poi aggiunto Berlusconi.2

Come tutti sanno, della cordata d’imprenditori non s’è più saputo niente: d’altronde lo schieramento avrebbe dovuto essere molto nutrito per intervenire in un’azienda come Alitalia, visto il nanismo patologico di cui soffre il capitalismo italiano (ma ricordate quando economisti e politici si sprecavano nella retorica del “piccolo è bello?”). L’unica strada concreta che, a tutt’oggi, si è palesata per i destini della compagnia di bandiera è stata quella dell’acquisto da parte di Air France, uno dei colossi internazionali del trasporto aereo, in diretta concorrenza strategica con Alitalia. Ma la proposta del vettore francese, con cui intendeva rilevare il 49,9% del capitale in mano al governo, risultava gravemente penalizzante per l’azienda, destinata a perdere il controllo del management, a effettuare pesanti tagli di personale e a quotare le proprie azioni ad un valore effettivo compreso tra i 10 e i 20 centesimi nell’operazione d’acquisto3. La sinistra al governo, manco a dirlo, s’è buttata a pesce sulla proposta, ritenendola l’unica strada responsabilmente praticabile: d’altra parte, la cessione di un colosso in perdita dal 1986 era perfettamente compatibile e consequenziale con gli obiettivi di risanamento del bilancio dello Stato e di alleggerimento complessivo della sua struttura e apparati, soprattutto per la sinistra neo-democratica che, nella lunga ricerca di uno straccio di progetto politico, si presenta da tempo nel ruolo squisitamente tecnico del ragioniere incaricato di far quadrare i conti dell’azienda-Italia (sic!). Insomma, da qualunque prospettiva la si guardi, la piega assunta dalla vicenda Alitalia non fa altro che confermare la condizione di un Paese privo di una visione strategica dello sviluppo, che affida alle regole di un mercato pronto a farsi giustizia da sé. Il populismo superficiale delle destre, così come l’austera pavidità della sinistra nascondono, in fondo, la stessa incapacità di imprimere una direzione strategica ai comparti fondamentali dell’economia nazionale, come quello dei trasporti. Le ultime tergiversazioni in ordine di tempo, riguardo il destino dell’Alitalia, vedono spuntare di nuovo, come attori alternativi alle grandi compagnie estere, i gruppi bancari di rilievo sul mercato internazionale: nel piano di salvataggio della compagnia allo studio del gruppo Intesa-San Paolo, divulgato dal quotidiano “la Repubblica” a fine giugno, gli esuberi di personale previsti sarebbero circa 4.000, ovvero il doppio di quelli ipotizzati dal modello Air France, seccamente respinto dai sindacati. La strada della “cordata”, sostenuta dall’orgoglio nazionale, sembra dunque molto poco interessante, nonostante il gran parlare che ha preceduto ogni proposta in tal senso. Al quadro finanziario così compromesso, per la compagnia, si è aggiunto in questi mesi il peso di un caro-greggio senza precedenti.

2. Volava... eccome!

Ma, a ben vedere, la crisi esplosa in questi ultimi anni con tale virulenza nel settore degli aerotrasporti ha radici remote, solo parzialmente assimilabili a quelle che hanno sostenuto e nutrito altri gloriosi vettori internazionali, che hanno subito un destino parallelo: la gloriosa PanAm americana, la Swissair elvetica o la Twa. Quella di Alitalia, però, è una vicenda in buona parte differente, perché compromessa con quella ambigua formula del “capitalismo misto” che ha caratterizzato lo sviluppo del Bel Paese, seguendone tutte le evoluzioni economico-politiche: dal sostegno diretto statale alle politiche di alleggerimento e defiscalizzazione, fino alla strategia della liquidazione del patrimonio industriale, con l’epoca delle privatizzazioni4. Ripercorrendo nel dettaglio la storia del vettore, questo legame a doppio filo con la storia dello sviluppo dell’industria e delle infrastrutture in Italia si legge esplicitamente. Il primo volo di un aereo Alitalia avviene il 5 maggio 1947, quando dall’aeroporto dell’Urbe di Roma parte il primo aereo con destinazione Catania, un trimotore G12 Fiat. Il costo del biglietto ammonta a 7.000 lire. L’azienda di trasporti era nata ufficialmente qualche mese prima, il 16 settembre del ’46: la maggioranza azionaria appartiene all’industria di Stato, all’IRI, dove subentra dopo poco il conte Nicolò Carandini, figura chiave nella fase di “decollo” di Alitalia; a lui si affiancano altri due grandi nomi dell’aviazione: Bruno Velani, Amministratore Delegato, ingegnere aeronautico e pilota militare, e il direttore generale Donato Saracino. Nel primo decennio di attività, Alitalia cresce con continuità: si moltiplicano le rotte, si raggiungono i diversi punti d’interesse nazionale nel globo, come dovrebbe effettivamente fare una compagnia di bandiera. In particolare, il continente africano è coperto da una fitta rete di rotte Alitalia, tanto che un impiegato dell’azienda riferiva: “un rappresentante dell’Alitalia contava più dell’ambasciatore italiano!” . Progressivamente, il vettore aereo ingloba la Lati 1950) e si fonde con la LAI (1 settembre 1957), “altra azienda a maggioranza IRI che con Alitalia si divide di fatto il trasporto aereo in Italia: dalla LAI arrivano rete e passeggeri, e dalla fusione nasce una grande compagnia di bandiera che può finalmente competere con le più grandi compagnie del mondo. È il fiore all’occhiello della nazione”5. Insomma, dopo circa vent’anni di attività l’Alitalia ha un curriculum di tutto rispetto, che la porta al settimo posto tra i vettori internazionali nel mondo: in Europa si colloca dietro soltanto a alla British Airways e ad Air France, collega 70 nazioni, fattura 140 miliardi e conta diecimila dipendenti in tutto il mondo.

3. Privatizzazione progressiva dal basso

Qual è, dunque, la vicenda che segna il giro di boa e comincia a scavare le trincee della crisi attorno a un’azienda pubblica che conta tali numeri? Sicuramente ebbe un peso un evento di politica economica internazionale: la deregulation del comparto aereo decisa dal presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter nel 1978, una decisione che spezzava il regime di monopolio statale del settore inaugurato da Roosevelt quarant’anni prima, nel 1938. La decisione americana ha l’effetto di mettere in ginocchio, nell’arco di alcuni anni, il colosso PanAm (Pan American World Airways), che verrà divisa tra la United Airlines, possessore della maggior parte delle rotte, e American Airlines, che ha fornito rotte nazionali ex Pan Am. Intanto, la filosofia della deregulation e della libera concorrenza, anche in settori strategici per l’interesse nazionale, si fa strada in Europa, dove fioriscono le prime compagnie alternative: nasce il low cost del trasporto aereo, sdoganato da 15 anni di trattative e ben tre direttive comunitarie. E in Italia? Si resta indietro, non perché qualcuno stia elaborando una filosofia di sviluppo alternativa quanto, piuttosto, perché Alitalia è ancora una mucca da mungere, come tutto ciò che resta delle grandi aziende pubbliche. Come riferisce uno dei vertici dell’epoca, deregulation voleva dire soltanto ““rinunciare ai soldi pubblici”, cioè agli aiuti economici per coprire debiti spesso causati dallo Stato stesso attraverso un uso politico ed elettorale, anziché imprenditoriale, delle compagnie nazionali. Come i voli creati ad hoc perché servivano al politico che doveva venire dalla Sicilia a Roma la mattina presto che portavano solo 4 passeggeri!”6. Ma l’onda lunga della crisi petrolifera e la definizione di un mercato alternativo privato del trasporto aero costringono anche la politica italiana, alla lunga, a fare i conti con l’insostenibilità di Alitalia. All’inizio degli anni ’90, in particolare, il malessere dei lavoratori è tangibile e il piano d’investimenti non produce nulla di buono. È alla metà del decennio che si può collocare l’ultima seria azione di rilancio della compagnia, con un piano industriale di prospettiva (per quanto discutibile nelle strategie e negli esiti), prima dell’avvento dei “liquidatori”, posti a capo dell’Alitalia con il compito di studiare soltanto le migliori strategie di cessione. Parliamo della gestione Cempella, avviata nel ’96 con la nomina del nuovo amministratore delegato, prelevato direttamente dai ranghi dell’azienda e dunque legato alla storia del vettore pubblico italiano. Domenico Cempella trovò, al suo arrivo ai vertici della compagnia, debiti per circa3.000 miliardi, un patrimonio netto 150 miliardi, 10 anni di perdite e una situazione interna difficoltosa, a causa delle tensioni derivanti dallo spettro di una pesante contrazione: a questa condizione di fatto, la nuova direzione rispose con un provvedimento destinato innanzitutto a recuperare la “pace sociale”, procedendo nel contempo a tagli significativi del costo del lavoro (dal 27% al 20% d’incidenza). La prima proposta di Cempella è quella di procedere a una “privatizzazione progressiva dal basso” della compagnia, promuovendo una sorta di azionariato popolare basato sui lavoratori Alitalia: così, per la prima volta dalla fondazione, il governo Prodi cede una parte delle azioni statali del vettore, liquidandone il 37% (21% va ai dipendenti, mentre un altro 15% viene messo sul mercato con un buon risultato di borsa, data la fiducia ispirata negli investitori dalla strategia Cempella). Il piano del nuovo management, inoltre, passa attraverso una nuova capitalizzazione (da 600 a 6.000 miliardi), il saldo dei debiti per 3.000 miliardi e gli investimenti nell’ammodernamento della flotta, che toccano i 2.500 miliardi. Risultato, nel triennio successivo gli utili della compagnia toccano i mille miliardi e l’azienda appare sostanzialmente risanata, anche se comunque immersa in una difficoltà di prospettiva difficilmente elminabile. Il problema - come riconosce lo stesso Cempella - sta nel fatto che Alitalia è un vettore “difficile”: troppo grande, complesso e strutturato per competere nel mercato low cost, ma allo stesso tempo troppo piccolo per proiettarsi nello spazio concorrenziale delle grandi compagnie internazionali.

4. Ali...taglia

Sta tutta in questa indecidibile dimensione il dramma recente della compagnia di bandiera attuale, che viene diversamente collocata, di volta in volta, dalle strategie di risanamento aziendale. La gestione Svisano,nel biennio ’94-95, aveva privilegiato una strategia di collocazione nel mercato del low cost e delle rotte di medio raggio, in accordo con il Ministero del Tesoro. Il tandem Riverso-Cempella ha percorso la strada della ricapitalizzazione e delle grandi alleanze, tessendo la trattativa con British Airways, poi naufragata; nonostante la compatibilità del piano, attestata e riconosciuta da più parti, il piano di capitalizzazione fu poi bocciato di fatto dalla Commissione Europea, che non lo giudicò comparabile a quello di un investitore privato, congelando gli investimenti Alitalia e mettendo la compagnia sotto osservazione. Ma quest’episodio rivela, una volta di più, l’inconsistenza della volontà politica (o del peso politico) necessario a rilanciare l’iniziativa pubblica: alle proteste dei vertici Alitalia per la mancata approvazione fa seguito l’immobilismo del governo, anche quando Iberia e Air France ottengono la ricapitalizzazione come finanziamento di mercato, con margini di ricavo inferiori a quelli messi nero su bianco da Cempella. Il destino di Alitalia, dunque, non appare legato soltanto alle compatibilità di mercato, ma deciso al tavolo degli equilibri politici ed economici internazionali del settore dell’aerotrasporto, che relegano l’Italia al ruolo di una provincia del blocco europeo. E così, mentre Air France decolla alleggerita dal peso dei debiti, Alitalia resta inchiodata alla pista. In attesa che qualcuno, d’oltralpe, si sieda nella sua cabina di pilotaggio, al prezzo più basso possibile. Ma è incredibile che il cosiddetto “piano di risanamento” di fine agosto 2008 trova soluzioni solo per procurare utili facili al gruppo di imprenditori italiani (Colaninno, Ligresti, Toto), presentati come il “fatebenefratelli”, che cederanno le loro quote alle compagnie aeree europee prescelte e socializzeranno con i cittadini italiani le grandi perdite di Alitalia, oltre alle pesantissime conseguenze per i lavoratori con oltre 7000 cosiddetti “esuberi”. Continua la storia di un capitalismo piccolo piccolo di palazzinari e finanzieri, ma non uomini d’industria, che privatizza gli utili e socializza le perdite!!

Insegnante, giornalista, Ricercatore dell’Osservatorio Meridionale di CESTES-Proteo

È il titolo di un suo acuto volumetto, che sviluppa diversi casi di gestione fallimentare del patrimonio industriale italiano, fino a mettere in ginocchio la grande industria di Stato (cfr. L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003).

Alitalia, Berlusconi: “Mi impegno io. Nuova cordata in pochi giorni”, in “Corriere della Sera.it”, 21 marzo 2008.

“Lievi i ritocchi agli esuberi previsti nella precedente versione, con la cifra complessiva che resta di 2.120. I piloti in esubero operativo (un dato che comprende anche gli stagionali) passano a 420 dai 514 precedentemente previsti. È stato limato a 594 anche il numero degli assistenti di volo in esubero, dai 600 precedenti. Inoltre 4.191 lavoratori dell’handling e della manutenzione di Fiumicino sarebbero ricollocati in due “newco”, per poi essere reinternalizzati in AzFly. Le due newco sarebbero destinate una all’handling, cui farebbero capo 1.881 dipendenti, e una seconda alla manutenzione, dove confluirebbero 2.310 addetti. Nei 4.191 dipendenti di Alitalia Servizi che verrebbero “reinternalizzati” ci sarebbero anche i 500 dipendenti considerati in esubero. Il piano contempla un deciso ricambio generazionale all’interno dell’azienda: è previsto ad esempio che nel 2011 tutto il personale che avrà maturato i requisiti per potere essere avviato al pensionamento sia messo in mobilità, mentre al 2014 il personale che avrà maturato questi stessi requisiti sarà prima messo in cassa integrazione e quindi in mobilità. La nuova proposta di AirFrance prevede poi la riduzione della flotta Alitalia con il taglio di 37 aerei passeggeri e 3 full cargo, settore che proseguirà l’attività fino al 2010 quando il servizio terminerà con il fermo degli altri due aeromobili. Nel trasporto passeggeri saranno subito tagliati 16 MD 80-82; 18 aeromobili regionali per il corto-medio raggio e 3 B767 per il lungo raggio” (A. Annicchiarico, Alitalia, i sindacati: “Piano insufficiente, ma pronti a trattare”, in “Il Sole 24 ore”, 28 marzo 2008).

Cfr. G. Pennisi, Il caso “Alitalia” e la politica industriale (che non c’è), http://www.societa-aperta.org/sito_templare/politica_eco/archivio/politica_eco3/caso_alitalia.htm. Per approfondimenti su questi temi e in genere sulla storia del modello di sviluppo italiano, si veda L. Vasapollo, “Storia di un capitalismo piccolo piccolo”, Jaca Book, 2007.

Alitalia come Italia. Una crisi ultimo atto?, http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=463

Ibidem.

Ibidem.