Una inquietante riforma ormai alle porte. Le trappole del federalismo

Sergio Cararo

Quale sarà il volto delle istituzioni locali e nazionali nei prossimi mesi? Il “federalismo dall’alto” sta disegnando la nuova mappa dei poteri. Le conseguenze già oggi visibili sono la nascita di un blocco di potere fondato su amministratori, managers del terzo settore e tecnocrati, l’aumento della divaricazione tra Nord e Sud, lo smantellamento dei servizi sociali locali ed un vertiginoso aumento della tassazione. Altro che sussidiarietà e partecipazione dei cittadini alle scelte di governo!! Dietro il “mito delle Regioni e delle municipalità” incombono gli “spiriti” di Maastricht, del mercato... del Profit State.

1. Premessa

 

In Parlamento, a novembre, maggioranza ed opposizione hanno dato dimostrazione di quel consociativismo neoliberista che andiamo denunciando da tempo.

Sull’elezione diretta dei presidenti delle Regioni, centro-destra e centro-sinistra hanno trovato l’accordo (modificando la Costituzione) condizionando ulteriormente il contesto in cui si svolgeranno a primavera del Duemila le elezioni regionali.

Ma condizionamenti ancora più strutturali sono quelli messi in moto dal processo di riforma istituzionale che possiamo ben definire “federalismo dall’alto”. Da gennaio del Duemila questo processo entrerà nel vivo imprimendo una nuova accellerazione alle riforme istituzionali e costituzionali e un’ulteriore “spallata” neoliberista all’economia.

Non si sfugge all’impressione che dietro la spinta per una maggiore autonomia delle Regioni, si connettano in realtà le ambizioni ad un dualismo di potere “alla tedesca” - tra governi locali e governo centrale- ed una sorta di interlocuzione diretta tra i primi e la Commissione Europea che aggiri il limite di un governo nazionale passibile di finire in mano al Polo di centro-destra ma con “le mani legate” in alto (Bruxelles) e in basso (le nuove regioni di cui il centro-sinistra si sente più sicuro di saper amministrare i governi) [1].

A novembre gli amministratori locali del cetro-sinistra si sono riuniti a Genova proprio per definire il progetto di quello che hanno chiamato emblematicamente “l’Ulivo dal basso”.”Regioni ed Enti Locali governati dal centro-sinistra sono pronti ad una svolta nella loro azione di governo ma anche a fare la loro parte all’interno di un rilancio della coalizione nazionale” ha dichiarato Vannino Chiti, DS, presidente della Regione Toscana e della Coferenza Stato-Regioni precisando che“La scelta prioritaria è quella del federalismo e dell’attuazione completa della Bassanini”. Sulle ambizioni di questo “Ulivo degli amminstratori”, gli fa eco Walter Vidali, respondabile DS per gli Enti Locali ed ex sindaco di Bologna:”Le radici più profonde e autentiche della coalizione sono nelle città, nelle Province e nelle Regioni. E’ lì che si è costruita tra il ‘93 e il ‘95 l’unità tra la sinistra, l’ambientalismo, il cattolicesimo democratico, la cultura laica che ha poi dato vita all’Ulivo”.

Gli “Stati Generali” degli amministratori del centro-sinistra tenutosi a Genova ha prodotto un documento in dieci punti ed un manifesto che ripropongono sostanzialmente il modello aziedalista che le giunte locali del centro-sinistra ci hanno presentato finora (e che non è certo appassionante) accentuato dalle ambizioni federaliste e da luoghi comuni assai simili a quella “celebrazione del nulla” rappresentata dalla “terza via” di Blair, Clinton etc.  [2].

Abbiamo la netta percezione che molti - anche a sinistra e nel sindacato - sottovalutino le conseguenze del nuovo assetto dei poteri e il contesto delle prossime elezioni regionali riducendo la questione ad una sommatoria di accordi elettorali “locali”.

La riforma federalista ormai in fase di attuazione può infatti rivelarsi una trappola per le esigenze popolari e le ambizioni alla trasformazione sociale del nostro paese. Ma non siamo solo noi a suonare l’allarme.

Da un versante piuttosto diverso dal nostro, il CNEL ha messo nero su bianco la sua preoccupazione ed ha chiesto di presentare una relazione in Parlamento per permettere una discussione nel merito [3].

Secondo il CNEL, l’art.10 della Legge 133/99 rappresenta “un passo importante, forse conclusivo del faticoso processo di devoluzione di competenze e risorse alle regioni a statuto ordinario” .. Ma lo stesso organismo sottolinea che occorre “valutare come le regioni potranno coniugare l’interesse nazionale nel delicato campo della sanità con le esigenze di autonomia ed inoltre - date le enormi differenze esistenti tra Nord e Sud, come sarà possibile garantire che le regioni più povere abbiano comunque risorse sufficienti per svolgere le proprie funzioni soprattutto nel campo sanitario”

Ma preoccupazioni sul “federalismo dall’alto” e sul suo pesante fardello di vincoli e responsabilità finanziarie per regioni,comuni e province, sono state espresse soprattutto sul famigerato “Patto di Stabilità Interno” che impone a livello locale gli stessi vincoli di quello europeo verso gli stati aderenti. In sostanza le amministrazioni locali che si discosteranno dallo “spirito di Maastricht” verranno punite con un taglio dei finanziamenti statali l’anno successivo e quelle risorse verranno ripartite tra le amministrazioni “virtuose”.

L’ANCI (l’associazione dei comuni) ha prima respinto il Patto di Stabilità, dando mandato al comitato operativo di comunicare al governo che in assenza di modifiche “i comuni non potranno accettare il patto di stabilità interno”. A seguito di questa posizione dell’organizzazione dei sindaci il governo è intervenuto esclusivamente abbassando i tassi sui mutui agli Enti Locali concessi dalla Cassa Depositi e Prestiti [4].


Analoga preoccupazione è stata manifestata anche dall’UPI (Unione delle Province d’Italia) in un recente documento presentato a Roma .

Qualcuno potrebbe liquidare queste posizioni come “preoccupazioni corporative e localistiche” degli amministratori alle prese con le nuove regole del gioco federalista ed europeo, ma la realtà ci dice che occorre preoccuparsi assai di più di quanto facciano i documenti delle associazioni degli amministratori locali.

 

 

2. Si accresce il divario tra Nord e Meridione

 

In molti documenti, interviste e interventi sindaci, assessori etc. non nascondono la loro inquietudine (soprattutto per motivi di consensi elettorali) per il ruolo di “gabellieri” che lo Stato centrale vorrebbe sempre più assegnargli. Gran parte delle imposte diventerebbero “locali” vedendo così via via sistematicamente ridotti i finanziamenti dal “centro” verso le amministrazioni locali e la stessa immagine “vorace” dello Stato come fabbrica di tasse verrebbe a diminuire.

Ma questa partita tra nuove imposte locali e minori imposte centrali - come più avanti vedremo nel concreto - non è affatto a somma zero per i redditi dei “cittadini” nè per il salario sociale costituito anche dai servizi che lo Stato centrale o le amministrazioni locali dovrebbero restituire ai lavoratori, ai pensionati e alle famiglie in cambio del pagamento delle imposte.

Il dato più evidente e più preoccupante di questa “trappola federalista” è anche quello più facilmente prevedibile: l’acutizzazione del divario tra il Nord e il Sud del paese.

In questi anni di Leggi Finanziarie d’urto - utilizzando a man bassa il pretesto dell’entrata nell’Europa di Maastricht- i finanziamenti statali agli Enti Locali sono costantemente diminuiti senza che l’autonomia impositiva (es: sul versante della sanità) riuscisse a determinare un equilibrio di spesa.

Da un lato i “governi di Maastricht” (Dini, Prodi, D’Alema) hanno spinto affinchè gli enti locali si autofinanziassero le spese con imposte proprie (es: l’ICI, Tarsu etc.) o con compartecipazioni locali alle tasse centrali (RCA, elettricità, Irpef, Irap etc.), dall’altro hanno tagliato drasticamente i finanziamenti imponendo tagli ai servizi sociali (sanità e trasporti soprattutto) e al personale e spingendo per la privatizzazione rapida delle aziende locali e dei servizi.

Questa politica di tagli ai finanziamenti e ai servizi sociali, di nuove tasse, di privatizzazioni e riduzione dell’occupazione, ha precipitato verso il basso gli standard di vita nelle grandi aree metropolitane ma soprattutto nei centri urbani del Meridione.

Una elaborazione dati fatta dall’Ancitel, ci conferma che su queste basi, la divaricazione tra Nord e Sud non potrà che aumentare. E’ stato infatti calcolato il grado di autonomia finanziaria delle varie città cioè la capacità di reperire risorse per coprire le spese ed osservando le prime dieci e le ultime dieci, possiamo verificare come le “aree a maggiore disagio” siano proprie le grandi aree metropolitane (nessuna compare infatti nelle prime dieci) e le città meridionali (tutte presenti infatti nelle ultime dieci.

Questa divaricazione tra Nord e Sud trova conferma anche in un documento della Corte dei Conti relativo alla pressione dei tributi locali nelle principali aree metropolitane. Può apparire emblematico che le grandi città dove il prelievo tributario è più forte siano quelle amministrate dai sindaci del centro-sinistra.

Infine un recentissimo studio dell’Università Bocconi curato da Giampaolo Arachi e Alberto Zanardi, conferma tutti i guasti che deriverebbero sia nei rapporti tra Nord e Meridione sia dal nuovo livello di imposizione fiscale “locale”.

Secondo i due autori, per garantire alle 15 Regioni a statuto ordinario lo stesso complesso di risorse (143mila miliardi)e per sostituire con le nuove compartecipazioni (le imposte locali) i 79mila miliardi di trasferimenti statali, occorrerebbero 21mila miliardi di IVA e ben 58mila miliardi di IRPEF il che porterebbe l’addizionale regionale IRPEF al 6,61% (oggi è lo 0,5%).

Il guaio è che se i totali generali quadrano, i risultati disaggregati appaiono assai preoccupanti. Con la riforma infatti la Lombardia incasserebbe il 35% in più rispetto ad oggi; l’Emilia Romagna il 19% in più; il Piemonte e il Veneto il 17%in più ma la Campania perderebbe il 40% delle risorse, la Calabria il46%, Puglia e Molise il 36%, la Lucania il 42%.

Tradotte queste percentuali in numeri il quadro sarebbe il seguente : la Lombardia vedrebbe salire le proprie risorse da 24mila a 33mila miliardi ma la Calabria perderebbe da 6mila a 3.300miliardi e la Campania da 17mila a 10mila miliardi [5].

Dunque il federalismo fiscale viene non solo ad intervenire in un quadro segnato da profonde disuguaglianze economiche, di risorse e territoriali ma rischia di acutizzarle ancora di più con pesanti e prevedibili conseguenze sulle condizioni di vita dei settori popolari e sulla qualità della vita più in generale.

Anche in questo caso abbiamo l’impressione che larga parte della sinistra e del sindacato siano cadute vittime di un tragico abbaglio. Per almeno un paio d’anni la “sindrome secessionista” ha fatto puntare l’attenzione contro la Lega, la Padania etc. (con destra e sinistra entrambe in piazza a difesa dell’unità nazionale cioè contro la “secessione virtuale”) mentre in concreto andava avanti un processo di “secessione reale” tra il Meridione e il resto del paese, legalizzato dalle nuove gabbie salariali, dai contratti d’area, dai salari e dalle norme contrattuali differenziati tra Nord e Sud. Una organizzazione federalista dello Stato - stanti gli attuali rapporti di forza e l’attuale egemonia liberista - non farebbe altro che accentuare tale secessione .

 

 

3. Federalismo o “germanizzazione”?

 

Un recentissimo libro di Bruno Luverà (“I confini dell’odio”) sottolinea in più pagine quanto sia forte ed inquietante il peso della Germania nel dibattito sul federalismo e dell’Euroregionalismo. L’autore mette in evidenza come le ambizioni per una Europa delle Regioni veda accentuato il suo “carattere ambivalente che va ad assumere significati tra loro diametralmente opposti”: da una parte un modello di un’Europa fondata sul principio di sussidiarietà e basato sull’inclusione; dall’altro l’Europa delle Regioni come federazione di Stati regionali con una funzione di disintegrazione con la Regione che diventa strumento di esclusione [6].

Il federalismo e il regionalismo contengono dunque in sè una ambiguità affatto tranquillizzante nel senso che l’egemonia su questa nuova strutturazione dello Stato, dei poteri e dello stato sovranazionale europeo può avere il carattere aziendal-tecnocratico dei seguaci della “terza via” (da Blair a Schroeder a Veltroni) o il carattere liberal-reazionario della nuova destra di Haider, Stoiber, del Vlaams Blook fiammingo etc.

Una volta messo in moto tale processo, il suo esito “democratizzante” non appare affatto scontato ma anzi compromesso per l’avventurismo dei suoi proponenti di destra e di “sinistra”.

In Italia, la bibbia del federalismo liberal-democratico può essere identificata con un libro scritto a più mani ma coordinato da Luigi Mariucci (assessore della Regione Emilia-Romagna) e con la prefazione di Pier Luigi Bersani (attuale ministro dell’industria assai benvoluto tra gli imprenditori ed ex presidente della Regione). Questo libro -”Il federalismo preso sul serio : una proposta di riforma per l’Italia” - è il frutto di una commissione di consulenza legislativa voluta da Bersani nel 1995. e, nelle parole del ministro, è “l’approdo dell’esperienza emiliano-romagnola in tema di riforma federalista dello Stato” [7].

L’ intento degli autori è la definizione di una linea programmatica, di natura costituzionale, che faccia da sfondo ad una riforma strutturale dello Stato italiano in chiave federalista, avente come cardine tre strutture portanti:

- il principio di sussidarietà;

- il principio di responsabilità;

- Il perseguimento di politiche di bilancio, a livello federale e locale, volte alla razionalizzazione delle entrate e delle uscite erariali e alla ristrutturazione dell’organizzazione e del personale, sia a livello centrale sia a livello locale.

Il fine, come esplicitamente dichiarato nel saggio, è “la riforma fiscale in chiave federalista, come strumento di contenimento della spesa pubblica e, in ultima istanza, come via maestra per far fronte al problema della gestione del debito pubblico”.

Il modello a cui fanno riferimento, sia nei principi sia nella sostanza, è la Grundgesetz tedesca del 1949, meglio nota in Italia come Legge Fondamentale, e sue successive modificazioni (ben 39 dalla costituzione della Repubblica federale tedesca ad oggi, le più note delle quali sono il Trattato di Unificazione del 1990 e la possibilità di azioni militari al di fuori dello spazio Nato del 1991, che modificano, rispettivamente, l’art. 146 e l’art. 24 della Legge Fondamentale).

Alla teutonica Grundgesetz fanno riferimento due altri importantissimi studi sulla riforma dello stato italiano: il primo è il saggio curato da M. Degni e G. Iovinella che porta il significativo titolo Federalismo modello Germania, il secondo è il lavoro curato da M. Pacini Scelta federale e unità nazionale per conto della Fondazione Agnelli.


Il saggio curato dall’assessore Mariucci ha però, rispetto ai due succitati lavori, un quid che lo differenzia notevolmente perchè ha più possibilità di essere portato avanti in quanto contiene un humus culturale e politico comune con quello di eminenti personalità politiche che dirigono l’attuale governo. Inoltre, segue per filo e per segno, partendo dalla Grundgesetz, alcuni tratti distintivi di straordinaria importanza ai fini di una comprensione critica del Trattato di Maastricht.

 

La proposta di riforma istituzionale federalista secondo le “teste d’uovo” del laboratorio emiliano dovrebbe articolarsi sui seguenti fattori :

a) Parlamento: istituzione di un Senato federale. I membri sono nominati dagli esecutivi regionali, sul modello della Bundesrat, che li nominano o li revocano

b) Governo: alle entità regionali spetta l’esecuzione amministrativa non solo delle proprie leggi, ma anche di quelle federali.

c) Potere giudiziario: tre ordini di giudici, i due primi radicati nelle regioni, quello superiore, giudice di revisione di diritto, radicato nella Federazione. Alle regioni spetta l’organizzazione e la gestione dei Tar di primo e secondo grado.

d) Corte dei Conti: indipendente dal governo federale e dalle regioni. L’esempio da imitare è la Corte finanziaria federale, Bundesfinanzhof, i cui membri sono designati da un organo misto composto dai ministri competenti dei Länder e da un eguale numero di membri eletti dalla Camera elettiva.

e) Amministrazione: esternalizzazione a terzi o, in alternativa, messa in comune (a fini di economia di scala) con altre pubbliche amministrazioni, di tutti i servizi o attività di supporto non necessariamente connessi all’esercizio di funzioni pubbliche (sistemi informativi, apparati tecnici) :

- utilizzazioni di reti telematiche e conseguente ridefinizione degli organici;

- riserva di amministrazione, vale a dire attribuzione esclusiva agli esecutivi della funzione organizzativa e delle norme riguardanti l’organizzazione degli apparati.

f) Parastato: le vie possibili sono o la trasformazione nelle amministrazioni, ossia Agenzie con clausole di automatico dissolvimento trascorso un periodo determinato di tempo, oppure la loro drastica riduzione mediante fusioni, incorporazioni e soppressioni secondo i criteri della legge 537/1993.

- Superamento degli uffici periferici del governo centrale e del prefetto: resta, e va valorizzata, con funzioni di cerniera tra sistema regionale e residua amministrazione ministeriale, la figura del commissario federale.

- Opportunità di rivedere i confini regionali.

 

Sempre secondo il laboratorio emiliano, la riforma fiscale in senso federalista dovrebbe ruotare intorno ai seguenti tributi:

a) Iva: come proposto dalla Fondazione Agnelli, si prevede una regionalizzazione dell’Iva, con una quota parte del gettito attribuito alla regioni, invece di essere destinato alla stato e successivamente alla Unione Europea. La quota parte andrà in un fondo di perequazione finanziaria tra le regioni. Inoltre, “l’imposta sul valore aggiunto, con introiti calcolabili intorno a 100 mila miliardi, servirà ad attuare quella solidarietà finanziaria che potrà essere efficacemente attuata solo se tutte le regioni si assumeranno la responsabilità dei sacrifici fiscali richiesti ai contribuenti locali ed attuati con l’ampia autonomia che viene loro attribuita”

b) Irpef: verrebbe attribuito completamente alle regioni il gettito dell’imposizione sostituitiva, la quale opera nei settori dei redditi da capitale e dei redditi d’impresa.

c) Imposta sul reddito delle società: assegnazione di un maggior reddito “alle regioni nelle quali è più intensa la concentrazione delle sedi societarie”.

d) Tributi alle regioni: autonomia normativa che va loro assicurata nel regolare i tributi. Nell’ambito territoriale le regioni possono regolare con grande autonomia gli elementi costituitivi, superando i limiti che attualmente vengono posti dalla riserva di legge nazionale.

Il principio di beneficio è alla base del sistema impositivo regionale e si basa sullo “stabilire un diretto collegamento tra i servizi locali erogati e il loro costo per la collettività

e) Bilancio: a garanzia di una gestione rigorosa la legge finanziaria dovrà prevedere l’entità del disavanzo delle Regioni, precostituendo un vincolo inderogabile rispetto alla successiva redazione di bilancio. La responsabilità regionale in materia finanziaria viene poi completata da un vigoroso vincolo per la copertura delle leggi di spesa.

Se l’autonomia richiede una piena responsabilità finanziaria, questa può essere assunta solo con l’autonomia normativa, amministrativa e tributaria. Le scelte per rispettare l’equilibrio di bilancio ( al livello tanto della Federazione che delle regioni) vengono assunte dal legislativo nella fase di previsione e dall’esecutivo nella fase di gestione.

 

Queste, a grandi linee, le proposte diessine della riforma dello stato e del governo italiano. Si è così potuto constatare il vero significato che viene dato alla centralità di tre concetti: l’autonomia impositiva; la razionalizzazione degli apparati pubblici attraverso privatizzazioni ed economie di scala; la trasformazione degli organi pubblici in enti di regolazione economica a livello settoriale.

 

 

4. Il “mito delle Regioni” e lo “spirito di Maastricht”

 

Sono passati pochi anni e le elaborazioni di Mariucci e Bersani sono diventate leggi dello Stato e realtà incombente sulle prospettive di noi tutti. Dopo i primi tentativi nel 1990, dal 1996 (quando l’Italia è entrata nell’epoca dell’Ulivo), l’accelerazione - come registrano molti - è stata impressionante  [8].

Questo “mito” delle Regioni - anche alla luce delle considerazioni tutte politiche che avanzavamo all’inizio di questo lavoro - si interseca profondamente con l’altro “mito” con cui ci hanno “rimbambito” in questi anni : l’Europa di Maastricht.

Nella prefazione al libro di Luverà, Lucio Caracciolo (direttore di Limes)non solo sostiene che questa Europa economicista e monetarista potrebbe essere la tomba degli Stati nazionali senza far scaturire uno Stato europeo ma segnala un rischio ulteriore : quello di trovarsi tra due sedie “avremo eroso la sovranità e la legittimazione dei nostri Stati nazionali senza avere costruito una democrazia europea”. Caracciolo dice ancora di più: a suo avviso i fautori del regionalismo ragionano in modo molto vago “L’Euroregionalismo è infatti una ideologia molto flessibile, ha bisogno di indeterminatezza geopolitica - in ciò è molto simile all’europeismo ortodosso che immagina la costruzione europea come un eterno progresso, senza limiti nè confini, soprattutto senza progetto”.

Esistedunque un ulteriore rischio: l’avventurismo federalista acutizzerebbe i fattori di indeterminatezza insiti e tuttora non definiti dell’avventurismo europeista (e liberista) che ha portato al Trattato di Maastricht e alla supremazia dei dogmi della competitività, della stabilità e della globalizzazione. Le responsabilità della sinistra e del sindacato nella subordinazione al processo di unificazione europea (e al suo impiato teorico dominante) restano dunque enormi.

L’assessore della Regione Emilia-Romagna Mariucci, anche recentemente ha avuto occasione di ribadire questo nesso tra nuovo ruolo delle Regioni e governo europeo. Secondo Mariucci infatti “Le Regioni sono istituzioni essenziali nell’era del prevalere del binomio globalizzazione-localizzazione e costituiscono strumenti necessari della rete di governo che va dai Comuni allo Stato nazionale fino all’Unione Europea”  [9].

Ma questa connessione tra l’organizzazione federalista e le ambizioni dell’Europa di Maastricht non è una passione particolare dell’assessore Mariucci. Essa è una precisa strategia con forti caratteri anti-popolari che - ad esempio - il governo nazionale sta realizzando cooptando (per scelta o obtorto collo) soprattutto i governi regionali.

Ad esempio la riforma della contabilità regionale approvata il 22 ottobre dal Consiglio dei Ministri, rientra perfettamente in questo spirito. Secondo il ministro per gli Affari regionali Katia Bellillo (del PdCI di Cossutta), il provvedimento “permetterà di perseguire gli obiettivi comuni di convergenza e stabilità che derivano dalle disposizioni del Trattato di Maastricht”.  [10] ... Dobbiamo gioirne ?

Sarà casuale che della Riforma Bassanini le prime direttive ad essere state recepite dalle Regioni siano soprattutto quelle sul mercato del lavoro, sul trasporto locale e la riforma del commercio (anche se in dieci regioni per l’applicazione in questo settore c’è il rischio di un intervento del governo tramite commissari)? In un quadro di tagli e vincoli finanziari determinato dalle Leggi Finanziarie di Maastricht, i primi interventi federalisti sono stati proprio quelli sulle privatizzazioni, lo smantellamento dei servizi sociali, i tagli occupazionali.

 

 

5. Vincoli finanziari e conseguenze sociali del “federalismo dall’alto”

 

Le Leggi Finanziarie degli ultimi quattro anni, hanno “scaricato” sulle amministrazioni locali fardelli costosi e tagli pesanti. E’ opinione diffusa che la Finanziaria 2000 sia meno pesante di quelle precedenti ma ciò che sembra meno noto è che si stanno moltiplicando gli effetti negativi delle Finanziarie precedenti.

Un recente lavoro di Francesco Montemurro ci ha consentito di avere davanti un quadro estremamente chiaro di cosa abbiano significato e quali siano le conseguenze di anni e anni di “finanziarie d’urto”. Secondo l’autore “non c’è ancora feeling tra legge Finanziaria ed enti locali. Si tratti di una manovra di rigore o di una finanziaria “leggera” aperta alle politiche di sviluppo, sono sempre elevati i sacrifici finanziari imposti al sistema delle autonomie”  [11].

Una serie di tabelle e schemi consentono di riassumere gli effetti materiali dei collegati alle leggi finanziarie sui servizi sociali e le spese per il personale degli enti locali.

1) Finanziaria ‘97 : prende avvio il federalismo fiscale ma inizia anche lo stravolgimento annuale della normativa sui tributi locali e i trasferimenti erariali con l’effetto di scaricare sulle autonomie gli oneri di riordino delle finanze statali. Si prevedono criteri per l’esercizio di una delega attribuita al governo per l’istituzione dell’Irap e dell’addizionale Irpef e l’abolizione dei conteibuti sanitari oltre ad altri tributi nazionali e locali vigenti. Il primo anno di applicazione mette in evidenza la disomogenea distribuzione territoriale della base imponibile Irap e del relativo gettito. Il grado di autonomia della copertura delle spesa sanitaria per tutte le regioni meridiobali si pone al di sotto di quello registrato nel ‘97. Per tutto il ‘97 persiste il divieto di assunzione del personale con deroga per le categorie protette e il sistema sanitario nazionale. Interviene il congelamento dei compensi per lo stradordinario e la riduzione degli stanziamenti.

2) Finanziaria ‘98 : Viene disposta l’istituzione dell’addizionale comunale Irpef; l’aumento delle imposte sulla pubblicità e le affissioni. E’ prevista la riduzione dei trasferimenti statali ai comuni nell’ottice della riduzione della spesa pubblica adottata dal Dpef. Le assunzioni dovranno realizzare comunque negli anni ‘98 e ‘99 una riduzione dell’1% e dello 0,5% rispettivamente sugli organici dell’anno precedente..


3) Finanziaria ‘99 : Viene concessa la facoltà alle regioni di variare l’aliquota Irap. Le modifiche devono essere tali da garantire il medesimo gettito derivante dai contributi per il Servizio Sanitario Nazionale. Viene introdotto il Patto di Stabilità interno. Regioni ed enti locali devono concorrere a raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica (riduzione del deficit etc.). Come già previsto, nel biennio ‘98-’99 il personale dovrà essere ridotto dell’1,5% ed un ulteriore riduzione dell’1% viene fissata per il 2000.

 

4) Finanziaria 2000 : Si apre il contenzioso sulla quota di compartecipazione Irpef per le Regioni (non inferiore all’1,5%) e all’IVA (in misura non superiore al 20%). Con il passaggio dalla tassa alla tariffa per i rifiuti, sul costo del servizio graverà anche una IVA al 10%.

Il contenuto di maggior rilievo è l’attuazione del Patto di stabilità interno. Gli enti locali che raggiungeranno gli obiettivi di bilancio verranno premiati. Regioni ed enti locali dovranno ridurre i disavanzi dello 0,1% del PIL programmato. Gli enti che sforano nell’anno questo obiettivo, l’anno successivo dovranno recuperare altri 1.000 miliardi di lire. Nel 2001 scatterà un’altra riduzione del personale non inferiore all’1% di quello in servizio al 31 dicembre 1997.


* i dati sulle Province e i Comuni subiranno nel 2000 ulteriori modifiche a causa del passaggio allo Stato del personale attualmente in servizio nelle scuole. Parallelamente, i dipendenti degli Uffici di Collocamento (Ministero del Lavoro) dovrebbero passare alle Province.

 

 

“ Il vero problema del Patto di stabilità” sostiene Montemurro “è che può condizionare davvero pesantemente la realizzazione di scelte d’investimento dei comuni e province nel caso in cui non sia assicurata una stabile compartecipazione al gettito dei principali tributi erariali”.

I primi effetti del federalismo dall’alto sono dunque ben visibili : riduzione del personale, aumenti delle imposte e delle tariffe dei servizi in gestione, tagli alle spese sociali (inclusa la sanità) per poter star dentro i vincoli di bilancio previsti dal micidiale Patto di stabilità interno.

Di fronte a tale realtà cominciano a emergere tra gli amministratori locali - di destra o di sinistra - serissime preoccupazioni di “immagine” tra le quali la più esplicita è quella di apparire come dei gabellieri per conto del governo e dello Stato centrale. “Finchè il peso del prelievo dello Stato centrale rimarrà così forte, ogni possibile incremento delle amministrazioni verrà criticato. Di fatto diventa impossibile” sostiene Walter Vidali (ex sindaco di Bologna) responsabile DS per gli enti locali. “Si constata, ancora una volta, che le Province vengono fatte apparire come Enti responsabili di aumento del carico fiscale/locale senza neppure avere a disposizione le connesse maggiori risorse” commenta un documento dell’Unione delle Province Lombarde. “Gli enti locali sono destinati a diventare sempre più dei gabellieri dello Stato, essendo costretti ad imporre ulteriori tasse ai cittadini per poter fornire i servizi essenziali” lamenta l’on. Mario Valducci, responsabile dei Forza Italia per gli enti locali.


Un invito a non tirare troppo la corda viene anche da Cesare Cava (responsabile finanze della Lega delle Autonomie Locali) secondo cui “Appare quantomeno singolare che il Governo sia fortemente impegnato per ridurre di un punto percentuale le aliquote Irpef e contestualmente consentire, se non obbligare, l’applicazione di una addizionale Irpef comunale” [12].

 

 

6. Privatizzazioni, aumenti di tasse e tariffe: un “destino manifesto” ?

 

Le cronache locali e finanziarie degli ultimi quattro anni, sono piene di avvenimenti come le privatizzazioni delle principali aziende municipalizzate (ACEA a Roma, AEM a Milano, AMGA a Genova, AEM a Torino etc.), le loro quotazioni in borsa e la loro corsa a fuzioni e concentrazioni (ultima in ordine di tempo quella tra le aziende energetiche di Roma, Milano e Torino). Il processo di privatizzazione ormai dilaga in ogni ambito dove prima gli enti locali (oltre che lo Stato) dovevano assicurare direttamente l’erogazione dei servizi.

Egemonia neoliberista, rigorismo di bilancio ed euforia federalista hanno impresso una accelerazione impressionante a tale processo. Il principio di sussidiarietà tra Stato centrale ed istituzioni locali nell’erogazione e gestione dei servizi sociali, è andata letteralmente “ a farsi friggere” perchè la filosofia che ispira entrambi è praticamente la stessa.

La denuncia sulla contraddizione tra “i conti in ordine” per i Comuni e il peggioramento delle prestazioni e dei servizi sociali, arriva - paradossalmente - non dalle aree povere del Meridione ma da una area “ricca” della dorsale adriatica : le Marche.

Secondo i dati elaborati dallo SPI-CGIL ad Ancona, dal 1997 al 1998, le entrate totali del Comune sono passate da 265 a 366 miliardi con un incremento del 38% e le previsioni per il 1999 prevedono un ulteriore balzo a 507 miliardi (+39%). A fronte di questi sostanziosi aumenti delle entrate, la spesa sociale corrente dal 1997 al 1998 è cresciuta solo dello 0,1% e destinata ad incrementarsi per il 1999 solo dello 0,5%. La tendenza, secondo il sindacato dei pensionati, è simile nel resto della Regione [13].

Un primo effetto di questa legittimazione del Profit State a livello locale e nazionale, è stata l’esplosione delle imposte locali e l’aumento delle tariffe dei servizi ormai completamente affidate a società private o privatizzate in questi anni. Il processo di trasformazione in SpA delle ex aziende municipalizzate nell’energia, le acque, i trasporti, l’igiene urbana “spinge le aziende alla ricerca di performance di profitto ed efficenza che comprtano un inevitabile salto di qualità negli investimenti e nella ridefinizione delle tariffe...la ricerca di una più alta qualità del servizio, anche nell’interesse degli azionisti e nella remunerazione del capitale investito, non in tutti i settori significherà un risparmio per i cittadini” commenta un quotidiano economico [14].

Accantonando l’ICI e le addizionali regionali, comunali e prossimamente provinciali dell’Irpef e dell’Irap, che sono già operative, sul fronte dei servizi le notizie sono ancora peggiori.

Ad esempio sulla questione dei Rifiuti Solidi Urbani (RSU), la tassa locale (la Tarsu) scomparirà ma non per alleviare i nostri redditi, anzi, verrà trasformata in servizio a tariffa perchè dovrà coprire tutta la spesa della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Ciò significherà due cose ben precise: l’introduzione dell’IVA come sulle altre tariffe ed un aumento compreso tra il 20 e il 30% delle bollette da pagare.

Ma non c’è solo questo. Le tariffe dell’acqua crescerannno del 30-40% (in alcuni casi anche di più) mentre marcia speditamente la privatizzazione o la concentrazione selvaggia delle società che gestiscono gli acquedotti (in pista c’è anche l’onnivora ENEL). Secondo l’amministratore delegato dell’ACEA, i soggetti che potranno gestire acque e acquedotti dovranno diminuire “da 9.000 a ...dieci” e il primo passo di aggregazione - secondo Cuccia - “non può che essere un discorso federativo” [15].

Le tariffe del gas - dove le tasse rappresentano il 50% della tariffa con il paradosso delle imposte conteggiate due volte - sono destinate ad aumentare anche a causa delle quote da versare agli enti locali [16].

Infine occorre segnalare le conseguenze delle privatizzazioni e concentrazioni in corso nel settore dell’elettricità. Da un lato la “liberalizzazione” che deriverà della privatizzazione lascia il campo aperto su questo mercato strategico alle società private, dall’altro le ex aziende municipalizzate stanno dando vita a nuove concentrazioni per partecipare non solo alla spartizione del mercato dell’energia ma anche in altri settori. Il presidente dell’ACEA Fulvio Vento (anch’egli ex dirigente sindacale della CGIL), in occasione del protocollo d’intesa raggiunto tra l’azienda romana con le aziende AEM di Milano e Torino, ha dichiarato che “l’alleanza a tre potrebbe riguardare anche il gas, compatibilmente con la liberalizzazione del settore” . L’accordo potrebbe estendersi anche all’AMGA di Genova [17].

Sulla composizione delle tariffe elettriche già oggi pesa la quota destinata agli enti locali, ma è evidente come la fine del controllo pubblico sulle tariffe non può che spianare la strada ad operazioni finanziaria piuttosto “corsare” come quella - denunciata dalla Telecom - che ha visto l’Enel scaricare sulle bollette elettriche i costi dei debiti accumulati dalla società telefonica Wind di cui l’Enel è uno dei maggiori azionisti. Una cosa sembra ormai mettere d’accordo tutti gli osservatori : la concorrenza al ribasso sulle tariffe è già finita, essa è servita solo a gettare fumo negli occhi nella fase delle privatizzazioni.

Se questa è la fotografia delle situazioni locali nel nostro paese, il federalismo dall’alto non può che rivelarsi come una ulteriore “cura da cavallo” su un corpo sociale già fortemente indebolito dalle finanziarie d’urto che hanno contraddistinto l’integrazione dell’Italia nell’Europa di Maastricht, anzi, si ha la netta impressione che questo processo ne sia una connessione/conseguenza strettissima mascherata e legittimata dall’inganno della sussidiarietà.

Le trappole del federalismo sono dunque numerose e sarà bene che la sinistra e il sindacato se ne accorgano per tempo per sbarrare la strada alle inquietanti avventure nel quale vuole catapultarci una classe dirigente che sembra potersi collocare indifferentemente a destra come a sinistra dello schieramento politico. Ci interessa molto indagare la natura sociale e le ambizioni di questa classe dirigente. Nel Duemila il federalismo rischia di diventare realtà ed a questo vorremmo dedicare una seconda parte del nostro lavoro sul prossimo numero di Proteo.


[1] Emblematica in tal senso è stata la riunione della Conferenza Stato-Regioni che si è tenuta il 25 novembre a Bruxelles, riunione voluta dal Ministro Letta ed a cui hanno preso parte Prodi e il Commissario europeo Monti.

[2] Documento e manifesto del convegno di Genova sono stati pubblicati integralmente su “Autonomie” l’inserto settimanale dell’Unità dell’11 novembre 1999.

[3] “Disposizioni in materia di federalismo fiscale : perequazione e razionalizzazione”, nota del CNEL, ottobre 1999.

[4] “I sindaci bocciano la Finanziaria 2000: no al patto di stabilità”, in Italia Oggi del 6 novembre1999. Ma nel Congresso dell’ANCI di metà novembre, i sindaci hanno fatto marcia indietro.

[5] “Ma per il fisco federale c’è ancora un ostacolo”, in Sole 24 Ore dell’ 11 novembre 1999.

[6] Bruno Luverà : “I confini dell’odio. Il nazionalismo etnico e la nuova destra europea”, Editori Riuniti, settembre 1999.

[7] Su questo capitolo di ricostruzione “ideologica” del riformismo federalista partorito dal laboratorio emiliano dei DS, abbiamo utilizzato e rinviamo all’ottimo lavoro di Pasquale Cicalese (“Federalismo e germanizzazione dell’Italia”) comparso in due puntate su Contropiano dell’aprile e del giugno 1997.

[8] Per comprendere meglio il rapido percorso storico delle leggi che hanno portato al federalismo è molto utile il numero di maggio/agosto 1999 di “ Le istituzioni del federalismo”, bimestrale della Regione Emilia-Romagna.

[9] Luigi Mariucci :“Le Regioni? Tra crisi e rilancio” in Autonomie , inserto settimanale dell’Unità del 30 settembre 1999.

[10] “Anche le Regioni potranno varare una legge finanziaria ogni anno” Sole 24 Ore 23.10.99.

[11] Vedi la pagina dedicata agli enti locali sul Sole 24 Ore dell’8 novembre 1999 curata da Francesco Montemurro.

[12] Dichiarazioni comparse rispettivamente su : Unità del 2/9/99; documento dell’UPL del 11.10.99; L’Opinione del 2/10/99; Unità/Autonomie del 30/9/1999.

[13] “Il Comune si fa ricco.Il welfare si fa povero” in Unità/Autonomie del 30 settembre 1999.

[14] “Acquedotti, da 9mila si ridurranno fino a 10”, Milano Finanza del 7 settembre 1999.

[15] “Servizi migliori anche se più cari. Enti locali e amministrazione centrale passano la mano a vere aziende con logiche imprenditoriali”, Italia Oggi dell’ 8 novembre 1999.

[16] “Acqua, gas e rifiuti. Ronchi minimizza ma rincarano” su Autonomie del 14 ottobre 1999.

[17] “ACEA-AEM, ora nasce l’anti-Enel”, Milano Finanza del 10 novembre 1999.