L’attualità della Cina tra riforme economiche e nuova composizione di classe

BIAGIO BORRETTI

1. Deng Xiaoping, le riforme e le ZES 1.1. Il 1978 viene comunemente considerato l’anno spartiacque tra la Cina dell’era maoista e quella delle riforme. Sconfitta la Banda dei Quattro, Deng riesce a riconquistare il potere con un progetto di rinnovamento radicale della società cinese, promuovendo uno strappo deciso con il recente passato della Rivoluzione culturale che, oltre ad aver sconquassato reti di rapporti familiari, sociali, comunitari, aveva dato vita a diffusi processi di destabilizzazione dell’organizzazione produttiva. Le fabbriche di Stato avevano raggiunto livelli di produttività bassissimi se non in alcuni casi nulli, fino alla chiusura. La gestione del lavoro vivo era pressoché caotica se non inesistente. La nazione, che per anni aveva vissuto una delle più intense guerre civili1 della sua storia, era nel pieno di una profonda crisi economico-sociale. Deng, alle redini del Partito Comunista Cinese (PCC) e della Repubblica Popolare Cinese (RPC), promuove un ampio processo di riforme che va ad incidere su vari fondamentali dell’economia cinese. I fronti di intervento saranno quelli dell’agricoltura - ove col tempo verrà superato definitivamente il sistema delle Comuni -; della ristrutturazione delle aziende statali - la cui gestione verrà informata ai criteri dell’organizzazione scientifica del lavoro, dell’efficienza e dell’efficacia e dell’aumento repentino dei tassi di produttività -; dell’apertura ai capitali internazionali, con la politica della “porta aperta” la cui punta di diamante saranno le Zone Economiche Speciali (ZES). Le ZES costituiscono una particolare forma delle - potremmo definirla la “via cinese” alle - Export Processing Zones (EPZ), delle enclave giuridico-economiche sperimentate un po’ in tutto il mondo dai paesi in via di sviluppo (ma non ne sono immuni anche i paesi a capitalismo avanzato2), caratterizzate dalla presenza di capitali esteri ivi accolti al fine di produrre, assemblare e confezionare merci da esportare3. Gli obiettivi perseguiti sono pertanto l’importazione di capitali e tecnologia stranieri, l’incremento dei tassi di occupazione locali, concedendo in cambio alle imprese estere che investono in loco agevolazioni dal punto di vista fiscale (detassazioni, “vacanze fiscali”, contributi); sui prezzi delle materie prime ivi utilizzate ai fini industriali (acqua, elettricità ecc.) e sui canoni di affitto o sui prezzi di acquisto dei terreni o degli edifici; fornitura di infrastrutture stradali, ferroviarie, collegamenti con porti ed aeroporti a carico dei paesi ospitanti; in materia di prestiti e sovvenzioni finanziarie; nonché un costo della manodopera molto basso - anche se a volte superiore alla media dei salari corrisposti nel paese ospitante ed infine, elemento che spesso e sulle lunghe risulta essere ancora più incisivo dei salari, l’assenza di organizzazioni sindacali o comunque non autonome e conflittuali. In sostanza si tratta di aree geografiche ben delimitate amministrativamente (le cui dimensioni solitamente vanno dai 10 ai 300 ettari), ove i Governi centrali istituiscono delle Amministrazioni di zona che curano la gestione giuridica ed amministrativa delle aree, al fine di promuovere l’ingresso di capitali allogeni e curarne i rapporti. Quando nel ’78 Deng decide di aprire la nazione ai capitali stranieri, lo fa seguendo un metodo pragmatico che caratterizzerà tutta la sua linea politica riformista, da piccoli passi, piccole, circoscritte sperimentazioni. Le ZES infatti nascono come esperimenti localizzati (sulla costa cinese) ove poter testare il funzionamento o meno di tali “sistemi”. Fungeranno, come qualcuno avrà a scrivere qualche anno dopo, da “laboratori del capitalismo” con la funzione di testa di ponte per tutta una serie di dinamiche mercantili e tipiche del modo di produzione capitalistico che nel giro di pochi decenni non tarderanno ad espandersi nell’intera Cina4. La prima ZES sarà quella di Shenzhen (1979), situata nella costa sudoccidentale, nel Guangdong, un piccolo paesino di 20.000 pescatori che nel giro di pochi anni verrà trasformato radicalmente fino a diventare una metropoli di quasi 8,5 milioni di abitanti allo stato attuale (con una densità di 4.334 ab./km?), nonché uno dei punti di massimo sviluppo dell’economia cinese e dal punto di vista meramente quantitativo che qualitativo (ove gli istituti capitalistici, formali e sostanziali, operano a tutti i livelli: si pensi ai contratti di lavoro - tra l’altro per legge necessariamente temporanei dal 1986 in poi -, alla struttura proprietaria delle imprese ivi localizzate, a capitali stranieri o locali, privati; alla organizzazione del lavoro informata ai criteri del dispotismo del capitale). A Shenzhen seguiranno ben presto le altre ZES di Zhuhai, Xiamen e Shantou5, che andranno a costituire una rete di poli di sviluppo industriale (ed oggi anche del terziario) che traineranno letteralmente la Cina nel XXI secolo ed al successo di cui oggigiorno si parla quotidianamente6. Tutte concentrate sulla costa sudoccidentale della Cina per la loro vicinanza ai maggiori centri del Pacifico del capitalismo mondializzato: Taiwan (Xiamen), Hong Kong (Shenzhen), Macao (Zhuhai)7. I capitali da essi provenienti saranno quelli maggiormente coinvolti - soprattutto in una prima fase - negli investimenti diretti nelle ZES, tanto da far parlare di “polo integrato” tra Hong Kong, Macao, Taiwan e le zone costiere cinesi, inserite in un processo di ristrutturazione dell’economia locale e mondiale per la quale le prime cominciano a sviluppare il proprio terziario e settori economici a maggior valore aggiunto (finanza, informatica...), mentre esportano le “fasi” industriali e “pesanti” sulle coste cinesi, potendo godere di tutti i vantaggi competitivi che esse offrivano. La Cina quindi viene integrata nel mercato mondiale e nella divisione internazionale del lavoro nella misura in cui lo sono già i capitali isolani e di Macao, ma anche nella misura in cui tramite queste ultime transitano capitali stranieri, occidentali, giapponesi, investiti poi nella RPC.

1.2. Sin dall’inizio le ZES8 cinesi si caratterizzano, rispetto alle normali EPZ, per le loro dimensioni di gran lunga superiori, che vanno ad investire interi sistemi urbani già costituiti o costituendi, tanto da imporre anche elaborati progetti di pianificazione urbanistica (si pensi di nuovo a Shenzhen con una dimensione di 2.020 km?: nei suoi confronti una tipica EPZ di massime dimensioni, e cioè appena 3 km?, risulta essere assolutamente ridicola). Insomma, a differenza della circoscritta e piuttosto limitata area occupata dalle EPZ, le ZES coinvolgono intere città facendo di esse un vero e proprio sistema integrato di infrastrutture, poli industriali, centri abitati e flussi commerciali - sia ad uso imprenditoriale che finale. L’operaio della ZES è contemporaneamente cittadino della stessa, con tutto ciò che ne deriva anche in materia di difesa, difendibilità e rivendicazione di diritti civili e sociali. Tali dimensioni consentono realmente al governo cinese di sperimentare su territorio patrio, ma al contempo “altro” dal resto della Repubblica, percorsi di introduzione di nuovi rapporti sociali di produzione oltre gli ambienti, le dimensioni e le scale della fabbrica per estenderli immediatamente all’interno della stessa porzione di società cinese che ivi vive. A dimostrazione dell’importanza delle ZES per lo sviluppo della RPC nonché per le pratiche di sperimentazione della dirigenza politica ed imprenditoriale cinese, basti riportare alcuni dati relativi allo sviluppo davvero incredibile della ZES per eccellenza: Shenzhen. Con il suo 1,86 mln di lavoratori nei tre settori9 ed il suo 16,6% di crescita, nel 2006 Shenzhen produce un PIL pari a 581 mld di RMB (1/36 dell’intero PIL cinese), sopravanzato nel 2007 da un nuovo record: 676,5 mld. Nel 2006 il PIL pro capite è uguale a 69.450 RMB (si pensi che nel 1979, all’inizio quindi delle riforme, era di soli 606 RMB). I settori di maggiore produzione di PIL sono quello industriale (1 mln di addetti), con 305 mld e quello terziario (ca 830.000 addetti) che, con 276 mld, si avvicina progressivamente - denotando una certa ristrutturazione in corso negli ultimi anni. Nel settore industriale spicca per importanza quello dell’high-tech che già nel 2002 rappresentava il 46% dell’intera produzione industriale, divenendo così il principale distretto industriale “per la produzione, la ricerca e lo sviluppo e il commercio estero di prodotti high-tech inclusi i computer e i componenti, le attrezzature per telecomunicazioni, i prodotti audio-visivi, i prodotti ottici ed elettromeccanici, i prodotti di biotecnologia, ecc.” (ICE, 2004: 10). Non è un caso che il governo locale reputi proprio i settori tecnologico e della logistica10 prioritari insieme ad altri che potremmo definire, con linguaggio mainstream, postindustriali: finanza e turismo. Il comparto industriale è dotato di 5.129 imprese di cui 2.204 con capitali locali e 2.129 con capitali provenienti da Hong Kong Macao e Taiwan (a dimostrazione dell’importanza di tali poli di investimento) e 796 con capitali stranieri. Questi ultimi sono peraltro quelli di gran lunga più produttivi di valore industriale se è vero che con “appena” 796 imprese realizzano un valore complessivo industriale di 459 mld di RMB, e cioè in media 577 mln di RMB per impresa, mentre la media produttiva delle singole imprese a capitali interni è di 189,6 mln e di 148 mln per le imprese a capitali provenienti da Hong Kong, Macao e Taiwan. Le disuguaglianze di reddito, almeno quelle rilevabili sulla carta - che quelle reali sono ben più incisive -, sono cristallizzate dalle cifre contrattuali: 20.000 RMB al mese è il massimo rilevato per un dirigente mentre la retribuzione minima nella ZES per un operaio è di 595 RMB mensili, con gli apprendisti che vanno da un minimo di 680 a 3.600; gli operai intermedi da 900 a 4.000 (da 1.200 a 5.400 se con anzianità lavorativa) ed i tecnici da 2.600 a 6.500 RMB (se con anzianità da 3.200 a 7.000).

Le dimensioni delle ZES, insomma, la loro natura di città-fabbriche e laboratori del consumismo West-inspired, prepotentemente pongono la città, la metropoli, nella sua pluridimensionalità, al centro del processo di sviluppo cinese, dando un ruolo primario al territorio, a quel connubio di “capitale sociale” e “capitale fisso” di cui è innervato per poter creare i presupposti socio-economici, culturali e consumistici dell’accumulazione del capitale e di riproduzione del proletariato11. La città in questa ottica diventa luogo di accumulazione del capitale, di concorrenza nella divisione spaziale del lavoro (HARVEY, 1998), di attrazione di investimenti esteri - proprio le varie agevolazioni offerte dalle ZES sono funzionali alla concorrenza sul mercato mondiale dei capitali fluttuanti; catalizzatrice di capitali e volano di crescita nella misura in cui produce ricchezza a mezzo di lavoro vivo e (sfruttamento della) natura, concentrando in essa masse enormi di merci da esportare sui mercati esteri o interni e garantendo tassi di profitto elevatissimi grazie allo sfruttamento della forza-lavoro itinerante e precaria proveniente dalle campagne. La città-ZES, pertanto, si “offre”, con tutto il proprio pacchetto di vantaggi competitivi, sul mercato mondiale dei capitali, partecipando direttamente alla competizione globale, assumendo la dimensione e le funzionalità della “città per il mondo” dell’economia mondiale che lì investe collocando funzioni e fasi del processo di lavoro che al centro, nei paesi a capitalismo avanzato (PCA), non sono più produttive di plusvalore (pv)12. Risolve un problema di investimenti dei capitali globali che al centro, a causa della caduta del tasso di profitto e della maturità dei settori esportati, potrebbero essere “giocati” soltanto nella finanza (che, notoriamente e per definizione, non crea ricchezza, ma la ridistribuisce soltanto: come direbbe LUNGHINI, al massimo è un gioco a somma zero).

2. Il lavoro vivo nelle ZES tra dispotismo del capitale ed autoritarismo dello Stato cinese

Sul piano internazionale da decenni si produce una interessante ed approfondita letteratura specialistica e non, dedicata allo studio delle riforme cinesi dell’ultimo trentennio. Da questi studi non necessariamente scompaiono il “fattore” lavoro vivo, le condizioni del proletariato cinese, le loro lotte, le pratiche di classe. Ciò che sembra mancare però, anche alla letteratura più radicale o marxista, è uno studio approfondito e vasto, generalizzato, del processo lavorativo, della sua organizzazione e del ruolo, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, che ricopre il lavoratore collettivo nel sistema aziendale cinese - privato o statale che sia. Quel tipo di studi e di inchieste, insomma, che nel corso della seconda metà del secolo scorso nel mondo anglosassone andavano a costituire la letteratura vastissima sul labor process ed in Italia invece andavano a formare la c.d. scuola dell’operaismo, della composizione di classe (definita da Harry Cleaver Autonomist Marxism). Date le dimensioni del presente articolo è chiaro che non si ha alcuna intenzione di discorrere in merito, bensì, molto meno ambiziosamente, soltanto di introdurre e stimolare un dibattito allargato. Sin dalla nascita del movimento comunista cinese - a parte le brevi e fallimentari esperienze “operaiocentriche” di Li Lisan et similes -, sicuramente dopo la “presa del potere” da parte di Mao e dei suoi all’interno del PCC, i contadini hanno svolto un ruolo decisivo, centrale nella guerra antimperialista prima e nella costruzione della RPC in seguito. È pur vero però che, a dispetto di tale centralità materiale nel Partito, sin dai primi anni di “costruzione del socialismo” in Cina, l’accento della dirigenza del PCC si sposterà decisamente sulla necessità di sviluppare fortemente le forze produttive, moderne, impulsando sul settore secondario e quindi sulla costruzione di una classe operaia di fabbrica vera e propria che fino ad allora era assolutamente minoritaria. Il PCC, si può ben dire, “crea” la classe operaia cinese (che da 3 milioni di unità nel periodo antecedente il 1949 passa a 15 mln nel 1952, a 70 mln nel 1978). Una classe nata artificiosamente grazie all’intervento massiccio dello Stato e, proprio perché ritenuta fondamentale ai fini della costruzione del socialismo, privilegiata decisamente rispetto, ad esempio, ai contadini. E ciò avviene proprio nello stesso tempo in cui lo Stato utilizza - stando a ROCCA (2006) - una “finzione utile” della classe operaia come “padrona” della rivoluzione (ci sarebbe stato una sorta di scambio, quindi, tra privilegi concessi dalla burocrazia del PCC alla classe operaia costituenda e la sostanziale delega di potere invece concessa alla burocrazia). Il locus ove l’operaio per decenni svolgerà la proprie mansioni lavorative sarà la danwei, l’unità di lavoro alla quale costui è legato completamente - “totalitariamente” diranno molti studiosi del fenomeno - per il godimento di servizi, di assistenza sociale e perfino per le scelte più intime (matrimonio, spostamenti, migrazioni ecc.). Welfare state contro accettazione del dispotismo dell’unità lavorativa funzionalizzata alla pianificazione nazionale. Si capisce come allora sin dalle prime riforme denghiane - che colpiscono la classe lavoratrice statale nel suo complesso - che importano in Cina la forma-contratto nelle Relazioni industriali (1986), impongono l’assunzione dei nuovi lavoratori esclusivamente a tempo determinato, destrutturano il complesso di Welfare state costruito durante i precedenti decenni, come - dicevamo - la classe operaia si rivolti contro tali riforme e riesca, con resistenze più o meno silenziose, più o meno aggressive e rumorose, ad ostacolare e rallentare di alcuni anni tali trasformazioni (almeno fino ai primissimi anni ’90). Laddove invece i nuovi rapporti di lavoro, e questa volta improntati a relazioni prettamente capitalistiche, vengono imposti con decisione e radicalità sin dall’inizio è nelle ZES. Lì la forza-lavoro è immediatamente contrapposta al dispotismo del capitale interno ed internazionale (in un primo momento svolgeranno un ruolo importantissimo, quasi esclusivo, i capitali asiatici). È immediatamente una merce da vendere sul liberissimo mercato della forza-lavoro ove gli investitori non vanno incontro a fattori di vischiosità/frizione come organizzazioni sindacali autonome e legislazioni lavoristiche effettivamente operanti. I “laboratori del capitale” fungono non soltanto da luoghi di sperimentazione di nuovi rapporti sociali di produzione, bensì anche da spazi di disciplinamento di una nuova classe operaia istruita ed informata a nuovi tempi di produzione, nuovi ritmi, nuove organizzazioni (scientifiche) del lavoro, nuove forme di subordinazione ai dominanti, a nuove Relazioni industriali. E ciò è reso ancora più agevole dalla natura greenfield di tali zone, laddove si intende con tale termine zone di implementazione di attività imprenditoriali sprovviste di precedenti insediamenti aziendali, operai, di memoria storica e conflittuale nonché organizzativa. Insomma delle tabulae rasae su cui costruire dal nulla una classe operaia costituita da ex-contadini, da lavoratori statali licenziati, da migranti dequalificati, soprattutto da donne e giovanissime (si parla infatti di questione femminile a tutta ragione a proposito di tali zone). Le attività industriali maggiormente localizzate appartengono in una prima fase13 ai settori tradizionali della manifattura che vengono esportati dai paesi a capitalismo avanzato: dal tessile all’abbigliamento, dai giocattoli al calzaturiero, dalla pelletteria all’elettronica (assemblaggio di hardware e non R&D in software). È in quest’ottica che si può sostenere senza tema di smentita che la Cina, con tali politiche, si inserisce coscientemente all’interno della nuova divisione internazionale del lavoro, e lo fa proprio per sfruttare a pieno le opportunità concesse da tale processo di ristrutturazione. Alcune delle fasi più “industriali”, “sporche”, inquinanti, fordiste, materiali della produzione occidentale vengono delocalizzate nei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo laddove è possibile sfruttare i vantaggi competitivi derivanti dal basso costo della manodopera, dall’assenza di organizzazioni sindacali conflittuali14 e di legislazioni a tutela del lavoro e dell’ambiente, potendo nonché beneficiare di contributi offerti dalle Amministrazioni delle EPZ. Nei centri delle metropoli imperialistiche il capitale è alla ricerca di forza-lavoro altamente qualificata - ma con una domanda progressivamente calante - per i settori a più alta produzione di plusvalore (pv) relativo - ingolfando la società dei servizi di tantissimi lavoratori altamente dequalificati e servili (la società dei 4/5 di cui parla LUCIANO GALLINO da anni). E nel frattempo esporta all’estero, delocalizzandole, intere fasi della produzione materiale di tipo fordista, che, a causa della conflittualità prodotta dalla vecchia composizione della classe operaia generata da quel tipo di produzione, sono diventate nel cuore dei PCA non più profittevoli. La Cina, potendo contare su un immenso esercito salariale di riserva - composto per lo più da migranti (liandong) contadini (mingong) e lavoratori statali licenziati (xiagang) nonché da donne alle prime esperienze lavorative diverse dalle mansioni domestiche o della campagna -, può offrire al capitale internazionale una fonte di pv di svariate centinaia di milioni di lavoratori (che ha un vantaggio ulteriore: quello di poter garantire tali flussi di lavoro vivo per interi decenni). È nelle ZES che vengono concentrati i primi massicci flussi di forza-lavoro cinese (tanto che ad oggi in tali zone si concentrano più di 30 milioni di operai/e15). Sebbene ancora oggi, dopo anni di stratificazioni di disuguaglianze e di frammentazione della classe lavoratrice cinese16, non si possa parlare di una certa omogeneità al suo interno - ché anzi di omogeneità mai si può parlare di un’intera classe lavoratrice bensì al massimo soltanto di sue frazioni (tendenzialmente) maggioritarie - si può invece sostenere che all’interno delle ZES si siano create col tempo delle omogenee condizioni oggettive, dal punto di vista della gestione delle zone, dei processi lavorativi, del dispotismo del capitale sul lavoro vivo, che nel loro complesso hanno dato vita ad una precisa composizione della classe lavoratrice ivi insistente: dequalificazione generalizzata, mansioni altamente fungibili, prevalenza di lavoro materiale su lavoro mentale, subordinazione assoluta del lavoro vivo al comando del capitale, costante pressione esogena agli ambienti aziendali da parte dell’esercito salariale di riserva che spinge verso il basso la curva del costo della forza-lavoro (che sebbene sia pagata - ma non sempre - più della media dei salari esterni alle ZES, non è comunque sufficiente a riprodurre in condizioni di decenza minima la stessa forza-lavoro). La prevalenza in queste enclave del capitale della figura dell’operaio comune, produttivo di pv assoluto17, è straordinaria. Quella dell’operaio massa è una composizione di classe che nei PCA abbiamo già conosciuto negli anni dei boom economici - si pensi all’Italia dagli anni ’50 in poi. L’operaio massa si identifica per la sua qualità particolare di essere un operaio collettivo altamente fungibile al suo interno, che svolge mansioni parcellizzate e dequalificate, apprendibili in poche applicazioni o addirittura in pochissime ore, senza un progetto di professionalizzazione attuabile, per lo più migrante e proveniente da ambiti geografici ed economici depressi o caratterizzati da attività del primo settore o comunque non industriali, rilevante dal punto di vista del capitale per la semplice erogazione di lavoro vivo “senza qualità”, la mera spendita di forza, energie muscolari e mentali. Il lavoro giunge quasi a coincidere con una forma di “astrattizzazione” massima dello stesso, una omogeneizzazione non soltanto concettuale bensì sostanziale, nella misura in cui è lavoro sans phrase ad essere richiesto, adattabile e fungibile quanto più, proprio perché omogeneo al suo interno. Un’omogeneità non soltanto determinata dalla uniformità delle mansioni (dequalificate) richieste dal capitale, bensì anche dalle condizioni di vita e di lavoro del proletariato concentrato in tali zone18. E sono proprio questa omogeneità e questa alta fungibilità che giovano al capitale, al suo dispotismo che può sfruttare la concorrenza interna alla classe operaia e le forme di organizzazione tayloristica del lavoro per comandare sul lavoro vivo. Il quale non ha la forza - contrattuale ed in fabbrica - per opporsi. La gestione piena del fattore lavoro vivo garantisce il presupposto organizzativo per la pianificazione aziendale. Ma tale pianificazione, proprio perché fondata sulla razionalità del sistema e sulla sua gestibilità programmata, edificata su sistemi aziendali molto rigidi, col tempo dà un enorme potere a quel lavoro vivo che, se ricomposto politicamente, può ribaltare la forza organizzativa del capitale in forza propria, andando a lacerare quell’unità del processo lavorativo rigidamente gestito e programmato19. Facendo saltare in aria il piano. Con interruzioni improvvise, non programmabili, del flusso produttivo. È come una corda tesa. Un colpo netto la spezza. Se è flessibile... invece... (sarà questa la grande lezione organizzativa del toyotismo). Nelle ZES quindi da tre decenni va formandosi una particolare classe operaia composta prevalentemente di migranti e donne (furono proprio costoro, e soprattutto quelle addette nelle ZES, a dar vita negli anni passati ai primi fermenti ed esperimenti di lotta, anche aspra, anche duratura, in materia di diritti sul lavoro, praticando perfino scioperi “selvaggi”). Una certa composizione che ora tende ad allargarsi a macchia d’olio sull’intero territorio cinese nella misura in cui, con l’ingresso nella WTO, l’intero paese è omogeneizzato dal punto di vista dell’offerta di opportunità per il capitale straniero e nazionale che abbai intenzione di investire lì. Ciò non significa che in Cina siamo in presenza della diffusione di un’unica figura di operaio, bensì soltanto che, in questa fase storica, nella misura in cui prevale in Cina tendenzialmente, una determinata fase di sviluppo del capitalismo, industriale, fordista e taylorista, esso - sebbene con modalità peculiari al “continente” cinese - dà vita ad una corrispondente composizione di classe che vede, come maggioritaria, ma appunto non unica, la figura dell’operaio comune, di quell’operaio massa che già decenni or sono ha caratterizzato la storia delle relazioni e dell’organizzazione industriali, nonché del conflitto sociale dei paesi occidentali.

3. Percorsi di ricomposizione di classe?

A dispetto di un copioso eurocentrismo, immanente anche a tanta sinistra occidentale, che per secoli ha letto, distorcendoli, una serie di fenomeni conflittuali esterni al mondo proprio in maniera scorretta, sottovalutandoli (si pensi alla grande lezione di lotta della classe operaia giapponese negli anni immediatamente successivi alla II GM, di cui oggi non si ha praticamente memoria), o al limite avversandoli, a dispetto di tale eurocentrismo - dicevamo - le lotte, i conflitti, nel mondo non occidentale... esistono. Basterebbe essere un po’ più attenti al fenomeno dello sviluppo poderoso e diseguale dell’Asia negli ultimi decenni per rendersi conto che anche lì esistono delle classi lavoratrici, rectius: più frazioni della classe lavoratrice mondiale soggettivamente e giuridicamente frammentate a livello nazionale, etnico, di genere ecc., frazioni della classe lavoratrice globale che lottano e prendono coscienza di sé stesse (si pensi alle battaglie dure, con scontri anche violentissimi, della frazione coreana della classe operaia mondiale negli ultimi decenni). Approcci “culturalistici” all’Oriente, funzionali spesso alle esigenze di occultamento ideologico messe in atto dal capitale, da sempre hanno abituato l’uomo medio occidentale a pensare che il lavoratore asiatico sia tutt’altro soggetto e “fenomeno” da quello europeo e statunitense, sia invischiato in un sistema di valori e culture totalmente altre da quelle occidentali, per cui sarebbe per sua stessa propensione antropologica “destinato” e “nato” per riservare un intero progetto di vita al lavoro, per 15-16 ore al giorno, dedicarsi anima e corpo alla missione della propria azienda e così via. Il risultato, disarmante dal punto di vista dell’analisi e della coscienza di classe, è che scompaiono i rapporti di classe (ci vorrebbe sempre un Bertolt Brecht ad ammonirci di ritornare ad essi). Scomparendo i rapporti di classe, scompare anche il dispotismo del capitale. Per cui se l’operaio orientale lavora in condizioni di massimo sfruttamento, di assenza totale di diritti sindacali e sociali, per un numero spropositato di ore al giorno... fa parte del suo “essere orientale”: il capitale non fa altro che operare in quel contesto, in quell’humus antropologico sì favorevole ad esso ma non dallo stesso generato. L’operato del capitale avrebbe un che di “neutrale”, limitandosi ad operare in un contesto socio-culturale già dato e non modificabile. Contro ogni approccio riduzionistico e culturalista (ciò non significa espellere i fattori culturali dalla propria analisi, bensì soltanto dar loro il giusto peso che meritano) è invece necessario ritornare alla “materialità” dei rapporti sociali di produzione ed alla conflittualità che essi producono. Della Cina si sa oramai quasi tutto sui tassi di sviluppo, di crescita del PIL. Meno si sa della progressione, davvero impressionante, delle lotte, della diffusa conflittualità sociale che le percentuali di PIL si trascinano dietro come un portato dello sviluppo delle relazioni capitalistiche. In poco più di 12 anni (1993-2005) la conflittualità sociale cinese è cresciuta di 10 volte, cioè del 1000% ad un tasso di sviluppo di gran lunga superiore a quello del PIL, equivalente, nello stesso periodo, al 129%. Per ogni punto percentuale di crescita del PIL la conflittualità cresce di 7,75 volte. È chiaro che tali calcoli aritmetici ci possono soltanto “affrescare” un fenomeno sociale di dimensioni davvero vaste, che coinvolge milioni di persone20. Allo stato, nonostante la conflittualità sociale cinese veda come protagonisti fette importanti e crescenti di proletariato, con donne e contadini in prima linea, è caratterizzata da una forte frammentazione, parcellizzazione delle rivendicazioni ed un instabile, magmatico arcipelago di microassociazioni, comitati, organizzazioni sindacali puntualmente represse e zittite dagli apparati ideologici e repressivi dello Stato. La stessa natura estemporanea delle organizzazioni e dei collettivi di lotta è imposta dalla forte repressione, ciò nonostante gli esperimenti di micro-organizzazione sono sempre più frequenti. Alla debolezza della frammentarietà, dell’incapacità di formare un unico fronte di classe unito contro l’organizzazione statale, burocratica ed imprenditoriale del padronato - che spesso consente allo stesso sindacato ufficiale (ACFTU) di “far rientrare” la protesta pur senza riuscire ad ottenere in cambio delle controprestazioni decenti, quando poi non la si devia verso i lidi della giustizia arbitrale ed ordinaria, per lo più schierata dalla parte padronale -, nonostante tali forme plurime di debolezza, tuttavia, la lotta di classe in Cina in questi anni di riforme va caratterizzandosi sempre più intensamente con forti connotati di auto-organizzazione, variegate espressioni associative dal basso, in contrapposizione netta e radicale ad ogni forma di potere, locale e nazionale. C’è un tratto comune a tali forme associative che potremmo definire di “assemblearismo”, di “consiliarismo”, di rifiuto della delega, di attiva ed immediata partecipazione dei diretti interessati, dei portatori di quegli interessi sociali difesi. Una forma organizzativa, quella proveniente dal basso, penalizzata dalla sua immaturità21 - mancando l’unità di classe - e però presente e qualificante. E, paradosso della storia, tali fermenti, non nuovi alla migliore tradizione della sinistra rivoluzionaria, si sviluppano proprio in uno Stato che si definisce socialista22, il cui obiettivo finale dovrebbe essere quell’emancipazione dell’uomo dalla schiavitù dei dominanti contro la quale invece esso stesso opera sistematicamente riproducendo quei rapporti sociali di dominazione e sfruttamento contro i quali il giovane proletariato cinese si scaglia.

La Cina di oggi, in definitiva, costituisce non soltanto uno dei laboratori più importanti ed interessanti di forme di sviluppo del capitalismo, ma, per altro verso, è anche il luogo dove la più vasta porzione del proletariato mondiale sta crescendo a ritmi spaventosi e comincia a “farsi sentire”, a pretendere quote di ricchezza fino ad oggi appropriate in maniera sistematica dalle classi dominanti cinesi e da quella classe borghese transnazionale che opera in Cina con l’esportazione dei capitali, con le joint venture e grazie alla politica denghiana della “porta aperta” che, se ha prodotto una crescita impressionante della ricchezza cinese, ha messo in moto anche un poderoso processo di “salarizzazione” delle masse popolari della RPC, originando un ventaglio amplissimo di disuguaglianze sociali mai sperimentato prima nel “continente” Cina. Il problema per una sinistra di classe occidentale non è, oggi, attendere cosa accadrà in Cina, ancora meno chiudersi in tentativi protezionistici23 di alzare frontiere xenofobe nei confronti del “nuovo arrivato” (che non è solo: basti pensare all’India), nel tentativo disperato e perdente di difendere gli ultimi sprazzi di Welfare state di keynesiana memoria (dove sarebbero oggi d’altronde gli alti tassi di profitto per potersi permettere il lusso di un compresso storico?), bensì quello di cominciare a sviluppare seriamente un percorso di “mondializzazione” delle coscienze e della solidarietà tra le classi sfruttate e sostenere, hic et nunc, nel proprio paese, il proletariato cinese in lotta per la liberazione dalle catene. Oggi più che mai... mondiali.

Riferimenti bibliografici

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Ricercatore, Osservatorio Meridionale di CESTES-Proteo

Il presente articolo riassume le principali risultanze di uno studio di prossima pubblicazione ben più corposo ed analitico condotto sulla forza-lavoro cinese nelle Zone Economiche Speciali (Le oasi del capitalismo. L’immane concentrazione di forza-lavoro cinese nelle “zone speciali”), al quale di rimanda per approfondimenti e maggiore completezza bibliografica, avendo qui preferito ridurre al minimo i rimandi alla letteratura di riferimento per evitare di appesantire lo scritto e darne una versione il più divulgativa possibile.

Ciò non vuol dire che la Rivoluzione culturale sia stata soltanto un’esperienza di scontro di poteri avversi all’interno del PCC e della società cinese tra fazioni burocratiche. Sebbene tale lettura abbia i suoi fondamenti, non bisogna cadere nell’assolutizzazione riduzionistica di una simile interpretazione, ché altrimenti si rischia - come di fatto avviene - di obliterare un altro importantissimo aspetto della Rivoluzione culturale: le istanze di liberazione provenienti dal basso che concorsero finanche a dar vita a varie esperienze di comuni. Ove esperimenti più o meno simili sono stati condotti nelle zone più marginali delle metropoli: si pensi alle Zone franche delle banlieue francesi, o ancora ai timidi tentativi di istituire delle zone franche nella periferia degradata di Napoli, come nel caso di Scampia. Al modello cinese negli ultimi anni si sono ampiamente ispirati d’altronde i governi indiano e russo che stanno con successo sperimentando le proprie ZES. Solo in alcuni casi infatti le merci prodotte nelle EPZ sono immesse sui mercati locali e ciò per evitare che esse possano disarticolare il comparto produttivo nazionale, perché, essendo prodotte in processi lavorativi caratterizzati dalla presenza di tecnologia (occidentale) più avanzata rispetto a quella posseduta dalle imprese autoctone, queste ultime sarebbero perdenti in un’eventuale sfida concorrenziale. Che la qualificazione della natura di tale processo sociale non sia pacifica nella letteratura specialistica in materia, anche di estrazione eterodossa, radicale e marxista, è risaputo, ciò non di meno in tale sede non possiamo non utilizzare un approccio più “tagliente” su determinati temi, in modo da “saltare” analisi e spiegazioni di determinate affermazioni che ci porterebbero lontani e snaturerebbero l’articolo stesso. Negli anni successivi saranno sperimentate nuove forme, varie, di zone speciali, a tema, tanto da diversificare sensibilmente l’offerta in funzione di specifici obiettivi di sviluppo: nasceranno numerose Open Coastal Cities e Open Coastal Regions (1984), le zone speciali dei delta dei fiumi Yangtze e della Perle, il “gioiellino” di Pudong (Shanghai, nel 1990) e così via fino a costituire zone di sviluppo economico e tecnologico e zone di libero commercio. Che poi tale successo sia fondato su fondamentali economici stabili oppure su basi “di carta” è una complessa problematica, molto viva nella letteratura contemporanea, che però in tale sede non possiamo affrontare. Si rinvia, a titolo di introduzione generale, ad alcuni lavori di differenti impostazioni: Carlo (2007), Collegamenti Internazionalisti (2008), Desai, Hutton (2007), Hart-Landsberg, Burkett (2004), Hutton (2007), Izraelewicz (2005), Lemoine (2006), Rampini (2006). La loro funzione sarà proprio quella di fungere da “ponti” per queste realtà così economicamente dinamiche ed a loro volta snodi per i flussi del capitale transnazionale. È importante notare come dall’ingresso della Cina nel WTO, nel 2001, il ruolo specifico svolto dalle ZES, con tanto di privilegi e particolari tutele garantiti ai capitali stranieri, subisce un “allargamento” su tutto il territorio cinese, nella misura in cui l’ingresso nel WTO vieta la costituzione di aree privilegiate spingendo sull’omogeneizzazione delle condizioni giuridiche in tutto il paese. Ciò significa che tutta la Cina diventa una grande immensa ZES nella misura in cui i sistemi di relazioni giuridiche, sociali ed economiche ivi insistenti si diffondono ad un intero paese. Da notare come quello primario contribuisca in minima parte a tale dato, occupando soltanto 4.600 unità. Dato peraltro comune alle altre ZES: a Zhuhai gli addetti nel primario sono 7.600 (su un totale intersettoriale di poco più di 520.000 lavoratori: 366.000 nel secondario e 146.000 nel terziario); a Shantou su più di 300.000 lavoratori (di cui ca 120.000 nel secondario e 183.000 nel terziario) solo 500 operano in agricoltura. Tutti i dati del paragrafo, se non diversamente indicati, sono estratti dal Guangdong Statistical Yearbook 2007 i cui dati sono relativi al 2006. Il rapporto lavoratori urbani-rurali in queste zone, rispetto al complesso della Cina, è completamente ribaltato, con l’agricoltura che non solo produce quote minoritarie di PIL ma occupa porzioni minime di forza-lavoro. Sergio Bologna negli anni ci ha insegnato l’importanza della logistica nel mondo delle merci. Non per caso un così centrale polo industriale e produttivo di valore come Shenzhen è dotato anche del sesto porto mondiale per container. David Harvey (1998) parla di ambienti costruiti l’uno per la produzione e l’altro per il consumo (potendo anche sovrapporsi le funzioni e le destinazioni): “L’investimento nell’ambiente costruito dà [...] luogo a un intero paesaggio fisico, finalizzato alla produzione, alla circolazione, allo scambio e al consumo” (p. 84). È pur vero, l’abbiamo accennato, che le recenti ristrutturazioni delle principali ZES verso settori economici a più alto valore aggiunto risponde all’esigenza di spostare progressivamente la concorrenza del “sistema-Cina” sul piano globale anche nei settori più maturi ed a più alta intensità di capitale. È proprio in tale prospettiva che può essere letta correttamente la recente (blanda) riforma del lavoro finalizzata a garantire maggiori diritti e salari più decenti ai lavoratori cinesi (almeno sulla carta) in modo tale da stimolare, indirettamente, quel processo di ristrutturazione almeno delle aree maggiormente sviluppate della Cina, quelle trainanti, verso la produzione di pv relativo e processi di lavoro prevalentemente mentali. Soltanto oggi alcune delle prime ZES stanno ristrutturandosi spostandosi verso settori a maggiore intensità di capitale, maggior valore aggiunto e tassi di produttività più elevati, che di converso richiedono forza-lavoro più qualificata. Si tenga presente che, dopo una breve stagione di reintroduzione del diritto di sciopero nella Costituzione cinese, nel 1992 esso viene riabolito, sulla convinzione che non sia necessario alla difesa degli interessi dei lavoratori, già tutelati dello “Stato socialista”. In tutta Italia nel settore industriale nell’anno 2007 lavoravano 5 milioni e mezzo circa di addetti. Ed il numero totale dei lavoratori dipendenti, nello stesso periodo, ammonta a circa 17 milioni. Le dimensioni sterminate del fenomeno cinese sono facilmente individuabili con questi pochissimi scarni dati. Dovute a fattori normativi, geografici, culturali, occupazionali, mansionistici e così via. Nelle prime fasi di vita delle ZES, lo sfruttamento è prevalentemente organizzato attorno all’estrazione di plusvalore assoluto - e cioè, semplificando: allungamento della giornata lavorativa - mentre soltanto di recente cominciano a strutturarsi percorsi di intensificazione degli investimenti in capitale fisso in alcuni settori, con la conseguente riduzione, relativa, di forza-lavoro occupata e l’aumento della produttività: passaggio all’estrazione di pv relativo (forme di sfruttamento comunque assolutamente compatibili). Le condizioni di lavoro più o meno generalizzate nelle ZES sono raccontate da molti studi ed associazioni impegnate sul versante della difesa dei diritti primari dei lavoratori cinesi (la declinazione al maschile qui vale come mera “convenzione” perché a voler rappresentare con un linguaggio maggioritario la composizione di classe della forza-lavoro occupata nelle ZES bisognerebbe senz’altro parlare al femminile). La vita di fabbrica degli operai nelle ZES è scandita da ritmi intensissimi, controlli pervasivi - finanche operati da guardie armate -, giornate lavorative che nella norma superano le 10 ore ma raggiungono anche le 15-16 ore (se non addirittura di più). Fabbriche-lager con finestre ed uscite chiuse, dove anche per andare in bagno bisogna attendere turni ristrettissimi nei quali bisogna consumare anche un pessimo pasto (per lo più fornito dalla mensa aziendale pagata obbligatoriamente dagli operai nonostante dispensi cibo spesso avariato, mal cucinato, quando non “condito” con cimici e vermi). Le vessazioni di tipo psicologico o corporale sono all’ordine del giorno, soprattutto se si è donne e giovani. A tutto ciò si aggiunga che i salari, insufficienti, vengono non soltanto pagati con ritardi sistematici e sensibili (finanche di 6 mesi), ma sono decurtati da varie voci di spesa: dal costo della formazione (a spese del lavoratore - ora la nuova legge del lavoro è intervenuta in materia) alle numerose e salate multe per ogni singolo ritardo anche di un minuto, fino ai costi per vitto ed alloggio e “prelievi” abusivi da parte dei padroni (che a titolo di ricatto detengono spesso la prima mensilità e l’ultima - per evitare che l’operaio se ne vada senza preavviso o se ne vada tout-court). Il predetto non è che un breviario minimo delle condizioni di vita degli operai cinesi nelle fabbriche. Per un approfondimento di tutt’altra natura ci si permetta di rinviare al nostro lavoro citato in nota d’apertura, nonché ai rimandi bibliografici ivi presenti. La radicalità delle proteste operaie cinesi, le loro modalità espressive, l’intensità ed anche la partecipazione spesso massiccia dei subordinati, concorrono proprio a far saltare tali schemi di gestione razionale, dunque programmatica, delle aziende capitalistiche improntate alle logiche organizzative taylor-fordistiche. È proprio contro tali pratiche conflittuali di classe che il potere costituito cinese - nelle sue varie espressioni - opera sistematicamente in senso repressivo, conscio della loro potenzialità distruttiva. C’è da dire comunque che i numeri sulla conflittualità sociale forniti dalle autorità cinesi sono abbastanza problematici perché costituiscono un unico insieme di fenomeni al loro interno non omogenei (da episodi di criminalità che esplodono in sensibili coinvolgimenti anche della popolazione in scontri armati, fino alle manifestazioni di pacifica protesta per la rivendicazione di istanze assolutamente estranee a qualsiasi prospettiva di “classica” conflittualità sociale, fino ai veri e propri scontri tra operai, contadini e forze dell’ordine, apparati repressivi di Stato, istituzioni politiche ed amministrative con tanto di assalti alle caserme della polizia, dei commissariati ed alle case comunali). Se oggi sosteniamo che l’organizzazione di classe in Cina (ma d’altronde in buona parte del mondo) non sia all’altezza dello scontro, non è per dare un giudizio da “bacchettoni del marxismo della cattedra (occidentale)”, bensì soltanto una valutazione scaturente e collegata d/al tentativo di comprendere potenzialità e debolezze dell’attuale forma organizzativa e delle modalità in cui essa, sebbene frastagliata, cominci a sedimentare esperienze di lotta importanti che creano “senso comune” e solidarietà classista. E proprio la forma organizzativa dal basso sembra essere una necessità indotta dalla stessa sistematica repressione di ogni forma organizzativa autonoma e dalla funzionalità della ACFTU alle dirigenze padronali ed alla burocrazia cinese. Esemplificati in Italia, su due versanti in apparenza culturalmente differenti ma sostanzialmente coincidenti dal punto di vista degli interessi di classe difesi, dalla Lega e da Tremonti.