Se sui Fondi si andasse a fondo

ENZO DI BRANGO

1. Grande è il disordine sotto il cielo... La crisi creditizia globale sotto i nostri occhi è, a detta di molti, il peak globalization, un apice che, tuttavia, deve ancora dispiegare tutti i suoi malefici effetti. L’economia statunitense è nel completo sfacelo, ma le altre, ormai concatenate (conseguenza della globalizzazione dei mercati) non godono di migliore salute. Incombe, poi, una crisi energetica che, tra gli alti e bassi del barile di petrolio e la sconsiderata rincorsa agli agrocombustibili, unitamente ai danni ambientali già prodotti che hanno determinato, come prima concausa, un pericoloso riscaldamento del pianeta, aggrava complessivamente il quadro della situazione e ci fa, legittimamente, temere ripercussioni peggiori della grande crisi del ’29. Le questioni del cambiamento climatico non vanno sottovalutate in una situazione come l’attuale: sull’economia Usa solo gli ultimi 4 uragani più intensi per potenza hanno determinato danni economici per oltre 200 mld di dollari ai quali, proprio per i nefandi effetti della globalizzazione neoliberista, si devono aggiungere quelli derivanti dalle alluvioni, dagli incendi e dagli altri cataclismi che sempre più frequentemente si abbattono sulle varie parti del mondo, determinati dal riscaldamento del pianeta a seguito di un barbaro sviluppismo in nome del profitto.2 Non si può però evocare spesso il crollo borsistico del 24 ottobre del 1929, quasi a volerlo esorcizzare, senza riflettere sui danni provocati all’economia statunitense in primis ed a quella mondiale a seguire. All’epoca il totale dei salari pagati scese, in poco meno di due anni, del 60%, la quantità fisica dei prodotti si ridusse del 37%, mentre il commercio estero registrò una contrazione del 67%. L’indice della produzione, nel contempo, si ridusse del 40% e l’occupazione, nel solo settore industriale perse 39 posti di lavoro ogni 100. Pur non avendo responsabilità dirette sul disastro che sta per colpire l’economia mondiale, la società civile deve necessariamente fare i conti con la mutata realtà della propria condizione, economica e sociale. In questo quadro ci occuperemo, per l’ennesima volta, della previdenza, sia con un breve passaggio sul sistema pubblico che si accinge a registrare il sesto tentativo di riforma in quindici anni, che dei fondi complementari, più direttamente coinvolti nelle maglie della crisi globale del sistema finanziario. 2. ... Ma la situazione non è eccellente! È stato presentato, il 16 giugno 2008, un disegno di legge “Delega al Governo per il completamento della riforma del sistema previdenziale mediante la revisione dei requisiti e del metodo di calcolo dei trattamenti di pensione, il riordino degli enti pubblici previdenziali e lo sviluppo delle forme pensionistiche complementari” il cui primo firmatario è l’ex cigiellino, ora sodale del partito del popolo delle libertà, Giuliano Cazzola. Nella relazione alla Camera dei deputati, il relatore sostenendo che “la presente proposta di legge (...) si propone di consolidare, pur con un percorso di gradualità, l’elevazione dell’età pensionabile a partire dal 2014” ci comunica che, a far data appunto dal 2014, le donne andranno in pensione a 62 anni e gli uomini a 67. Ma, soprattutto, che vi sarà tra l’altro a) L’applicazione pro-rata del calcolo contributivo, dal prossimo gennaio 2009, anche per i lavoratori in possesso di un’anzianità assicurativa e contributiva pari o superiore ai diciotto anni al 31 dicembre 1995; b) L’istituzione di un nuovo regime per i lavoratori che hanno iniziato a lavorare dopo il 1° gennaio 2011.

Per ovvie necessità di spazio rinviamo ad un prossimo futuro l’analisi specifica su tale disegno di legge, i cui segnali sono però indicativi del perdurare di un processo di smantellamento del sistema previdenziale pubblico e dell’inadeguatezza di una classe politica che, in soli quindici anni, si appresta alla sesta riforma della previdenza. Appare però del tutto evidente che la previdenza complementare, eufemisticamente definita “Secondo Pilastro” della pensione, andrà a ricoprire, invece, un ruolo assolutamente ancor più residuale di quanto non lo sia oggi, e la sua insufficienza a coprire e garantire dall’impoverimento dell’assegno pubblico sarà evidente sotto ogni aspetto: tecnico, politico e sociale. Ai tempi della crisi finanziaria lo conferma anche il condirettore generale della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel suo intervento a Parigi alla conferenza Ocse su The payout phase of pensions, annuities and financial markets, quando afferma che proprio la crisi finanziaria in atto “rafforza la necessità di sviluppare strumenti efficaci di protezione dei risparmi previdenziali”. Solo per un’analisi ancorché poco affrontata è opportuno soffermarci su un critica complessiva dei fondi pensione contrattuali, negli aspetti strutturali degli stessi con attenzione particolare al suo ambito contrattuale ed agli organismi dirigenti.

3. Il contributo aziendale Il contributo aziendale è un diritto del lavoratore che rientra, totalmente, nei costi contrattuali. Ma, mentre il costo contrattuale si spalma sull’universo dei lavoratori della categoria, il diritto viene riconosciuto ai soli lavoratori che si iscrivono ai fondi. Appare chiaro che, nelle more della contrattazione, le aziende, nella quantificazione del costo complessivo del Ccnl, debbano tener conto del totale della platea dei possibili aderenti, ma che ogni mancata iscrizione al fondo pensione contrattuale rappresenti un profitto immediato per l’azienda stessa. Nel 1997, durante un’assemblea dei lavoratori per promuovere il fondo Fonchim3, un attivista della Filcea-Cgil rivolto ai sindacalisti presenti disse: “siete dei veri mascalzoni perché avete accettato un’incredibile riforma delle pensioni. Io sono contro la maledetta previdenza complementare. Ma a questo punto col cavolo che regalo qualche soldo all’azienda che deve contribuire al finanziamento della pensione integrativa. Perciò, anche se sono contrario, sarò il primo a iscrivermi al fondo pensione”4. Il contributo aziendale è, quindi, per il lavoratore non solo una rendita (che non guasta) ma anche denaro sottratto alla propria azienda. Da qui il pericolo che una liberalizzazione del contributo aziendale possa far naufragare il “sogno” del sindacalismo confederale di trasformarsi anche in detentore di ingenti patrimoni gestiti sui mercati finanziari. L’articolo 8 del D.Lgs. 252/05 dispone che il datore di lavoro possa prevedere il versamento di un contributo aziendale a favore del lavoratore aderente alla forma previdenziale complementare e che lo stesso contributo venga pattuito nei Ccnl o negli accordi specifici in materia. Il decreto, di per sé, non vieta al datore di lavoro di contribuire anche a forme previdenziali aperte5 o agli stessi Pip. Per la verità Confindustria fino ad oggi non pare gradire particolarmente l’elargizione del contributo ad altri soggetti che non siano i fondi contrattuali, ma non c’è un divieto e tutto, nel tempo, può diventare percorribile6. Appare ovvio che di fronte ad una portabilità concreta del contributo aziendale, la percentuale di adesione alle forme di previdenza gestite direttamente da operatori finanziari autorizzati (banche, assicurazioni, ecc...) che oggi si attesta all’8,8% è destinata a crescere sensibilmente e, quindi, la privatizzazione di fatto della previdenza, almeno nel suo aspetto complementare, subirà una accelerazione il cui approdo è oggi difficile da delineare.

4. Problemi e prepotenze nella governance: gli organi elettivi Gli aspetti dell’Assemblea e del Consiglio di Amministrazione, per esempio, sono argomenti sui quali non si sono svolte analisi approfondite. Questo perché il rigetto a monte non ha consentito un esame più attento sul prodotto nei suoi meccanismi di funzionamento. La legge prevede che la composizione degli organi di amministrazione e controllo di tutti i fondi pensione a contribuzione bilaterale (...) sia assicurata nel rispetto del criterio della partecipazione paritetica di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro7, ciò significa che tutte le decisioni delegate a tali organi siano tecnicamente assunte con una partecipazione paritetica di entrambi i soggetti finanziatori (aziende e lavoratori). I sostenitori della correttezza di tale impostazione sostengono che sia corretto che le aziende partecipino attivamente proprio perché svolgono un ruolo attivo nel finanziamento della previdenza complementare. Questa teoria, che non ci piace per una serie di motivi che spiegheremo, stride, tuttavia, anche con la natura del finanziamento aziendale che, a detta del Ministero del Lavoro, ha esclusivamente carattere retributivo e va anche ricompreso nella base di calcolo del Tfr. Come dire che, se tale teoria avesse una validità transeunte, anche sull’impiego della retribuzione mensile il lavoratore dovrebbe concertarsi con l’azienda di appartenenza. Che sia quindi il datore di lavoro a scegliere la marca della mia pastasciutta o del mio mezzo di locomozione. Follia vera e propria. Sulla rappresentanza delegittimata (non solo, ovviamente, per i fondi pensione) Alberto Burgio pone una serie di interrogativi: “Da sempre la rappresentanza è un problema. Lo è sul piano teorico (in che cosa consiste in concreto il rapporto tra il rappresentato e il rappresentante?). Lo è sul piano giuridico e costituzionale (in che modo è possibile garantire che il secondo operi nell’interesse del primo? Come dotare il rappresentante di un potere di indirizzo e di controllo che eviti alla rappresentanza di degenerare in arbitrio senza con ciò impedire al rappresentante di esercitare efficacemente le proprie funzioni?). Non desta pertanto meraviglia che la discussione sulla rappresentanza accompagni l’intera vicenda storica della democrazia.”8 Nei fondi pensione contrattuali, come detto, la rappresentanza è equamente divisa. A non essere equamente divisi sono i rischi. Nella stragrande maggioranza dei fondi pensione contrattuali infatti la componente aziendale nelle assemblee, pari al 50% del totale dei delegati, spesso non appartiene al corpo associato, cioè non è composta da soggetti iscritti ai fondi pensione. Lo stesso dicasi per i consigli di amministrazione che, diretta emanazione dell’assemblea, sono costituiti in larga parte da soggetti che non hanno un centesimo investito nel fondo pensione che amministrano. Allora, come si chiede Burgio, in che modo questi ultimi, senza alcun rischio individuale, possono garantire l’interesse di chi, in prima persona, ha investito per il proprio futuro previdenziale? Una riformulazione più aderente alle aspettative degli iscritti dovrebbe necessariamente prevedere una partecipazione diretta degli associati nelle decisioni di politica finanziaria del fondo stesso. Ossia l’assemblea dovrebbe essere diretta espressione degli aderenti e non mutilata nel 50% in ossequio ad un datore di lavoro che, nella previdenza del proprio dipendente, non dovrebbe avere nessuna voce in capitolo. I C.d.A., che sono eletti all’interno dell’assemblea, presentano gli stessi problemi... amplificati. Per eleggere i consiglieri di amministrazione è necessario che i candidati rispondano a requisiti di legge non eludibili. Oggi il D.Lgs. 252/05 ha specificato le qualità professionali, ma fino a poco tempo fa esse erano praticamente raggiungibili grazie ad un artefatto che la legge aveva recepito proprio per favorire il sindacalismo concertativo. Con un Decreto, il Ministero del Lavoro aveva stabilito che potevano essere eletti alle funzioni di consigliere anche quanti avevano svolto funzioni di amministratore, di carattere direttivo o di partecipazione ad organi collegiali presso enti ed organismi associativi, a carattere nazionale, di rappresentanza di categoria, tale disposizione trova applicazione esclusivamente per i primi cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto.9 La rappresentanza di categoria o la partecipazione ad organi collegiali di organismi associativi ha spalancato le porte dei C.d.A. anche ad una nutrita schiera di consiglieri dei Cral notoriamente legati mani e piedi alla consorteria confederale. Questo piccolo esercito, avendo maturato tre anni di attività nei consigli di amministrazione dei fondi pensione10, si è messo poi al riparo dalla nuova normativa prevista dal D.Lgs. 252/0511. Oggi nel quadro di governance dei fondi pensione, siamo inflazionati di soggetti che, profondi conoscitori di come si organizza un incontro di beneficenza tra scapoli e ammogliati o un torneo di boccette, decidono del nostro risparmio previdenziale. C’è da ritenere che, per il futuro, anche per effetto naturale del trascorrere del tempo, vedremo sempre meno sindacalisti/dopolavoristi con i requisiti di onorabilità e professionalità impiegati però contemporaneamente in un maggior numero di consigli di amministrazione. 5. Conclusioni: come tonni nella tonnara Ce n’è abbastanza per ritenere del tutto insensato l’affidamento al mercato della pensione e ben vengano prese di posizione come quelle del segretario nazionale della Fiom Giorgio Cremaschi che pone un elemento di riflessione all’interno del sindacato confederale tifoso della previdenza complementare ma, soprattutto, amministratore, attraverso suoi consiglieri, di una quarantina di fondi contrattuali. “Con una grande campagna di stampa i governi finora succedutisi - sostiene il sindacalista - hanno pubblicizzato il vantaggio per i lavoratori di investire la propria liquidazione nei fondi pensione. Ora i fatti dimostrano che non è così. (...) Il governo dichiari la piena garanzia pubblica sui fondi pensione, così come ha dichiarato sui risparmi”12. O come quelle del vice direttore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel suo già citato intervento all’Ocse, che auspica per i fondi pensione l’adozione di “forme di garanzie minime, trasparenti, di natura pubblica”; questo perché “Per molto tempo ci si è domandati se sia preferibile che i fondi pensioni investano in azioni o in obbligazioni. Oggi il vero punto sembra essere piuttosto se i mercati finanziari siano idonei ad assicurare un sufficiente reddito previdenziale”. A detta del dirigente di Bankitalia la possibilità di ricorso a garanzie di rendimento minimo può essere rappresentata “da una assicurazione prestata dallo Stato contro gravi rischi sistemici”. I fondi contrattuali già nel 2007 avevano chiuso mediamente con un punto percentuale sotto il rendimento del Tfr in azienda (2,1% contro il 3,1%) per il 2008 registreranno, quasi sicuramente, indici accompagnati dal segno meno con un rendimento del Tfr lasciato in azienda che dovrebbe attestarsi intorno al 4%. In un momento in cui cerchiamo tutti una via d’uscita dalla crisi dei mercati, solo gli aderenti ai fondi pensione sono ostaggio di una normativa che non prevede uscita, come tonni nella tonnara aspettano, impotenti, la mattanza dei propri risparmi. Qualcuno ancora attacca la solita litania del lungo termine degli investimenti previdenziali, ad essi ha risposto, molti ma molti anni fa John Maynard Keynes: “Il lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti: nel lungo termine saremo tutti morti.”

Membro del Comitato di Redazione e Programmazione di PROTEO

Non me ne vogliano Rita Martufi e Luciano Vasapollo se spesso il titolo di un loro indovinato libro, ritorna nel mio lessico. Ma se quando scrivo di fondi pensione, il loro Le pensioni a fondo, Media Print, 2000, ricorre spesso è un merito degli autori e non certo mio.

Al riguardo si consulti, tra gli altri, l’eccellente lavoro curato da Luciano Vasapollo Capitale, Natura e Lavoro, Jaca Book editore, 2008.

È il fondo dei lavoratori del settore chimico.

Andruccioli P., La trappola dei Fondi Pensione, Feltrinelli, 2004, pag. 30.

Sono i cosiddetti Fondi Aperti gestiti da banche ed altri soggetti autorizzati.

Circola già un’idea del ministro Sacconi circa la portabilità del contributo aziendale nei fondi aperti e nei Pip...

Di Brango V., Pulone P., I Fondi Pensione, Cafi Editore, 2007, pag. 36.

Burgio A., Per Gramsci, Derive Approdi Ed., 2007, pag. 12.

Decreto del ministero del lavoro, n. 211 del 14 gennaio 1997, art. 4 comma 2 d).

Con un piccolo stratagemma al D.M. 211/97 ha fatto seguito un aggiornamento, del 20 giugno 2003, che sancisce che quando gli stessi amministratori abbiano svolto tali mansioni“ per uno o più periodi, complessivamente non inferiori ad un triennio” acquisiscono comunque il requisito professionale.

Il Decreto legislativo in questione ha infatti depennato la norma prevista dal D.M. 211.

Cremaschi G., dichiarazione riportata dall’agenzia Apcom del 6/10/2008.