Crisi finanziaria o crisi del modello neoliberale?

ERNESTO DOMINGUEZ LOPEZ

1. L’esplosione della bolla immobiliare negli Stati Uniti, propagatasi anche in Europa ha generato enormi ripercussioni su tutte le borse del mondo e ha detonato una vasta crisi finanziaria, la più grande dal grande crack del ‘29. La sospensione su larga scala dei pagamenti delle ipoteche sulle nuove abitazioni ha fatto sì che le catene di debiti e pagamenti, tipiche del capitalismo, come aveva già notato Marx, si spezzino ovunque, compromettendo la valorizzazione dei capitali, ragione di esistere del sistema. Le caratteristiche di questa crisi, come le sue condizioni iniziali e di contorno, risultano assolutamente rilevanti man mano che si procede ad un’analisi da vicino. In primo luogo, tale bolla immobiliare è conseguenza della straordinaria espansione e complicazione dei mercati finanziari. La ricerca di formule per un rapido recupero di capitali investiti dal sistema di istituzioni ed imprese che agiscono in quel campo, specialmente le diverse banche e le compagnie di assicurazione, per accelerare ed incrementare al massimo i profitti, ha portato alla creazione di derivati multipli dei cosiddetti titoli di valore commercializzati a catena, con l’unica garanzia della credibilità degli emittenti. Ciò rappresenta la frammentazione e successiva vendita del debito accumulato per cancellare quasi immediatamente i debiti degli istituti emittenti di derivati. La conseguenza immediata è stata l’accumulazione di alti livelli di liquidità che dovevano essere messi in movimento per ottenere nuovi profitti. Altra conseguenza: i sistemi di credito sono transitati attraverso una crescente flessibilizzazione delle condizioni di concessione, che ha prodotto un l’incremento dei rischi assunti dai creditori. Una gran parte di questi fondi approdati all’ultimo consumatore, fu usata per assumere ipoteche per l’acquisizione di abitazioni ed altri immobili da parte di singoli e famiglie che non avrebbero mai potuto accedervi in condizioni normali, il tutto determinando anche un aumento dei prezzi delle abitazioni stesse. Risulta allora logico domandarsi quali siano le radici reali della catastrofe borsistica che si è prodotta. Le risposte possono essere molte, ma c’è una ragione che sembra imporsi. La deregolamentazione dei mercati finanziari iniziata negli anni ’80, quando il neoconservatorismo ed il pensiero neoliberale cominciavano la loro strada trionfale sotto la conduzione di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, politici di copertura dei veri gestori, nascosti dietro imprese e relativi gruppi di pressione.

2. La vecchia asserzione reaganiana che “lo Stato non è la soluzione, bensì il problema”, si concretizzò nella liquidazione graduale dei meccanismi regolatori stabiliti a partire dal New Deal statunitense di Franklin Delano Roosevelt, nel 1933, e sviluppati dall’applicazione del modello di benessere nel dopoguerra. E non parlo solamente del controllo statale dei rami principali della produzione di beni, bensì di questioni apparentemente tanto logiche ed elementari come l’obbligatorietà dell’uso di sistemi contabili chiari e precisi. Il punto culminante di quell’ondata deregolatoria nel mondo delle finanze fu la cosiddetta Legge di Modernizzazione dei Servizi Finanziari negli Stati Uniti, del 1999, sotto il governo di Clinton, che permise che le banche riducessero al minimo o eliminassero completamente i fondi di garanzia che fino a quel momento dovevano essere corrispondenti ai fondi depositati dai clienti, in modo che potessero rispondere davanti ad un eventuale incremento dei prelievi. Questa rinuncia al controllo statale ha reso possibile inoltre la trasformazione delle catene di debiti in attivi commercializzabili. In sintesi, si potenziò su vasta scala la formazione di un’enorme bolla speculativa che in 30 anni aumentò di 70 volte il volume dei capitali che la formavano sorpassando di molto gli investimenti. L’utilizzo della cosiddetta ingegneria finanziaria portò alla creazione di strumenti come i CDO, pacchetti che costituiscono un miscuglio di titoli di valore di struttura sconosciuta, ma che supponevano a breve termine importanti ricavi, benché altamente dipendenti del sostegno della stessa bolla; o i contratti di protezione creditizia che implicano una scommessa sul non pagamento dei debiti contratti in diversi punti della catena. Tutto ciò ha fatto sì che la maggior parte dei “titoli marci”, trasformati in carta senza valore reale, e quotati principalmente in dollari1, si trovino oggi in mani ignare, tanto che molte volte nemmeno gli attuali proprietari ne sono pienamente coscienti. Per esempio, secondo il noto economista George Soros, esistono almeno 11 milioni di crediti inesigibili. La cosiddetta crisi delle ipoteche subprime2 dello scorso anno che diede inizio alla rottura della catena, fu ampliata e completata da altri due movimenti importanti nelle borse: il vertiginoso incremento dei prezzi del petrolio e, non meno importante, degli alimenti. Le conseguenti crisi generate nei rami energetico ed alimentare, contribuirono al crollo delle borse. Su questi due aspetti è necessario lanciare una rapida occhiata. Sui mercati petroliferi, a partire dal passato 2007 e fino all’estate del 2008, si è prodotta una sfrenata corsa dei prezzi del greggio che ha raggiunto picchi storici che hanno sfiorato i 150 dollari al barile, minacciando di raggiungere e magari superare i 200 dollari. Per rispondere con la legge dell’offerta e della domanda, a questa tendenza rialzista doveva corrispondere una riduzione relativa delle somministrazioni che ricollocasse la domanda al di sotto dell’offerta. Purtroppo, come anche sottolineato dall’OPEC, la somministrazione si è mantenuta su alti livelli, benché si sia diminuita la riserva produttiva a causa del rapido aumento del consumo, specialmente nelle economie emergenti, quantificandosi in almeno 2 milioni di barili giornalieri al di sopra della domanda, senza neanche (come era logico aspettarsi) una relazione diretta con i costi di produzione. Lo stesso sabbioso greggio del Canada ha un prezzo appena sotto i 30 dollari il barile, per non parlare dei crudi leggeri del Golfo Arabico-Persico che è venduto attorno ai 15-20 dollari. Ciò porta a domandarci quanto di reale ci sia stato in quell’incremento vertiginoso e quanto invece sia dovuto a speculazione. Tutto sembra indicare che la sfida sia appannaggio della seconda ipotesi per la sfrenata ricerca di superprofitti da parte delle grandi multinazionali del petrolio. Perché qui abbiamo anche un elemento importante per capire ciò che sta accadendo: gli alti prezzi e, pertanto, i guadagni smisurati non stanno fluendo principalmente verso le imprese estrattive, che sono generalmente di proprietà statale, bensì verso le società che lo commerciano, che sono quasi tutte private. Con i prodotti alimentari accade qualcosa di simile, con alcune aggravanti. Quella di maggiore importanza è che si commercia, in questo caso, qualcosa di assolutamente basilare per la sopravvivenza della popolazione mondiale. Qui, l’onnipresente incidenza dei prezzi del petrolio determinò due problemi: da un lato, l’incremento dei costi di produzione e trasporto, dall’altro, la destinazione di una parte considerevole della produzione all’elaborazione dei cosiddetti agrocombustibili. Ma innanzitutto si tratta dell’effetto della speculazione sui mercati alimentari. Ciò, ovviamente, colpisce le persone più povere, ma non solo delle nazioni povere, bensì dei settori emarginati e perfino una parte considerevole dei lavoratori dei paesi ricchi. Risultato immediato della congiunzione delle crisi è stata la moltiplicazione delle bancarotte delle banche di investimenti, la scomparsa della scena di compagnie di assicurazione ed imprese finanziarie. Ed ovviamente, come era da supporre, una brusca contrazione dei crediti. Quest’ultimo è il fattore detonante che può trasformare la catastrofe finanziaria in una debacle economica globale di portata incalcolabile. Semplicemente la sparizione della liquidità bancaria lascerebbe senza finanziamento l’economia reale che ha incominciato già a risentire degli effetti del terremoto: paralisi del settore della costruzione in vari paesi, caduta brusca delle esportazioni di automobili, ecc.. Gli impatti futuri potrebbero essere ancora maggiori. I governi degli Stati Uniti e l’Unione Europea sono usciti allo scoperto con piani giganteschi di riscatto. In complesso, si è approvata una cifra di circa 3 miliardi di dollari da iniettare nel sistema finanziario. I metodi differiscono, perché nel caso nordamericano si preferisce consegnare direttamente fondi alle imprese per la riacquisizione dei derivati deprezzati e, in quel modo, contenere la reazione a catena, mentre nel piano europeo si prevede l’acquisizione di pacchetti di azioni preferenziali delle imprese finanziarie in una specie di nazionalizzazione parziale. Benché negli Stati Uniti si sia effettuata già l’acquisizione da parte dello Stato di alcuni giganti finanziari, come Fennie Mac o AIG. Quanto detto ci porta immediatamente ad una domanda: non è questa una contraddizione evidente coi principi del neoliberismo, cioè, con la deregolamentazione dei mercati? Chiaramente i rimedi adottati non sono in linea con l’idea neoliberale del non intervento dello Stato nel funzionamento dell’economia, perché sono precisamente i governi, molti di essi guidati da chi fino a poco tempo fa decantava le lodi del libero mercato, che hanno dovuto intervenire direttamente. È curioso come dai vari sostenitori duri e puri dell’ordine mondiale imperante, si legga il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale o la Casa Bianca, sono state rilasciate dichiarazioni del tipo “il mercato non risana il mercato”3 o sulla necessità di ampliare il G-7 per includere altre nazioni, come Russia, Cina, Sudafrica, India, Arabia Saudita, per attivare una multilateralità per la soluzione dei problemi vigenti. In tutti i casi si tratta di misure prese contro la volontà degli attori, come hanno precisato vari operatori finanziari. Quello che risulta evidente è che la concezione di partenza sulla quale si è costruita tutta la complessa impalcatura finanziaria ed il suo funzionamento, è un’idea falsa. Nella teoria neoliberale, il mercato si autoregola e tende naturalmente all’equilibrio, in modo che risulti essere il mezzo per raggiungere la soddisfazione delle necessità umane e la più giusta distribuzione della ricchezza. Si noti che non si riferisce in modo alcuno ad una distribuzione equa. Per questa categoria di pensiero, la disuguaglianza non è qualcosa da eliminare, o almeno ridurre, bensì un fattore salutare che stimola la concorrenza e, pertanto, lo sviluppo. Le regole non fanno altro che limitare le possibilità di crescita, come qualunque meccanismo destinato a gestire la domanda, la cosa importante è senza dubbio il predominio dell’offerta e la ricerca del massimo dei margini di profitto. Da questi punti di vista, l’attuale crisi non può essere spiegata.

3. Se torniamo a Marx, tuttavia, possiamo capirlo con chiarezza. Il sistema capitalista si dispiega attraverso un ciclo di espansione-contrazione che trova nella crisi una delle sue fasi normali, dovuta alla contraddizione permanente tra il carattere sociale della produzione ed il carattere privato dell’appropriazione. Questo implica una logica di esclusione di settori sociali, nella ricerca della riduzione dei costi, della quale la disoccupazione è conseguenza inevitabile, in quanto fattore di squilibrio, perché limita le possibilità di espansione dei mercati e, quindi, della realizzazione delle merci, che spalanca le porte alle sovrapproduzioni relative, con tutte le conseguenze conosciute. La crisi si presenta allora come la soluzione temporanea della contraddizione, è una parte fondamentale della “selezione naturale” nel sistema e contribuisce alla centralizzazione dei capitali. La storia del capitalismo e dei diversi modelli che si sono succeduti è contraddistinta da una ricerca costante di un’alternativa alla tendenza alla diminuzione delle quote di profitto, già evidenziato ne Il Capitale. Il modello liberale, il keynesismo (tipico negli stati di benessere) ed il neoliberale non sono altro che distinte varianti create ed applicate per evitare l’inevitabile, sia liberando le forze interne dei mercati, sia regolandoli e mantenendo forme di redistribuzione dirette a sostenere una domanda solvibile espansiva. In ogni caso, nonostante qualsivoglia risultato abbiano potuto ottenere per periodi più o meno lunghi, l’esaurimento delle riserve creative di ognuno di essi porta necessariamente alla crisi. Il risultato è la ricerca di una nuova variante. La principale differenza con i momenti simili precedenti si evince nel fatto che l’attuale livello di globalizzazione del sistema, l’interconnessione tra i suoi componenti individuali per formare un unico sistema-mondo, incrementa le possibilità e pertanto la velocità di propagazione della crisi. Questo si riferisce direttamente con l’accorciamento del ciclo, in modo che l’onda lunga di Kondratiev già risulta eccessivamente estesa, e troppo lunghi appaiono i periodi di obsolescenza morale e fisica del capitale fisso descritti da Marx. Si è arrivato ad equiparare l’attuale crisi del sistema con quello che la caduta del Muro di Berlino rappresentò per il socialismo. Non credo che sia così. In realtà si aprono prospettive di sviluppi diversi, a seconda delle decisioni politiche adottate. La fine del predominio di ogni modello è stato segnato da grandi scosse. Il modello liberale andò in rovina con la lunga crisi iniziata con la Prima Guerra Mondiale, seguita dalla grande depressione degli anni ’30 e terminata con la seconda Guerra Mondiale. Da lì sorsero alternative, come lo Stato del Benessere ed il fascismo (fortunatamente fallito), in opposizione alla proposta rivoluzionaria socialista che fallì per le deformazioni durante la costruzione del modello eurosovietico. La crisi strutturale degli anni ’70 portò la disgregazione del modello di benessere ed il trionfo del neoliberismo. Non sarebbe strano che la crisi attuale segnasse la fine di questo ultimo e la ricerca di un’altra variante, magari neokeynesiana. In ogni caso, il modello vigente sembra stia entrando rapidamente in bancarotta. Ora la domanda è: chi pagherà i costi della transizione intrasistemica che probabilmente si produrranno, chi pagherà i costi delle misure di salvataggio adottate e gli effetti della crisi stessa? La risposta sembra essere chiara: i lavoratori, i proletari, coloro che non governano i meccanismi di riproduzione del sistema. I primi effetti sono ovvi. Le tante famiglie trascinate dalla febbre ipotecaria ed immobiliare, stanno perdendo le loro abitazioni, la paralisi del settore edilizio ha distrutto moltissimi posti di lavoro, nell’ordine di centinaia di migliaia. Per fare due esempi, negli Stati Uniti si parla tra 60 000 e 80 000 posti di lavoro persi mensilmente, ed in Spagna si stima che la disoccupazione raddoppierà nei prossimi mesi, per sorpassare abbondantemente il 10%. Se ciò si somma alla riduzione delle prestazioni sociali sviluppatasi negli ultimi decenni con l’obiettivo di diminuire le erogazioni statali, alleggerendo i bilanci, abbassando l’inflazione, è facile notare che non esiste nessuna rete di protezione che minimizzi i danni ai settori più poveri della società. E, per chiudere il cerchio, la conversione dei fondi pensione in fondi di investimento nei mercati finanziari farà sì che si comprometterà il futuro di milioni di lavoratori. D’altra parte, le colossali somme destinate dall’UE e dagli Stati Uniti per parare i colpi inferti al sistema finanziario non escono dal nulla, ma, evidentemente, dalle tasche dei contribuenti. Se ciò si coniuga con la riduzione delle imposte ai redditi più alti, è facile capire a chi si sottrarrà denaro, si renderà poi necessario diminuire alcune voci di bilancio (che non potranno evidentemente essere le spese militari) per elargire finanziamenti all’apparato militare-industriale, e, quindi, a tutta l’impresa privata. E magari ci racconteranno che molto probabilmente quelle somme non saranno nemmeno sufficienti! Le ripercussioni attuali sull’economia reale, con la sparizione di capitali e la conseguente contrazione del credito, oltre alla paralisi e alla riduzione dei mercati, potenzieranno la disoccupazione, nella logica della crisi che si dispiega attraverso la distruzione parziale delle forze produttive.

4. Orbene, devo, per concludere, ritornare su un’idea appena sfiorata prima. Questa crisi, sebbene apra alternative politiche, non rappresenta di per sé la fine del capitalismo, mentre la sua apparizione e la sua possibile fine sono il risultato di un processo culturale onnicomprensivo che raggiunge tutte le sfere dell’attività umana ed in primo luogo il modo stesso di osservare la realtà. Questa ultima è la vera gabbia di ferro della quale a suo tempo parlò Max Weber e che bisogna rompere se si pretende di cambiare il sistema.

Presidente del Instituto Cubano de Radio y Televisión

Per questo gli effetti delle fluttuazioni del dollaro si moltiplicano rapidamente in un mondo nel quale il 62% delle riserve di divisa si quotizzano in moneta statunitense.

Così sono definite le ipoteche ad alto rischio.

Frase pronunciata nientemeno che da Dominique Strauss-Khan, presidente del FMI.