Crisi economica e crisi dell’ideologia neoliberale

Vladimiro Giacché

1. Il sistema ha fatto crac “Questa è l’amara verità: l’economia mondiale si trova nella sua fase più difficile dai tempi della grande crisi post ’29”. Se anche un quotidiano poco incline alle esagerazioni come la Frankfurter Allgemeine Zeitung chiude così un editoriale in prima pagina, vuol dire che la situazione è davvero seria.1 E in effetti è proprio così. La crisi ormai investe tutto e tutti: le banche, le imprese industriali, gli Stati. I giornali economici sono diventati dei bollettini di guerra. Nel solo numero di martedì 11 novembre, il Financial Times riportava le ulteriori “enormi perdite” di Fannie Mae e AIG, il taglio di migliaia di posti di lavoro da parte di Nortel e DHL, la nazionalizzazione della banca di investimento Carnegie da parte del governo svedese, il drastico taglio della produzione di acciaio in Ucraina, la chiusura di numerose aziende in Cina. È l’entità stessa della crisi, e la sua drammatica accelerazione, a confutare i tentativi di minimizzarne la portata e di spiegarla facendo ricorso a fattori psicologici o morali. Quanto a minimizzazione, resta memorabile quel gestore inglese di patrimoni, generosamente ospitato sul Financial Times, che il 23 agosto del 2007, a poche settimane dall’inizio della crisi, titolò un suo articolo “La storia insegna che questa è soltanto una correzione in un mercato rialzista”, dimostrando così la verità del detto hegeliano per cui la storia insegna che la storia non ha mai insegnato niente a nessuno.2 Quanto alle spiegazioni psicologico-moralistiche, esse hanno avuto (e in parte hanno tuttora) largo corso: ancora il 12 novembre scorso si poteva leggere sul Financial Times che la crisi era stata causata dalla “fragilità umana” (sic!). Una settimana dopo, un articolo pubblicato sullo stesso giornale giustamente attaccava la parzialità delle spiegazioni della crisi basate unicamente su “regolatori lassisti, agenzie di rating disattente, e istituzioni finanziarie avide”.3 Lassismo, disattenzione, avidità: sono tutte motivazioni psicologiche, “umane troppo umane”. Chi può seriamente pensare che una crisi che ha già fatto perdere alle sole banche 1.000 miliardi di dollari abbia questa origine? Ovviamente, l’utilizzo di spiegazioni psicologiche della genesi della crisi è del tutto coerente con l’economia neoclassica, tuttora egemonica. Così come lo è l’impostazione secondo cui gli attuali sviluppi della crisi sarebbero dovuti ad una “perdita massiccia di fiducia da parte degli investitori e dei consumatori”, come ha ripetuto ancora di recente il commissario europeo Günther Verheugen. Ma sono sbagliate. Va notato che il governatore della Federal Reserve Bernanke e il ministro del Tesoro Usa Paulson sono stati le prime vittime di questa impostazione riduttiva, limitata ad errori e imprudenze individuali: di fatto il loro approccio di intervento “caso per caso”, durato sino al fallimento di Lehman Brothers, nasceva proprio dal loro ostinato aggrapparsi all’idea di una crisi nata da imprudenze individuali commesse da alcune banche e dai loro manager e dal rifiuto di riconoscere che i problemi erano invece strutturali.4 La verità era un’altra. Come ha detto l’avvocato d’impresa Guido Rossi, “è tutto il sistema che ha fallito, è il sistema che ha fatto crac”.5

2. Le vere radici della crisi

1) la disuguaglianza Con il fallimento di Lehman Brothers, che può ben essere definito l’“11 settembre della finanza Usa”, lo scenario cambia. Il panico si diffonde sui mercati internazionali. La parola “recessione” comincia a comparire sui titoli dei giornali, e si parla ormai apertamente di un impatto della crisi finanziaria sull’“economia reale”. È un’opinione molto popolare, e molto diffusa anche a sinistra. Tra l’altro, ha in apparenza il vantaggio di spaccare il campo avversario, distinguendo tra capitalisti cattivi (gli uomini della finanza) e capitalisti buoni (i capitalisti industriali), economia “deviante” (la finanza) ed economia “sana” (quella “reale”).6 Purtroppo, anche questa opinione è consolatoria. Ma soprattutto è falsa. È proprio la dinamica della crisi a dimostrarci che le cose non stanno così. La crisi ha origine proprio nell’economia “reale”. Il nesso tra economia “reale” e prodotti finanziari diviene chiaro se analizziamo i famigerati mutui subprime, che hanno fatto da detonatore alla crisi. Alla base, come ho già posto in evidenza in un articolo precedente su Proteo, c’è la crescita della disuguaglianza, che negli Usa (e non solo) proprio in questi ultimi anni ha toccato il massimo storico.7 Il problema è che il calo dei redditi dei lavoratori Usa, se era necessario per contrastare la caduta del saggio di profitto, avrebbe colpito inesorabilmente i consumi. A questo punto entrano in gioco i mutui subprime. Di fatto, si trattava di prodotti anestetici, di droghe finanziarie che - complice la bolla immobiliare e i bassi tassi di interesse - permettevano di mantenere inalterati i consumi, creando un finto “effetto ricchezza”. La crescita esplosiva dell’indebitamento delle famiglie americane (che ha raggiunto il 93% del PIL Usa) era insomma una necessità strutturale del sistema.8

2) Il debito, travestito da liquidità Alla fine, la bolla immobiliare è scoppiata, sono cominciate le insolvenze sui mutui subprime, che hanno innescato una serie di reazioni a catena che hanno investito in pieno il sistema finanziario mondiale. Le banche coinvolte sono state costrette a forti svalutazioni di bilancio, e l’intero mercato delle obbligazioni è stato travolto da vendite a pioggia. I requisiti patrimoniali delle banche si sono dimostrati inadeguati a fronteggiare i rischi assunti. Dopo ripetuti crolli dei titoli azionari, è risultato necessario il salvataggio pubblico di grandi banche, europee e statunitensi. Ma la crisi continua e si aggrava. Sin qui la cronaca. Ma c’è un ma: come è possibile che la crisi di un prodotto come i mutui subprime abbia scatenato un effetto domino di queste proporzioni? Il motivo è molto semplice. Perché l’onda del debito non era appannaggio soltanto delle famiglie americane. Al contrario: la leva finanziaria era la caratteristica di fondo del modo di operare del sistema nel suo complesso. L’utilizzo estremo di questa leva era stato reso possibile da tassi d’interesse bassi (negli Usa di fatto negativi, ossia al di sotto dell’inflazione) e da una legislazione estremamente permissiva (che permetteva tra l’altro di allocare fuori bilancio veicoli di investimento). Di fatto, per 1 dollaro realmente impiegato di mezzi propri, si arrivava sino a 30 dollari di debito. È il trionfo del capitale fittizio. L’enorme liquidità presente sui mercati era essa stessa fittizia: si tratta infatti di danaro preso a prestito da altri operatori. Questo è il motivo per cui tutta la costruzione è caduta come un castello di carte: molto semplicemente, per tappare il buco dei subprime se ne dovevano aprire altri, per pagare un debito bisognava scoprirne un altro. Questa è la storia di questi mesi. Parafrasando un vecchio motto del comandante Mao, l’imperialismo si è rivelato “una tigre di carta commerciale”. Liquidità, profitti, margini: era tutto fittizio. Quando si è cominciato a calcolare quale fosse la capitalizzazione reale delle banche, detratti cioè i debiti assunti e i crediti non più esigibili nei confronti delle controparti, ci si è accorti con orrore che essa era risibile o addirittura negativa.

3) La speculazione come “esportazione di capitali all’interno” Le cronache dei giornali finanziari internazionali ci hanno raccontato il triste caso del sig. Adolf Merckle, il miliardario tedesco (la quinta persona più ricca della Germania, secondo Forbes) proprietario di Ratiopharm, Phoenix e di una forte partecipazione in Heidelberg Cement, che ha perso un miliardo di euro scommettendo con la finanziaria di famiglia sul ribasso delle azioni Volkswagen, e ha chiesto aiuto ad un consorzio di 40 banche e allo Stato.9 Simili le vicende del finanziere Zalesky, forte azionista di alcune delle principali imprese quotate italiane (da Intesa-Sanpaolo a Generali), praticamente fallito a causa del deprezzamento dei titoli che aveva comprato a debito, al cui capezzale si sta affannando un consorzio di banche (tra cui la stessa Intesa). Si tratta di casi estremi di un fenomeno assai più generale: l’effettuazione di attività speculative per ottenere livelli di profitto altrimenti impossibili. Sono iniziative che possono avere successo (e in questo caso in genere non finiscono sui giornali), oppure no, come nei casi considerati. In ogni caso, nulla di nuovo sotto il sole: già per Marx “tutte le nazioni a produzione capitalistica vengono colte periodicamente da una vertigine nella quale vogliono far denaro senza la mediazione del processo di produzione”. Si tratta di un fenomeno descritto, poco prima della crisi del 1929, anche da Henryk Grossmann, che lo definiva come “esportazione dei capitali all’interno”.10 Questo dirottamento dei capitali dalla produzione di merci ad attività speculative è in ultima analisi conseguenza della crisi di valorizzazione del capitale nei settori originari di attività. Una gran parte delle stesse aziende manifatturiere negli ultimi anni ha fatto così i propri profitti. Esistono anche multinazionali, come la General Electric, che hanno messo in piedi un ramo di azienda separato, nel caso specifico la GE Finance, per questo tipo di attività. E negli anni precedenti la crisi da questo ramo di attività la General Electric ha tratto più del 50% dei profitti. Anche per questo motivo non ha senso parlare di “crisi finanziaria” come di un qualcosa di a sé stante, distinto dall’economia “reale” e contrapposto ad essa.

3. Conseguenze ideologiche della crisi Via via che la crisi si allarga e approfondisce, aumenta la paura nell’establishment mondiale. Anche perché sul banco degli accusati è, sempre più chiaramente, il sistema. Sotto accusa è il capitalismo contemporaneo. Con la sua ideologia, alla quale la crisi in atto sta infliggendo dei colpi formidabili, polverizzando e rovesciando gli stessi successi ideologici di ieri. Qualche esempio.

1) Dallo Stato come problema allo Stato come soluzione Ad oltre un anno dall’inizio della crisi, assistiamo al grande revival dello Stato, che da “problema” (come voleva la vulgata reaganiana) è divenuto la soluzione ai problemi. Basti pensare a Ezio Mauro, che parla ormai senza mezzi termini della fine dell’“unica ideologia superstite - un mercato universale senza Stato e senza governo”. Le schiere dei “convertiti allo Stato interventista” - come li ha definiti mesi fa il sociologo tedesco Ulrich Beck - si infoltiscono ogni giorno di più.11 Tra i convertiti, a quanto pare, vanno annoverati gli stessi mercati finanziari. Il loro entusiasmo è apparso in tutta evidenza quando è stato lanciato il piano Paulson di riacquisto delle obbligazioni “tossiche” dalle banche, e il Financial Times ha potuto titolare in prima: “I mercati mondiali ruggiscono d’approvazione”. Pochi giorni prima lo stesso Paulson aveva dato involontariamente il segnale della fine del mito dell’autosufficienza del mercato, allorché aveva suggellato il rifiuto di impedire il fallimento di Lehman Brothers con una solenne affermazione: “il mercato deve occuparsi del mercato”.12 E tutte le borse all’unisono avevano risposto cosa ne pensavano: crollando.

2) Il mercato come mostro: la deregulation sotto accusa È entrato di fatto in crisi irreversibile il modello di deregulation dei mercati che era stato avviato da Reagan a partire dagli anni Ottanta. Basti pensare all’esternazione del presidente tedesco, Horst Köhler (già direttore generale del Fondo Monetario Internazionale): “i mercati finanziari si sono sviluppati a tal punto da diventare dei mostri che ora devono essere domati”.13 Emerge insomma, e viene anche detto pubblicamente, quello che molti già sapevano: che l’“autoregolamentazione” dei mercati ha sempre significato “assenza di regolamentazione”. Persino sul Financial Times si può leggere che l’invito a “lasciar fare al mercato” ha ormai perso ogni credibilità.14 E anche Tommaso Padoa Schioppa ora denuncia “la crisi di una visione ideologica dell’economia, quella secondo cui i mercati hanno sempre e comunque ragione e non hanno bisogno di interventi”; e si spinge sino a sostenere che “la crisi nasce dall’incapacità del mercato di compiere, giorno per giorno, ‘giuste’ valutazioni”.15 Insomma, qui è addirittura la razionalità del mercato che è andata a farsi benedire. Non è un caso, insomma, che la metafora antropomorfica del mercato come soggetto razionale, uno dei pezzi forti dell’ideologia neoliberale degli scorsi anni, ceda il passo ad inquietanti metafore teratologiche.16 3) La crisi di legittimità del mercato In parallelo al crescere della necessità di un intervento dello Stato nell’economia, in proporzioni che hanno riscontri solo nell’epoca della Grande Depressione, si profila una vera e propria crisi di legittimità del mercato. Giunge a vacillare “la legittimità politica della stessa economia di mercato”. La gravità di questa crisi di legittimità è tale da aver indotto il Financial Times a dedicare un editoriale “in lode dei liberi mercati”. Anche la Frankfurter Allgemeine Zeitung ha dedicato un editoriale molto preoccupato alla “crisi di fiducia nell’economia di mercato”.17 Non a caso si comincia a sentire sempre più di frequente il paragone tra il crollo del Muro di Berlino e il crollo del Muro di Wall Street. Lo stesso Anthony Giddens, tra i padrini teorici di Tony Blair e del “new labour”, afferma che “siamo all’inizio di una nuova era, un po’ come nel 1989, alla caduta del muro di Berlino”. Gli fa eco, più amaramente, un liberista di stretta osservanza quale Salvatore Carrubba: “si festeggia la fine del privato con lo stesso entusiasmo col quale fu salutata la caduta del Muro di Berlino”.18 Carrubba esagera, ma è vero che il Financial Times è giunto a pubblicare una pagina, pagata dalla John Templeton Foundation, sull’avvincente tema: “Il libero mercato corrode la tempra morale?”. Ovviamente la risposta degli “esperti” interpellati è negativa, ma la pagina è decisamente un segno dei tempi. E a questo punto non ci stupiamo neppure davanti ad una lettera pubblicata sullo stesso quotidiano, dal titolo decisamente ardito: “Il capitalismo non può essere considerato un dogma in ogni circostanza”.19

4) Dietro il paravento del “mercato”: il capitalismo In realtà, il punto è proprio questo: “mercato” sta per “capitalismo”. Quando gli ideologi neoliberali parlano di “mercato”, non parlano in prima istanza né di libero scambio delle merci, né di libera concorrenza. Parlano di titolarità dei diritti di proprietà: di proprietà privata dei mezzi di produzione. Parlano di capitalismo. Questa è la traduzione di espressioni quali: “società di mercato”, “ordine economico del mercato”, “sistema economico di mercato”, “sistema di mercato” e, soprattutto, “economia di mercato”. Non siamo i soli ad affermarlo: anche il presidente di una delle principali banche italiane ha parlato anni fa del “sistema economico dominante - prima chiamato capitalismo, oggi di mercato”.20 Qual è il motivo di questa ridefinizione del capitalismo attraverso il mercato? La cosa è spiegata molto bene in uno degli ultimi saggi di John Kenneth Galbraith. “A suo tempo - ricorda Galbraith - ‘capitalismo’ non era solo la definizione accettata del sistema economico vigente; nella parola era implicito il riferimento a coloro che esercitavano il potere economico e di conseguenza politico. Si parlava di capitalismo mercantile, capitalismo industriale, capitalismo finanziario”. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti “prese piede il termine ‘market system’, sistema di mercato. Sarebbe stato difficile escogitare un’espressione più anodina. Proprio per questo ebbe successo. Il riferimento al mercato come alternativa benevola al capitalismo è un’operazione cosmetica, fiacca e insipida, destinata a coprire una scomoda realtà”. Per essa “nessuno domina il mercato, né i singoli né le imprese. Nessuna forma di supremazia economica è mai invocata. Marx ed Engels sembrano non essere mai esistiti. C’è solo l’impersonalità del mercato”.21

5) Tentativi di difesa In questi mesi non sono ovviamente mancate le difese ideologiche del mercato, basate sull’assunto che i problemi siano nati dalle imperfezioni del mercato. Talvolta si giunge a negare che i mercati che hanno creato problemi meritino il nome di “mercati”. Così, un importante finanziere europeo ha scritto in una lettera: “La mia opinione è che chiamiamo ‘mercati finanziari’ un insieme di alvei di transazioni che, per almeno tre quarti, è un’accozzaglia di domini artificialmente segmentati e totalmente opachi di poche grandi banche oligopoliste che devono la loro posizione alle distorsioni del ‘too big to fail’”. Insomma, è fin “vergognoso” chiamare questi alvei “mercati”.22 A maggior ragione, in crisi non sarebbe il capitalismo, ma al massimo un modello di capitalismo. Secondo questa impostazione, da un lato ci sono i “meccanismi di mercato”, dall’altro le loro “degenerazioni”. Da un lato l’ideale del “mercato perfettamente concorrenziale”, dall’altro ciò che ne impedisce dall’esterno il pieno dispiegarsi. È uno schema che forse qualche lettore riconoscerà: era molto usato nell’Urss brezneviana. Da questo punto di vista, gli odierni apologeti del “capitalismo reale” non sembrano molto innovativi. Un’ulteriore linea di difesa attua un curioso rovesciamento nell’uso del mercato in chiave eufemistica. Quando, ad esempio, Joseph Stiglitz afferma che “la caduta di Wall Street è per il fondamentalismo di mercato quello che la caduta del Muro di Berlino è stata per il comunismo”, è evidente non soltanto che abbiamo a che fare con un parallelo asimmetrico (perché non parlare di “capitalismo”?), ma anche che ora è il mercato ad essere adoperato in un contesto dispregiativo, pur di salvare il capitalismo.23 In questo caso il capitalismo viene messo al riparo dai suoi critici potenziali non menzionandolo. C’è però chi ha fatto di meglio: è il premier francese Fillon, che ha sostenuto che quello che è successo sui mercati finanziari ad opera dei “protagonisti della finanza” statunitensi ha comportato una “diversione [dévoiement] del capitalismo”.24 In questo caso, oltre alla solita contrapposizione “capitalismo ideale”-“capitalismo reale”, va registrato il fatto che il mercato viene abbandonato: il prestanome è lasciato al suo destino. Come la spia di un romanzo di Le Carré: troppo esposta e quindi “bruciata”.

4. Conclusione A questo punto è bene chiarire quale sia il vero rapporto tra mercato e capitalismo. È un punto molto importante per sottrarre ulteriori spazi all’ideologia neoliberale, per ridurre la sua egemonia su parole e concetti strategici. La tensione tra i due concetti posta in luce dalla crisi ci aiuta a farlo. In primo luogo, bisogna svuotare il concetto di mercato del contenuto ideologico che gli è stato falsamente attribuito. Il mercato, tanto per cominciare, non è un soggetto (né razionale, né mostruoso): è un luogo. Un luogo in cui si scambia qualcosa (aringhe, azioni, informazioni ...). I mercati sono sempre esistiti. Ogni mercato, per funzionare, ha per definizione bisogno di regole. Già da questo è facile capire che l’opposizione di Stato e mercato è priva di senso: infatti è lo Stato che stabilisce le regole di funzionamento del mercato. Non da solo, però: decisive sono infatti le regole di funzionamento imposte ai mercati dal modo di produzione in cui operano e dai rapporti vigenti tra le classi. La stessa fissazione di regole più o meno rigide da parte dello Stato ha a che fare con i rapporti di forza tra le classi: ad esempio, un mercato del lavoro deregolamentato come l’attuale è il portato dei rapporti di forza sfavorevoli ai lavoratori degli ultimi decenni. Da quanto sopra discende che un mercato “libero” in senso stretto non esiste (ogni mercato infatti ha le sue regole).25 Ma soprattutto discende che la stessa deregulation dei servizi finanziari avvenuta dagli anni Novanta in poi negli Stati Uniti e (sia pure in misura diversa) in Europa non soltanto rispondeva a precisi interessi di classe, ma era funzionale alla fase attuale di sviluppo del capitale, e coerente con la sua più generale esigenza di essere il più libero e mobile possibile. Questo è, piaccia o non piaccia, il capitalismo reale, il capitalismo realmente esistente. E ha fatto fallimento.

Studioso di economia e politica economica Frankfurter Allgemeine Zeitung, 25 ottobre 2008. K. Fisher, “History teaches this is just a bull market correction”, Financial Times, 23 agosto 2003. Il testo hegeliano recita: “ciò che esperienza e storia insegnano è proprio che i popoli e i governi non hanno mai appreso nulla dalla storia, né hanno mai agito secondo dottrine che avessero potuto ricavare da essa” (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I; tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1941, rist. 1981, p. 201). R. Thaler, C. Sunstein, “Human frailty caused this crisis”, Financial Times, 12 novembre 2008. C. Reinhart, K. Rogoff, “Regulation should be international”, Financial Times, 19 novembre 2008. Vedi J. Sapir, “Une décade prodigieuse. La crise financier entre temps court et temps long”, Revue de la régulation, n. 3, 2008, p. 3; art. messo online il 29 settembre 2008: http://regulation.revues.org/document4032.html . Intervista di R. Rho a G. Rossi, la Repubblica, 9 novembre 2008. In merito vedi A. Burgio, V. Giacché, “Scusi, ma quello non è il capitalismo?”, il manifesto, 12 novembre 2008. V. Giacché, “Beati gli ultimi, perché saranno subprime. Disuguaglianza e crisi finanziaria”, Proteo, n. 2/2008, pp. 7-10. In merito vedi J. Sapir, cit., pp. 8-11. D. Schäfer, “German billionaire Merckle hit by VW bet” e “German Tycoon makes plea for state bail-out”, Financial Times del 17 e 18 novembre 2008. K. Marx, Il Capitale. Libro secondo, cap. 1, § IV.1; tr. it. di R. Panzieri, Roma, Editori Riuniti, 1968, 19809, pp. 58-59. H. Grossmann, Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems (Zugleich eine Krisentheorie), Leipzig, Hirschfeld, 1929. E. Mauro, “Il nuovo disordine mondiale”, la Repubblica, 2 ottobre 2008. U. Beck, “I convertiti allo Stato interventista”, la Repubblica, 29 marzo 2008. Vedi “Global markets roar in approval”, Financial Times, 20 settembre 2008 e J. Sapir, cit., p. 2. “Markt des Grauens”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 15 maggio 2008. M. Niada, intervista all’economista W. Buiter, Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2008; M. Skapinker, “Every fool knows it’s a job for government”, Financial Times, 18 novembre 2008. Interviste di A. Orioli e M. Giannini a T. Padoa Schioppa, il Sole 24 Ore, 9 novembre 2008, e la Repubblica, 6 ottobre 2008. Sull’ideologia del mercato, e la metaforica correlata, vedi V. Giacché, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, Roma, DeriveApprodi, 2008, pp. 82-93. “In praise of free markets”, Financial Times, 26 settembre 2008. H. Steltzner, “Nach dem Untergang”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 19 settembre 2008. E. Silva, intervista ad A. Giddens, Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2008. S. Carrubba, “I rischi e i costi del ritorno statalista”, Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2008. “Does the free market corrode the moral character?”, Financial Times, 28 ottobre 2008; Robert McDowell, “Capitalism can’t be considered sacrosanct in all circumstances”, Financial Times, 12 novembre 2008. G. Bazoli, “Mercato e democrazia più vicini”, il Sole 24 ore, 13 ottobre 2004. Corsivi miei. J.K. Galbraith, “Un nuovo nome per il sistema”, cit. in V. Giacché, La fabbrica del falso, cit., pp. 88-89. Cit. in M. Vitale, “Tutti i fondamentalismi da battere”, il Sole 24 Ore, 2 novembre 2008. J. Stiglitz, “The fall of Wall Street is to market fondamentalism what the fall of the Berlin Wall was to communism”, in http://www.huffingtonpost.com/nathan-gardels/stiglitz-the-fall-of-wall_b_126911.html Discorso di F. Fillon all’università estiva del PPE-DE, Fiuggi, 18 settembre 2008. R. Lee, “‘Free’ market? There can be no such thing”, Financial Times, 22 ottobre 2008.