Che fine ha fatto l’università pubblica?

DAVIDE BOERIO

Notizie dal movimento

1. La società e l’università che cambiano Quando la struttura cambia di forma anche la sovrastruttura modifica i suoi connotati, gli animi in balia delle ingiustizie del quotidiano diventano fragili, esposti alle intemperie di una crisi economica che non lascia scampi, né rifugi sicuri. È bastato poco affinché tutto ciò che viene dato per scontato, venisse centrifugato da una reale prospettiva di declino: l’Occidente intero arretra sotto i colpi della stessa mannaia che, per buona parte del XX secolo, ha brandito contro i paesi pre e post coloniali. La globalizzazione delle “lacrime e sangue” si morde la coda, precipitando la liberale idea di progresso in un baratro senza fondo. Disoccupazione e licenziamenti affollano la nutrita platea del permanente esercito di riserva; mentre sulla scena, i superstiti abitatori delle macerie del sistema agonizzante, consumano rituali di cannibalismo economico; l’effimera ricerca della salvezza individuale (religiosa-sentimentale) conduce alla disintegrazione di un qualsiasi identità resistente, hic et nunc, in grado di opporsi alla distruzione dell’ umano. Il tempo degli idoli non ha gli strumenti (ideologici) per affrontare i rivolgimenti di un’epoca complessa, arrivata al suo acme, ma è dotato solo di una Idolatria auto-celebrativa del potere che perpetua se stessa attraverso la gestione ordinaria dell’esistente. Il mantenimento dello status quo è ottenuto grazie all’utilizzo di strumenti sociali molto apprezzati dall’estabilishment come la paura, il conformismo, la guerra al terrore. A questo punto un bivio s’interpone sulla strada: trasformazione o barbarie?

2. Geografie di movimento Dopo le manifestazioni dell’anno appena passato, con le occupazioni delle università italiane e l’assemblea romana della Sapienza, molte onde sono passate sotto i ponti. Le vacanze d’inverno non hanno smobilitato, come molti avrebbero sperato, un sentimento da lungo tempo inespresso, covato sotto la cenere del silenzio complice dei media. La crisi economica ha svelato il vero volto di brutalità e sfruttamento della classe dominante. L’assemblea di Roma ha rappresentato lo spartiacque tra due diverse weltanschauung presenti all’interno del movimento studentesco. Da un lato gli organizzatori romani, facenti capo in special modo a Uniriot1, «il network delle facoltà ribelli» (si definisce come la «rivolta del sapere vivo tra le macerie dell’università riformata», il «conflitto dei precari nell’epoca del capitalismo cognitivo»), hanno dettato l’agenda nazionale della protesta e cercato di veicolare parole d’ordine e prospettive, figlie di una riflessione che rappresenta l’approdo ultimo, nel passaggio teorico sviluppato da Toni Negri e altri alla fine degli anni Settanta «dall’operaio massa all’operaio sociale», in cui l’accento era posto sulla trasformazione della forza produttiva «che diveniva sempre più immateriale, quando non fosse ormai puramente intellettuale»2. L’ipotesi di fondo è quella che la fine del fordismo-taylorismo abbia inaugurato un nuovo modo di produzione in cui «vengono messe al lavoro, prima di tutto, quelle generiche capacità lavorative (relazionali, comunicative, organizzative) che, con concetto foucaultiano, potremmo definire “bio-politiche”»3. Da qui anche la fine delle distinzioni fra luoghi produttivi e luoghi della riproduzione sociale e fra università e metropoli: «Investite dal lavoro materiale e cognitivo, attraversate da correnti tecnologiche e finanziarie, le città si sono trasformate in luoghi di produzione: flussi di conoscenza e di sapere vi si accumulano e costituiscono un bene comune»4. Secondo queste analisi lo studente non è più da concepirsi come «forza lavoro in formazione» (come nella tradizione dei movimenti studenteschi dagli anni Sessanta in poi) bensì «a tutti gli effetti lavoratore dentro i nodi produttivi della metropoli». Il progetto della riforma universitaria, o meglio dell’“autoriforma”, non può che essere concepito quindi come costruzione «dell’università metropoli a partire dalle istituzioni del comune»5. La stessa insistenza su concetti bandiera come quello dell’autoformazione - ovvero sulla necessità di introdurre «modalità autogestite di didattica» - è erede di una cultura «tardo-sessantottina» e «francofortese» ispirata a princìpi di contestazione della trasmissione verticale dei saperi e di affermazione della non neutralità della scienza. Eppur se l’organizzazione è politica; è logico leggere nella strutturazione dei workshop e nella produzione finale dei documenti, una volontà di egemonia che però non ha tenuto conto delle reali forze in campo. L’imbarazzo di legarsi ad analisi più radicali, il che non significa perdersi in un “Vogliamo Tutto” fine a se stesso, trapela da una certa predisposizione (in)conscia di accreditarsi le simpatie di un’opposizione colorata e riformista, in cui il momento di transizione verso un altro mondo possibile vale molto più di una reale trasformazione, assumendo in ciò le forme di un’attesa messianica svilente per la libertà. Se l’università vive dentro la società, e se la nostra società è il prodotto di logiche economiche perverse e di dominio, quale è il compito degli sfruttati? Riforma o rivoluzione? L’altra area è molto più eterogenea e variegata al proprio interno, ma può essere genericamente rintracciata là dove viene rivendicata la centralità di un’analisi legata al paradigma di “classe” e alle parole d’ordine tradizionali dei movimenti studenteschi di sinistra, come il “diritto allo studio”, la salvaguardia della natura pubblica e statale dell’istruzione, la connessione con le lotte del mondo del lavoro.

3. La crisi vista dagli studenti Con queste diverse concezioni in campo, il 13 e il 14 dicembre 2008 a Tor Vergata si è svolta un assemblea nazionale di movimento, nata dall’esigenza di tutte le realtà auto-organizzate di sottolineare una diversa impostazione nel metodo e nell’analisi rispetto la linea politica uscita dalla Sapienza. «Il perno della discussione - si legge nel documento finale - in tutte le assemblee è stata la lettura della crisi economico-finanziaria. Siamo convinti che si tratti di una crisi di accumulazione capitalistica che viviamo almeno da trent’anni, e di cui la recente deflagrazione finanziaria è soltanto l’ultimo, violento, momento di svolta. I meccanismi di speculazione e indebitamento non sono il prodotto di alcune mele marce, ma una delle strade battute a partire dagli anni ’70 per sopperire alle difficoltà di valorizzazione dei capitali. Mettere in discussione il capitalismo significa quindi prima di tutto chiarire che non può esistere un lato buono di un sistema fondato su sfruttamento ed oppressione: finanza ed economia reale sono due aspetti dello stesso modo di produzione. Condannare il capitalismo rapace degli speculatori e delle banche, lasciando intendere che ve ne sia uno buono da difendere, o uno sostenibile, significa mistificare la realtà, e cedere le proprie armi critiche al nemico. Per tentare di uscire da questa crisi di accumulazione, il capitale ha messo in campo diverse strategie: oltre alla finaziarizzazione e al controllo dei fondi e delle politiche monetarie attraverso organizzazioni transnazionali, è ricorso anche alla guerra globale e allo sfruttamento massiccio dei paesi del Sud del mondo (sia delocalizzando la produzione, sia depredando le ingenti risorse naturali di quei territori). I governi e gli imprenditori, con la collaborazione di finte opposizioni politiche e il ruolo attivo dei sindacati concertativi, hanno poi attaccato direttamente le condizioni di vita delle classi subalterne. Hanno tentato di ridisegnare tutta la società, modificando alcuni aspetti fondamentali della sua organizzazione: il ruolo dello Stato, il mercato del lavoro, il sistema pensionistico, la sanità, i trasporti, incentivando lo scempio ambientale e la privatizzazione di risorse quali l’acqua e l’aria». L’anno si chiude con la Grecia in fiamme, ma quello nuovo si apre con l’infame attacco israeliano ai territori occupati palestinesi, la strage dei bambini di Gaza e la pulizia etnica dell’esercito sionista. Il cambiamento della fase è testimoniato dai cassintegrati di Pomigliano d’Arco duramente manganellati dalle forze dell’ordine e da migliaia di licenziamenti e chiusure di fabbriche messe in atto dalle direzioni aziendali. È il caso di Riccardo, coordinatore provinciale dello Slai-Cobas, operaio della Fiat di Pomigliano deportato nel reparto confino di Nola, insieme ad altri 137 lavoratori, grazie all’accordo sindacale dei confederali, dice: «Perché purtroppo militiamo in un sindacato scomodo, perché denunciamo gli accordi capestro che fanno Cgil Cisl e Uil contro i lavoratori stessi. A partire dalla lontana scala mobile o dall’ultimo contratto bidone che hanno firmato, 50 euro al mese scaglionati in tre tranche e spalmati in due anni, mentre abbiamo dovuto dare una proroga di altri sei mesi per il contratto successivo che ci scadeva, i contratti di apprendistato CFL da 24 mesi sono saltati a 30, rendendo i lavoratori più ricattabili, i sabato lavorativi obbligatori da 4 sono passati a 8, quindi era preferibile rimanere con il contratto vecchio. Fare il sindacato in fabbrica oggi è impossibile, perché dobbiamo combattere non solo contro il padrone ma anche con le burocrazie sindacali, con 700 euro al mese di cassa-integrazione una famiglia non può vivere. Pomigliano nel triennio 2002-2005 ha ricevuto dalla UE, Regione e Governo centrale 2500 mln di euro per Ricerca Sviluppo e Innovazione. Che fine hanno fatto questi soldi non si sa. So soltanto che durante l’inverno nel mio reparto, abbiamo lavorato con l’acqua che scorreva sui macchinari elettrici. Sicurezza sul lavoro è zero. Ci sono ancora reparti costruiti nel 1968 che non hanno mai visto una manutenzione». La globalità della crisi è la globalità del conflitto.

4. Onda su onda: il movimento che non va in vacanza A Napoli, la contestazione alle elezioni studentesche porta all’occupazione della facoltà di Scienze Naturali e ad una riconsiderazione critica delle forme di rappresentabilità della Governance universitaria. «Non delegare, Lotta» e «Siamo tutti irrapresentabili» sono gli slogan di cui si serve il movimento, contro il tentativo delle gerarchie baronali di istituzionalizzare e canalizzare la protesta. È in questo solco che si insinuerà il tentativo di organizzazioni di destra dichiaratamente neo-fasciste, come Blocco Studentesco, di farsi largo nel vuoto politico della rappresentanza pseudo-democratica (infatti non esiste alcun quorum e si può essere eletti anche con un solo voto). Il vero carattere di organicità al sistema di tali organizzazioni è così palesemente mostrato. L’altro versante è senza dubbio l’antifascismo militante praticato dal movimento. Un elemento coagulante in grado di contrastare i continui tentativi revisionisti di una certa storiografia che, dalle Foibe a Salò, vorrebbe ripulire un passato, a detta dei vari La Russa e Gasparri di turno, tutto sommato positivo e figlio dei tempi, fatta eccezione per le leggi razziali. Un tentativo continuo di riabilitazione dell’antenato mitico strumentale alla destra di governo, che nella Repubblica democratica ha trovato il modo migliore di continuare le sue politiche sostituendo alla violenza il consenso, salvo poi servirsi anche della violenza in particolari momenti. Un paese che non fa i conti con il proprio passato è un paese senza futuro. Così, nella Repubblica della massoneria, dei poteri forti, della borghesia traditrice, tutto sommato i fascisti con il loro richiamo all’azione sono a tutt’oggi un validissimo strumento di oppressione del dissenso. Lo sanno bene Cossiga e quegli apparati dello stato che negli anni ’70 si sono serviti di questa bassa manovalanza nel tentativo di “destabilizzare per stabilizzare”. Ma la risposta degli antifascisti non si è fatta attendere. Dopo il tentativo di impedire un’assemblea all’interno della facoltà di giurisprudenza, armati di tutto punto, i fascisti sono stati respinti da un assemblea di 300 persone con esponenti dell’Anpi. Non contenti, il 26 marzo si sono ripresentati, provenienti da tutta la Campania, insieme alla vecchia guardia, in un estremo conato vitale reso possibile solo dal cordone della polizia. Un poliziotto della Digos, durante il presidio del 24 marzo, dice ad un collega riferendosi agli antifascisti: «Li vedi a questi, se vengono i fascisti, li vedrai scappare tutti”. Mai pronostico fu tanto errato: il giorno dopo a scappare e sparare in aria (o contro un muro) sono stati fascisti e polizia. «L’Italia non 謬¬ la Francia - spiega Antonio, studente dell’assemblea permanente di Lettere e Filosofia della Federico II - perché in Italia abbiamo rifiutato di strutturare un coordinamento efficace come quello francese, scontiamo dei problemi maggiori, i sindacati confederali stanno pagando la loro carenza di conflittualità degli ultimi anni. Ora che la fase spontaneista è finita, dobbiamo pensare a un organizzazione nazionale, non c¬’è un organizzazione orizzontale. Il sistema è totalmente nella possibilità di assorbire pacificamente al suo interno prospettive di lotta come l’auto-riforma, è un dispositivo che può essere facilmente inglobato nella gestione del potere, in questa fase dovremmo centrare la battaglia su una conquista reale di democrazia all’interno dell’università, capovolgendo completamente i rapporti di forza degli organismi istituzionali». La metamorfosi è avvenuta, da surfisti a ribelli!

1 Uniriot costituitosi con le mobilitazioni dell’autunno 2005, in cui sono confluite esperienze come quella del Global Project/ex-disobbedienti (legati ai centri sociali del Nord-Est ma con forti ramificazioni anche in altre zone, come ad esempio a Roma con l’Atelier occupato Esc e la Rete per l’autoformazione) e sulle cui parole d’ordine si sono trovate a convergere anche realtà legate ai percorsi “storici” dell’autonomia (centri sociali come l’Askatasuna di Torino oppure l’area antagonista toscana).

2 T. Negri, prefazione alla nuova edizione di Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, Ombre Corte, Verona 2007, p. 10.

3 M. Lazzarato, citato in G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero, Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2002, p. 116.

4 T. Negri, Metropoli e moltitudine, in Dalla fabbrica alla metropoli. Saggi politici, Datanews, Roma 2008, p. 9.

5 Università globale. Il nuovo mercato del sapere, Manifestolibri, Roma 2008, p. 16.