Il capitalismo da Secondigliano a Maria De Filippi

ANNA SMERAGLIUOLO PERROTTA

Da qualche mese è uscito in libreria Porno ogni giorno, l’ultimo libro dello scrittore napoletano Massimiliano Virgilio. Un lavoro interessante che si presenta sotto forma quasi di una guida di viaggio, dalle periferie al cuore della città. Ma le tappe non sono solo le piazze, le chiese, i quartieri pittoreschi o eleganti dell’antica Partenope. Napoli, allo sguardo disincantato dello scrittore, si rivela capitale pornografica dell’Italia, laddove la pornografia si riferisce al modo con cui le nuove masse, colpite dagli effetti della crisi e imbambolate dal piccolo schermo, usano il corpo come ultimo, residuale strumento di transizione economica. «Non è forse Napoli diventata un chiodo fisso per molti, e un raro esempio di grottesco per altri? E questa pornografia napoletana cos’altro è se non un utilizzo del corpo come strumento attraverso cui riscuotere notorietà o denaro?», scrive Virgilio. Napoli risulta il perfetto laboratorio del capitalismo in tempo di crisi, che alle merci e ai servizi ha sostituito i corpi: corpi che vanno al centro commerciale per passare la serata caraibica, che vanno in piazza per un concerto, che passeggiano con gli stessi abiti che indossano le veline, che sniffano fiumi di cocaina. Qui il capitalismo è già fallito, tranne quello di Maria De Filippi. Un fenomeno non solo locale, ma che rende alla Campania un primato. Il perché ce lo spiega l’autore, intervistato in queste pagine.

Il tuo libro propone un viaggio nei corpi di Napoli che prende le mosse dall’Euromercato di Casoria. Come nasce questa idea? Ho sempre avuto l’idea di fare un libro così. In realtà, dopo aver letto Napoli sul mare luccica, di Antonella Cilento, avevo voglia di scrivere per questa collana (collana “Contromano” edita da Laterza, ndr); mi piaceva l’idea di ragionare sulle città, da un punto di vista narrativo ma anche dando spazio alla riflessione sociologica ed economica. Fortunatamente ho pubblicato un precedente romanzo, quindi, ho avuto la possibilità di incontrare le persone che me lo hanno chiesto. L’anno scorso, a Galassia Gutenberg, in un incontro organizzato da Goffredo Fofi sulla generazione degli scrittori trentenni, uno dei relatori, Lorenzo Pavolini, che lavora per Radio3 Rai e allora lavorava per Laterza, mi chiese se potevo inviargli qualche idea. In realtà da un po’ di tempo volevo scrivere un libro sui “non luoghi”, perché mi sembrava che Napoli fosse un filtro molto interessante in proposito. Sociologi e filosofi hanno raccontato molto bene i “non luoghi” per quanto riguarda le capitali europee dell’occidente più avanzato. Mi sembrava che Napoli avesse una doppia caratteristica: di essere sia dentro questo occidente avanzato e, quindi, piena di non luoghi, (centri commerciali e altro), sia, nello stesso tempo, ne fosse un po’ fuori, per l’atavica arretratezza del contesto che si porta dietro anche questa contraddizione. Il centro commerciale a Napoli è esattamente come lo trovereste a Filadelfia o a Sidney; poi però lo stesso centro commerciale diventa il luogo in cui si organizzano le serate che descrivo, appunto, nel libro.

All’inizio del libro hai ricordato il concerto in piazza Plebiscito in onore di Enrico Caruso, un anno dopo il G7, confessando che in quell’occasione hai compreso di vivere in una città quotidianamente pornografica. Per questo hai deciso di non dedicare completamente ai “non luoghi” il tuo libro? Dai “non luoghi” l’idea si è spostata e aveva contemplato il tema della pornografia che nasceva da quell’episodio che racconto all’inizio del libro, una sciocchezza che però ti apre una visione diversa del posto in cui vivi. Avevo sempre in testa lo stilema pasoliniano secondo il quale Napoli sfuggiva alla modernità: Napoli come l’unica città europea dell’Occidente sviluppato, che è riuscita a sfuggire alla modernità. Ma facendo questo, Napoli in realtà si è accartocciata su se stessa, cioè ha portato avanti l’unica dimensione possibile per il “progresso” della città, vale a dire la sua arretratezza. Questo la rendeva affascinante agli occhi di Pasolini, perché era ad un certo punto un baluardo contro quella modernità che poi è diventata globalizzazione. Quando mi sono ritrovato al concerto di cui ho scritto, era l’epoca del cosiddetto “Rinascimento napoletano”, con Antonio Bassolino che aveva aperto le piazze; in realtà ebbi proprio la sensazione di come strideva questa idea di rinascimento, di come la modernità dei concerti, delle piazze aperte si innestasse sull’atavica arretratezza un po’ sanfedista, un po’ giacobina di Napoli. Per questo nasce l’idea della pornografia, intesa chiaramente come una prostituzione di massa. Addirittura mi era venuta voglia di fare una cosa sulla prostituzione e pensavo di lasciare un capitolo su questo tema nel libro, ma portando avanti l’idea mi sono accorto che se volevo andare a piedi uniti sulla pornografia dovevo stare lontano dal corpo vero e proprio, dal sesso vero e proprio.

Definisci Napoli un laboratorio perfetto del capitalismo contemporaneo. Per quale ragione? Partiamo da Pasolini. L’idea della città che resiste alla modernità si è rivelata falsa. Capovolgendo il discorso, il baluardo contro la modernità è, sotto sotto, un prototipo della modernità, quindi esattamente l’opposto. Il capitalismo più recente in questa regione crea grandi centri commerciali, e in questi impianta una serie di servizi; oppure è un capitalismo che trova una dimensione molto particolare nel campo delle televisioni e della produzioni di idee. Innanzitutto, però, è un capitalismo che ha fallito. Se si va durante la settimana nei centri commerciali, sembra che ci sia poca gente; sembra addirittura che a Marcianise (in provincia di Caserta, luogo dall’altissima concentrazione di megamercati, multisala, etc., n.d.r.) i centri commerciali “Tarì” e “Campania” stiano fallendo. Il “Polo della Qualità”, addirittura, è un posto vuoto, che stanno liquidando. Marcianise, in Terra di Lavoro, è un luogo molto particolare da questo punto di vista. Studiato da economisti e sociologi come uno dei comuni che più rapidamente è passato da un’economia agricola e rurale a un’economia post-industriale, in circa quindici anni: sono pochi i posti al mondo che hanno avuto una conversione radicale in un arco di tempo così breve. Anche le aziende di elettronica qui impiantate mandano i lavoratori a casa, perché hanno fallito. Questa idea di passare da un’economia agricola a un’economia avanzata in pochissimo tempo ha creato uno shock enorme al contesto. Non lo dico come una forma di rimpianto verso il passato. Ma se si considera che lì vicino è stato riscontrato un livello di diossina nel latte materno cento volte superiore rispetto ai limiti di legge, che alcune industrie lì vicino hanno preso finanziamenti statali per salvare i posti di lavoro ma gli imprenditori hanno preso i finanziamenti e comunque hanno chiuso le imprese, che ci sono queste grandi capitali nel deserto in cui ci va poca gente e che in 20 km c’è una congestione di centri commerciali, ti rendi conto che questa economia ha creato un disegno virtuale nel quale il capitalismo ha fallito. Ha fallito perché fondamentalmente le cose che contano di un investimento sono sempre le stesse: i terreni, le costruzioni. Poi, se l’affare va, tanto di guadagnato; diversamente è l’investimento materiale che conta, il fatto che sia stato messo del cemento. Napoli è, riguardo tutto questo, un laboratorio avanzato. Tanto che, ad un certo punto, le merci sono sparite; se nessuno le compra c’è necessità di creare al loro posto una serie di servizi; sparite le merci, sono rimaste le serate caraibiche, i concerti nelle piazze e nei centri commerciali, le serate in cui puoi andare gratis. Ma in realtà anche i servizi non funzionano. L’idea che anima il libro è che questo laboratorio, a un certo punto, abbia cancellato le merci e abbia lanciato in pista i corpi.

Perché scrivi che Maria De Filippi è la più grande capitalista italiana? Perché in un contesto arretrato come quello di Secondigliano è riuscita a massimizzare il suo profitto all’ennesima potenza. Ha imposto nell’immaginario delle persone un determinato modo di vedere le cose, di comportarsi, di vestire, che solo dieci anni fa sarebbe stato inaccettabile per la cultura di quel territorio. Entrando ogni giorno nell’immaginario prima dei genitori, poi dei figli, si è reso del tutto normale che quello fosse il modo di vivere e di vestire adatto, finché il contesto non lo ha accettato ed è diventato cultura: i ragazzi vivono e camminano su quella strada probabilmente sentendosi tronisti e veline, è come se fossero pubblicità ambulante, anche se non portano marchi, perché portano avanti un’idea: il marchio del prodotto delle televisioni dell’epoca della De Filippi.

Si pone un problema educativo? Educare è un processo intenzionale che nasce nella dialettica educatore-educato. Il rapporto televisivo è meno intenzionale (non voglio dilungarmi sui problemi della passività dello spettatore e via dicendo...), però risponderei ora alla domanda che Dario Franceschini ha fatto agli italiani: «Vorreste che un uomo così educasse i vostri figli?». E si capisce perché la sinistra è condannata a non governare, probabilmente, attraverso questi politici. Per gli italiani Berlusconi rappresenta quello che vorrebbero essere. L’autofascismo di questo paese, infatti, è impressionante perché sta scegliendo di vivere secondo pochi criteri, che nascono tutti da un coacervo tra politica, spettacolo, calcio, economia. Il problema educativo sta lì. Chi è la più grande capitalista italiana? Per me Maria De Filippi. Ma chi è l’imprenditore vero, che ha messo negli anni a disposizione gli strumenti dell’immaginario, oltre che gli strumenti tecnici?

Questo però è un problema nazionale. “Amici” della De Filippi è un fenomeno degli ultimi anni. A Napoli le famiglie fanno i debiti per far incidere un disco al figlio dodicenne neomelodico, affidandosi a persone “chiacchierate”, da decenni. Il Sud sta sempre mezzo metro più avanti rispetto al fenomeno nazionale e Napoli a un metro. Forse perché ha un immaginario più devastato, una modernità arrivata d’un tratto. Qui ci fanno stare dentro la modernità, ma anche abbastanza fuori. Però, ritengo che per certi versi Napoli stia pure anticipando la modernità.