La sostanza della crisi

Ricardo Antunes

Molto già si è scritto sulla crisi. Crisi dei subprimes, crisi speculativa, crisi bancaria, crisi finanziaria, globale, replica della crisi del 1929, eccetera. Fiorisce una fenomenologia della crisi, in cui ciò che era al centro del discorso ieri, diventa oggi obsoleto. I grandi quotidiani, a partire da The Economist, parlano di “crisi della fiducia” e le massime si sprecano. La crisi si riassume così in un atto volitivo. Fiducia!, direbbero i latini. Ecco la chiave analitica. I governi dei Paesi in crisi, negli USA, in Europa e in tante altre parti del mondo, sembrano riscoprire lo statalismo tutto privatizzato come ricettario per eliminare la “crisi di sfiducia”. Il rimedio neokeynesiano, rimasto sepolto nelle ultime quattro decadi e considerato uno dei principali mali delle precedenti crisi del capitalismo, risorge come la salvezza verso il vero cammino della servitù, ossia la soggezione dell’umanità ai disegni della logica distruttiva del capitalismo e in particolare del suo polo egemonico, la finanza. Al di là di questa fenomenologia della crisi, tuttavia, potremmo ricordare vari autori critici, all’interno del pensiero di sinistra, che hanno tentato di andare oltre le apparenze e svelare i fondamenti strutturali e sistemici dello scioglimento e del disgregamento del sistema del capitale. Robert Kurz, ad esempio, sin dagli inizi degli anni ‘90, ammoniva che la crisi che, dopo aver devastato il “terzo Mondo”, condusse i Paesi di così detto “socialismo reale” (con l’URSS in testa) alla bancarotta, era espressione della crisi di un modo di produzione dei beni che sarebbe in seguito migrato verso il cuore del sistema capitalista. François Chesnais rilevò le connessioni complesse esistenti tra produzione, finanziarizzazione (“la forma più idolatrata di accumulazione”) e mondializzazione del capitale, enfatizzando che la sfera finanziaria si nutre di una ricchezza generata dall’investimento e dallo sfruttamento della forza lavoro dotata di qualificazioni multiple e di ampiezza globale. E’ parte di questa ricchezza, canalizzata verso la sfera finanziaria, che gonfia il flaccido capitale fittizio. Fu István Mészáros, tuttavia, dalla fine degli anni ‘60, a svelare sistematicamente la crisi che allora iniziava a devastare il sistema globale del capitale: egli indicava che le ribellioni del 1968, così come la caduta del margine di profitto e l’inizio della monumentale ristrutturazione produttiva del capitale del 1973, erano già, entrambi, espressioni del cambiamento sostanziale che si mostrava, sia nel sistema capitalista, sia nello stesso sistema del capitale globale2. Egli indicava che il sistema di capitale (e in particolare il capitalismo), dopo essere sopravvissuto all’era dei cicli, entrava in una nuova fase, inedita, di crisi strutturale, segnata da un continuum depressivo, che avrebbe reso ormai storia la fase ciclica precedente. Anche se il suo epicentro dovesse alternarsi, la crisi si mostra longeva e duratura, sistemica e strutturale. Egli, inoltre, dimostrava il fallimento dei due sistemi statali di controllo e regolazione del capitale più avanzati, tra quelli sperimentati nel secolo XX. Il primo, di taglio keynesiano, che crebbe soprattutto nelle società capitaliste marcate dal welfare state. Il secondo, di tipo “sovietico” (vigente, secondo Mészáros, in URSS e nella altre “società post-capitaliste”), il quale, nonostante fosse il risultato di un’evoluzione sociale che tentò di distruggere il capitale, fu da esso fagocitato. In entrambi i casi, l’ente politico regolatore fu de-regolato, alla fine di un lungo periodo, dal sistema di metabolismo sociale proprio del capitale3. Processo simile sembra svolgersi nella Cina dei nostri giorni, laboratorio eccezionale per la riflessione critica.

Il libro che il lettore si trova di fronte è la considerazione di un insieme di articoli e interviste che rappresentano le principali tesi e formulazioni presenti nell’analisi di Istvan Mészáros, scritte nel corso di più di tre decenni e che ora sono pubblicate in un unico volume, condensando alcune delle sue formulazioni più efficaci, in un momento decisivo dall’inizio del secolo XXI, dove tutto ciò che sembrava solido si liquefa/scioglie, poiché il capitalismo si trova in una fase di forte scioglimento, liquefazione. L’insieme di risorse esauritesi negli ultimi mesi, dell’ordine di grandezza di milioni di dollari, ne costituiscono una prova schiacciante. La crisi del sistema finanziario globale, la riduzione della produzione industriale, agricola e di servizi, sono anch’esse troppo evidenti. E’ dal 1929 che il capitalismo non affrontava un processo critico tanto profondo, affiorante perfino nel discorso proprio ai detentori del capitale, ai suoi gestori e principali gendarmi politici. E István Mészáros è stato, negli ultimi decenni, uno dei critici più densi, profondi, qualificati e radicali. Questo piccolo libro è una dimostrazione di questa evidenza e di questa forza, che è sempre presente nell’insieme enorme e poderoso della sua opera. Se, in poche pagine, potessimo condensare alcune delle tesi principali che configurano l’attuale crisi strutturale del capitale, inizieremmo dicendo che Mészáros fa una critica distruttiva nei confronti degli ingranaggi che ne caratterizzano il sistema socio-metabolico. La sua ricerca acuta, abbracciando tutto il XX secolo, lo conduce a constatare che il sistema del capitale, poiché non incontra limiti alla sua espansione, finisce per tradursi in una processualità incontrollabile e profondamente distruttiva. Composta da ciò che, nell’eredità di Marx, egli denomina mediazioni di secondo ordine- quando tutto passa ad essere controllato dalla logica di valorizzazione del capitale, senza che si tenga conto degli imperativi vitali dell’uomo e della società- la produzione e il consumo superfluo finiscono per gestire la corrosione del lavoro, con la sua conseguente precarizzazione, nonché la disoccupazione strutturale; oltre a promuovere una distruzione della natura su scala globale mai vista prima. Espansionista nella ricerca crescente e smisurata di plusvalore; distruttivo nella sua processualità mascherata dalla superficialità e dalla mentalità dello “usa e getta”[traduzione di senso, virgolette del traduttore], il sistema di capitale diventa, al limite, incontrollabile. Tutto questo, qui riassunto in modo breve, fa sì che, dopo un lungo periodo dominato dai cicli, esso stia assumendo, sempre secondo la formulazione di István Mészáros, la forma di una crisi endemica, cumulativa, cronica e permanente, che ricolloca, dato lo spettro della distruzione globale, l’ imperativo vitale dei nostri giorni nella ricerca di un’alternativa societaria che miri alla costruzione di un nuovo modo di produzione e di un nuovo modo di vivere corretto e direttamente contrario alla logica distruttiva del capitale oggi dominante. Al contrario dei cicli di espansione che caratterizzarono il capitalismo nel corso della sua storia, alternando periodi di espansione e crisi, dalla fine degli anni ‘60 agli inizi degli anni ‘70 ci troviamo immersi in ciò che István Mészáros definisce come depressed continuum, mostrante le caratteristiche di una crisi strutturale. La sua analisi anticipava che, all’interno dei paesi capitalisti centrali, i meccanismi di “amministrazione delle crisi” sarebbero stati sempre più ricorrenti- ed anche sempre più insufficienti- una volta che la disgiunzione radicale tra produzione per le necessità sociali e auto-riproduzione del capitale avrebbe modificato l’accento del capitalismo contemporaneo dei nostri giorni, generando conseguenze devastanti per l’umanità. Data la nuova forma di essere della crisi, ora entriamo in una nuova fase, senza intervalli ciclici tra espansione e recessione, ma trovandoci di fronte la schiusa di precipitazioni sempre più frequenti e continue. Trattandosi, quindi, di una crisi nella realizzazione stessa del valore, la logica distruttiva che si accentua nei nostri giorni permise a Mészáros di sviluppare un’altra tesi, centrale nella sua analisi, secondo la quale il sistema di capitale non può più svilupparsi senza ricorrere al tasso di decrescente del valore d’uso dei beni poiché è un meccanismo ad esso intrinseco. Ciò perché il capitale non considera valore d’uso (che riporta alla sfera delle necessità) e il valore di scambio (sfera della valorizzazione del valore) come separati, ma, al contrario, subordina radicalmente il primo al secondo. Ciò significa, aggiunge l’autore, che una merce può variare da un estremo all’altro, ossia, essa può variare dal vedere il suo valore d’uso immediatamente realizzato oppure, all’altro estremo, non essere mai utilizzata; senza smettere di avere, per il capitale, la sua utilità essenziale. E, giacché la tendenza decrescente del valore d’uso riduce drasticamente il tempo di vita utile delle merci, conditio sine qua non del funzionamento del processo di valorizzazione del valore nel suo ciclo riproduttivo, essa diventa uno dei meccanismi principali attraverso i quali il capitale realizza il suo processo di accumulazione tramite la distruzione del tempo di vita utile e la subordinazione del suo valore d’uso agli imperativi del valore di scambio. Con l’approfondirsi della disgiunzione tra produzione volta genuinamente al raggiungimento del capitale e le dominanti volte esclusivamente all’auto-riproduzione del capitale, s’intensificano le conseguenze distruttive, tra le quali le due prima dette mettono a repentaglio il presente e il futuro dell’umanità: la precarizzazione strutturale del lavoro e la distruzione della natura. La conclusione di Mészáros è forte: anche se il 90% del materiale e delle risorse necessari per la produzione e la distribuzione di un determinato bene in commercio- un prodotto cosmetico, per esempio- andasse direttamente alla spazzatura, e solo il 10% fosse effettivamente destinato al prodotto, guardando ai benefici reali o immaginari del consumatore, le pratiche ovviamente devastanti qui coinvolte sarebbero pienamente giustificate, poiché sarebbero in sintonia con i criteri di “efficienza”, “razionalità” ed “economia” capitaliste, in virtù della resa di profitto attesa comprovata della merce in questione. Egli inoltre aggiunge: che ne sarà dell’umanità quando meno del 5% della popolazione mondiale (USA) consuma il 25% del totale delle risorse energetiche disponibili? E se il restante 95% dovesse adottare lo stesso modello di consumo? L’attuale tragedia cinese, con la distruzione ambientale, è in tal senso emblematica. Questo accentua un’altra contraddizione vitale in cui il mondo si è trovato in questo inizio secolo: se i tassi di disoccupazione continuano ad aumentare, salgono in maniera esplosiva i livelli di degrado e barbarie sociale che le sono connaturate. Se, al contrario, il mondo produttivo riprendesse i livelli di crescita precedenti, aumentando la produzione e il suo stile di vita fondato sulla superficialità e sullo sperpero, avremmo un’intensificazione ancora maggiore della distruzione della natura, ampliando la logica distruttiva oggi dominante. Il quadro della crisi strutturale e sistemica ha un altro elemento vitale, dato dalla corrosione del lavoro. Dopo l’intensificarsi del quadro critico negli Stati Uniti e negli altri paesi capitalisti, siamo di fronte a profonde ripercussioni nel mondo del lavoro su scala globale. In mezzo all’uragano della crisi che ora colpisce il cuore del sistema capitalista, vediamo l’erosione del lavoro contrattato e regolamentato (seppure in forma relativa), erede dell’era taylorista e fordista, dominante del secolo XX- risultante da una lotta operaia secolare per i diritti sociali- che è sostituito dalle diverse forme di “imprenditoria”, “cooperativismo”, “lavoro volontario”, “lavoro atipico”. Forme che oscillano tra l’iper-sfruttamento del lavoro e l’auto sfruttamento, sempre muovendosi verso una precarizzazione strutturale della forza lavoro su scala globale. Questo per non parlare dell’esplosione della disoccupazione che colpisce enormi contingenti di lavoratori, sia uomini che donne, stabili o precari, formali o informali, nativi o migranti, essendo questi ultimi i primi ad essere maggiormente penalizzati4. L’OIL (Organizzazione Internazionale Lavoratori), con dati abbastanza moderati, in un recente rapporto, ha previsto altri 50 milioni di disoccupati nel 2009. Basterebbe che una delle grandi imprese di montaggio degli Stati Uniti chiudesse le porte e avremmo milioni di nuovi disoccupati. In Europa, i giornali, ogni giorno, elencano miglia di nuovi disoccupati. Nello stesso rapporto dell’OIL si aggiunge che circa 1,5 miliardi di lavoratori soffriranno di forte diminuzione salariale e aumento della disoccupazione nello stesso periodo. (Rapporto mondiale sui salari, 2008, pubblicato nel febbraio del 2009- Rapporto sulle tendenze mondiali del lavoro, febb. 2009, ndt). Si sa, tuttavia, che la contabilità mondiale sul lavoro non capta in profondità la disoccupazione occulta, di frequente mascherata nelle statistiche ufficiali. Come Mészáros ha ammonito varie volte, se includiamo i dati sulla disoccupazione in Cina e in India, questi numeri si moltiplicherebbero molte volte. Vale la pena notare che, in Cina, 26 milioni di ex lavoratori rurali che lavoravano nelle industrie delle città hanno perso il lavoro tra gli ultimi mesi del 2008 e i primi del 2009 e non trovano lavoro disponibile nei campi, scatenando una nuova ondata di rivolte operaie in quel paese. In America Latina, l’OIL aggiunge che, a causa della crisi “fino a 2,4 milioni di persone potranno entrare nelle file della disoccupazione regionale nel 2009”, sommandosi ai quasi 16 milioni oggi disoccupati (Panorama Laboral para América Latina e Caribe,gennaio del 2009- Panorama del lavoro per l’America Latina ed i Caribi, ndt). Negli Stati Uniti, in Inghilterra ed in Giappone gli indici di disoccupazione all’inizio del 2009 sono i più alti degli ultimi decenni. E’ per tale ragione che gli imprenditori fanno pressione, in tutte le parti del mondo, per aumentare la flessibilità della legislazione sul lavoro, con la scusa che in questo modo preservano posti di lavoro.

In tal modo, totalmente differenziata dalle analisi che circoscrivono la crisi all’universo delle banche- la “crisi del sistema finanziario”, la “crisi dei crediti”- per István Mészáros “l’immensa espansione speculativa dell’avventurismo finanziario- soprattutto negli ultimi tre o quattro decenni- è naturalmente inseparabile dall’approfondirsi della crisi dei rami produttivi industriali come risulta dalle perturbazioni che sorgono con la letargica accumulazione di capitale (invero, accumulazione fallita) nel campo produttivo dell’attività economica”. “Ora, inevitabilmente, anche nell’ambito della produzione industriale la crisi sta peggiorando. Naturalmente, la conseguenza necessaria della crisi, sempre nell’approfondirsi nei rami produttivi della “economia reale” [...] è la crescita della disoccupazione dappertutto su scala spaventosa, e la miseria umana ad esso associata. Sperare in una soluzione felice per questi problemi che venga dalle operazioni di riscatto dello Stato capitalista, sarebbe una grande illusione”.

E aggiunge: “[...] i recenti tentativi di contenere i sintomi della crisi che s’intensificano con la nazionalizzazione-camuffata in maniera cinica- delle grandezze astronomiche della bancarotta capitalista, attraverso le risorse dello Stato ancora da inventare, svolgono solo il ruolo di porre l’accento sulle determinazioni causali antagoniche profondamente radicate della distruttività del sistema capitalista. Quello che è in causa oggi, quindi, non è solo una crisi finanziaria massiccia, ma il potenziale di autodistruzione dell’umanità nell’attuale sviluppo storico, sia militarmente che attraverso la distruzione della natura”. Se il neokeynesianesimo dello Stato tutto privatizzato è la risposta che il capitale ha trovato per la sua crisi strutturale, le risposte delle forze sociali del lavoro devono essere radicali. Contro la fallacia della “alternativa” neokeynesiana che trova sempre accoglimento in vari settori della “sinistra” che agiscono dell’universo dell’Ordine- “alternative” votate al fallimento, come ha dimostrato Mészáros analizzando il secolo XX, che si inseriscono nella linea di minima resistenza del capitale- la sfida era già indicata allora nel suo articolo “Politica radicale e transizione verso il socialismo” (scritto nel 1982 e pubblicato in Brasile per la prima volta nel 1983) Lì erano presenti tanto la distinzione cruciale tra la crisi sistemica e di tipo strutturale e le crisi cicliche o congiunturali del passato, così come la necessità di una politica radicale, al contrario delle alternative (neo) keynesiane ed alle quali il capitale ricorre nei suoi momenti di crisi. Vale la pena ricordare qui la recente Note of Editors del Monthly Review che così si riferisce al contributo decisivo di István Mészáros: “ Come reagirà la sinistra alla crisi economica ed ai tentativi di socializzare le perdite sulla popolazione come un tutto? Al nostro confrontarci con una depressione e una crisi finanziaria, dobbiamo accettare che gli oneri ricadano sulle nostre spalle, attraverso strategie leggermente più benigne per salvare il sistema?”.

E ancora la Nota: “ Nel mese di settembre (del 2008) alcuni settori progressisti negli Stati Uniti argomentarono che era necessario appoggiare il piano di “Socorso ai ricchi” di Paulson, affinché non ci fosse depressione. Tre mesi più tardi abbiamo miliardi in fondi governativi devoluti alle persone più ricche del pianeta e depressione. Il punto cruciale, a nostro parere, è stato catturato da István Mészáros, nel suo Beyond capital, dove egli spiegò che “la politica radicale può solo accelerare alla rinuncia di sé stessa(...) consentendo a definire lo scopo a lei proprio in termini di obiettivi economici determinati, i quali, di fatto, sono necessariamente dettati dalla struttura socio-economica stabilita nella crisi” (Monthly Review, “Note from Editors”, vol. 60, n. 10, Marzo del 2009, p.64).

Una volta che le manifestazioni immediate della crisi sono economiche, dice Mészáros ancora nel suo articolo premonitore del 1982, “dall’inflazione alla disoccupazione e dalla bancarotta delle imprese industriali e commerciali alla guerra commerciale in generale, al collasso potenziale del sistema finanziario internazionale, la pressione che si sprigiona dalla base sociale inevitabilmente tende a definire il ruolo immediato, nei termini in cui bisogna trovare risposte economiche urgenti al livello del manifestarsi della crisi, poiché le sue cause sociali restano intatte”. Ed aggiungeva: “[...] ‘stringere la cinghia’ ed ‘accettare i sacrifici necessari’ per ‘creare impiego reale’, ‘ iniettare nuovi fondi di investimento’, ‘aumentare la produttività e la competitività’ ecc., tutto questo impone premesse sociali di ordine stabilito (in nome di imperativi puramente economici) sull’iniziativa politica socialista, [...]nel solco delle vecchie premesse sociali e determinazioni strutturali, finendo, in questo modo [...], per aiutare la rivitalizzazione del capitale”. Per tale ragione Mészáros sostiene che qualsiasi tentativo di superare questo sistema di metabolismo sociale che segue la linea di minor resistenza del capitale, che si limiti solo alla sfera istituzionale e parlamentare, è destinato al fallimento. In compenso, solo una politica radicale ed extraparlamentare, che ri-orienti radicalmente la struttura economica, potrà essere capace di distruggere il sistema di dominio sociale del capitale e la sua logica distruttiva. La creazione di un modo di produzione e di uno stile di vita profondamente distinti dagli attuali costituisce, quindi, la sfida vitale lanciata da Mészáros. Costruire uno stile di vita dotato di senso ricolloca, in questo inizio del secolo XXI, la necessità impellente di costruire un nuovo sistema di metabolismo sociale, di un nuovo modo di produzione basato sull’attività autodeterminata, sull’azione degli individui liberamente associati (Marx) e sui valori al di là del capitale. In tale direzione, si dimostra vitale l’attività basata sul tempo disponibile per produrre valori di uso socialmente utile e necessario, contraria alla produzione basata sul tempo eccedente per la produzione esclusiva di valori di scambio indirizzati alla riproduzione del capitale.

Nel periodo di vigenza del capitalismo (e del capitale), il valore d’uso dei beni socialmente necessari è stato subordinato al suo valore di scambio, che ha guidato la logica del sistema di produzione. Le funzioni produttive e riproduttive di base furono radicalmente separate tra quelli che producono (i lavoratori) e quelli che controllano (i capitalisti ed i loro amministratori). Il capitale ha instaurato, secondo la ricca indicazione di Mészáros, un sistema diretto alla sua auto-valorizzazione, che non dipende dalle reali necessità auto-riproduttive dell’umanità. Ciò è avvenuto poiché esso è stato il primo modo di produzione a creare una logica che non tiene in conto, in modo prioritario, le reali necessità della società.

Una nuova forma di società sarà dotata di senso e veramente emancipata solo quando le sue funzioni vitali, che controllano il suo sistema di metabolismo sociale saranno effettivamente esercitate in modo autonomo dai produttori liberamente associati e non da un corpo esterno ed estraneo, controllore di tali funzioni vitali. Lo svelare il più profondo dei significati di crisi attuale; il suo significato globale, strutturale e sistemico; il suo carattere marcatamente distruttivo, costituiscono il contributo principale di questo potente (e piccolo) libro di István Mészáros. Esso deve essere letto da tutti quegli uomini e quelle donne che, nelle lotte sociali, nelle loro battaglie quotidiane, si confrontano, in qualche maniera, con il sistema di metabolismo sociale oggi dominante ed essenzialmente distruttivo per la società e la natura. La sua lettura aiuterà a riflettere, immaginare e pensare a un’altra forma di socialità autenticamente socialista, capace di riscattare il significato sociale della produzione e riproduzione della vita umana e, in questa maniera, aiutare nella creazione di condizioni critiche imprescindibili per il fiorire di una nuova sociabilità autentica ed emancipata, che costituirebbe il grande passo in avanti di questo secolo XXI, che è appena iniziato. Nello spirito più genuino dell’instancabile opera di István Mészáros nella sua ardente e appassionata difesa dell’umanità.

1. Questo libro è nato da una corrispondenza tra me e István Mészáros, nel gennaio del 2009, quando gli inviai un articolo che avevo finito di pubblicare sull’attuale crisi. Io cercavo di indicare, in quel momento, in modo veloce, la forza, la densità e l’originalità della sua analisi critica, di fronte alla completa ignoranza dei più disparati segmenti del capitale- intellettuali, gerenti, governi- dopo decenni di apologetica deprimente che predicava l’eternizzazione del capitale, senza capire che esso si trovava ai vespri della sua liquefazione. Da lì nacque l’idea di pubblicare, nella forma di un piccolo libro, un insieme di suoi articoli e interviste, dai più recenti ai più antichi, che in qualche modo riabilitassero la sua analisi e indicassero una linea di continuità decisiva per la comprensione degli elementi determinativi più essenziali della crisi che lasciò orfani e stupefatti gli ideologi del sistema e tanti altri, i quali già si erano adagiati con la massima della fine della storia, che Mészáros aveva chiamato, ironicamente, “fukuyamizzazione pseudo-hegeliana”. 2. In quest’ambito è importante ricordare che, per Mészáros, capitale e capitalismo sono fenomeni distinti. Il sistema di capitale, secondo l’autore, è antecedente al capitalismo e vige anche nelle società post-capitaliste. Il capitalismo è una delle possibili forme di realizzazione del capitale, una delle sue varianti storiche, presente nella fase caratterizzata dalla generalizzazione della sussunzione reale del lavoro al capitale, che Marx definiva capitalismo pieno. Così come esisteva il capitale prima della generalizzazione del capitalismo (e ne sono esempio il capitale mercantile, il capitale da usura ecc.), le forme recenti di metabolismo socio-metabolico permettono di costatare la continuità del capitale stesso oltre il capitalismo, attraverso la costituzione di quello che Mészáros definisce come “sistema di capitale post-capitalista”, di cui l’URSS e la maggior parte dei paesi dell’est europeo hanno costituito un esempio. Questi paesi post-capitalisti non riuscirono a rompere con il sistema di metabolismo sociale del capitale e l’identificazione concettuale tra capitale e capitalismo fece sì che, secondo l’autore, tutte le esperienze rivoluzionarie nate in questo secolo si mostrassero incapaci di superare il sistema di metabolismo sociale del capitale (il complesso caratterizzato dalla divisione gerarchica del lavoro, che subordina le proprie funzioni vitali al capitale). Sull’esperienza sovietica, vedere specialmente il Cap. XVII, paragrafi 2-3-4 di Beyond Capital. Sulle differenze più importanti tra capitalismo e sistema sovietico, vd. In particolare la sintesi alle pagg. 630-631. 3. Il sistema del metabolismo sociale del capitale ha il suo nucleo centrale formato dalla tripletta capitale, lavoro salariato e Stato, tre dimensioni fondamentali e direttamente interconnesse. Ciò rende impossibile il superamento del capitale senza la contemporanea eliminazione dell’insieme dei tre elementi che integrano tale sistema. Secondo Mészáros, pertanto, non è sufficiente eliminare uno o anche due dei poli del sistema di metabolismo sociale del capitale, ma è imperativo eliminare i suoi tre pilastri. Questa tesi ha una forza esplicativa che contrasta con l’insieme di ciò che ha scritto sinora, sulla fine dell’URSS e dei Paesi dell’erroneamente chiamato “blocco socialista”. 4. Di recente, in una manifestazione di lavoratori britannici del febbraio del 2009 si vide un volantino che riportava il seguente slogan: “Put british Workers First”- fate lavorare per primi i lavoratori britannici. Questa manifestazione era contraria alla contrattazione d’immigrati italiani e portoghesi con salari inferiori a quelli britannici. Se la lotta per l’uguaglianza salariale è giusta ed antica, l’esclusione di lavoratori migranti ha un evidente sapore xenofobo. In Europa, in Giappone, negli Stati Uniti e in altre parti del mondo, crescono le manifestazioni di questo tipo.