La ricerca sul tetto

SARA PICARDO

Cronologia della protesta

25 giugno2008. Il decreto legge n. 112 istituisce l’Ispra, che nasce dall’accorpamento di Apat, Icram e Infs. Al suo interno, i precari sono 618, oltre un terzo del personale.

31 dicembre 2008. I commissari dell’Ispra non rinnovano decine di contratti di collaboratori e quelli di alcuni dipendenti a tempo determinato.

18 giugno 2009. I precari presentano il loro cortometraggio “Non sparate alla ricerca”. Sarà il simbolo della protesta.

30 giugno2009. Vengono allontanati 200 lavoratori: a nulla serve un’occupazione nella sede di via Brancati, a Roma, organizzata dai sindacati di base. 24novembre2009. In previsione della scadenza di 200 contratti, i precari, sostenuti da Usi-Rdb, occupano il tetto della sede di Casalotti, a Roma.

4 gennaio 2010. Dopo 42 giorni di occupazione, sindacati e precari incontrano il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, che annuncia l’apertura di un tavolo tecnico. 11gennaio2010. Prima riunione del tavolo. I precari sono da cinquanta giorni sul tetto.

20 gennaio 2010 dopo 59 giorni passati sul tempo i lavoratori ottengono il rinnovo di tutti i contratti in scadenza, dopo 14 ore di trattativa in un tavolo con il Ministro dell’Ambiente Prestigiacomo

Vince la lotta: tutti giù per terra

1. Quando la lotta dura vince!

Tutti giù per terra, il posto è salvo! Nell’epoca della precarietà, ai lavoratori sembra non resti altro che salire sui tetti per farsi ascoltare e, soprattutto, per non perdere il lavoro. Così, infatti, è stato per i 230 ricercatori dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) che, dopo ben 59 giorni passati a dormire sulla terrazza della sede di via Casalotti, la notte del 20 gennaio hanno ottenuto il rinnovo di tutti i loro contratti in scadenza. “Ci sono voluti quasi due mesi di tenda, Natale compreso, per vedere riconosciuto un nostro diritto, ma alla fine ce l’abbiamo fatta”, racconta Michela Mannozzi, portavoce dei “tettisti” e delegata Usi-Rdb, il sindacato che ha seguito la vertenza dei lavoratori dal suo inizio. “Questa è una vittoria importante, ma non è la fine della lotta, ora infatti dobbiamo vigilare sul rispetto dell’accordo preso dopo 14 ore di trattativa serrata con la Ministra dell’Ambiente Prestigiacomo”. “Ora - spiega la giovane ricercatrice precaria - i contratti in scadenza fra il 31 dicembre il 31 marzo sono tutti rinnovati e si è aperta una finestra per poter recuperare i 170 scaduti lo scorso giugno”. Il protocollo siglato dal Ministero dell’Ambiente con i rappresentanti di categoria di Cgil, Cisl, Uil, Anpi e Usi-Rdb, prevede nove punti, e impegna il Governo a rinnovare tutti i contratti a tempo determinato “senza soluzione di continuità”, con la possibilità di estendere il contratto fino a 5 anni e a “continuare ad avvalersi delle collaborazioni coordinate e continuative e degli assegni di ricerca, attivi al 31 dicembre 2009, fino al 31 dicembre 2010”. Ed anche “ad attivare, sulla base delle esigenze dell’Istituto, ulteriori bandi per collaborazioni coordinate e continuative e per assegni di ricerca” attivati successivamente al 20 gennaio 2010, nei quali “valorizzare le esperienze professionali maturate presso l’Ispra”. Ovvero a ripescare tra i precari licenziati in passato. Questa vittoria è stata anche un importante passo per bloccare lo smantellamento dell’Ente pubblico di ricerca. La Prestigiacomo, infatti, si è anche impegnata a “bandire nel triennio 2010-2012 concorsi pubblici (a tempo indeterminato e a tempo determinato)” e a “verificare le condizioni delle diverse sedi Ispra”. “Da tempo, infatti - raccontano alcuni lavoratori - molti di noi nella sede di Casalotti lavorano senza avere luce, riscaldamento o internet, al massimo con una centralina comprata a proprie spese che dura poco più di due ore. Mancano, per fare un esempio, gli strumenti per poter effettuare le verifiche di inquinamento ambientale sui campioni, oppure non abbiamo le attrezzature per poter andare con i gommoni in mare a vigilare sullo stato di salute delle acque”. Tornati “per terra”, le cose si spera non saranno più le stesse: “Ogni notte eravamo in 15 ad alternarci sul tetto. Il giorno invece molti di più, visto che c’erano anche i colleghi assunti a sostenerci. Il clima è stato freddo, con temporali e temperatura sotto zero”, ha raccontato Simone Canese, quarantenne biologo marino precario. “Alternavamo attimi di euforia ad altri di sconforto, visto che il primo segnale da parte della Ministra è arrivato solo dopo un mese. Ma noi eravamo determinati perché non difendevamo solo il nostro salario: abbiamo lottato come giganti per la nostra identità”. La gente e le associazioni del quartiere hanno sostenuto la loro battaglia portando coperte, brandine, lasagne e ogni genere alimentare. A Natale addirittura sono arrivati così tanti panettoni che hanno dovuti regalarli alla Caritas. Questa solidarietà ha permesso agli occupanti di andare avanti. “Ora l’Ispra ha bisogno di una dirigenza che capisca qualcosa di ricerca; non come l’attuale, che deve andarsene anche prima del 31 marzo - ha affermato Claudio Argentini, della segreteria nazionale dell’Usi Rdb -. A distanza di 18 mesi dalla loro nomina gli attuali commissari, infatti, non hanno ancora scritto né il regolamento, fermo al Consiglio di Stato, né lo Statuto che definisce la mission dell’Istituto, ma hanno trovato il tempo per licenziare tanti ricercatori, nonostante le norme vigenti consentissero di evitarlo”. “Visto che la lotta ha funzionato - ha aggiunto Crisitiano Fiorentini della direzione nazionale Rdb Pubblico Impiego - e che la ricerca pubblica italiana continua a vivere di tagli in Finanziaria e di precarietà, a fronte di una ricerca privata cui il governo assicura sgravi senza sottoporla ad alcuna valutazione di merito, rilanciamo la posta in gioco e ci prepariamo ad organizzare uno sciopero generale degli enti di ricerca, che stiamo valutando se allargare anche a Scuola e Università”. “Un’altra tappa della vertenza dell’Ispra - conclude Argentini - sarà verificare che la Provincia di Roma mantenga il suo impegno ad investire 10 milioni di euro, rinnovando la Convenzione con l’Ispra e contrattualizzando a tempo determinato i ricercatori necessari ai controlli ambientali sul territorio”. “La nostra non è stata solo l’incoscienza di chi non ha nulla da perdere” ha detto una ricercatrice con la voce rotta dalla lacrime “ma anche la forza e la consapevolezza di dover lanciare un grido d’allarme, visto che i controlli ambientali pubblici riguardano tutti e sono un diritto sancito dalla Costituzione, proprio come quello al lavoro”.

2. Dall’Ispra alla Sogesid spa L’Ispra, Istituto Superiore per la Protezione Ambientale, è un Ente di Ricerca fondamentale per la nostra nazione. Si occupa, infatti, di vari aspetti della salvaguardia ambientale: valutare il rischio idrogeologico, controllare la qualità dell’aria, raccogliere dati sui rifiuti, tutelare la biodiversità, prevenire l’inquinamento ambientale, monitorare i mari, rendere la pesca sostenibile, adempiere ai controlli in materia di sicurezza nucleare ecc. L’Istituto è vigilato dal Ministero dell’Ambiente ed è sotto commissariamento, praticamente, da quando è nato, nel giugno del 2008, frutto della fusione dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (Apat), l’Istituto Nazionale per la Fauna e Selvatica (INFS), e dell’Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare (ICRAM). Già dalla sua nascita un pesante fardello giaceva sulle spalle dell’Ispra. Infatti, la Sogesid spa, società in house al Ministero dell’Ambiente, ricopriva molti dei ruoli dell’ex Icram ed ex Apat, in evidente conflitto di interesse per giunta. Essendo una società per azioni, la Sogesid non è soggetta a molti dei vincoli a cui, invece, deve sottostare l’Istituto di ricerca, tra cui l’indicare gare d’appalto. Ha quindi strada più facile nell’accaparrarsi gli appalti. La privatizzazione della pubblica amministrazione e degli enti di ricerca non è certo cosa nuova, ne sono dimostrazione quanto è accaduto e sta ancora accadendo alla Protezione Civile e al Ministero della Difesa, con il tentativo, da parte del Governo, di creare la Protezione civile spa (fallito) e la Difesa spa (riuscito). La creazione di aziende cosiddetta in house, ovvero di proprietà del Ministero o della Protezione Civile, non solo permettono di non indire gare pubbliche di appalto (risparmiando su tempi e trasparenza), ma rendono “legale” filiere di sub appalti, anche di dubbia provenienza, all’interno della cosa pubblica, ma impediscono di fatto ogni controllo da parte del Parlamento, che prima era possibile attraverso le interrogazioni parlamentari. La storia della Sogesid è presto detta: centro-destra e centro-sinistra avevano chiesto a inizio 2009, la messa in liquidazione della Sogesid, una società nata nel 1994 con il compito di realizzare interventi riguardanti opere infrastrutturali idriche, le cui azioni sono interamente nelle mani del Ministero dell’Economia. Ad aprire il “fuoco” era stato il 9 luglio del 2008 Ugo Lisi, deputato del Pdl, che con una interrogazione aveva chiesto a Stefania Prestigiacomo, Ministro dell’Ambiente e sua collega di partito, “di mettere in liquidazione la Sogesid spa o, in alternativa, di porre in essere azioni per ridefinire il piano industriale della stessa, in modo da evitare possibili sovrapposizioni o duplicazioni di strutture o organismi pubblici”. A distanza di qualche mese, dapprima con il parlamentare Roberto Della Seta (1° ottobre) e subito dopo (21 ottobre), con un nutrito drappello di deputati, tra i quali Ermete Realacci, toccava al Pd scagliarsi con veemenza contro la Sogesid e chiederne la soppressione o quantomeno il ridimensionamento, al fine di evitare “sovrapposizioni di competenze con quelle proprie dell’lspra”. Nel corso degli anni, infatti, la Sogesid ha ampliato le proprie competenze fino a diventare, grazie a un emendamento recepito dalla finanziaria 2007, società in house strumentale alle esigenze e finalità del ministero dell’Ambiente (all’epoca sotto Pecoraro Scanio). Tale status, che richiede un rapporto stretto ed esclusivo tra società e ministero, permette l’affidamento diretto di commesse alla Sogesid, in deroga alla gara pubblica, ma è stato contestato in quanto la stessa Sogesid (54 mln di capitale) opera anche per conto di regioni, province e comuni, con sede centrale a Roma e sedi operative a Napoli, Bari e Palermo, dove conta in tutto 43 dipendenti, di cui 6 dirigenti, 27 impiegati e 10 quadri. Ammontano a circa 200, invece, gli incarichi conferiti nel biennio 2007-2008 dalla società a professionisti esterni, per un importo di oltre 3 milioni di euro. Per Roberto Menia, sottosegretario all’Ambiente, la Sogesid non ha invaso il terreno dell’Ispra “per la diversità di ruoli e di funzioni” dei due organismi. Di diverso avviso è Emma Persia, responsabile Usi/RdB-Ispra, secondo la quale “non potrà esserci una rilevante attività di ricerca e protezione ambientale se si perderanno risorse dell’ex Icram e dell’ex Apat a tutto vantaggio del privato Sogesid”. A dimostrare che chi ha ragione è il partito del “conflitto di interessi”, è il caso emblematico dei programmi sulle bonifiche in Sicilia, dove, per l’ennesima volta, “controllore” e “controllato”, cioè la Sogesid, vengono a sovrapporsi, se non addirittura a coincidere. Una coincidenza che questa volta riguarda la gestione dei fondi per la tutela dell’ambiente. Il soggetto competente a gestire gli interventi di bonifica e ripristino era, infatti, fino a due anni fa, il Ministero. Poi, nell’Accordo di programma (11/2008) per gli interventi sul Sito di interesse nazionale “Priolo” (Siracusa), risulta che a gestire le sostanziose risorse finanziarie sarà la società in house del ministero, la Sogesid (art. 4 sui soggetti attuatori: il ministero si avvarrà della collaborazione della Sogesid, nonché di Ispra, Iss e Arpa Sicilia). Il presidente della Sogesid è un noto avvocato di Siracusa (feudo elettorale della Prestigiacomo), e uno dei componenti è il capo della segreteria tecnica del ministro dell’Ambiente. Una materia molto delicata, quella dei programmi sulle bonifiche. Che parte da lontano. L’Unione europea, per almeno 15 anni, ha discusso sul come rendere applicabile un principio centrale del Trattato: “Chi inquina paga” (art.174). Libro Verde e Convenzione di Lugano sulla responsabilità civile nel 1993, libro bianco nel 2000 e direttiva 35 del 2004. In Italia esistono 12mila siti inquinati e l’urgente necessità di intervento su alcuni di essi che costituiscono una minaccia per i cittadini e le risorse ambientali. La normativa italiana ha dunque recepito il principio del “chi inquina paga”, in base al quale il responsabile della contaminazione deve assumere l’onere della bonifica. Il ruolo dello Stato dovrebbe essere di tipo notarile (approvazione del progetto di bonifica). Quasi sempre però accade che i responsabili degli inquinamenti non siano individuabili a causa di un’insufficiente normativa di applicazione. Lo Stato, allora, si assume il costo degli interventi di messa in sicurezza, disinquinamento e ripristino ambientale. Il risultato è che le aree subiscono interventi prevalentemente di messa in sicurezza, ma spesso vanno incontro solo al degrado. Le 50 aree di interesse nazionale che necessitano di interventi di bonifica urgenti (36 industriali, 8 discariche, 6 con inquinamento da amianto) coinvolgono 316 Comuni e circa 7 milioni di abitanti. Le risorse finanziarie stimate per la bonifica (relative a 41 siti) ammontano a circa 3 miliardi di euro. Spesso in ogni sito conta minato all’inquinamento del terreno e dell’atmosfera è associato quello della falda, dei corpi idrici e delle coste. Gli interventi di bonifica e ripristino ambientale di Porto Marghera (VE), dei sedimenti lagunari e di aree inquinate ad esse collegate, hanno un costo stimato di oltre 750 milioni e interessano circa 480 ettari di canali. Nel Sulcis Iglesiente sono coinvolti 34 Comuni della provincia di Cagliari; il sito Napoli Orientale interessa 820 ettari di acque costiere. Gli interventi sull’area industriale e sulle discariche annesse di Manfredonia, in Puglia, interessano 8.600 ettari di mare, mentre le aree di Taranto e Statte riguardano 7.310 ettari di mare e 9.800 ettari di saline. La vera, prima opera pubblica di cui l’Italia avrebbe bisogno è quindi proprio questa: bonificare il territorio da decine di anni di sfruttamento e avvelenamenti. Ma sembra davvero una fatica di Sisifo. Innanzitutto, le risorse finora stanziate dallo Stato ammontano a meno di un quinto di quello che serve. Ma non è tutto. L’ambiente diventa materia di un’ennesima, forse meno macroscopica ma ugualmente dannosa, strategia d’accentramento dei poteri. In due parole: un nuovo conflitto d’interesse. Dalla pluralità di incarichi svolti, infatti, il capo della segreteria tecnica del ministero è persona ubiquitaria e supercapace; è infatti anche avvocato in Roma, commissario all’emergenza idrica alle Eolie, membro del CdA di Sogesid e del CdA dell’Acea di Roma. Ed è verosimilmente prevedibile che anche le risorse per il dissesto idrogeologico saranno gestite da Sogesid. Un’altra dimostrazione della frantumazione delle regole e degli organismi di Garanzia, in cui a rimetterci è la salute dei cittadini.

3. Il terreno “fertile” dell’Ispra Un altro rischio sventato, almeno per ora, con il rinnovo dei contratti dei precari, oltre alla continuità di un importante lavoro di salvaguardia dell’ambiente, è quello della speculazione edilizia in una zona importante della Capitale. “Lo Stato uccide la ricerca”, tra licenziamenti di precari e speculazione edilizia. Non è stato solo lo slogan azzeccato che i lavoratori dell’Ispra hanno usato durante la loro lotta per la sopravvivenza in un settore che in Italia è sempre stato figlio di un dio minore. Ma anche un concetto che si concretizza visitando la sede dell’Istituto a via Casalotti e parlando con chi la vive. Uno spazio della periferia nord romana, all’interno del parco della Cellulosa, che fino al 1994-95 ha ospitato l’Ente nazionale cellulosa e carta e dal 1997 al 2008 l’Icram (Istituto centrale per la ricerca tecnologica applicata al mare, poi sciolto nell’Ispra), che versa in uno stato di quasi abbandono: porte e riscaldamenti guasti, attrezzature per i controlli vetuste, luci carenti, computer inesistenti per tutti. Dietro questo stato di abbandono, finora, sembra esserci stata solo la volontà della struttura commissariale dell’Ispra che a fine marzo andrà a casa, nominata dal ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo e guidata dal prefetto Vincenzo Grimaldi, insieme ai subcommissari Stefano Laporta ed Emilio Santori, di smantellare parte dei controlli e della ricerca ambientale, in particolare quella legata al mare. Ma il sospetto è che ci sia stato anche dell’altro dietro l’incuria nella gestione della sede. Un sospetto confermato da Luciano Del Bianco, presidente del Comitato di promozione del parco della Cellulosa, che dal 2005 si dedica alla “tutela, la salvaguardia, l’acquisizione e la destinazione a parco dei circa 90 ettari delle due aree di proprietà pubblica” che costituiscono il polmone verde del quartiere. Del Bianco teme una possibile modifica nella destinazione d’uso di queste meraviglie naturali per aprirle al sacco edilizio, sottolineando che “la preoccupazione dei cittadini era che l’annunciato svuotamento della sede dell’Ispra potesse rispondere all’esigenza di sgomberare l’immobile per permettere il passaggio del bene dallo Stato al Comune, che poi potrebbe cambiarne la destinazione d’uso per fare cassa con gli oneri concessori, come previsto dal progetto di social housing proposto di recente dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno”. L’area verde è infatti divisa in due lotti, rispettivamente di 77 e 13 ettari, il più grande dei quali è proprietà del demanio dello Stato mentre l’altro è di Fintecna, società in house del ministero dell’Economia, che si è già detta disponibile a vendere. L’acquisto da parte del Comune di Roma è sollecitato anche dal Comitato per il parco, visto che era già stato promesso dalla precedente giunta guidata da Walter Veltroni e i fondi sono disponibili in base alla recente legge su Roma Capitale, ma la paura, spiega Del Bianco, è che non vengano rispettati i “forti vincoli ambientali e l’edificabilità molto ristretta previsti nel Piano regolatore del Comune”. Il presidente del Comitato ricorda anche, con una certa preoccupazione, che il parco, dove sono ospitate specie animali come l’upupa, la poiana, la civetta, la volpe e l’istrice, “si trova in linea d’aria a soli tre chilometri dalla Monachina, dove potrebbe sorgere il nuovo stadio dell’A.s. Roma”, progetto che in città ha già causato polemiche per il possibile impatto sull’agro romano. A meritare attenzione e tutela non è solo il verde pubblico ma anche lo stesso edificio che ospita la sede Ispra, costruito nel 1953 su progetto di Ugo Luccichenti, tra le figure più importanti del Novecento romano per quanto riguarda l’architettura: un’opera di “rilevante interesse storico e artistico”, almeno secondo il Darc (Direzione generale per l’architettura e arte contemporanea del ministero dei Beni culturali), che sicuramente non merita di essere demolita per far posto a centri commerciali o palazzine. E nemmeno può essere lasciata in stato di abbandono come potrebbe accadere da qui a pochi mesi. Secondo l’architetto Carlo Ragaglini, si tratta infatti di “uno dei primi edifici moderni per uffici realizzati a Roma, e se si pensa che non ha mai avuto restauri significativi, rimane molto attuale come immagine architettonica”. Accanto all’accanimento con cui si è cercato di colpire le centinaia di ricercatori coi contratti in scadenza tra fine 2009 e i primi mesi del 2010, che seguono gli oltre 200 già allontanati nel corso dello scorso anno e che ora dovrebbero essere in parte reintegrati, ci sono anche altri aspetti sconcertanti. Come il fatto che l’istituto di ricerca dedicato all’ambiente abbia smantellato un sistema di riscaldamento tutto ecocompatibile, basato sulla combustione del cascame di pigne, col bel risultato che oggi, visti i problemi dell’impianto a gas, tutto l’edificio è senza termosifoni, in questo freddo inverno di occupazione. L’ordinaria manutenzione è stata quasi completamente abbandonata, per cui gli oltre 250 lavoratori che frequentano la struttura si trovano ogni giorno alle prese con vetri e maniglie rotti, lampadine non sostituite che lasciano le rampe di scale dei quattro piani totalmente al buio, laboratori da mesi senza corrente, stanze allestite nei sottoscala, gommoni inutilizzabili e le bellissime serre che erano fiore all’occhiello dell’Ente cellulosa ormai irriconoscibili, tanto sono deturpate dall’incuria. In condizioni critiche anche le due biblioteche del complesso, quella dell’ex Centro di sperimentazione agricola e forestale, nel 2001 devoluta al Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura (Cra), fino a pochi anni fa la più grande biblioteca forestale d’Italia. Ma anche quella dell’ex Icram, che dispone di circa tremila volumi e cento abbonamenti a periodici dedicati allo studio del mare. “Sembra che tutti i problemi ordinari dell’Istituto vengano lasciati marcire senza porvi rimedio - racconta la ricercatrice Michela Mannozzi, una delle coordinatrici della protesta - e sicuramente c’era una volontà di smantellare questa sede per trasferire i pochi lavoratori superstiti altrove”. Volontà, almeno per ora, bloccata dalla vittoria dei ricercatori “sul tetto” che, giurano, vigileranno ancora giorno e notte affinché nulla accada alla