Federalismo e nuova questione meridionale.

VINCENZO VIGLIONE

L’uso della devolution nelle dinamiche di sfruttamento del sud Italia

1. La devolution delle incertezze

A seguito delle consultazioni elettorali della scorsa primavera, che hanno sancito l’ennesima affermazione del centrodestra, e sulle onde degli scossoni che da un po’ di tempo stanno animando gli ambienti interni al Popolo della Libertà, l’unica certezza sembra essere la chiara intenzione della compagine leghista di imprimere una forte accelerazione all’attuazione del federalismo fiscale, progetto di riforma del sistema finanziario avviato con le leggi di revisione costituzionale n.1/1999 e n.3/2001 che hanno modificato radicalmente il Titolo V della Costituzione, ponendo le basi per una maggiore autonomia istituzionale ed organizzativa delle regioni italiane. Stando però alle dichiarazioni del ministro dell’economia, Giulio Tremonti, sulla complessità di stima dell’impatto sulla finanza pubblica di tale riforma i cui primi dati dovrebbero arrivare tra luglio e settembre, dare seguito alla legge delega n. 42/2009 per l’attuazione della riforma federale sembra essere tutt’altro che facile. La definizione dei decreti attuativi che faranno del federalismo una realtà di fatto nel nostro Paese, infatti, ha tutti i connotati di un vero e proprio percorso ad ostacoli nel quale le difficoltà maggiori, al di là delle possibili strumentalizzazioni politiche, risiedono nelle difficoltà di interpretazione delle norme contenute nella legge delega. Incertezze che a loro volta condizionano la corretta definizione degli elementi fondamentali su cui gli enti territoriali dovranno fondare il proprio modello costituzionale di autonomia finanziaria quali: autosufficienza finanziaria, autonomia di entrata e autonomia di spesa. L’articolo 119 della Costituzione, come modificato dalla legge n.3/2001, al comma 1 recita che «I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa». Entrata e spesa tarate su canali di finanziamento le cui fonti, secondo i commi 2 e 3 dello stesso articolo, vanno individuate nei «tributi ed entrate propri, nella compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al territorio dell’ente, nel fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante». Il comma 4 fissa la cosiddetta regola di autosufficienza finanziaria, per la quale le risorse indicate nello stesso articolo «consentono ai Comuni, alle Province, alle Città Metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite». Il comma 5, infine, sancisce che lo Stato può destinare risorse aggiuntive o effettuare interventi speciali per gli enti territoriali al fine di «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni». A questo punto, ricordando quanto sancito dalla Corte di Cassazione attraverso le sentenze n. 158/1985 e n. 156/1987, secondo cui «la norma di delega non deve contenere enunciazioni troppo generiche o troppo generali, riferibili indistintamente ad ambiti vastissimi della normazione oppure enunciazioni di finalità inidonee o insufficienti ad indirizzare l’attività normativa del legislatore delegato» si possono facilmente intuire le difficoltà alla base della definizione dei decreti necessari alla definitiva attuazione del federalismo fiscale.

2. Il criterio insidioso del costo standard In un quadro tanto incerto di quella che sarà la reale portata dell’attuazione del federalismo, la maggiore complessità della riforma - spiegano i professori Manlio Ingrosso, ordinario di Diritto tributario della Seconda Università degli Studi di Napoli, e Clelia Buccico aggregata di Diritto tributario nello stesso ateneo - risiede nella determinazione del cosiddetto costo standard, strumento che rappresenta il cardine su cui poggerà tutto l’impianto federalista. L’adeguato dimensionamento di tale grandezza infatti, rappresenta l’obiettivo principale della riforma federale che è quello di abbandonare gradualmente il vecchio criterio della spesa storica, basato sulla continuità dei livelli di spesa raggiunti l’anno precedente. Meccanismo che fino ad oggi ha consentito a Regioni come Campania e Lazio, ma non solo, di ricevere denaro dallo Stato senza badare agli enormi sprechi perpetuati al proprio interno. Un’innovazione finalizzata al riequilibrio e al contenimento della spesa pubblica che, obbligando gli enti territoriali come Regioni, Province e Comuni a provvedere autonomamente alla definizione del fabbisogno economico interno da destinare ai cosiddetti livelli essenziali delle prestazioni (LEP) quali sanità, assistenza e istruzione, le cui voci di spesa sono direttamente connesse ai fondamentali diritti civili e sociali, e come tali da coprire interamente col costo standard, condanna gli stessi enti a limitare le eccedenze di spesa che, non potendo finanziare attraverso linee diverse da quelle sancite dall’art. 119 per la determinazione del costo standard (tributi e entrate proprie; compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio; quote derivanti da un fondo perequativo, senza vincolo di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante) andrebbero inevitabilmente a stravolgere le linee di intervento relative ai singoli servizi. «Passare dalla spesa storica al costo standard - secondo i professori Ingrosso e Buccico - significa che ogni servizio erogato da un ente locale dovrà costare la stessa somma in tutta Italia, e che lo Stato finanzierà solo entro il limite di detto costo, il che potrebbe portare le amministrazioni locali più inefficienti, quelle che non riescono a tagliare la spesa pubblica improduttiva, a dover finanziare una parte dei servizi attraverso l’innalzamento dei tributi locali. Ecco perché del federalismo fiscale, che sarà a pieno regime a partire dal 2013, non può anticipatamente dirsi se sarà positivo per tutti e in particolare per le regioni del sud. Tutto dipenderà dal comportamento degli amministratori locali e da come quest’ultimi riusciranno a razionalizzare la spesa e i risparmi. Ove fallissero, sarebbero i cittadini a farne le spese e a pagare più tasse». Sembrerebbe, quindi, che il costo standard sia la soluzione definitiva contro l’allegra gestione della pubblica amministrazione. In realtà, si tratta di uno strumento che solleva problematiche che vanno ben oltre l’interpretazione piuttosto semplicistica con la quale viene pubblicizzato come elemento propedeutico al virtuosismo degli enti locali, le cui modalità di definizione possono condizionare il modello stesso di federalismo che si vuole ottenere. Un modello federale basato sui LEP e sulla loro copertura finanziaria attraverso costi standard, infatti, favorisce senz’altro una maggiore omogeneità di offerta di servizi connessi a sanità, assistenza e istruzione, ma con livelli minimi di prestazioni e relativi costi fissati da leggi dello Stato: il che snatura il concetto stesso di federalismo inteso come autonomia decisionale da parte dei governi regionali che in tal caso avrebbero ben poca autonomia reale. Lasciando massima autonomia decisionale agli enti territoriali, invece, si rischia di ottenere un Paese con forti differenziazioni interne. L’assenza di parametri di riferimento con cui misurare l’efficienza degli amministratori locali, infatti, non consente di raggiungere quella responsabilizzazione che si vorrebbe perseguire con il federalismo, poiché il costo standard, per sua stessa natura, rappresenta un criterio oggettivo di paragone per valutare e controllare l’efficienza dei territori rilevando gli eventuali scostamenti tra costi effettivi e costi standard, il che pone l’ente responsabile davanti alla scelta di come colmare tale gap: aumentare le tasse, o spostare risorse da un settore all’altro, innescando quindi il fondo perequativo poiché, se lo scarto dovesse perdurare nel tempo o essere troppo grande, le regioni che alimentano maggiormente il fondo perequativo (che ha funzione di riequilibrio) potrebbero chiederne una limitazione a tutela delle loro risorse e per non pagare i conti degli altri. Insomma, una misura a tutela dell’egoismo dei centri di sviluppo più avanzati, a scapito di regioni e territori che sono stati economicamente colonizzati per decenni. E che, da un giorno all’altro, si troveranno a dover fare da soli. E si arriva quindi al quesito che in maniera più o meno subdola influenza il dibattito parlamentare e politico: meglio un sistema a perequazione finanziaria, col quale cercare di ridurre le divergenze tra aree ricche e povere, o un sistema che massimizza l’efficacia e la resa, sebbene concentri questa massima efficacia in alcuni territori? Quesito che, come abbiamo visto, partendo da considerazioni di carattere tecnico sfocia inevitabilmente sul piano politico.

3. Il federalismo e gli ultimi della fila Occorre capire, dunque, quanto e come il federalismo può aiutare a migliorare l’attuale economia del sistema Italia, evitando politiche finalizzate alla creazione di consensi a favore di opzioni anche chiave federale che pongano al centro il tema dell’unità del Paese. A più riprese si è parlato di propositi leghisti, neanche tanto velati, di stampo isolazionista aventi come unico fine quello di voler spostare al nord la ricchezza nazionale, favorendo un settentrione economicamente forte a scapito di un meridione, suo malgrado, sempre più debole. Debolezza che molto spesso viene venduta oltre Rubicone al grido di sud inefficiente e sud sprecone, dimenticando i generosi sovrafinanziamenti a favore delle tre non proprio virtuose regioni a statuto speciale del nord. Una linea di condotta insomma, quella leghista, promossa attraverso il modello federalista targato Bossi-Tremonti, che avanza in Parlamento grazie anche all’astensione del Partito democratico e addirittura al voto favorevole dell’Italia dei valori, ma che indispettisce non pochi dei responsabili politici che negli ultimi anni, non senza sacrifici, stanno faticosamente cercando di far ripartire Mezzogiorno in perenne difficoltà. È il caso del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola da anni impegnato nella battaglia contro la riduzione delle risorse al sud, secondo il quale attraverso una vera e propria falsificazione ideologica della realtà: «Si giustifica lo spostamento di soldi verso il nord fondandosi esclusivamente sull’argomento che il sud è sprecone. In questa maniera, ogni giorno viene praticato uno scippo nei nostri confronti. Ma la realtà è molto più complessa». «Accettare la sfida del federalismo - prosegue Vendola - come tutte le regioni del sud hanno fatto dovrebbe comportare da parte della classe dirigente, non solo politica, ma di tutti i grandi centri di formazione della coscienza, una presa di responsabilità. Ma le basi su cui si sta sviluppando il principio del federalismo sono sbagliate». I dati e le indagini in materia, confezionati ad arte per giustificare tagli operati in tutti i settori, dall’università, alle opere pubbliche, alle spese sociali, privano sistematicamente le regioni meridionali di fondi per progetti già in programma, depauperando di fatto il Mezzogiorno delle sue risorse. «La grande sfida - conclude Vendola - consiste nel dare vita ad un sud in grado di accantonare le differenze politiche e mettere al centro la difesa degli interessi di questa comunità che è fatta di 20 milioni di cittadini che patiscono non soltanto gli effetti della crisi mondiale, ma anche gli effetti di una politica sciagurata che trasferisce poteri e risorse dal sud al nord. Il sud deve imparare a volersi bene. Mentre il nord è diventato una lobby potente, il sud si presenta a ranghi sparsi all’appuntamento fondamentale sui decreti delegati per la concreta applicazione del federalismo. È su questo che dobbiamo lavorare». Le immense risorse che sono state estratte dai territori del sud, dalla sua agricoltura d’eccellenza, dall’uso del suolo per impiantare le cattedrali nel deserto dell’industria o per smaltire rifiuti illegali, dal lavoro dei meridionali emigrati verso il triangolo industriale o nei distretti del made in Italy, non possono non essere messe nel conto, quando si tratterà di verificare sul campo l’equità della realizzazione federalista. I cui costi, soprattutto in un momento di profonda crisi come quello attuale, non devono ricadere sui lavoratori. Per sottolineare questo principio, a fine aprile, l’RdB Pubblico Impiego ha elaborato un dossier di proposte miranti a evitare che la scure dei tagli delle risorse possa abbattersi sulle retribuzioni degli impiegati degli enti locali: «La trasformazione epocale a cui sono chiamati gli Enti locali in nome del federalismo non può avvenire facendone pagare il conto ai lavoratori e ai cittadini”, dichiara Roberto Betti della RdB P.I. Enti Locali. È questo, d’altronde, uno dei temi cruciali su cui un nuovo modello di sindacato territoriale deve misurare la validità della sua proposta. Il federalismo impone una radicale riorganizzazione dei regimi economici e delle risorse di città, regioni, province, in cui si dipanano le esistenze concrete di lavoratori e famiglie, colpiti oggi più che mai dagli effetti deflagranti della recessione economica. Sono le loro esigenze, molto più che quelle della compatibilità di spesa, che una riforma equa in senso federale deve tenere in buon conto.

* Giornalista, Ricercatore dell’Osservatorio Meridionale di Cestes-Proteo.