Analisi statistico-economica dei mutamenti strutturali e localizzativi dello sviluppo del sistema socio-economico italiano

Luciano Vasapollo

1. Introduzione ad un’analisi socio-localizzativa del modello di sviluppo

Dal dopoguerra ad oggi si possono individuare molti modelli geografici e sociali dello sviluppo economico ed in particolare si nota il passaggio da un modello di progressiva concentrazione territoriale della produzione, del reddito e della popolazione, ad un modello di diffusione locale delle dinamiche di sviluppo che ha interessato aree a rilevanza intermedia. Ciò comunque non ha portato a ridurre gli squilibri Nord-Sud né ad una diminuzione delle fasce di povertà assoluta o relativa, dando luogo invece a forme di superamento della dicotomia causato sia dalla diversificazione economica delle regioni intermedie e dal rallentamento di quelle avanzate sia, soprattutto, evidenziando la nascita di nuovi soggetti sociali ed economici marginali ed emarginati. Si va approfondendo così il solco fra un Paese ricco e settori sempre più vasti di popolazione esclusa, precarizzata, vicino alla soglia di povertà; masse sociali spesso rese da tali processi di sviluppo talmente emarginate e povere da essere considerate fra i “nuovi miserabili” nella società dell’opulenza.

Tutti i periodi dello sviluppo economico del nostro Paese hanno creato una crescente differenziazione territoriale e sociale, poiché queste fasi accentuano i flussi migratori e i processi di urbanizzazione, i processi di espulsione dalle garanzie del reddito, con conseguenti fenomeni socio-economici che trasformano e modificano i rapporti centro-periferia in chiave geografica, e garantiti-non garantiti in chiave economica, accrescendo la schiera delle nuove marginalità, delle esclusioni, delle nuove povertà.

La ricerca che di seguito si presenta trova i suoi presupposti teorici e metodologici in tre precedenti studi dello stesso Autore (Vasapollo L., 1995a, Vasapollo L., 1995b, Vasapollo L.,1997) che si inseriscono nel filone d’indagine statistico-economica che analizza i processi dello sviluppo in Italia in relazione alla molteplicità e diversità economica esistente tra le varie parti del Paese, così da individuare l’evoluzione dei profili produttivi locali, i mutamenti geografico-territoriali della struttura economica nel suo complesso e le nuove figure sociali, i nuovi soggetti economici che si vengono a presentare all’orizzonte del panorama socio-produttivo dell’Italia del 2000.

Il lavoro ha richiesto un lungo iter preparatorio per assicurare l’omogeneizzazione dei dati (passaggio dalla classificazione ATECO 81 all’ATECO 91 con riporto alle funzioni, classi e sottoclassi della classificazione dei servizi Erba-Martini, 1988), e di lettura delle dinamiche produttive sui 291 mercati locali del lavoro mediante applicazione del modello ISERS sugli ultimi dati disponibili. Considerato che i dati definitivi dell’ultimo Censimento dell’industria e dei servizi (CIS ’91) sono stati pubblicati recentemente, si può certamente sostenere che il lavoro in oggetto è stato realizzato con i dati ufficiali definitivi più recenti a disposizione.

Il metodo d’analisi che si propone è fortemente innovativo, poiché all’analisi statica comparata della geografia della struttura economica fra1981 e 1991 aggiunge un’analisi della dinamica della funzione imprenditoriale, come verrà appresso specificato.

La ricerca si articolerà su una esaripartizione, secondo la classificazione Erba-Martini, delle attività produttive che non era stata possibile nel precedente studio (Vasapollo L., 1995a in cui si proponeva una suddivisione quadripartizionale delle attività economiche) poiché al tempo non era ancora disponibile la disaggregazione dei dati definitivi ISTAT dell’ultimo Censimento Generale del 1991. La disaggregazione di tali attività economiche in rami e classi sarà quella prevista dall’ISTAT per l’ultimo Censimento Generale, e i dati comunali sugli occupati saranno aggregati in riferimento alla partizione economica del territorio italiano in bacini occupazionali o “mercati locali del lavoro ISRIL”, (si veda la Fig.1; per il nome e l’individuazione dei 291 bacini occupazionali si veda l’Appendice) con una visione completa della struttura e composizione dei bacini stessi, che costituiranno le aree economiche di riferimento.

Si giungerà in tal modo ad individuare per gli anni ’90 la vocazione territoriale e la polarizzazione per ognuna delle sei attività economiche considerate. Si procederà quindi attraverso applicazioni di cluster analysis all’individuazione, a partire dalla classificazione esapartizionale, di più particolareggiate Zone Economiche Omogenee, così da esaminare e confrontare sistematicamente i profili produttivi dei diversi bacini occupazionali in cui è suddiviso il territorio italiano, analizzando le relazioni tra bacino e Zona d’appartenenza. In tal modo si potrà individuare con immediatezza l’evoluzione del profilo economico di ogni singolo bacino e per aggregazione delle varie Regioni e dell’intero Paese, partendo dalla mappatura della geografia dello sviluppo individuata in un’altra recente ricerca (Vasapollo L.,1997).

Successivamente, seguendo l’impostazione dell’altro studio dell’Autore, (Vasapollo L., 1995b) si procederà alla costruzione dei coefficienti di imprenditorialità, sempre riferendosi ai dati INPS ed ISTAT dell’ottobre 1991, tenendo conto della struttura dei bacini occupazionali e determinando tali coefficienti sia a carattere generale che a carattere specifico per le aree territoriali più significative, sempre in riferimento, all’analisi sulla geografia delle attività economiche.

Attraverso le tre analisi precedenti, riguardanti rispettivamente la polarizzazione delle attività economiche e la localizzazione e dinamicità della funzione imprenditoriale, si potranno delineare le evoluzioni strutturali, sociali ed economico-soggettuali e le trasformazioni a livello di geografia locale dello sviluppo economico complessivo del Paese.

L’obiettivo è fornire una mappatura del territorio nazionale per poter verificare l’eventuale presenza di comportamenti omogenei tra l’evoluzione delle attività economiche e gli specifici connotati della funzione imprenditoriale nelle varie partizioni territoriali, individuando se esiste relazione fra incrementi, o contrazioni, occupazionali e nuova imprenditorialità, nuove soggettualità produttive, e se effettivamente si verificano fenomeni di sviluppo imprenditoriale o se invece si tratta di forme nascoste di precarizzazione ed espulsione di forza lavoro mascherata da “finto lavoro autonomo” (il cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione). Si potranno in tal modo evidenziare localismi economici della complessiva struttura produttiva del Paese, sia in termini di dotazione di particolari attività economiche, di formazione di nuovi soggetti a cui spesso corrisponde lavoro atipico, precario con scarsi diritti, sia come presenza di corrispondenti dotazioni imprenditoriali originate in loco, reali o spesso false forme imprenditoriali derivanti dalla flessibilità, dalla mobilità e precarizzazione delle attività lavorative di tipo subordinato.

La geografia e i modelli della struttura economica complessiva così ottenuta permetterà un confronto tra sistemi produttivi locali fra loro diversi, fra nuovi soggetti che scaturiscono da tali processi, sistemi e soggetti spesso riportati ad unità ed omogeneità attraverso una distribuzione territoriale che evidenzia profili economici globali similari fra le varie zone del Paese e che individuano un mercato del lavoro sempre più flessibile e precario.

 

2. Le evoluzioni storico-economiche nei modelli localizzativi dello sviluppo produttivo italiano

Già dai tempi dell’unificazione dell’Italia è stata avvertita l’esigenza di classificare e raggruppare in collettivi omogenei, in aree a forte omogeneità economico-produttiva, le diverse zone del Paese per ottenere una mappa dettagliata del Paese Economico cui correlare programmi di sviluppo e organizzazione del lavoro e della società.

Già nel 1881 si ha uno dei primi tentativi di raggruppamento territoriale, con la nascita delle divisioni censuarie, costruite all’interno di ogni provincia, da cui, però, vengono separate le aree montane.

Al 1894 può essere fatto risalire il primo tentativo di suddivisione economico-territoriale con la costruzione di zone uniformi dal punto di vista agrario. Per zona si intendeva: una unità organizzativa interna ai fini della raccolta di notizie economico-demografiche sull’andamento della produzione e delle dinamiche occupazionali e demografiche in genere.

Nel 1910 appare il Primo Catasto Agrario in cui erano comprese 15 provincie coperte da rilevazione.

Nel 1929 ci fu una vera e propria spinta nell’analisi territoriale a partire dalla riforma del Catasto Agrario; si arrivò a identificare 735 zone di cui 276 di montagna, 294 di collina e 165 di pianura, tutte raggruppate con riferimento a caratteristiche generali omogenee. Ciò diede luogo alle Unità Circoscrizionali Uniformi, ritenute valide, oltre che per la determinazione dell’ottimizzazione della produzione agraria, anche per studi e ricerche circa le condizioni socio-economiche e demografiche delle varie aree del Paese, seppure sorgesse il problema dovuto all’accorpamento di zone a prevalente e intensa urbanizzazione con zone a forte caratterizzazione rurale.

Nel 1931 vi fu una prima revisione delle unità circoscrizionali che furono portate a 786, senza peraltro eliminare i problemi già evidenziati, anche perché non si vollero rompere le suddivisioni provinciali andando così a comprendere nella stessa unità territoriale comuni appartenenti a più regioni altimetriche.

Solo con il 1958 si giunge ad una vera e propria revisione e integrazione delle zone agrarie con la creazione delle Circoscrizioni Statistiche.

Si vuole ricordare che l’Italia del dopo guerra appariva fortemente caratterizzata sia dalle devastazioni proprie degli eventi bellici che da un’economia duramente provata da una politica monetaria disastrosa imposta dalle forze di occupazione. Nelle prime fasi della ricostruzione è possibile notare come il settore agricolo sia stato stimolato allo sviluppo da redditi relativamente elevati che derivavano dalla larga estensione del mercato nero e da forme istituzionalizzate di lavoro nero o lavoro a supersfruttamento e con la negazione dei più elementari diritti. Il settore industriale mostrava segnali di una ripresa assistita ostacolata dalla deficienza delle fonti di energia, dalla necessità di una riconversione degli impianti, dall’esaurimento delle scorte e da una manodopera mantenuta a bassi livelli salariali, forzando i processi migratori ed usando il ricatto continuo dei licenziamenti. Su queste basi economiche e con un settore dei trasporti quasi inesistente, lo sforzo della ricostruzione si è ripercosso sul commercio estero dando luogo a forti squilibri della bilancia commerciale.

Malgrado le molte interpretazioni della crescita economica italiana il periodo in cui prese l’avvio viene individuato nella metà degli anni ’50 e il suo primo stop nel 1963; sicuramente la chiave di lettura di questo periodo a sviluppo accentuato è da individuarsi nel basso costo della manodopera (emigrazione dalle campagne), nella compressione dei conflitti sociali ed in parte dalla possibilità di utilizzare a basso prezzo il know how prodotto all’estero. L’Italia sembra collocarsi come economia marginale di sistemi più avanzati. Il settore produttivo specializzato nel rifornimento di mercati esteri più ricchi trascurò i fabbisogni “più arretrati” del mercato nazionale attuando continui incrementi di produttività, con la conseguenza di una progressiva distruzione dell’agricoltura tradizionale e l’allontanamento della manodopera più giovane verso le grandi città del Nord.

Dal 1963, anno della prima accelerazione dei salari, inizia un periodo caratterizzato da una distribuzione della ricchezza a favore dell’impresa, e si determina un punto di svolta dello sviluppo italiano che declina verso una profonda crisi. La mancanza di una politica agricola adatta ad economie avanzate e la particolare applicazione in Italia della politica agricola della CEE, che favorì speculatori ed intermediari, unita all’insuccesso dell’industrializzazione del Mezzogiorno e all’accentuarsi dello sviluppo nel triangolo industriale, hanno dato origine a uno sviluppo difforme sul territorio.

È sulla base di questo presupposto che hanno trovato spunto ed incentivo una serie di studi volti a indagare lo sviluppo economico in ambito territoriale attraverso la costruzione di unità di rilevazione o aree geografiche di studio.

Da tale analisi del caso italiano del dopo guerra è stato così possibile sottolineare come tutti i periodi di intenso sviluppo abbiano determinato una crescente differenziazione territoriale e sociale legata agli squilibri internazionali e a quelli regionali, alle differenze tra centro e periferia e tra città e campagna. Le fasi di forte sviluppo implicano, infatti, una profonda trasformazione sociale giacché modificano in profondità la struttura propria della società. Sulla base di queste argomentazioni dagli anni ‘60 in poi sono stati elaborati numerosi modelli territoriali per consentire agli studiosi di rilevare tempestivamente le modificazioni socio-economiche intervenute in Italia.

Infatti nel 1965, sulla base dell’osservazione delle nuove modalità di sviluppo dell’economia italiana che implicavano una conoscenza più approfondita del territorio e delle attività produttive, si cercò un modello interpretativo del processo di organizzazione geografica dell’economia e del modello sociale di riferimento.

Il primo contributo è stato fornito da un lavoro presentato dall’Unione delle Camere di Commercio con il quale si è cercato di individuare aree a configurazione economica abbastanza uniforme che possano essere considerate come micro-economie del Paese omogenee al loro interno, da ciò il nome di: unitá omogenee.

Nel 1973 è stato proposto da M. Capuani, della commissione di programmazione economica delle CCIAA, un ulteriore sviluppo del concetto di unità omogenea pervenendo ad una mappatura economica del territorio nazionale. Sono state così individuate 343 aree intermedie tra province e comuni che rispondono al concetto di integrazione come legame di funzionalità esistente tra un dato centro urbano dotato di fondamentali servizi e i comuni che gravitano su tale centro in quanto utilizzatori dei servizi medesimi.

Se nel decennio ‘50-’60 caratterizzato dal cosiddetto “Miracolo economico” si assiste ad una concentrazione territoriale della produzione, in cui i flussi di capitale e lavoro sono indirizzati in prevalenza verso le aree già sviluppate, dall’inizio degli anni ‘70 si assiste invece ad una inversione della tendenza nella localizzazione dello sviluppo, a causa di una strategia di decentramento forzato attraverso una maggiore mobilità e flessibilità sociale e produttiva. Ciò ha comportato la ricerca di forza lavoro con più basso costo di riproduzione, fatto, questo, che ha cambiato l’organizzazione del ciclo produttivo, in specie per la piccola impresa, con produzioni ridotte e specializzate, modificando nel contempo i processi di riorganizzazione del conflitto sociale e di ricomposizione di classe.

Nel 1977, in pieno periodo di crisi energetica ed economica prende piede il modello interpretativo delle Tre Italie, proposto da Bagnasco [1], con l’intento di ricostruire la natura e il funzionamento di tre forme di economia e di modalità di sviluppo e le loro relazioni. Questo modello interpretativo parte dalla suddivisione del territorio nazionale in tre grandi aree geografico-economiche, diverse e connesse, ottenute attraverso un’analisi politica, economica e sociale non strutturata, basata sull’analisi di alcuni indicatori socio-economici. Le Tre Italie sono così identificate:

1) Nord-Ovest: caratterizzato dalla grande impresa che impone la propria centralità e quindi indirizza e determina il modello di sviluppo;

2) Centro Nord-Est: caratterizzato dalla piccola impresa con uno sviluppo a caratterizzazione locale attuato mediante forme socio-produttive particolari, imposte da quella parte di imprenditori che sfruttando le economie locali si ribellano al capitalismo delle grandi famiglie;

3) Meridione: caratterizzato da un sotto-sviluppo relativo, economia disaggregata e riorganizzazione in base a dipendenze esterne (economia marginale); un Sud che si configura come mercato coloniale, in cui l’arretratezza diventa del tutto funzionale, anche in termini occupazionali, alle determinazioni localizzative di tipo socio-produttivo da parte del capitale nazionale e delle scelte di politica economica basate sull’assistenzialismo, sulle clientele e sulla compressione e soffocamento di ogni forma di ricomposizione ed antagonismo di classe.

In questa fase del ciclo economico si evidenziano alcune tendenze:

a) passaggio dalla concentrazione alla diffusione territoriale;

b) inversione del processo di crescita delle dimensioni medie d’impresa e avvicinamento ad un modello di sviluppo imposto dal grande capitale europeo, in particolare funzionale ai processi di ristrutturazione del capitale francese e tedesco;

c) accentuazione del ruolo della piccola impresa con proliferazione di imprese piccole e medie con maggiori e diversificate forme di sfruttamento del lavoro (aumento dei ritmi, della produttività, cottimo, flessibilità salariale, esternalizzazione a lavoro nero di parti del processo di lavorazione, negazione dei diritti sindacali, ecc.);

d) accentuazione del modello di specializzazione dei settori tradizionali con aumento della produzione soprattutto dovuto a forti incrementi di produttività del lavoro, solo in minima parte compensati da incrementi salariali;

e) perdita progressiva di occupazione a causa della competitività interna che richiede sempre più manodopera specializzata, la quale comincia a rappresentare una sorta di aristocrazia operaia.

Le modifiche attuate con il processo di sviluppo degli anni ‘70 hanno comportato uno sviluppo industriale di aree periferiche con una profonda crisi e una necessaria ristrutturazione delle aree centrali, sebbene risultino attenuate le differenze dicotomiche tra regioni avanzate e arretrate (da imputare per lo più ad una crescita delle regioni periferiche del Centro Nord-Est).

È proprio in questa fase che l’impresa si decentralizza, si articola nel territorio, tanto da parlare di fabbrica diffusa, trasformando il soggetto lavoratore da operaio massa a operaio sociale e diffondendo nel contempo nuove dinamiche di marginalizzazione, determinando così nuove forme di scomposizione di classe.

Se il modello delle Tre Italie sostituisce la dicotomia Nord-Sud con una logica interpretativa che assume l’ipotesi di differenti modi di presentarsi dello sviluppo dell’Italia, le ipotesi di lavoro pongono il ricercatore di fronte all’esigenza di verificare non solo la struttura economica ma anche quella sociale delle tre aree individuate nonché le interrelazioni esistenti. Le Tre Italie sono così costituite da società specifiche diverse, sia per la struttura di classe sia per il sistema politico sia per i connotati culturali. Dalle relazioni fra le differenti formazioni sociali emergono tre tendenze o mutamenti astratti di organizzazione economico e sociale sul territorio rispetto alle quali non si possono determinare limiti geografici fissi. Così sorge la necessità di costruire categorie concettuali intermedie, si cominciano cioè a intravedere nuovi soggetti produttivi, nuove figure di classe che si differenziano dalla precedente omogeneità economica e culturale della classe operaia. Soggettualità relative ad ampie nuove aree socio-economiche che non è possibile considerare come omogenee in termini della loro struttura, ma come articolazioni di un sistema complessivo economico e istituzionale che si va ristrutturando in funzione del ruolo assegnato all’Italia dal capitalismo internazionale, dalla ridefinizione del rapporto capitale-lavoro nel nostro Paese.

Il modello interpretativo è allora riferito ad un quadro che accentua certi tratti e ne trascura altri, accorda situazioni in parte simili e divide ciò che è sfumato nella realtà. Le modalità dello sviluppo conducono a radicali cambiamenti sociali, alla trasformazione nel tempo e nello spazio delle relazioni sociali, a profonde modificazioni della struttura di classe e dell’intero quadro istituzionale.

Negli anni ’80, infine, tentativi innovativi per la suddivisione territoriale sono stati proposti da vari studiosi utilizzando dati spesso provenienti dai censimenti, per definire i distretti industriali. Ad esempio Sforzi distingue, ai fini di una politica economica, zone residenziali e zone produttive; queste ultime sono proposte come una sintesi ex ante delle interrelazioni tra struttura produttiva e territoriale in cui dall’analisi ed osservazione della realtà si evidenziano quelle di specializzazioni produttive che danno origine ai distretti.

Anche per la maggior parte degli studi della fine anni ’80 e inizio ’90 l’obiettivo fondamentale è quello di individuare le dinamiche localizzative del modello di sviluppo del Paese, anche se spesso prevale una forzata interpretazione che consiste nel porre i presupposti per un analisi economica dello sviluppo regionale al fine del riconoscimento dei Distretti Industriali Marschalliani (DIM) sul territorio nazionale. Il distretto industriale è identificato da Marshall come “interazioni interne ad un sistema di imprese di modeste dimensioni, spazialmente concentrate operanti in fasi diverse del processo produttivo con una certa popolazione, operaia e non, su un territorio di insediamento, industriale e residenziale relativamente ristretto.”

Si può in conclusione affermare che l’economia italiana si è sviluppata con delle caratteristiche particolari che comportano dei paradossi e delle contraddizioni.

Il boom economico degli anni ’50 ha visto la nascita di grandi famiglie capitalistiche che, passate indenni al processo di trasformazione economica-sociale post-conflitto mondiale, hanno inciso profondamente nelle modalità dello stesso sviluppo complessivo. L’industrializzazione che caratterizza questi anni ha comportato un divario tra il Nord e il Sud del Paese, determinato soprattutto dal fatto che mentre per il Settentrione si sono adoperate politiche di integrazione con gli altri Stati europei, il Mezzogiorno è invece rimasto sempre più isolato economicamente e socialmente. Ed è stata quindi la famiglia padronale, sia essa fondata su aristocrazie cittadine sia caratterizzata da un congiunzione solidale, ad essere la principale protagonista dello sviluppo economico del nostro Paese. Si è passati dall’affermazione della piccola e media impresa familiare allo sviluppo della grande impresa familiare che hanno rappresentato la colonna portante del nostro sistema economico.

Lo scenario che si presenta nella realtà italiana è quindi caratterizzato in primo luogo dalla presenza di grandi holding private (a carattere familiare con il supporto del manager); ci sono poi le imprese pubbliche che hanno sostenuto lo sviluppo ed infine un numero elevato di piccole e medie imprese le quali per la loro innovatività si caratterizzano per un elevato livello di efficienza.

Va rilevato che mentre nella piccola impresa i lavoratori e l’imprenditore provengono dallo stesso contesto socio-culturale, essendo a volte appartenenti allo stesso nucleo familiare, nella grande impresa basata su rapporti di gerarchia è invece presente un forte conflitto tra i diversi soggetti economici interessati. In sostanza nella piccola e media impresa vi è una presenza costante e continua dell’imprenditore-proprietario, invece, nelle imprese di grandi dimensioni, caratterizzate da una elevata concentrazione della proprietà, si verifica qualche caso di incrocio azionario tra le più grandi famiglie industriali del Paese.

Si assiste in sostanza ad una forma di imprenditoria di élite tipica delle grandi aziende, all’imprenditoria della piccola e media impresa ed infine all’imprenditoria assistita. Questa situazione fa risaltare lo storico problema delle “tre italie imprenditoriali”, in quanto gli imprenditori d’élite sono concentrati nell’Italia settentrionale, al centro troviamo un tipo di imprenditorialità diffusa mentre al sud si trova il cosiddetto “imprenditore assistito” legato al sistema politico.

Considerando che l’Italia fino alla seconda guerra mondiale era un paese basato su un’economia prevalentemente agricola, va segnalato che lo sviluppo industriale avutosi tra gli anni ‘50 e gli anni ‘70 si è concentrato solo su alcune zone del Paese senza estendersi alle aree più depresse. Negli anni ‘70 si attua il cosiddetto “decentramento produttivo” che scorporando alcune fasi del processo di produzione le indirizza verso imprese di minore dimensione. In questo senso la piccola impresa si caratterizza sempre più per una elevata indipendenza dalla grande azienda committente, in quanto si specializza e si caratterizza per la sua innovatività. Si realizza in sostanza una forma di industrializzazione diffusa che ha il vantaggio di associare i benefici della piccola dimensione con quelli della grande.

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3. Un’analisi statistico-economica per l’individuazione delle nuove modalità socio-localizzative dello sviluppo economico in Italia [2]

Una diversa lettura delle modalità dello sviluppo

Come si è visto precedentemente, negli ultimi decenni lo sviluppo e la differenziazione delle attività economiche ha prodotto profonde modificazioni nei modelli produttivi e sociali e nelle decisioni localizzative che hanno riguardato l’intera organizzazione economico-sociale e politico-istituzionale.

Da ciò è derivato un significativo filone di studi e ricerche che, accanto alle dinamiche temporali, ha posto l’accento pure sull’organizzazione sociale e del lavoro e sulla diversificazione soggettuale e spaziale delle attività produttive, per poter cogliere meglio le similitudini e le diseguaglianze quantitative e qualitative connesse con le modalità dello sviluppo socio-economico complessivo. I modelli elaborati ed adottati per analizzare le modalità dello sviluppo economico del nostro Paese, articolato socialmente e territorialmente, hanno presentato nel corso degli anni profonde modificazioni e innovazioni concettuali e metodologiche.

Come si è evidenziato in precedenza i primi modelli, introdotti negli anni ’60, hanno fornito dello sviluppo del nostro sistema economico una chiave interpretativa basata sul modello dicotomico Nord-Sud, incentrato sull’attività del settore industria. A partire dalla seconda metà degli anni ’60 tale modello interpretativo non è apparso più sufficientemente adatto per spiegare le modificazioni degli insediamenti produttivi e delle trasformazioni del modello di sviluppo e con le conseguenti ridefinizioni del tessuto sociale che si venivano registrando nel Paese. Si sviluppano nuove analisi a carattere socio-localizzativo delle attività economiche che con il modello definito delle “Tre Italie” fanno intravedere nuove modalità di lettura delle dinamiche economiche tentando di valorizzare i diversi localismi dello sviluppo, ma secondo noi anche ad evidenziare processi di scomposizione dell’unità di classe che aveva trovato nella fabbrica del Nord il suo più alto livello di aggregazione.

Si giunge così alle più recenti ricerche caratterizzate dalla costruzione di modelli volti, da un lato, ad evidenziare le peculiarità e il localismo dei distretti industriali e, dall’altro, a raccordarli nell’ambito di una crescita complessiva caratterizzata dal preminente ruolo svolto dal settore terziario, ufficiale e atipico o sommerso, che modifica le soggettualità del lavoro, che crea nuovi soggetti produttivi, nuove figure sociali anche e soprattutto marginali, modificando nel contempo le identità produttive e quelle non più aggregate esclusivamente in fabbrica, ma che si frantumano nel territorio, trasformando così la stessa identità e composizione di classe dei lavoratori.

Un momento di rottura con tale impostazione è sicuramente fornita dalle analisi localizzative che utilizzano partizioni funzionali del territorio, cioè unità territoriali che permettono di individuare e studiare i profili produttivi locali e le connesse dinamiche di socializzazione comportamentale da parte dei soggetti economici che nel territorio trovano una loro più definita collocazione non più configurabile solo all’interno della fabbrica. Così si supera la logica interpretativa industrialista ed “operaista” per passare ad una gerarchizzazione dei modelli dello sviluppo basata principalmente sulle modalità di trasformazione sociale ed economica indotte dal settore effettivamente responsabile delle trasformazioni in atto e dai soggetti produttivi, che a causa di tali trasformazioni, si vengono a formare dentro e fuori dalle garanzie e diritti del lavoro subordinato, autonomo o configurando nuove soggettualità non garantite dal modello di sviluppo che si va configurando.

L’esigenza di una approfondita analisi di natura territoriale nasce dalla constatazione che lo sviluppo socio-economico del Paese è stato caratterizzato da una specifica dinamica spaziale condizionata dai processi di ristrutturazione e di collocazione internazionale del capitalismo italiano nell’era della globalizzazione. L’aspetto territoriale assume un ruolo sempre più determinante con il passaggio da una produzione di massa, concentrata, ad una di tipo flessibile e diffusa basata nel contempo sulla mobilità, flessibilità e precarizzazione della forza lavoro.

Il modello del capitalismo italiano assume come risorsa principale ancora soprattutto le nuove forme del distretto industriale ed è caratterizzato da: specializzazione delle strutture e della forza lavoro all’interno di reti di imprese in continua trasformazione, con multilocalizzazione delle attività in presenza di strutture dinamiche e continuamente mutevoli, ma al contempo si realizza un massiccio ricorso alla flessibilità salariale, all’intensificazione dei ritmi, all’elevata divisione del lavoro che spinge alla precarizzazione e alla diffusione della negazione dei diritti sindacali. Si giunge così alla determinazione di nuove soggettualità locali del lavoro, spesso ai margini del sistema produttivo ufficiale, che svolgono attività sottopagate, lavoro nero che pur di aver garantito un minimo reddito sono costrette ad accettare condizioni qualitative di lavoro tipiche dell’inizio del secolo.

Nel nuovo modello di sviluppo italiano il capitale sceglie di distribuirsi e collocarsi in chiave tecnica andandosi a concentrare nelle aree industriali, con lo scopo di modernizzare gli impianti esistenti, incrementando la produttività del lavoro da destinare quasi esclusivamente a profitto. La strada della speculazione non produttiva, invece, trova collocazione attraverso la specificazione di un capitale finanziario che va a concentrarsi nelle aree a sviluppo consolidato, avendo lo scopo di ridurre rischi e incertezza, con la conseguenza di ulteriormente penalizzare le aree arretrate e di distogliere capitale agli investimenti produttivi rincorrendo il facile guadagno finanziario. Il risultato più immediato è l’aumento della disoccupazione che si va trasformando in strutturale, incrementando la schiera dei disoccupati “invisibili”, non ufficiali, precarizzando la qualità della vita di chi con tale sistema non riesce ad emergere ed arricchirsi.

A tale scopo viene utilizzata l’industria tradizionale (produzione standardizzata) nelle aree periferiche a basso costo del lavoro e bassa conflittualità, innalzando i livelli di precarietà sociale; l’industria innovativa (produzioni creative) nelle aree centrali con mercato del lavoro altamente specializzato andando a determinare una sorta di aristocrazia operaia e rendendo marginali ed emarginati gli altri soggetti economici del lavoro; si pensi ai lavori del pubblico impiego, agli artigiani, ai piccoli commercianti, ai lavoratori precari, ai sottoccupati, alle sempre più folte masse di disoccupazione palese o più meno occulta, fino a giungere alle aree sempre più fitte di espulsione e completa emarginazione produttiva, reddituale e sociale.

In tale schema macroeconomico cambia la considerazione dell’impresa non più da individuare come aggregato indistinto, ma piuttosto in funzione del grado di flessibilità imposta al lavoro, finalizzato all’interazione con le altre imprese in modo da realizzare aggregazioni territoriali che caratterizzano il nuovo modello di sviluppo, ma che nel contempo suggeriscono un approfondimento a livello sociale più disaggregato, soffermando in particolare l’attenzione sulle nuove soggettualità sociali del lavoro e del lavoro negato, che hanno rappresentazioni territoriali caratterizzate soprattutto dalla presenza di piccole e medie imprese che ridefiniscono gli assetti di ristrutturazione e ridefinizione sociale e, sul sociale, del capitalismo.

È in tale chiave che va letta la grande importanza che viene attribuita al nuovo concetto di distretto industriale, il quale ha una forte specificità, una propria dimensione socio-economico e territoriale, definita in funzione delle relazioni di coercizione comportamentale complessiva che si instaurano tra imprese e comunità locale e una specifica forzata capacità autocontenitiva in relazione a domanda e offerta di lavoro realizzata tramite marginalizzazione, precarizzazione ed espulsione dei soggetti economici e produttivi non compatibili. Sempre secondo tale interpretazione socio-economica vanno analizzate le trasformazioni tecnologico-produttive che caratterizzano alcune realtà territoriali, determinando la crescita d’importanza di sistemi reticolari, i quali si configurano come reti territoriali che si formano intorno a grandi imprese con forti connotazioni locali e reti risultanti dalla deverticalizzazione congiunta di grandi imprese produttive in ambiti locali e con forti connotati a specializzazione produttiva locale.

Lo studio sulla geografia e sulle modalità sociali dello sviluppo che di seguito si presenta vuol costituire un punto di riferimento di questo nuovo tipo di impostazione. Si utilizzeranno tecniche statistiche di cluster analysis applicate alla struttura occupazionale (su dati ISTAT del Censimento dell’Industria e dei Servizi) relativa alle attività economiche definite da un modello esapartizionale [3], realizzando l’aggregazione per profili economici simili dei 291 bacini occupazionali ISRIL in cui è stato diviso il territorio italiano.

I risultati ottenuti permettono di leggere le linee di tendenza e i mutamenti nella struttura geografica e sociale dello sviluppo economico del Paese, registrate tra i due ultimi Censimento del 1981 e del 1991 e che stanno identificando i processi di trasformazione di questi anni ’90.

Siamo infatti convinti che il lavoro di seguito presentato cerca di indagare l’attuale modello di sviluppo a partire da presupposti statistico-economici, in modo da identificare i singoli sistemi locali ed i contesti territoriali intermedi che li compongono, formulando però nel contempo delle ipotesi socio-politiche riguardanti le linee di tendenza che hanno determinato i cambiamenti del tessuto produttivo italiano e nella composizione di classe.

Come si è scritto in precedenza per realizzare questo studio, i dati comunali sugli occupati sono stati successivamente aggregati in riferimento ai “bacini occupazionali” individuati dall’ISRIL. [4] Si è partiti cioè dal presupposto che il processo di sviluppo socio-economico che interessa il nostro Paese non è spiegabile semplicemente nella dicotomia Nord-Sud, ma da una molteplicità di “localismi” fra loro spesso assai diversi nelle singole specificità ma riportati ad unità ed omogeneità dal fatto che sono distribuiti in tutto il territorio nazionale in maniera da evidenziare dei profili economici similari tali da formare delle “Zone Economiche Omogenee”. Anche in considerazione di ciò si è sostituito al criterio tradizionale di ripartizione territoriale basata su centri amministrativi (comuni,, provincie, regioni) quello della partizione economica del territorio italiano in 291 bacini occupazionali o “sezioni circoscrizionali del lavoro”, cioè i cosiddetti “mercati locali del lavoro ISRIL”.

In Appendice sono riportati i 291 bacini, che possono poi essere visualizzati da un punto di vista geografico-territoriale nella Fig.1; tali bacini saranno quindi utilizzati, come aree economiche di riferimento.

I risultati ottenuti dalla ricerca appaiono di notevole rilievo nella descrizione quantitativa ma anche del carattere qualitativo dei mutamenti strutturali che il nostro sistema economico ha registrato, giacché l’analisi è stata effettuata a livello dei 291 bacini in cui è stato suddiviso il nostro territorio, e aggregati, attraverso clusterizzazione, in Zone Economiche Omogenee. In tal modo analizzando le relazioni tra bacino e Zona di appartenenza si può leggere con immediatezza l’evoluzione del profilo produttivo e socio-economico di ogni singolo bacino e, per aggregazione, delle varie regioni e dell’intero Paese.

Profili economici dei bacini occupazionali

Vocazione e poli

Obiettivo iniziale del lavoro è quello di individuare tra i diversi bacini la propensione più o meno accentuata nei confronti di una o più delle sei attività economiche che si è deciso di distinguere. [5]

A tal fine utilizzando i dati definitivi del Censimento generale del 1981 e i dati del Censimento generale del 1991 si sono calcolati per ciascun bacino occupazionale gli indici di dotazione per ognuna delle quattro attività economiche considerate e i corrispondenti indici di vocazione, i quali, laddove sono risultati maggiori di 1, hanno evidenziato una specifica vocazione del bacino ad una data attività economica oggetto d’analisi [6]. Tra i bacini, poi, a vocazione specifica sono stati individuati i “bacini-polo”, cioè quei bacini che presentano indici di dotazione molto più alti di quello medio nazionale, ovvero quelli il cui indice di dotazione nell’attività economica considerata sia risultato uguale o maggiore al valore risultante dalla somma della dotazione media nazionale e del relativo scarto quadratico medio.

Nella seguente Tav. 1 sono riportati gli indici di dotazione medi nazionali per le sei attività considerate, i relativi scarti quadratici medi, in modo da poter determinare la dotazione minima richiesta al bacino per poterlo considerare “polo”.

Pertanto nel testo tra i bacini a vocazione in una determinata attività economica si distingueranno quelli a vocazione semplice e i cosiddetti bacini polo.

Vocazione e poli nelle attività agricole

Nelle Figg.2 e 3 sono visualizzati i bacini con vocazione all’agricoltura, evidenziando

per primi i bacini-polo e successivamente gli altri bacini a semplice vocazione specifica, aventi cioè indice di vocazione in agricoltura maggiore di 1, che però non assumono la qualifica di polo. Si rileva con immediatezza che fra gli ultimi due censimenti non si sono registrati sostanziali mutamenti nella dotazione agricola; i poli agricoli rimangono concentrati prevalentemente nel Mezzogiorno, nelle colline dell’astigiano, nel cuneese, nella bassa padana ed in parte nelle zone alpine dell’Alto Adige. In particolare in quest’ultima area e in Sardegna si nota un sensibile aumento dei poli, una diminuzione, invece, si osserva in alcune aree del Sud del Paese, come in Campania, in Basilicata, in Puglia.

Gli altri bacini che, pure avendo vocazione specifica all’agricoltura, non assumono però la configurazione di polo, rimangono concentrati, nelle aree suddette e prevalentemente nel Centro-Italia. Le aree a sottodotazione agricola rimangono quelle dell’alta padana, delle prealpi, di molte zone costiere e nelle aree gravitazionali dei maggiori centri urbani.

Vocazione e poli nelle attività industriali

Come appare visualizzato nelle successive Figg. 4 e 5 non ci sono particolari mutamenti nella geografia dei bacini a vocazione industriale. Infatti, tranne rare eccezioni (Fermo, Fabriano, Giulianova, Prato, Empoli, Pontedera), i poli industriali rimangono tutti concentrati nell’Italia del Nord. Nel loro complesso i bacini a vocazione industriale continuano, nei due anni del decennio considerati, ad avere quella forma geografica contigua ad “imbuto” o a Y, che ingloba gran parte dell’Italia Settentrionale arrivando ad interessare la Toscana, le Marche, l’Umbria fino ad alcuni bacini costieri dell’Abruzzo e che si sotituisce all’antico triangolo industriale Milano - Torino - Genova.

Una netta sottodotazione industriale riguarda l’intera Italia meridionale ed insulare, parte dell’Italia centrale, i bacini della Liguria e delle zone alpine dell’Alto Adige. Tuttavia si rileva la nascita di alcuni bacini a vocazione industriale nel litorale abruzzese (ad es. Chieti, Vasto, Lanciano) e la scomparsa di importanti bacini come quelli di Latina, di Cassino; al Nord scompaiono quelli ad esempio di Aosta, Cuneo, ed altri in Lombardia. Sempre nel Nord-Italia si assiste alla trasformazione di varie aree da poli industriali a bacini a semplice vocazione (come ad es. Novara, Varese, Vigevano, e lo stesso bacino di Milano).

Vocazione e poli nelle attività terziarie

È la vocazione del complesso delle attività del terziario che mostra, tra gli ultimi due censimenti, una chiara tendenza alla crescita nel numero dei bacini interessati, dovuta in particolare al forte incremento dei bacini-polo nell’attività dei servizi per le famiglie (che passano da 17 a 33) e ad un aumento dei poli nei servizi di rete (da 19 a 22).

Più specificatamente per la vocazione nelle attività di servizi per le famiglie, che hanno come destinatari esclusivi le famiglie o le singole persone (commercio al minuto, pubblici esercizi e alberghi, servizi di istruzione, sanità e assistenza e i vari servizi alla persona come quelli ricreativi, culturali ecc.), che per la loro caratteristica si diffondono in maniera capillare in rapporto alla concentrazione della popolazione residente, viene confermata (si vedano le Figg. 6 e 7) la localizzazione che riguarda soprattutto le aree ad alta attrazione turistica (bacini montani della Val d’Aosta, della Lombardia, del Trentino Alto Adige e del Veneto; le zone costiere dell’alto Tirreno, dell’alto Adriatico e alcune località turistiche della Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna). Evidenziano una vocazione in tali attività di terziario anche molte aree metropolitane (come Roma, Milano, Firenze, Venezia) che mostrano, oltre a una caratterizzazione di tipo turistico, anche una specializzazione di un terziario orientato al commercio e ai servizi sociali. Inoltre si nota, tranne rare eccezioni, una evidente sottodotazione in tutto il Mezzogiorno, maggiormente accentuata negli anni ‘90 con la scomparsa di alcuni importanti bacini che nel 1981 evidenziavano la vocazione in tale ambito del terziario. Questo spiccato dualismo fra la vocazione del Centro-Nord e quella del Sud è confermato dalla localizzazione dei poli, che nelle aree meridionali ed insulari sono presenti solo in particolari bacini turistici (ad es. Olbia, Taormina, le isole Tremiti). Il forte incremento di bacini-polo continua nel decennio ad interessare le aree alpine, la Liguria, la bassa padana e la Toscana.

Nei servizi a destinazione collettiva vengono incluse tutte le attività della pubblica amministrazione centrale e locale che realizzano produzione di servizi non destinabili alla vendita erogati indistintamente all’intera collettività, ad esclusione di quelli dell’istruzione, della sanità e dell’assistenza sociale classificati nei servizi alle famiglie. Si tratta in sostanza dei servizi riguardanti l’attività degli organi costituzionali, l’amministrazione statale, centrale e periferica, l’amministrazione degli enti locali, la nettezza urbana nonché i servizi collettivi relativi alla giustizia, alla sicurezza e difesa nazionale, alla sicurezza sociale obbligatoria. Data la loro natura, tali servizi hanno motivazioni localizzative molto peculiari, che trascendono la logica di mercato. Pertanto la loro dotazione interessa maggiormente i centri urbani, in cui più spiccate sono le attività amministrative di coordinamento e controllo. Dall’analisi della mappa geografica (vedi Figg. 8 e 9) della vocazione di tali tipi di servizi risulta tuttavia una accentuazione in particolari aree del Paese, dove non si riscontra una forte concentrazione di popolazione residente. La più o meno ampia diffusione dei servizi a destinazione collettiva interessa in maniera più accentuata le zone del Centro-Sud del Paese. In tali aree intensa appare anche la presenza di bacini-polo e si conferma la sostanziale stazionarietà geografica e quantitativa, anche se alcuni bacini perdono la caratteristica di polo che avevano ad inizio degli anni ‘80 (come ad es. Venezia, Lucca, Ascoli Piceno, Salerno, Foggia), per assumerla, negli anni ’90, altri bacini come Imperia, Firenze, Perugia, Agrigento, Cagliari ed altri.

La distribuzione degli addetti nella tipologia dei servizi di rete (che sono quelli indirizzati sia al consumo intermedio delle imprese sia al consumo finale delle famiglie, al fine di realizzare l’interconnessione fisica e funzionale di tutti gli operatori economici), mostra nel decennio una pressoché invariata distribuzione geografica della vocazione territoriale. Infatti, come si può osservare dalle Figg. 10 e 11, i bacini con indice di dotazione maggiore della media nazionale in tale tipo di attività terziarie rimangono localizzati prevalentemente al Centro-Nord, interessando località che possono definirsi veri e propri snodi comunicazionali, importanti aree urbano-metropolitane e bacini ad alta concentrazione di imprese. Si tratta comunque sempre di centri in grado di servire e diffondere nelle zone circostanti attività di trasporto e di comunicazione, servizi finanziari, di credito e assicurativi. Si evidenziano ad esempio i bacini di Aosta, Bolzano, Torino, Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Pisa, Roma, Pescara ecc. Anche per questo tipo di attività di servizi si conferma nel Mezzogiorno una forte sottodotazione, con la presenza negli anni ‘90 dei soli bacini a vocazione semplice di Reggio Calabria, Messina, Sassari e Cagliari e dei due poli di Olbia e Pescara. Gli altri bacini-polo di rete, che sono passati a 22 rispetto ai 19 del 1981, rimangono dislocati al Centro-Nord.

Per i bacini a vocazione nei servizi al sistema produttivo, cioè quelle attività terziarie che si indirizzano esclusivamente all’operatore imprese (si tratta ad es. del commercio all’ingrosso, noleggio, servizi vari alle imprese come ricerca, sviluppo, pubblicità, informatica, consulenze contabili, fiscali, legali ecc.), e che quindi si concentrano maggiormente dove è alta la densità di unità locali produttive, non si evidenziano sostanziali mutamenti nella loro distribuzione geografica, come si può notare nelle Figg. 12 e 13. Trattandosi di servizi che per loro natura più strettamente si collegano alle altre attività economiche, in particolare a quelle industriali e terziarie, è naturale che realizzino localizzazioni di bacini con indice di dotazione maggiore della media nazionale quasi esclusivamente nel Centro-Nord, con l’eccezione nel 1981 di Pescara (bacino-polo), Bari, Olbia, Cagliari, Lentini, Catania; mentre i dati riferiti agli anni ’90 rimangono nel Mezzogiorno i soli bacini a vocazione semplice di Pescara, Bari e Cagliari. I poli nei servizi al sistema produttivo passano da 18 a 19, interessando le più importanti aree industriali-terziarie del Nord.


Le Zone Economiche Omogenee [7]

Nei capitoli precedenti l’analisi è stata sviluppata a partire dalle singole attività economiche considerate, in modo da studiare la distribuzione territoriale delle sei attività produttive considerate separatamente.

Qui di seguito l’analisi viene effettuata considerando le attività economiche congiuntamente, in modo da costruire profili economici globali dei bacini. Si sono analizzati i 291 bacini occupazionali ISRIL, associando loro i rispettivi indici di dotazione per le sei attività considerate, e, attraverso la tecnica di cluster analysis, si sono costruite le Zone Economiche Omogenee (ZEO) non contigue e formate da bacini con profili economici simili tra loro e certamente dissimili da quelli inseriti in gruppi formati da altre Zone [8].

Si è in tal modo potuto procedere ad una suddivisione del territorio italiano in Zone Economiche Omogenee, così da ottenere mappe geografico-economiche immediatamente confrontabili tra l’inizio degli anni ’80 e gli anni ‘90, ed evidenziare, quindi, i mutamenti nella geografia dello sviluppo economico in Italia (vedi la Nota Metodologica alla fine del lavoro).

In questa parte della ricerca sono confrontati i risultati ottenuti dal processo di aggregazione dei bacini in Zone Economiche Omogenee per il decennio considerato. Premesso che, escludendo le attività classificate nei Servizi a destinazione collettiva, si ottengono indici di dotazione medi totali nazionali pari al 30,62% per il 1981 e al 31,66% nel 1991, il Paese risulta suddiviso in cinque macroaree economiche, ognuna delle quali individua una o più Zone Economiche Omogenee, così come emerge dalla Tav.2 [9].

La situazione a inizio degli anni ’80 conduce all’individuazione di sette Zone Economiche Omogenee. Di queste, due sono tipiche del Mezzogiorno d’Italia, raggruppano 129 bacini e presentano un basso livello di attività complessivo. Tali Zone riguardano : a) la “ZEO Solo Agricola”, caratterizzata da una dotazione di attività agricole superiore a quella media nazionale, mentre l’industria e i servizi evidenziano tutti significativi livelli di sottodotazione; b) la “ZEO Basso Terziaria Agricola” la quale, a fronte di una dotazione all’incirca media per l’agricoltura, appare, rispetto alla precedente Zona, meno sottodotata per quanto riguarda le attività industriali, dei servizi al sistema produttivo e di rete, e presenta inoltre una struttura occupazionale prossima alla media nazionale nei servizi alle famiglie. Altre due Zone economiche Omogenee, che raggruppano 65 bacini, sono individuabili nel Nord Italia e riguardano: a) la “ ZEO Industriale” che evidenzia dotazioni molto elevate per l’industria e in media nazionale per le attività del terziario, mentre bassa è la dotazione per l’agricoltura; b) la “ZEO Terziaria-Industriale” per la quale, alle alte dotazioni nell’industria e basse in agricoltura, corrispondono tassi di attività significativamente alti nel terziario, in particolare per i servizi al sistema produttivo. Si possono ancora definire altre due Zone a struttura produttiva omogenea, con 81 bacini, che evidenziano livelli medi di attività complessiva e che si distribuiscono in maniera molto diffusa nelle aree centro-settentrionali del Paese. Esse si riferiscono : a) alla “ZEO Polivalente Industriale-Agricola”, che presenta dotazioni medio alte in tutte le attività produttive considerate ma a più spiccata propensione nelle attività industriali e agricole; b) alla “ZEO Terziaria Media Diffusa”, con basse dotazioni in agricoltura, medie per le attività industriali e dei servizi al sistema produttivo, cui si accompagnano tassi di attività medio alti nei servizi di rete e in quelli indirizzati esclusivamente alle famiglie.

Infine è individuabile una macroarea di 15 bacini formata da Centri Direzionali, situati nel Centro-Nord del Paese, che non presentano mai fra loro carattere di contiguità, per i quali risulta una struttura occupazionale caratterizzata da dotazioni molto basse per l’agricoltura e in media nazionale per l’industria, mentre alte appaiono le dotazioni in tutte le attività terziarie, in particolare in quelle dei servizi di rete.

Nel decennio considerato le Zone Economiche Omogenee passano da sette a otto; di queste, Clicca sulla tabella per ingrandirlasei presentano un profilo economico molto simile a quello delle corrispondenti Zone di inizio degli anni ‘80, anche se si verificano “travasi” di bacini da un’area all’altra. Rispetto al decennio precedente, però, quasi tutte le Zone sono caratterizzate da un apprezzabile aumento del valore dell’indice di dotazione medio delle attività terziarie.

Un cenno merita quanto avvenuto nelle rimanenti due Zone per l’importanza economica che la questione riveste. Nel decennio la Zona del Nord a pura vocazione industriale registra una profonda trasformazione del suo apparato produttivo: agli elevati indici dell’attività industriale si accompagna negli anni ‘90 una specifica ed alta dotazione di terziario per l’impresa. Tale trasformazione, che sta ad indicare il ruolo decisivo che il terziario presenta nella determinazione dello sviluppo e dell’efficienza della produzione industriale, ha suggerito il mutamento della precedente denominazione “ZEO Industriale” in quella, più aderente alla realtà territoriale ed economico-funzionale, di “ZEO Industriale Terziarizzata”. Nasce, infine, una nuova Zona detta “ZEO Turistica-Polivalente Commerciale” che evidenzia specifiche caratterizzazioni da area turistica fortemente attrezzata, con una struttura occupazionale che in tutte le attività è nella media nazionale, mentre presenta una forte dotazione nei servizi alle famiglie.

Nelle Figg. 14 e 15 si ha una visione completa e particolareggiata del fenomeno, che aiuta a individuare e a far comprendere i processi di mutamento nella geografia di sviluppo, anche in relazione ai processi di terziarizzazione, anche se a volte derivanti da fenomeni tra loro diversi, che stanno interessando il nostro Paese in maniera così profonda e significativa. Per facilitare l’osservazione delle Figg.14 e 15 si leggano i colori delle varie Zone relazionandoli al numero di cluster identificato nelle prime due colonne della Tav.2.

L’Italia meridionale e insulare continua nel decennio di riferimento ad evidenziare uno sviluppo a caratterizzazione prevalentemente agricola accompagnato però da una più significativa presenza di attività dei servizi, che cominciano a differenziare e qualificare processi di crescita basati su un terziario non più legato solo alle attività delle Amministrazioni Pubbliche. Il Centro-Nord, presenta profonde trasformazioni del suo apparato produttivo. Tali mutamenti sono soprattutto dovuti ad una diminuzione del peso delle attività agricole e alla diversificazione delle attività industriali; quest’ultime perdono di importanza quantitativa ma si rafforzano qualitativamente, poiché spesso intorno all’industria si è creato o consolidato un tessuto connettivo economico a carattere terziario, spesso di terziario moderno e avanzato.

Dall’osservazione delle Figg. 14 e 15, infatti, risulta evidente che alla crescita nel Mezzogiorno della “ZEO Basso Terziaria Agricola” corrisponde una sostanziale diminuita presenza della “ZEO Solo Agricola” e un aumento dei bacini meridionali appartenenti alla “ZEO Polivalente Industriale-Agricola” e alla “ZEO Terziaria Media Diffusa”. La decisa tendenza del Paese alla terziarizzazione appare però più evidente nelle dinamiche evolutive della crescita del Centro-Nord, dove, come già evidenziato, oltre alla trasformazione dell’area prettamente industriale del Nord in “ZEO Industriale Terziarizzata”, si assiste ad un forte incremento dei bacini appartenenti alla “ZEO Polivalente Industriale-Agricola”, i quali, passando da 38 a 51, rafforzano il tessuto produttivo della fascia costiera adriatica fino ad interessare località della Puglia. A ciò si aggiunge una più spiccata e rilevante caratterizzazione della “ZEO Terziaria Media Diffusa”: questa assume una configurazione geografica continua quasi a forma di S, interessando le aree alpine e subalpine per scendere in Liguria e toccare i bacini dell’Alto Tirreno, rafforzandosi poi sul dorsale medio appenninico, fino a perdere il carattere di contiguità coinvolgendo diversi bacini sparsi del meridione e delle isole.

La propensione alla specializzazione delle attività terziarie trova conferma nella nuova presenza di una Zona a specifica caratterizzazione turistica che include nove importanti bacini del Trentino, della Valle d’Aosta, della Liguria, l’isola di Ponza, le Tremiti e Taormina.

Un discorso a parte merita la macroarea a carattere direzionale, poiché più che di una vera e propria Zona si tratta di bacini costruiti intorno a capoluoghi di provincia e/o di regione, a conferma di una specializzazione economica tipica di un centro urbano-metropolitano. Si tratta cioè di centri che appaiono spesso isolati, che sono tutti situati al settentrione e al centro dell’Italia (uniche eccezioni nel Sud sono Pescara e Olbia), e che assumono un’importanza strategica per le modalità di sviluppo non solo delle aree a queste contigue ma per l’intera crescita del Paese. In tutti questi centri (15 nel 1981 e 17 nel 1991, come ad esempio Roma, Firenze, Bologna, Venezia, Trieste, Genova, Savona , Milano ma solo per il 1981, Siena e Aosta solo per il 1991) si realizzano fondamentali funzioni direzionali di irradiazione delle linee di sviluppo, contagiando e fertilizzando le località limitrofe di attività di crescita basate, soprattutto, su servizi per il terziario.

La tendenza del Paese ad intensi e diversificati processi di terziarizzazione emerge con evidenza anche dall’analisi territorialmente disaggregata a livello regionale (Tav.3).

Infatti, per le regioni settentrionali, sia quelle appartenenti all’area Nord-Occidentale sia quelle del Nord-Est, si rileva, sempre nel decennio di riferimento, una trasformazione dei bacini a dotazione industriale in una nuova caratterizzazione da industria sempre più supportata da specifiche, ridefinite e più diffuse attività di servizio. Le regioni dell’Italia centrale fanno registrare trasformazioni similari a quelle registrate nel Nord, anche se è maggiormente evidente la riqualificazione di un tessuto terziario più connesso e qualificante le altre attività produttive. Le regioni meridionali e insulari, pur confermando nella quasi totalità una struttura economica complessivamente depressa e a scarso potenziale di sviluppo economico equilibrato, fanno comunque registrare, a fronte di una significativa diminuita presenza di bacini a quasi esclusiva caratterizzazione agricola, una più marcata presenza di un tessuto terziario misto, che prevalentemente si innesta sulle attività agricole. Ma il Sud non va considerato come sviluppo localizzativo determinato da variabili indipendenti e lo scompenso economico si è avuto per il voluto e mancato coinvolgimento del Meridione nelle scelte connesse al modello nazionale di sviluppo. Il dualismo nella struttura produttiva, la distorsione nei consumi, la distanza economica tra Nord e Sud è conseguenza della crescita dei comparti avanzati dell’economia nei luoghi dove si trovano già elementi ereditati dell’industrializzazione. Il sottosviluppo del Sud è funzionale al modello voluto dal grande capitalismo nazionale, cioè una distorsione imposta e funzionale del modello di capitalismo italiano, non solo di natura congiunturale ma strutturale, perché così voluto dalle scelte di politica economica nate dal connubio affari-politica, capitalismo e sua rappresentazione statuale-istituzionale.

A questo punto appare abbastanza evidente la tendenza del nostro assetto produttivo ad intensi e qualificati processi di terziarizzazione, dimostrati non solo attraverso la contrazione del numero di bacini nelle Zone a prevalente caratterizzazione agricola, ma da più o meno evidenti processi di deindustrializzazione. Tali processi realizzano nel contempo un consolidamento quantitativo e qualitativo del tessuto terziario, provocando mutamenti soprattutto in termini qualitativi nella struttura occupazionale delle Zone a profilo più spiccatamente industriale. Quest’ultime, poi, risultano rafforzate e maggiormente orientate ad un forte ed equilibrato sviluppo a causa del mix che si crea quando l’industria viene supportata da una specializzata, diffusa e ben orientata attività di servizio.

Alcune riflessioni sui risultati

Di seguito si presentano delle considerazioni aggiuntive alle riflessioni sui mutamenti Clicca sulla tabella per ingrandirla

avvenuti tra gli anni ’80 e questi primi anni ’90 nella geografia dello sviluppo economico del Paese scaturite dall’osservazione e dal commento dei risultati ottenuti.

Potendo ora avere una visione d’insieme ci si rende conto di quanto sia stato importante lavorare in due ottiche diverse; la prima indirizzata allo studio della distribuzione geografica degli indici di dotazione delle sei attività economiche prese singolarmente, che ha permesso di individuare le vocazioni economiche dei singoli bacini, evidenziando successivamente quelli a spiccata vocazione in una o più attività, definiti “poli”. Il secondo punto di vista, realizzato attraverso la metodologia di cluster analysis, ha permesso l’individuazione di Zone Economiche Omogenee, abbandonando l’approccio precedente basato sulle singole attività, ma andando invece a considerare la similarità dei profili economico-produttivi complessivi dei bacini, in modo che si potessero ritrovare nella stessa Zona Economica l’insieme dei bacini fra loro “più simili” e quindi “meno distanti” in quanto ad omogeneità rispetto alla dotazione nelle attività economiche che le caratterizza.

Si sono così meglio potute individuare le dinamiche evolutive dello sviluppo economico, i mutamenti in atto e i diversi modi di presentarsi delle attività produttive, in particolare delle attività a carattere terziario che evidenziano una loro diffusa presenza su tutto il territorio nazionale diventano fattore caratterizzante dello sviluppo dell’economia del Paese nel suo complesso.

Continua la tendenza del nostro assetto produttivo alla terziarizzazione, accompagnata oltre che da un evidente diminuito peso dell’agricoltura anche da più o meno evidenti processi di deindustrializzazione.

Infatti i risultati ottenuti dalla comparazione dei profili produttivi dei diversi bacini e la diversa articolazione e composizione delle Zone Economiche Omogenee indicano con chiarezza che la trasformazione della geografia dello sviluppo nel nostro Paese, avvenuta nel decennio considerato, è dovuta, oltre che ad un intenso processo di terziarizzazione, anche ad una diversa connotazione sia quantitativa sia, soprattutto, qualitativa delle attività di servizio, di cui l’analisi proposta individua forti processi di ridefinizione, specializzazione e diversificazione.

In particolare, dai risultati emerge un terziario che sempre più interagisce e si integra con le altre attività produttive, specialmente con quelle industriali, determinando un nuovo modello localizzativo di sviluppo che può definirsi come “tessuto a multilivello di irradiazione terziaria”. Si tratta, cioè, di un terziario che è venuto assumendo un ruolo sempre più propulsivo e trainante del modello di sviluppo economico, non spiegabile soltanto da semplici processi di deindustrializzazione o di ristrutturazione e riconversione industriale, ma dalle esigenze di ristrutturazione e diversificazione del modello di capitalismo italiano.

Tali processi necessitano di una diversa e più articolata documentazione statistico-economica e di una più attenta lettura socio-politica; ha bisogno di nuove logiche interpretative, di nuovi strumenti ignorati dalle analisi di impostazione industrialista. Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando il sistema socio-economico sono soprattutto trasformazioni che nascono dalla continua interazione del terziario con il resto del sistema produttivo nate dall’esigenza di ridefinizione produttiva e sociale del capitale. Per poter essere lette sono pertanto necessarie analisi fortemente disaggregate della distribuzione localizzativa delle attività da confrontare con una lettura più squisitamente sociale e politico-economica anche dei nuovi fenomeni imprenditoriali che come vedremo nel seguito, si configurano in forme occulte di lavoro subordinato, precarizzato, non garantito, di lavoro autonomo di seconda generazione che maschera la cruda realtà dell’espulsione dal ciclo produttivo; si tratta di nuova emarginazione sociale altro che autoimprenditorialità!

4. Un’analisi statistico-economica ulle dinamiche socio-localizzative della funzione imprenditoriale [10]

Introduzione alla costruzione dei coefficienti di localizzazione imprenditoriale

Dall’analisi precedente e da un’attenta lettura della realtà odierna, sia sociale sia aziendale, si individuano un nuovo ruolo e una diversa funzione delle dinamiche dello sviluppo che vanno relazionate alle connotazioni del soggetto imprenditoriale.

La gestione dell’azienda in Italia, sempre avvenuta nell’interesse di pochi soggetti economici, sta portando sicuramente ad un suo lento declino a forti processi di ridefinizione. Il capitalismo italiano non è stato in grado di realizzare imprese con caratteristiche nuove, dotate di dinamismo, di autonomia, con facile accesso ai finanziamenti e soprattutto tali che non siano guidate da vertici ristretti ma piuttosto da una varietà di soggetti economici. I rapporti fra lavoratori e impresa hanno sempre al più riguardato solo la responsabilità e la contrattazione, aumentando ritmi, produttività e quindi lo sfruttamento dei lavoratori, sempre più utilizzati in funzione di forme diversificate di conflitto orizzontale interno alla classe finalizzato alle motivazioni, aspirazioni e compatibilità con gli obiettivi aziendali. Le varie nuove forme di collaborazione a connotato cooperativo e concertativo hanno solo portato alla compressione dei diritti sindacali acquisiti con lunghe stagioni di lotte operaie, acutizzando peraltro gli svantaggi sociali dello sviluppo, realizzando un blocco sociale di un vero e proprio modello consociativo incentrato su relazioni industriali esclusivamente finalizzate alla performance d’impresa e alla rottura della solidarietà ed unità di classe dei lavoratori.

Nonostante l’enunciazione di vari principi innovativi espressi in fasi diverse da varie componenti imprenditoriali governative e sindacali, non si è realizzata una forma-azienda libera dai vincoli imposti dalle famiglie proprietarie, dai grandi azionisti, con obiettivi di lungo periodo realizzabili con il contributo di tutti gli operatori interessati al suo sviluppo.

In questa parte del lavoro si vuole porre l’accento sull’evoluzione delle figure e del ruolo dell’imprenditore, individuando nella funzione imprenditoriale una valenza socio-economica predominante e capace di determinare i modi di essere degli aspetti caratterizzanti soggettualità produttive che man mano si presentano sulla scena sociale. Tale funzione imprenditoriale ha ormai assunto una valenza strategica nella regolazione e nel governo-controllo del multiforme conflitto sociale. Si realizza così un nuovo blocco sociale che si amalgama intorno ad una centralità dell’organizzazione aziendale che sempre più interagisce con l’intero macro-sistema ambientale, che nel territorio si alimenta e si sviluppa attraverso la realizzazione di flussi informativi e comunicazionali che attraversano e condizionano i comportamenti dell’intero corpo sociale.

È, quindi, il processo, il potere decisionale a valenza strategica basato sulla centralità d’impresa, il momento cruciale della moderna funzione imprenditoriale, la quale, diffondendosi nel territorio, crea, oltre a nuove unità produttive, nuovi soggetti interni rispetto alle compatibilità economiche del capitalismo, ma che in ogni caso si allontanano dal punto di vista dell’antagonismo della classe lavoratrice, realizzando più o meno coscientemente consenso intorno alla formula d’imprenditorialità e alla cultura d’impresa. Una cultura che spesso finge di far propri gli interessi generali e di potersi basare su solidi presupposti finalizzati al raggiungimento di obiettivi di carattere sociale.

Il momento di diffusione della cultura d’impresa, almeno inizialmente è, necessariamente, legato alla località in cui si è originata l’idea imprenditoriale, dove si è generata la funzione imprenditoriale e dove continua ad avere sede l’unità decisionale d’impresa.

Come il sistema economico, nella sua accezione di sistema di relazioni socio-economico-giuridiche attinenti alla interrelazione decisionale e allo scambio di diritti-doveri a finalità economica, è tenuto distinto dal sistema produttivo, inteso come intreccio relazionale riguardante i vari aspetti del processo produttivo, così l’attività economica va differenziata tra il momento decisionale e il momento produttivo. Il primo è riferito alla “unità decisionale”, ossia all’impresa propriamente detta, individuata nella sede centrale dove è nata e risiede la funzione imprenditoriale originaria. L’unità decisionale, ha quindi le modalità e i caratteri di soggettività imprenditoriale, in grado conseguentemente di esprimere autonoma capacità e potere decisionale, sia verso l’organizzazione aziendale interna sia verso tutto il macro-sistema ambientale esterno, verso il tessuto sociale territoriale.

Non tutte le unità produttive sono dotate di tale autonomia decisionale e di autonoma funzione imprenditoriale; quando tali requisiti di autonomia mancano, si è in presenza di unità produttive decentrate (dette anche stabilimenti, unità locali), dove materialmente si realizzano i prodotti attraverso la combinazione dei fattori produttivi; tali unità produttive sono destinatarie di una funzione imprenditoriale generata dall’unità decisionale e poi diffusa nel territorio. Le unità locali sono unità del sistema produttivo e non coincidono numericamente con le imprese (unità decisionali), giacchè un’ impresa può essere formata e/o può controllare più unità locali anche mediante la trasmissione della formula e della funzione imprenditoriale originaria.

Indagare l’economia di un paese attraverso parametri riferibili alle unità decisionali oppure alle unità produttive, conduce ovviamente ad avere sotto controllo quadri di riferimento diversi e, quindi, un’errata impostazione nelle unità d’indagine può portare a distorsioni nelle analisi politico-economiche.

A questo punto occorre porre l’accento su una problematica che appare indispensabile alla comprensione della complessa realtà imprenditoriale che si sviluppa in un ambiente innovativo e turbolento come quello attuale. È da ritenersi superata l’impostazione neoclassica secondo la quale l’impresa e l’imprenditore costituiscono un’unità inscindibile che trovano la realizzazione in una funzione di produzione condizionata e definita dalle leggi di mercato.

La funzione imprenditoriale moderna, intesa come insieme di processi decisori a valenza strategica, non è sempre vincolata all’esistenza dell’impresa come unità organizzativa autonoma e, ormai, considerata non necessariamente dipendente dal mercato. Va sottolineato inoltre, che nella realtà aziendale moderna la funzione imprenditoriale, i processi, i momenti, le formule decisionali strategiche non sono più incarnate nell’imprenditore singolo (il capitalista-proprietario) ma in un “team”, in un pool di soggetti,in un imprenditore plurimo.

Anche per questo oggi non disponiamo di un indicatore in grado di fornire valutazioni oggettivanti la dotazione imprenditoriale delle varie realtà territoriali e conseguentemente capace di indagare la dinamicità della funzione imprenditoriale. Nelle pagine che seguono verrà proposta e illustrata una “mappatura” delle dotazioni imprenditoriali realizzata attraverso la costruzione di un indicatore, studiato da chi scrive, che, utilizzando le statistiche oggi disponibili, sembra presentare un contenuto e un significato tali da permettere valide misurazioni del grado di dotazione e conseguentemente del grado di dipendenza che tra le varie aree del Paese si registra in ordine alla disponibilità di forze e funzioni imprenditoriali.

Determinata la modalità di costruzione dei coefficienti di localizzazione imprenditoriale [11] i dati comunali sui lavoratori dipendenti sono stati successivamente aggregati in riferimento ai “bacini occupazionali” individuati dall’ISRIL. Si è voluto così inserire anche questo lavoro nel filone di studi che analizza i processi dello sviluppo economico in Italia in relazione alla molteplicità e diversità economica esistente tra le varie parti del Paese. Per far ciò, come si può vedere in una ormai ricca letteratura, si deve abbandonare la tradizionale ripartizione del territorio basata sulle entità amministrative (comuni, provincie, regioni) sostituendola con quella delle aree economiche di riferimento, molto più significativa in un’ottica di analisi economico-territoriale, basata sulla divisione del Paese in 291 bacini occupazionali, anche detti “mercati locali del lavoro”. Si può in tal modo immediatamente effettuare una comparazione relativamente agli stessi bacini territoriali fra dotazione e vocazione ad una o più attività economiche, così come indagato nel precedente Capitolo 3, e dotazione di una propria funzione imprenditoriale sviluppata in loco o acquisita attraverso una dipendenza imprenditoriale originatasi in altre aree territoriali.

Partendo dalla costruzione dei coefficienti di localizzazione imprenditoriale e scegliendo di aggregare i dati comunali relativi ai lavoratori dipendenti in aree economiche di riferimento, si giunge a visualizzare, attraverso “mappe” a significato geografico-economico, delle partizioni territoriali del nostro Paese più o meno dotate in termini di imprenditorialità.

Si individuano così bacini, o per accorpamento intere aree, con una dotazione imprenditoriale “più che sufficiente”, quindi capaci non solo di “generare” imprenditorialità ma anche in grado di diffonderla (di “esportarla”) in altre località. Nel senso già descritto, si tratta di località che hanno mostrato nel tempo una capacità di rendere dinamica la funzione imprenditoriale, in una o più attività economiche, generata nel luogo diffondendola nel territorio; si tratta in ultima istanza di Comuni, di località in grado di propagare la cultura e la formula imprenditoriale in altre località attraverso l’insediamento di nuove unità produttive.

All’inverso, si possono individuare località a dotazione imprenditoriale “insufficiente” quando il Comune indagato, pur presentando ad esempio un elevato numero di unità produttive in una determinata attività economica, dipende dal punto di vista decisionale da una funzione imprenditoriale che è stata generata altrove, che è originaria di un’altra località e si è poi “dinamizzata” e diffusa, “contaminando” la località oggetto di studio. Tali Comuni a sottodotazione imprenditoriale, cioè dipendenti da una imprenditorialità generata altrove, ad “insufficienza” imprenditoriale locale e destinatari di una funzione imprenditoriale proveniente da un’altra località, sono, in ultima analisi, da considerare aree “importatrici” di imprenditorialità in una, diverse, o addirittura nella totalità delle attività produttive considerate in questa indagine.

Così se si rapportano i lavoratori dipendenti rilevati dall’INPS e quelli rilevati dall’ISTAT con riferimento allo stesso bacino occupazionale e allo stesso tempo di riferimento, si hanno dei coefficienti di localizzazione imprenditoriale che nel caso in cui risultino maggiori di 1, proprio in funzione delle diverse modalità di rilevazione dei dipendenti [12], forniscono un indice della capacità di “esportazione” imprenditoriale della località indagata; evidenziando, cioè una dotazione imprenditoriale “più che sufficiente”, quindi in chiave dinamica, una capacità di propagare, trasferire e diffondere in altre aree territoriali una funzione imprenditoriale originatasi nella località studiata. Tale coefficiente, avrà un carattere generale nel caso si consideri il totale delle attività produttive indagate, cioè il totale dei lavoratori riferiti a tutte le unità economiche dipendenti operanti in quel territorio; oppure si tratterà di un coefficiente specifico di localizzazione imprenditoriale se il rapporto è costruito tra il numero dei lavoratori dipendenti operanti solo in determinate attività produttive presenti nella stessa unità territoriale [13].

È ovvio che se il rapporto risulta inferiore ad 1 si ottengono coefficienti, generali o specifici, che manifestano la scarsa propensione a generare imprenditorialità locale dell’unità territoriale indagata, evidenziando cioè una situazione di sottodotazione, di “insufficienza” imprenditoriale originata in loco, e quindi di dipendenza, di “importazione” imprenditoriale di tale bacino occupazionale.

Si vengono in tal modo a determinare per ognuno dei 291 bacini occupazionali e per ciascuna delle attività economiche considerate dei valori dei coefficienti di localizzazione imprenditoriale che, in pratica, ne indicano il grado di “dotazione” imprenditoriale.


La geografia dell’imprenditorialità in Italia

I coefficienti di localizzazione imprenditoriale a carattere generale

Come già evidenziato in precedenza, se per ogni mercato locale del lavoro, o bacino occupazionale, si indagano contemporaneamente l’insieme di tutte le attività economiche per cui sono disponibili le informazioni statistiche e che sono considerate in questo lavoro, si determinano i coefficienti di localizzazione imprenditoriale a carattere generale”. Si tratta cioè di indici che forniscono il livello complessivo di “dotazione” imprenditoriale generata nel singolo bacino, cioè, come già più volte osservato, si tratta di misurare l’idoneità di una località a diffondere in altre aree la funzione imprenditoriale generata sul luogo; oppure l’ “insufficienza”, il grado di dipendenza del bacino da una funzione imprenditoriale proveniente da altre località. Tali coefficienti misurano quindi la capacità di “esportazione” o di “importazione” d’imprenditorialità di una determinata località riferita al totale delle attività produttive indagate. [14]

La visualizzazione delle aree economiche definite secondo la diversa “vocazione” (capacità) generale all’esportazione o all’importazione di imprenditorialità è riportata nella Fig.16.

Si nota con immediatezza che, con riferimento al totale delle attività considerate, i bacini a dotazione imprenditoriale “più che sufficiente” rappresentano un’esigua minoranza rispetto al totale , senza mai costituire aree territoriali a carattere contiguo. Infatti i bacini in grado di diffondere in altre aree una funzione imprenditoriale originata in loco, i cosiddetti esportatori (22 in totale), presentano una maggiore concentrazione nell’Italia del Nord. Tra questi si evidenziano in particolare i bacini di Torino, Milano, Genova, Ivrea, Casale Monferrato, Trieste, Reggio Emilia. Nel Mezzogiorno si individuano soltanto 7 bacini a spiccata dotazione imprenditoriale: Napoli, Salerno, Manfredonia, Caltanisetta, Agira, Trapani e Corleone. Tra i bacini a dotazione “più che sufficiente” si individuano soltanto 5 poli imprenditoriali (Milano, Genova, Trieste, Roma e Corleone, in Sicilia) tra i quali il valore massimo assunto dal coefficiente di localizzazione imprenditoriale è a Roma con 1,43 [15]. La “mappa” della sottodotazione imprenditoriale ha carattere contiguo interessando significativamente l’intero territorio nazionale , ma la cosiddetta importazione di imprenditorialità (che interessa complessivamente 226 bacini) si accentua notevolmente nell’Italia Meridionale ed Insulare. È inoltre proprio in queste due aree del Paese che si vengono a concentrare la gran parte dei bacini a dotazione imprenditoriale cosiddetta “molto bassa” (83 bacini) interessando in particolare e in modo più accentuato la Campania, la Calabria, la Sicilia (maggiormente la parte orientale) e la Sardegna.

I coefficienti di localizzazione imprenditoriale a carattere specifico per le Attività Industriali

In precedenza si è messo in evidenza che se per i singoli bacini occupazionali si costruiscono i rapporti fra il numero dei dipendenti INPS e quello dei dipendenti rilevati dall’ISTAT, rilevazioni entrambe effettuate ad Ottobre 1991, facendo riferimento alle singole attività economiche indagate in questo lavoro, allora si ottengono dei coefficienti di localizzazione imprenditoriale a carattere “specifico”. Si tratta di coefficienti, cioè, in grado di segnalare la “dotazione” locale di imprenditorialità dei vari bacini nella specifica attività economica considerata. In altri termini, come più volte osservato, sono indici misuratori della capacità di diffondere (“esportazione”) o di ricevere (“importazione”) imprenditorialità riferita ad una determinata località e per le varie attività oggetto di indagine.

È interessante indagare la distribuzione geografica a partire dal calcolo dei coefficienti di localizzazione imprenditoriale ottenuti dalla rilevazione contemporanea dell’insieme di tutte le Attività Industriali considerate in questo studio.

La lettura della rappresentazione geografica in Fig. 17, mette in luce una distribuzione territoriale dell’imprenditorialità industriale che forma un’area abbastanza contigua di sottodotazione; tale area a partire dai bacini alpini, e in particolare dall’Italia Nord-Occidentale, percorre l’intera penisola, per poi interessare la parte orientale della Sicilia e quasi tutti i bacini della Sardegna.

Tra i 179 bacini importatori di imprenditorialità se ne individuano, poi, ben 54 a dotazione imprenditoriale “molto bassa” , che se al Nord sono presenti in soli 9 casi e in maniera molto isolata (Pinerolo, Cuneo, Albenga, Chiavari, Crema, Suzzara,Feltre, Spilimbergo, Gorizia), al Centro-Sud e nelle due grandi isole, formano varie zone a più o meno forte densità (in particolare fra l’Umbria, l’Abruzzo e il Lazio, fra la Puglia e la Campania, in Calabria, in Sardegna e nell’area sud-orientale della Sicilia).

I bacini a dotazione imprenditoriale locale definita “più che sufficiente” formano aree più o meno contigue soltanto nell’ Italia Nord-Orientale, fino a raggiungere l’Emilia Romagna, e in buona parte della Sicilia (esclusa quella orientale); nel resto del Paese la distribuzione dei bacini a forte imprenditorialità è a “ chiazze” di piccola estensione. Tra i 53 bacini esportatori si individuano 16 poli imprenditoriali che interessano i grandi centri industriali del Nord (Torino, Milano, Genova, Trieste), alcune particolari realtà (come: Ivrea, Casale Monferrato, Fabriano), alcuni importanti centri urbani dell’Italia Centro-Meridionale (Roma, Napoli, Salerno e Cosenza) ed, infine, un’area abbastanza omogenea della Sicilia occidentale con ben 5 poli (Trapani, Marsala, Corleone, Agrigento, Caltanisetta).

La distribuzione territoriale dell’imprenditorialità per il Settore del Commercio

Il settore del Commercio presenta una fortissima diffusione della sottodotazione imprenditoriale su tutto il territorio nazionale. A fronte di soli 18 bacini esportatori si hanno nel complesso ben 248 bacini a sottodotazione imprenditoriale. Tra questi ultimi si rilevano 101 bacini a dotazione imprenditoriale “molto bassa” che si situano (si veda la Fig. 18) per lo più nelle regioni dell’Italia Meridionale e Insulare, con forte concentrazione in particolare in Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna.

I bacini in grado di diffondere in altre località una funzione imprenditoriale originata in loco sono tutti situati nell’Italia del Nord (eccetto Piombino, Ascoli Piceno e Bussi sul Tirino) ma in forma sparsa e isolata senza mai costituire aree omogenee. Tra questi emergono 6 bacini- polo (Milano, Venezia, Camposanpiero, Reggio Emilia, Piombino e Ascoli Piceno) sempre inseriti in partizioni territoriali a sottodotazione imprenditoriale.

La distribuzione territoriale dell’imprenditorialità per il Settore degli Alberghi e Ristoranti

Dalla visualizzazione geografica della Fig. 19 risulta evidente che i bacini a dotazione imprenditoriale locale definita “più che sufficiente” (in tutto 66) si concentrano maggiormente in alcune aree ad alta attrazione turistica, con una scarsa presenza nel Mezzogiorno. Tra tali bacini esportatori, i 23 cosiddetti poli costituiscono una vera e propria area (formata da 7 bacini) nelle zone alpine del Trentino Alto Adige, ed un’altra area, anche se a carattere non propriamente contiguo, tra Bologna e Rimini; il resto dei bacini-polo sono abbastanza sparsi e isolati (ad es. : Aosta, Imperia, Portoferraio, Vieste, Catanzaro, Alghero).

Nelle altre zone del Paese in un contesto significativamente caratterizzato da una sottodotazione imprenditoriale (i bacini importatori sono in totale 188) si segnalano ben 88 bacini con coefficiente di localizzazione imprenditoriale non superiore a 0,75. Tali bacini a dotazione imprenditoriale “molto bassa” si addensano in vere e proprie aree non soltanto al Sud (Sicilia, Sardegna, e un’area che dal basso Lazio attraverso la Campania si estende poi per gran parte della Calabria) ma anche in zone abbastanza estese sottostanti l’arco alpino, arrivando ad interessare aree della bassa padana.

La distribuzione territoriale dell’imprenditorialità per il Settore degli Altri Servizi

Nei cosiddetti Altri Servizi risulta una diffusione pressoché totale e particolarmente intensa di sottodotazione imprenditoriale. La lettura dei dati evidenzia la presenza di soli 15 bacini esportatori di imprenditorialità contro i ben 266 bacini importatori.

La Fig. 20 mostra che nel Nord del Paese non si vengono a costituire poli imprenditoriali ed i 7 bacini ad imprenditorialità “alta” formano una piccola area solo intorno a Milano (Milano, Novara, Bergamo), rimanendo isolati gli altri bacini (Trieste, Padova, Modena e Ravenna). Al Centro sono presenti i due importanti poli imprenditoriali di Roma e Siena e il bacino ad imprenditorialità “alta” di Teramo. Nell’Italia Meridionale e Insulare si individuano 5 isolati bacini esportatori, di cui 3 poli (Manfredonia e Trani in Puglia, e Agira in Sicilia) e i 2 bacini a dotazione imprenditoriale “alta” di Putignano e Sassari.

Tra i 266 bacini a dotazione imprenditoriale “insufficiente” ben 200 presentano una imprenditorialità definita “molto bassa”, distribuiti in tutte le regioni del Paese ma che formano una estesissima area a carattere continuo e a forte intensità a partire dai bacini della zona della bassa Toscana ed alto Lazio, interessando la quasi totalità del Mezzogiorno.

La distribuzione territoriale dell’imprenditorialità per il totale delle Attività dei Servizi

Dopo aver indagato singolarmente i settori del Commercio, degli Alberghi e Ristoranti e le attività riconducibili agli Altri Servizi, è interessante analizzare la distribuzione geografica dell’imprenditorialità a partire dal calcolo dei coefficienti ottenuti dalla rilevazione contemporanea dell’insieme di tutte le Attività dei Servizi considerate in questo lavoro.

Va immediatamente messa in risalto la generale e intensa situazione di sottodotazione imprenditoriale derivante dal fatto che a fronte di ben 257 bacini a dotazione imprenditoriale locale “insufficiente” ne risultano solo 14 in grado di diffondere in altre aree territoriali la funzione imprenditoriale generata in loco. Questi ultimi, come si può osservare dalla Fig. 21 sono fra loro distanti (tranne i 3 bacini di Milano, Bergamo e Como) senza formare aree territoriali a spiccata imprenditorialità per il totale delle Attività dei Servizi, e situati quasi tutti (fanno eccezione Manfredonia, in Puglia, e Agira in Sicilia) nell’Italia Centro-Settentrionale. I bacini a dotazione imprenditoriale “molto alta”, i cosiddetti poli, sono soltanto 3 e precisamente Valdagno e Siena, al Centro-Nord ,e Manfredonia al Sud.

Tra i 257 bacini importatori se ne contano 153 a dotazione imprenditoriale “molto bassa” che a partire dal Lazio formano un’area contigua ad altissima concentrazione che interessa l’Italia Meridionale ed Insulare.


La distribuzione congiunta delle dotazioni imprenditoriali nelle attività’ dell’Industria e dei Servizi

La distribuzione congiunta dei poli imprenditoriali

È di rilevante interesse evidenziare come l’insieme delle attività economiche di tipo industriale e quelle relative al totale dei Servizi, non realizzino mai contemporaneamente coefficienti di localizzazione imprenditoriale uguali o maggiori di 1,25, in modo da poter configurare dei bacini-polo a doppia specializzazione imprenditoriale.

Infatti l’analisi della distribuzione congiunta dei poli per l’Industria e per i Servizi evidenzia, come già si era visto nei paragrafi specificatamente dedicati a questi settori, 3 bacini-polo nei Servizi e 16 poli imprenditoriali a carattere industriale. Dalla visualizzazione geografica della Fig. 22 risulta, oltre alla completa assenza di poli a doppia specializzazione imprenditoriale, il fatto che non si formano aree territoriali con particolare “vocazione” all’imprenditorialità in entrambe le attività considerate, cioè più bacini contigui, od anche geograficamente vicini, in cui si possano registrare coefficienti di localizzazione imprenditoriale “molto alti” per l’insieme delle Attività Industriali e/o dei Servizi. Le uniche zone che, anche se in misura diversa, possono considerarsi aree a significativa dotazione imprenditoriale sono quella Nord-Occidentale (intorno al triangolo Torino, Milano, Genova) e quella che si forma nella parte occidentale della Sicilia. Entrambe hanno esclusivo carattere industriale non accompagnato, neppure nelle zone circostanti, da aree, o anche singoli bacini-polo specializzati nelle attività di tipo terziario.

La distribuzione congiunta dei bacini a dotazione imprenditoriale “più che sufficiente”

Se si allarga il campo di osservazione, rispetto a quanto indagato nel paragrafo precedente, considerando la distribuzione congiunta dei bacini definiti a dotazione imprenditoriale “più che sufficiente”, appare subito evidente la presenza di 8 bacini a doppia specializzazione, esportatori, cioè, di imprenditorialità sia per il totale delle Attività Industriali sia per il totale delle Attività dei Servizi.

La Fig. 23 mostra come tale distribuzione congiunta interessi maggiormente il Nord del Paese (con i 5 bacini a doppia specializzazione di Milano, Bergamo, Valdagno, Reggio Emilia e Modena) rispetto al Centro (con i due bacini di Roma e Teramo) e al Sud dove si ha il solo bacino di Agira, in Sicilia, in grado di diffondere in altre località la funzione imprenditoriale originata in loco sia per le attività economiche relative ai Servizi sia per quelle dell’Industria.

Va inoltre evidenziato che in alcune zone dell’Italia del Nord, ad esempio intorno al bacino di Milano e in Emilia Romagna , si vengono a formare delle aree a significativa dotazione imprenditoriale locale e ad armonico sviluppo imprenditoriale in quanto evidenziano capacità di esportazione della funzione imprenditoriale sia nelle Attività Industriali sia nelle Attività dei Servizi.

La distribuzione congiunta dei bacini a sottodotazione imprenditoriale

Se si considerano i bacini a dotazione imprenditoriale locale definita “insufficiente” contemporaneamente per il totale delle attività produttive dell’Industria e dei Servizi, si evidenzia, attraverso la lettura dei dati, la presenza di ben 164 bacini a doppia sottodotazione imprenditoriale. L’osservazione della Fig. 24 mette in risalto, poi, che tale distribuzione congiunta forma una vastissima area a carattere pressoché contiguo che interessa , con intensità non molto dissimili, tutte le regioni del Paese , anche se più forti concentrazioni si evidenziano nell’Italia Meridionale e Insulare.

Se, successivamente, si restringe il campo di osservazione indagando la sottodotazione imprenditoriale particolarmente intensa, allora risulta, che per l’insieme delle due attività considerate si hanno 44 bacini contemporaneamente a doppia dotazione imprenditoriale “molto bassa”. Tale distribuzione congiunta, come visualizzato geograficamente nella Fig. 25, interessa prevalentemente il Centro-Sud e in particolare il Mezzogiorno; si formano, infatti, delle aree a intensa concentrazione tra l’Abruzzo e il basso Lazio , tra il Molise, la Campania e la Puglia, in Calabria, per poi interessare la Sardegna e la zona sud-orientale della Sicilia. Il Nord, invece, presenta soltanto 5 isolati bacini a doppia dotazione imprenditoriale “molto bassa”, situati in località molto distanti fra loro (Pinerolo, Albenga, Chiavari,Suzzara e Spilimbergo).

5. Considerazioni e relazioni fra trasformazioni dello sviluppo, “nuova imprenditorialità”, ruolo dello Stato e nuovi soggetti sociali

L’analisi-inchiesta fin qui effettuata sui modelli di sviluppo locale e sulle figure sociali che da tali modelli scaturiscono deve tener conto della corretta interpretazione degli specifici connotati territoriali della specializzazione di fase, cioè della forte parcellizzazione del processo produttivo in singole fasi, per poi determinare una Zona, un’area a sistema integrato in cui si sviluppa un terziario di supporto alla produzione, un terziario basato spesso su lavori atipici, non garantiti, lavori non normativi e privi di garanzie contrattuali.

È comunque importante seguire l’evoluzione del modello di sviluppo anche considerando il terziario aggregato nelle sue ripartizioni territoriali e sociali, poiché il presente studio conferma il superamento sia della vecchia concezione del “dualismo industrialista” sia l’interpretazione dello sviluppo economico cosiddetta a “pelle di leopardo”. Anche quest’ultima ipotesi, caratterizzata da mille localismi che non hanno alcun denominatore comune, non ha più riscontro.

Il processo di sviluppo economico che attraversa il Paese ha quindi bisogno di nuove logiche interpretative, di nuovi strumenti ignorati dalle analisi economiche di impostazione “industrialista”. Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando il sistema socio-economico sono anche, e forse soprattutto, trasformazioni nell’essere e nell’interagire delle modalità di sviluppo di un capitalismo che abbandonando la centralità di fabbrica propone un sistema produttivo e culturale sempre più spostato e incentrato nel territorio. Ciò è possibile leggerlo ed interpretarlo solo attraverso analisi disaggregate della distribuzione territoriale delle attività, analisi che portano a disegnare una sempre aggiornata mappa geografica dello sviluppo economico e sociale italiano.

Ecco che la definizione di Zone Economiche Omogenee rende pienamente comprensibile il ruolo che la nuova fabbrica sociale diffusa nel territorio svolge nell’economia complessiva del Paese, e come le specifiche e differenti funzioni delle attività economiche e sociali delle singole aree, con bacini a profilo economico simile, siano il tessuto connettivo capace di “legare” in un tutt’uno omogeneo il nuovo modo di essere e di presentarsi dello sviluppo capitalistico. Ciò spiega ancor meglio i connotati anche qualitativi, oltre che quantitativi, della ristrutturazione del capitale e la sua ridefinizione sociale come essa assuma sempre più un ruolo fondamentale per comprendere il conflitto di classe delle nuove forme che andrà assumendo.

È infatti in atto nel nostro Paese un intenso processo di terziarizzazione, spesso a forti connotati di precarizzazione del lavoro e del sociale, spiegabile non soltanto da fenomeni di ristrutturazione e riconversione che interessano l’industria ma che sta mutando lo stesso modo di essere delle attività di servizio in genere, con le precedenti figure e composizioni di classe che si trasformano e che vanno sempre più integrandosi con le compatibilità dei processi produttivi capitalistici e con gli altri processi economici, sociali e politici che ne derivano. Non si tratta quindi di un semplice processo di deindustrializzazione ma di una trasformazione della società che crea nuovi bisogni, di una concezione della qualità dello sviluppo, della qualità della vita che induce a diversi comportamenti socio-economici della collettività rispetto a quelli della società industrialista basata sulla centralità di fabbrica. Si assiste alla nascita di nuove attività, la maggior parte delle quali a carattere terziario, che generano e forzano, nello stesso tempo, lo sviluppo di nuovi soggetti di classe, di nuovi modelli e nuovi meccanismi di crescita, di organizzazione e di accumulazione.

Tali processi evolutivi fanno si che la composizione di classe non sia più analizzabile attraverso analisi aggregate, vista l’eterogeneità e disomogeneità imputabile alla diversificazione del modo di presentarsi del capitale. Solo attraverso analisi economiche, politiche e sociali disaggregate è possibile capire la reale entità del processo di ridefinizione del capitale che tende a raffigurarsi come elemento coesivo e di integrazione attiva dell’intera società. Il passaggio ormai è chiaro: il terziario sempre più abbandona il carattere residuale-assistenziale diventando elemento di mantenimento e accelerazione dello sviluppo capitalistico, fattore trainante di un modello di sviluppo nuovo e dinamico, capace di rispondere in termini quantitativi, ma soprattutto qualitativi, alle continue trasformazioni ed evoluzioni della domanda, promuovendo e realizzando di pari passo processi innovativi per i fattori dell’offerta.

Ecco che, di conseguenza, lo studio della differenziazione territoriale dello sviluppo economico, diventa strumento indispensabile alle linee di indirizzo e di intervento in chiave politico-economica. Individuare la specificità dei profili di aree, di Zone Economiche Omogenee, significa indirizzare l’intervento in modo da saper leggere le trasformazioni del capitalismo moderno e le ricadute nello sviluppo socio-economico del Paese. È così che vanno lette le modalità di uno sviluppo ormai basato sull’indipendenza relativa del distretto industriale dalle altre entità.

Si giunge così a meglio comprendere perché gli assetti attuali della nostra economia determinano il riposizionamento sociale di impresa in una fase di profonda ristrutturazione per effetto del quale si riduce e non aumenta, come da una lettura superficiale potrebbe sembrare, la misura del tessuto reale imprenditoriale, si selezionano i soggetti più deboli, meno funzionali e compatibili, e meno consolidati, si ridisegnano i modelli relazionali sociali tra le aziende e il territorio con un tendenziale rafforzamento delle logiche di darwinismo sociale. In tale contesto si osserva una prevalenza delle scelte tipiche del capitalismo selvaggio dove chi non si integra è espulso, è schiacciato dalle leggi ferree di un mercato sempre più selettivo.

Si sviluppa secondo tali presupposti una linea di evoluzione delle economie locali che preme sulla distruzione di qualsiasi forma di rigidità per l’impresa, anche di rigidità sociale; il sistema imprenditoriale si ricentra perciò su alcune linee di tendenza che portano il sistema economico nel suo insieme, ed i sistemi di sviluppo locale in particolare, da una partecipazione diffusa ad almeno alcune forme di garanzie sociali universali, al passaggio ad un sistema di accessi selettivi.

Per contraddistinguere i soggetti di comando del localismo si deve guardare al nuovo ruolo assunto anche dagli attori istituzionali di rappresentanza e a quelli finanziari tradizionalmente radicati sul territorio, che diventano soggetti determinanti del dominio locale (lobbies politico affaristiche, banche, ecc.)

L’analisi fin qui condotta conferma che non è solo la grande impresa ad essere regista della vita socio-economica dei singoli cittadini, rilevando però qualche altra particolarità rispetto al passato, come l’accresciuto potere da parte di alcuni enti pubblici che si configurano ed omologano al settore privato, diventando enti-impresa, la ancora più forte centralità delle banche , quali soggetti che controllano e indirizzano le risorse finanziarie per lo sviluppo locale, e i soggetti politico-affaristico locali che , incrementano il loro potere specifico rispetto a quelli extra-locali.

Di conseguenza appare chiaro, e lo dimostrano anche i risultati e i fattori emersi dalla ricerca, che la spinta alla fuoriuscita dal localismo non è determinante, anche dal punto di vista dei processi di redistribuzione dei poteri che rispecchiano sempre più le dinamiche di modello di sviluppo centrale basati sullo Stato-Impresa, succube ai processi di concentrazione aziendale. Processi ormai finalizzati all’imposizione sociale dell’assunzione dei comportamenti di potere incentrati sui modelli relazionali tra le imprese, focalizzando contestualmente le modalità per una partecipazione qualificata del corpo sociale nei rapporti con le istituzioni, attraverso la scommessa della qualità e della flessibilità produttiva da un lato e la scommessa dell’autorealizzazione, abbattendo qualsiasi logica solidaristica e di tolleranza.

È così che nasce e si sviluppa nel nostro Paese il nuovo consociativismo politico ed economico. Il consociativismo neo-liberista dell’era della globalizzazione anche in Italia propone politiche economico-fiscali e della spesa pubblica, percorsi di privatizzazione sfrenata, l’abbattimento del Welfare State, riforme politico-costituzionali, in genere con l’unico condizionamento legato alla logica del mantenimento del consenso elettorale, andando di volta in volta a soddisfare interessi particolaristici legati al mondo dell’impresa, ad una nuova partitocrazia ancora più assetata di potere di quella precedente, ma più compatibile ai nuovi schemi di ristrutturazione capitalistica.

È all’interno di tali dinamiche che va interpretato il duro attacco che tale consociativismo neo-liberista sta effettuando alle condizioni di vita dei lavoratori, dei precari,degli anziani, dei disoccupati, degli emarginati; comportamenti di regolazione sociale di ogni forma di antagonismo, evidenti negli interventi e nei documenti del governo, nelle posizioni e nei documenti sul Welfare dei sindacati confederali, nei modelli di riferimento di Stato sociale della Banca d’Italia e della Confindustria. Si realizza così l’esplicitazione della logica della performance imprenditoriale come modalità di riforma di un Welfare State che seguendo tale impostazione di fatto si trasforma in Profit State; in uno Stato con logiche gestionali da azienda capitalista ,che si configura attraverso i processi di globalizzazione dell’economia e le politiche monetariste localmente compatibili.

In tale contesto i soggetti delle classi intermedie esercitano ancora un ruolo molto rilevante nelle dinamiche di regolazione e di comando della vita delle specifiche aree locali a caratterizzazione socio-economica. Sulla mobilità e le determinanti qualitative del ciclo di vita delle varie Zone Economiche si registra una tendenza diffusa al consolidamento sociale delle leadership locali, basate su effetti imitativi e di status particolarmente efficaci su una parte del ceto medio. Un ceto medio più classista ed intollerante che assume le modalità relazionali socio-economiche rappresentate dal rafforzamento e trasmissione forzata comportamentale di alcune imprese locali, o gruppi di imprese, che stanno assumendo un ruolo guida, influenzando il tradizionale intreccio di intenzionalità e azioni dei numerosi soggetti economici locali che avevano caratterizzato l’evoluzione dei distretti in passato.

È allora possibile cogliere i nuovi equilibri socio-economici all’interno delle aree, delle Zone a partire dal posizionamento dei distretti nell’ambito di un teorico ciclo di vita dell’intera società locale. Gli elementi intorno ai quali, quindi, si può rideterminare la mappa delle nuove soggettualità sociali compatibili e di quelle antagoniste, o almeno marginali rispetto al modello di sviluppo attuale, si possono individuare a partire da una corretta analisi di classe della fase evolutiva dei singoli distretti.


Diventa così determinante l’analisi dell’organizzazione del ciclo produttivo, delle caratteristiche del tessuto industriale e sociale, dei rapporti tra le imprese e tra queste e le istituzioni centrali e locali, della struttura economica dell’area e le nuove determinazioni sociali del mercato del lavoro.

Se nella realtà attuale viene a cadere il legame indissolubile fra impresa e imprenditore, se predominante diventa lo studio della funzione sociale e la nuova logica territoriale dell’attività imprenditoriale rispetto alla figura tradizionale della fabbrica e dell’imprenditore, allora anche le scienze quantitative devono elaborare metodi, modelli, indicatori capaci di indagare questa diversa, moderna funzione di regolamentazione e di governo della società.

L’applicazione di un più puntuale coefficiente per la determinazione della localizzazione imprenditoriale introdotto in questo lavoro conduce a diverse e più articolate conclusioni rispetto ad altri studi similari. I risultati ottenuti evidenziano infatti la presenza in tutto il Paese di soli 22 bacini a dotazione imprenditoriale “ più che sufficiente”, in grado quindi di “esportare” la funzione imprenditoriale riferita al totale delle attività produttive. Tali bacini, tra l’altro, sono molto decentrati sul territorio nazionale (11 al Nord, 4 al Centro e 7 nel Mezzogiorno) non accorpandosi mai in vere e proprie aree a carattere contiguo. Quella che evidenzia forti caratteri di contiguità è la “mappa” della sottodotazione imprenditoriale che interessa con pari intensità, e livelli di concentrazione, le varie suddivisioni geografiche del Paese. Si tratta di ben 226 bacini “importatori” di imprenditorialità complessiva, riferita cioè all’insieme di tutte le attività economiche considerate. Fra questi appaiono 83 bacini definiti a dotazione imprenditoriale “molto bassa”, collocati prevalentemente nell’Italia Meridionale ed Insulare.

Sinteticamente, quindi, i coefficienti di localizzazione imprenditoriale a carattere generale se da una parte evidenziano una significativa e altamente diffusa sottodotazione imprenditoriale riguardante tutto il Paese, anche se maggiormente accentuata al Sud, dall’altra parte non mettono in evidenza la presenza di concentrazioni di bacini ad alta imprenditorialità formanti vere aree territoriali a forte dotazione imprenditoriale, ma l’esistenza di 22 bacini “esportatori” (di cui solo 5 costituiscono poli imprenditoriali) isolati, sparsi sul territorio nazionale.

Tali indici ben si adattano a rappresentare la differenzazione spaziale nella struttura socio-economico-culturale dell’impresa, la geografia delle imprese e la loro concentrazione territoriale; ma nulla possono dire sulla caratterizzazione sociale della nuova imprenditorialità, sulla diffusione territoriale di una funzione imprenditoriale intesa in un contesto di ridefinizione del modello del capitalismo italiano in una realtà in cui appare superato il concetto di “unitarietà” imprenditoriale, cioè il concetto di un’impresa che è tutt’uno con l’imprenditore.

I profondi mutamenti in atto nella vita politica, sociale, economica e aziendale, pur apportando nuovi ed importanti elementi al dibattito, spesso a causa di valutazioni non corrette hanno introdotto nel già confuso dibattito ulteriori motivi di confusione, fino al punto di considerare come sviluppo di nuova imprenditorialità anche l’apparire sulla scena produttiva di nuove figure che dell’imprenditore assumono solo le forme suggestive indotte dalla pubblicistica ufficiale e dai modelli comunicazionali del pensiero neoliberista.

Ma l’attuale contesto economico-sociale, le nuove forme di presentarsi del modello di sfruttamento dell’economia capitalista, tende ad ostacolare una convincente lettura di classe dell’attuale società a tutt’oggi non si sono ancora ben delineati i contenuti della trasformazione economica in atto, anche nel campo della nuova imprenditorialità. Si configurano così spesso figure economiche e sociali che ancora sono oggetto di studio indefinito, poco concreto, dai contenuti non delineati, che sicuramente nulla hanno a che fare con il ruolo economico-sociale dell’imprenditore.

Anche oggi, nel momento in cui le varie componenti economiche, politiche e socio-culturali si sforzano per rilanciare nel nostro Paese una figura imprenditoriale con ruoli e contenuti fortemente innovativi, si nota,nonostante gli sforzi,una staticità dottrinale di impostazione che,aggiunta alla ancor presente diversità e contrapposta lettura dei fenomeni economici ed aziendali, finisce con l’attribuire alla funzione imprenditoriale falsi contenuti di realizzazione sociale, riproponendo contributi scientifici scontati e compatibili agli attuali processi ridefinitori del capitale, ma comunque non riferibili alla concreta realtà socio-economica che ancora una volta va interpretata in termini di classe.

Va sempre ricordato che l’imprenditore, in quanto istituzione economica capitalistica, agisce all’interno di istituzioni economico-sociali, svolgendo un’attività intenzionale diretta alla messa in pratica di propri processi decisori, al fine di realizzare propri determinati obiettivi prefissati e adattati al complesso delle condizioni sociali e ambientali, comunque finalizzati alle compatibilità del mercato e del profitto. In questa chiave di lettura la funzione di classe degli imprenditori può sussistere al di là della presenza o meno della struttura di impresa intesa nel senso classico.

In questa prospettiva è evidente che per la realizzazione dell’attuale modello neoliberista può essere assolutamente compatibile, e anzi molto più funzionale, la rottura di quella che prima veniva reputata un’unità indissolubile fra impresa e imprenditore, legame sostanziato dall’attività produttiva rivolta al mercato.

Allora gli incrementi di imprenditorialità che emergono dalla ricerca presentata nel precedente capitolo vanno interpretati come causati soprattutto dallo spropositato aumento di “partite IVA”, che ormai superano ampiamente i sette milioni di iscrizioni, e che altro non sono che “ditte individuali”, le quali rappresentano il cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione. Si tratta nella maggior parte dei casi di ex lavoratori dipendenti di fatto precarizzati, non più garantiti nella continuità del lavoro , espulsi dall’impresa madre e assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, fuori dalle garanzie normative e retribuite del lavoro dipendente. Dietro l’illusione del “fai da te”, dell’”autoimprenditorialità”, della libertà economico-sociale derivante dell’autocelebrazione di farsi “imprenditori di se stessi”, troviamo sempre una nuova forma di lavoro subordinato, privo di normativa, un supersfruttamento a cottimo, con la mancanza assoluta di garanzie sociali a causa della mancanza di coperture assicurative (sanità, pensione, infortunistica, assistenza varia).

La realtà economica è in rapida e ineluttabile evoluzione, ma tende a rendere sempre più evidente la linea di demarcazione fra proprietà- capitale e una classe dei lavoratori che non può accettare coinvolgimenti nel controllo-governo dell’impresa. In tal senso spesso le nuove figure dell’imprenditore individuale, raffigurato come detentore del capitale ma anche di spirito di iniziativa, creatività, innovazione, abilità, assunzione del rischio, spregiudicatezza, rimane confinata ad una forma atipica di impresa, che al pari di molte forme della cosiddetta economia sociale e della partecipazione, altro non sono che accettazione voluta o incosciente a quelle compatibilità funzionali alla crisi quantitativa di accumulazione che il capitale sta attraversando.

A questa logica risponde anche la visione e il ruolo che si vuole dare al cosiddetto “Terzo settore”, e si badi bene che tale importanza strategica attribuita al non-profit in generale proviene da riconoscimenti effettuati nientemeno che dalla Banca d’Italia, dalla Fondazione Agnelli, dai vertici della Chiesa Cattolica, dal mondo delle fondazioni bancarie e finanziarie. La tendenza sembra essere quella di una economia dai due volti: nel primo si persegue esclusivamente il profitto con i conseguenti costi sociali in termini di esclusione ed emarginazione; esclusione che dovrebbe venir recuperata dalla logica solidaristica del Terzo settore. Un Terzo settore in mano alle fondazioni bancarie, in maniera diretta o indiretta, che a partire dalla tensione etica viene utilizzato dal consociativismo neo-liberista per precarizzare e flessibilizzare il lavoro diminuendone nel contempo la forza contrattuale e calmierando così le tensioni e gli incrementi salariali; realizzando indirettamente profitto attraverso il controllo dell’impresa e della cooperazione sociale, sfruttando anche in termini fiscali le donazioni a fini solidaristici; allargando le possibilità di finanziamento e di distribuzione dei trasferimenti pubblici su quelle imprese sociali legate al mondo politico-affaristico. Si tratta quindi di un uso strumentale del Terzo settore finalizzato alle regole dell’efficienza capitalistica con l’utilizzo dell’economia non profit che si sostituisce al ruolo dello Stato sociale, comprimendo e canalizzando i conflitti nell’ottica di uno Stato basato esclusivamente sulle regole dell’economia del profitto affiancate da elargizioni caritatevoli compatibili con il sistema.

Ciò risponde ai criteri ridefinitori e di compatibilità dei processi innovativi d’impresa fortemente interagenti con il territorio e con il sociale e che permeano il tessuto di classe attraverso l’imposizione di direttrici e funzioni decisorie inerenti la localizzazione e la diffusione dell’economia e della cultura di un nuovo e apparentemente più socializzante modello capitalistico.

La dinamicità funzionale, la ricerca continua di sviluppo attraverso l’individuazione del territorio come luogo dove diffondere la cultura imprenditoriale, è l’elemento chiave di uno sviluppo incentrato sulla logica e sulle compatibilità stesse dell’impresa. Attraverso le successive e continue fasi di adattamento, la funzione imprenditoriale si diffonde soprattutto anche in termini di imposizione dell’agire aziendale sul sociale ai diversi contesti territoriali, intesi in senso socio-economico e storico, in cui l’azienda è inserita.

Il territorio, lo spazio e il suo studio, i modelli localizzativi, la conoscenza socio-politica della geografia dello sviluppo, sono ormai variabili fondamentali dell’agire di classe, rappresentano anzi vere e proprie risorse per attuare con successo le strategie di un nuovo e diverso antagonismo sociale. Si tratta di conoscenze irrinunciabili per pensare in termini reali e praticabili ad un intervento capace di riproporre l’unità di classe del lavoro, a partire dalla comprensione delle trasformazioni del capitale per poter realizzare la trasformazione dell’agire economico, sociale e politico al fine di realizzare processi di uno sviluppo con immediati connotati di fuoriuscita dalle compatibilità del mercato e della sostenibilità del modello dell’impresa capitalista.

Per poter riflettere, studiare ed agire in tal senso bisogna assolutamente capire ed interpretare che nel nuovo modello di sviluppo liberista sono individuabili intorno alla centralità delle imprese i ruoli esercitati da nuove categorie di agenti, da nuovi soggetti compatibili e incompatibili che tale modello crea: gli imprenditori terminali e marginali (spesso lavoratori autonomi di seconda generazione), che costituiscono l’ambito di connessione tra il mercato e i circuiti interni all’universo locale; contoterzisti, lavoratori a nero, precari, sottoccupati, lavoratori a partita IVA di breve durata, tutti operatori prevalentemente specializzati in lavorazioni monofase; lavoratori dipendenti, quasi sempre a forte specializzazione, che assumono sempre più spesso la veste di cogestori, di nuovi cottimisti corporativi con una radicata etica del lavoro ed una diffusa propensione ad accumulare specializzazioni anche a fini di mobilità verticale e che aspirano a “mettersi in proprio”, ad accettare il nuovo ruolo di finti imprenditori; lavoratori a domicilio, spesso sottopagati, senza garanzie, cottimisti e lavoratori a nero che vengono utilizzati in ambito di integrazione multidimensionale tra attività economica delle imprese e vita familiare, riproducendo forme di ricatto sociale e al mondo del lavoro, affermando una falsa socialità d’impresa; istituzioni che hanno contribuito alla armonizzazione dei processi socio-economici attraverso l’erogazione di servizi e la mediazione politica funzionale esclusivamente alle leggi di mercato, asservitealladeterminazione sociale della centralità del profitto.

Tutto ciò è finalizzato non tanto alla competitività d’impresa ,né al miglioramento delle opportunità occupazionali e della qualità del lavoro, tanto meno alla modernizzazione ed efficienza del sistema Paese nel suo complesso, quanto alla costruzione di una società in cui le speranze di sviluppo siano esclusivamente affidate al mercato, un mercato che sappia regolare se stesso, libero da vincoli e da controlli. È questa la scommessa per i prossimi decenni che la nuova strutturaconsociativa del nostro Paese sta giocando: l’affermazione economica , ma soprattutto di consenso sociale al modello del pensiero unico di mercato, ad un capitalismo capace di realizzare un nuovo patto sociale che si faccia “divinità sociale”, cioèfilosofia di vita ispiratrice dell’unico modello di sviluppo possibile e giustificato dalle capacità di autoregolamentazione del mercato.

Lo studio-inchiesta proposto nei capitoli precedenti è servito per avere un riscontro empirico dell’esistenza di economie del territorio concentrate in aree non contigue, ma la conclusione conduce alla evidenziazione e alla verifica di ipotesi socio-politiche sulla loro natura e sul loro ruolo. Si giunge allora a capire che la piccola impresa è una realtà eterogenea perché risponde ad una pluralità di funzioni che ne consentono l’esistenza nel capitalismo maturo, e tale configurazione aziendale risponde a specifiche esigenze di ristrutturazione del capitale internazionale, ma che trovano in alcune zone dell’Italia alcune peculiarità per uno sviluppo esplosivo. Ciò perché esistono meccanismi di sopravvivenza della piccola impresa comuni ai capitalismi contemporanei, ma che trovano terreno fertile in contesti in cui il mercato del lavoro assume dinamiche particolari. È per questo che si sviluppano fenomeni economico-produttivi derivanti dall’importanza della valutazione della collocazione dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro oltre che del capitale.

Esiste quindi una stretta correlazione tra fenomeni economici e fenomeni sociali, non è un caso che nel tanto decantato Nord-Est convivono forme di aristocrazia operaia, superspecializzata e ben pagata, che identifica i propri destini con quelli dell’imprenditore, e forme di lavoro sottopagato, senza garanzie, lavoro nero, precario e flessibile anche nella remunerazione oltre che nei tempi e nei modi di lavoro. Si spiega così, e non solo nella dicotomia Nord-Sud, il carattere dualistico dello sviluppo italiano, che sconta sottosviluppo in molte sue parti territoriali e sociali in funzione dei modi di accumulazione del capitale che si correla allo sviluppo ritardato e dipendente del capitalismo italiano rispetto al resto dell’occidente. Ciò, per esempio, contribuisce a continuare a provocare una crescita particolare della piccola impresa che si era sviluppata come risposta alle lotte operaie degli anni ’60 e ’70, realizzando così un modello istituzionale, funzionale e voluto dal capitalismo italiano al sol fine di attuare strategia di controllo sulla classe operaia e di compressione del conflitto sociale.

È a partire da tali modalità di lettura che si possono correttamente interpretare i fenomeni fondamentali del processo di trasformazione che ha portato ad una redistribuzione territoriale delle attività industriali e produttive in genere, a partire da alcune caratterizzazioni che hanno assunto le modalità delle dinamiche dello sviluppo geo-economico collegate e finalizzate al controllo sociale.

La depolarizzazione produttiva, lo sviluppo economico-demografico non metropolitano, la deindustrializzazione accompagnata da processi di delocalizzazione e decentramento territoriale, la deconcentrazione produttiva caratterizzata dalla diminuzione delle dimensioni d’impresa, dalla deverticalizzazione e scomposizione dei cicli produttivi, la formazione e sviluppo di sistemi produttivi locali accompagnati da alta specializzazione, piccola dimensione, interrelazioni produttive; tutto ciò non deriva da una natura “fisiologica” del processo di diffusione territoriale, poiché questa invece va vista come il risultato di alcune contraddizioni del precedente modello di sviluppo, di particolari condizioni esogene ed endogene alle aree di “diffusione”, dai processi di ridefinizione del modello e del progetto del capitalismo italiano. Nel nuovo modello assumono forte rilevanza i processi endogeni di sviluppo che sono specifici di particolari formazioni sociali e territoriali, che facilitano le dinamiche di ristrutturazione di un capitalismo sempre più basato sulla crescita di un’imprenditoria locale. Tra le condizioni esogene che favoriscono la “diffusione” va allora evidenziato il forzato incremento di produttività del lavoro dovuto al ruolo delle nuove tecnologie non più incorporate in grandi impianti (diffusione orizzontale), la crisi provocata dei mercati di prodotti standardizzati nonchè l’abbassamento delle barriere all’entrata di nuove imprese. Quindi piccola impresa e sviluppo diffuso caratterizzano un nuovo modo di organizzare la produzione con profonde caratteristiche autonome, ma sempre basate su forme più o meno sofisticate di aumento dello sfruttamento della forza lavoro.

La redistribuzione territoriale non è determinata da un semplice decentramento del capitale o prodotta esclusivamente dalla valorizzazione di risorse locali ma è dovuta soprattutto ad intensi processi di ristrutturazione del capitalismo italiano che, alla ricerca della competitività sul piano internazionale, determina efficienza a partire soprattutto dall’imposizione di forte mobilità spaziale e settoriale della forza-lavoro e dalla diversificazione dei progetti di flessibilità del lavoro e del salario.

L’analisi va quindi riportata sul piano delle relazioni industriali, si individuano così i caratteri strutturali dei sistemi produttivi locali basati sul lavoro specializzato; sull’intensificazione dei ritmi, sull’elevata divisione del lavoro, sulla spinta alla specializzazione produttiva, sulla molteplicità dei soggetti economici locali, molti dei quali non garantiti, con rapporti di lavoro saltuario, con precarizzazione del lavoro e del reddito, sulla diffusa professionalità dei lavoratori accompagnata, per i lavori “più miseri”, da commesse esterne con forte componente di lavoro nero e sottopagato; sulla diffusione dei rapporti “faccia a faccia” senza intermediazioni sindacali.

Va allora sottolineato che se è vero che il sistema locale giunge a livelli elevati di sviluppo tendendo ad allargarsi a comparti e settori merceologici diversi, dando luogo non ad una despecializzazione bensì al rafforzamento e a un approfondimento del sistema originario con un aumento dell’integrazione intersettoriale locale, questo però determina condizioni dinamiche di sopravvivenza imponendo un modello in continuo cambiamento non solo delle attività produttive, ma soprattutto generando nuove soggettualità economiche a forte differenziale di trattamento retributivo e sociale, andando sicuramente ad allargare le forme marginali e non garantite del lavoro.

La condizione fondamentale per il consolidamento del sistema locale è sancita allora da variabili quali l’innovazione tecnologica-organizzativa, il sistema informativo sviluppato, un alto ricorso alle risorse immateriali, ma soprattutto dalla capacità di controllo del mercato del lavoro, di deregolamentazione e precarizzazione dei rapporti di lavoro, da flessibilità delle remunerazioni, infine cioè da forme di regolazione sociale compatibili con il nuovo assetto produttivo, espellendo ed emarginando le soggettualità sociali non omologabili, conflittuali e non compatibili. E allora il modello di sviluppo locale si adatta, si trasforma in una molteplicità di localismi nel tentativo di piegare comunque la “resistenza” della forza lavoro e dei soggetti sociali.

La società del terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni; diventa allora strategico porre al centro del dibattito una progettualità complessiva per un diverso modello di sviluppo in cui strategiche siano le compatibilità ambientali, la qualità della vita, il soddisfacimento dei nuovi bisogni, la centralità del lavoro e la valorizzazione del tempo liberato, la redistribuzione del reddito, del valore e la socializzazione della ricchezza complessivamente prodotta.

Riverticalizzare il conflitto sociale significa porsi immediatamente il problema della socializzazione dell’accumulazione, quindi il problema della ridefinizione dei meccanismi del potere economico-sociale. Riverticalizzare lo scontro significa ripartire dalla reale democrazia partecipativa politica ed economica, ma non vista come semplice intervento dei lavoratori nella partecipazione di natura passiva ai flussi finanziari, ai profitti o al capitale, ma una partecipazione che a partire dai nuovi bisogni, dalle necessità e dalle domande provenienti dal basso realizzi concreti processi decisionali, rimettendo in discussione lo stesso concetto di proprietà in uso nell’economia moderna e il suo meccanismo di allocazione. Si tratta in un’ultima analisi di realizzare una nuova e più avanzata ricomposizione di classe, un’unità di classe a partire dalle nuove povertà, dai nuovi soggetti marginali, emarginati e non compatibili per proporre da subito la nuova questione sociale con al centro una rielaborazione scientifica per rilanciare battaglie offensive sulla socializzazione dell’accumulazione.


Riferimenti Bibliografici

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Vasapollo L., Sul confronto dei sistemi produttivi locali, in Atti del convegno SIS, Torino, Aprile, 1997.

 

 

Nota metodologica

Nell’individuazione dei profili economici dei singoli bacini occupazionali si sono utilizzati gli indici di dotazione calcolati per ciascuna delle sei attività produttive considerate in modo da pervenire alla costruzione delle mappe di vocazione economica semplice e di polarizzazione del territorio italiano.

Questo tipo di analisi, se da un canto permette di individuare la localizzazione delle singole attività produttive, dall’altro non consente alcuna misura sulla loro localizzazione in una complessa e unitaria visione di interdipendenza funzionale. Ed è tale interdipendenza che occorre analizzare e quantificare, perché lo sviluppo economico di un territorio non è generato dalla crescita più o meno intensa di una sola attività ma è il risultato ultimo dell’azione e degli impulsi generati da tutte le attività economiche (e sociali) esistenti nel territorio.

Di qui la necessità di effettuare l’analisi considerando le sei attività produttive congiuntamente, per avere così la possibilità di evidenziare bacini a caratterizzazione occupazionale simile e, quindi, di individuare le Zone Economiche Omogenee (ZEO) esistenti nel Paese. Più esplicitamente, si tratta di unità territoriali, anche non contigue, ognuna delle quali raggruppa al suo interno quei bacini che tra loro presentano una minore “distanza” nella caratterizzazione economica. La visualizzazione di tali Zone Economiche Omogenee permette la costruzione di mappe geografico-economiche, dal cui confronto è possibile mettere in luce con immediatezza le dinamiche, i mutamenti avvenuti nella geografia dello sviluppo del nostro Paese fra il 1981 e il 1991.

Pur non soffermandosi in questa sede sugli aspetti di carattere metodologico, si vuole però precisare che la tecnica statistica usata è quella di “cluster analysis”, la quale permette la creazione di gruppi a simile caratterizzazione e profilo, gruppi che nel nostro caso sono appunto le Zone Economiche Omogenee. È opportuno sottolineare che l’utilizzo nell’indagine della cluster analysis non permette di raggiungere risultati oggettivi validi in assoluto, in quanto comporta che a diverse opzioni metodologiche corrisponda la costruzione di Zone in qualche modo differentemente caratterizzate. È importante quindi dichiarare il metodo di clusterizzazione usato, che nel nostro caso è basato sulle procedure SEMIS e PARTI con il criterio di aggregazione di Ward, del pacchetto software SPAD.N, (version 2.5,CISIA,1993). Il metodo, combinando procedure gerarchiche e non gerarchiche, assicura, per grandi masse di dati, una partizione di qualità ottimale rispetto al criterio di omogeneità prescelto. Con tale metodo si sono ottenute partizioni territoriali composte da Zone (gruppi), realizzate senza l’imposizione di vincoli di contiguità geografica, che contengono al loro interno bacini a caratterizzazione simile in termini di struttura occupazionale complessiva. Nell’applicazione proposta non è stata considerata la variabile relativa agli indici di dotazione calcolati per i servizi a destinazione collettiva, in quanto tale attività segue processi di territorializzazione del tutto peculiari, dovuti ad un ammontare e ad una ripartizione localizzativa degli occupati non correlata a dinamiche strettamente derivanti da logiche ed esigenze di mercato.

Le variabili, su cui è stata calcolata la “distanza”, sono rappresentate dagli indici di dotazione, calcolati per ognuno dei 291 bacini e relativi alle attività dell’Agricoltura, Industria, Servizi di rete, Servizi per il sistema produttivo e Servizi per le famiglie. Il modello di clusterizzazione utilizzato è stato sperimentato sia sull’analisi delle cinque variabili non standardizzate sia su quelle standardizzate. Entrambe le scelte hanno una loro logica economica specifica e coerente con l’analisi, anche se ognuna esalta approcci e problematiche diverse. Con la clusterizzazione realizzata su variabili non standardizzate, come nota Martini, si evidenziano delle aree economiche costruite sul reale peso dell’occupazione di ogni attività produttiva, giacché ogni addetto ha, nel processo di caratterizzazione dei profili delle aree, lo stesso peso. In tale modello di analisi si attribuisce, ovviamente, maggiore rilevanza discriminante all’industria ed in parte anche all’agricoltura, poiché si tratta di attività per le quali è più elevata la variabilità. Invece, l’analisi basata sulle stesse variabili, ma standardizzate, smorza il peso delle attività (industria e agricoltura) a maggiore variabilità e permette di costruire i profili delle strutture occupazionali delle Zone in funzione del ruolo svolto dalle singole attività produttive, essendo a ciascuna di queste assegnato lo stesso peso. In pratica, quindi, con tale tipo di analisi si può più nitidamente evidenziare e quantificare l’influenza esercitata, nella determinazione dei profili delle Zone, dalle differenze e caratterizzazioni delle diverse combinazioni delle strutture occupazionali delle tre funzioni del terziario considerate.

In questa sede si è inteso privilegiare l’analisi effettuata sulle variabili standardizzate; ciò allo scopo di ottenere risultati che, non essendo condizionati dal peso fortemente differenziato che l’occupazione presenta tra le cinque attività economiche considerate, fanno più chiaramente emergere la funzione e il ruolo che le singole attività produttive presentano sulla determinazione della variabilità localizzativa delle imprese nelle varie parti del territorio.


[1] Cfr. Bagnasco A., (1977).

[2] Cfr. Vasapollo L. (1995a) e Vasapollo L. (1997).

[3] Si veda in proposito Erba e Martini (1988), i quali superando il modello “tripartizionale” classico propongono una classificazione esapartizionale, che oltre all’agricoltura (AGR) e all’industria (IND) prevede una suddivisione delle attività di servizio in quattro funzioni: 1) servizi per il sistema produttivo (SSPR); 2) servizi per le famiglie (SFAM); 3) servizi di rete (SRET); 4) servizi a destinazione collettiva (SDCL).

[4] Tale ripartizione territoriale è stata proposta da A.Erba, R. Guarini, S. Guarini, S.Menichini, A.Rizzi, si veda ISRIL: (1982); in questo lavoro si fa riferimento a tale ripartizione nel territorio per permettere di evidenziare le linee di tendenza derivanti dal confronto fra i dati degli ultimi due censimenti.

[5] A tal riguardo si veda: Martini M. , (1988).

[6] L’indice di dotazione è stato determinato attraverso:

“IDi(r) = (Li r / Pr), il quale fornisce l’incidenza degli occupati nell’attività i.ma del territorio r.mo rispetto alla popolazione presente in questo territorio; l’indice di vocazione territoriale è dato da:

I Vi (r) = (Lir/ Pr) : (Li / P) che misura il rapporto fra incidenza degli occupati nell’attività i.ma rispetto alla popolazione del territorio r.mo e quella omologa riferita al paese”; Cfr. Alvaro G.(1995) pp. 53 e 54.

Per l’attività dell’agricoltura, non essendo disponibili i dati degli occupati relativi alle unità produttive presenti nei singoli comuni, si è proceduto alla comparazione fra i dati del 1981 e quelli del 1991, raggiungendo uniformità ad alto livello di approssimazione, con la seguente modalità di calcolo:

Occ.Agr.Comune=

(N° giorn.lav.Com./ N°giorn.lav.Agr.Regione)* Occ.Agr.Reg.

[7] Cfr. Vasapollo L., (1997).

[8] Continuando sulla stessa linea di impostazione del lavoro tenuta fino a questo punto, non si entrerà nella descrizione e nell’analisi di carattere metodologico sulla tecnica statistica utilizzata; sembra opportuno soltanto precisare che attraverso la cluster analysis si sono potute misurare le “distanze” tra i vari bacini per quanto concerne i loro profili economici, dal confronto dei quali è possibile aggregare i bacini “più vicini”, nel senso che hanno “minore distanza” nella caratterizzazione, in uno stesso cluster o gruppo formato da bacini a profilo simile.

[9] Per il 1981 sono stati considerati 290 bacini e non 291, come per il 1991, essendo stato escluso il bacino relativo alle isole Tremiti perché, presentando un profilo economico del tutto dissimile da quello degli altri, si è ritenuto un dato anomalo.

[10] Cfr. Vasapollo L.(1995b), Vasapollo L. (1996).

[11] A tal proposito si confronti Vasapollo L. (1996).

[12] Nel caso INPS tutti imputati alla sede legale accentratrice, oppure, nel caso ISTAT, imputati alle unità locali, cioè alle dipendenze dove i lavoratori considerati prestano la propria opera.

[13] Per “esportazione” d’imprenditorialità si vuole intendere che ad esempio un determinato Comune, presentando un certo numero di “sedi accentratrici” a carattere decisionale e trovandosi quindi attribuiti un numero di dipendenti maggiori di quelli che effettivamente lavorano nelle aziende operanti nel proprio territorio, è caratterizzato da fattori determinanti “genesi imprenditoriale” che gli fanno assumere la peculiarità di località a dotazione imprenditoriale “più che sufficiente” e conseguentemente caratterizzati da una più o meno accentuata inclinazione alla formazione, diffusione ed esportazione di imprenditorialità. Situazione opposta si presenta nel caso di Comuni “importatori” di imprenditorialità perché a dotazione imprenditoriale “insufficiente”, e quindi dipendenti imprenditorialmente e destinatari di una funzione imprenditoriale generata in un altro Comune.

[14] Si impone a questo punto una precisazione. L’indice o coefficiente di localizzazione imprenditoriale è calcolato mettendo a confronto il numero dei lavoratori dipendenti fornito dall’INPS e quello fornito dall’ISTAT. Quindi essendo costituito da un rapporto fra due grandezze permette di misurare l’intensità che il fenomeno oggetto di analisi presenta per ogni unità della grandezza che appare al denominatore. Il risultato ottenuto pertanto, è indipendente dal livello, meglio dal numero assoluto che il fenomeno registra nell’unità territoriale di riferimento. Sicché, quando l’analisi è molto disaggregata territorialmente, come può essere quella effettuata per Comune, e/o per bacino, si ottengono risultati che possono condurre al raggruppamento di bacini aventi diversa importanza demografica. Può capitare cioè di trovare raggruppamenti in cui si registra la presenza di Comuni di rilevante dimensione demografica e di Comuni di modeste dimensioni.

[15] Si ricorda che il confronto tra bacini di grosse dimensioni demografiche con bacini di piccole dimensioni effettuato sulla base del valore dell’indice risulta giustificato dal fatto che, come già messo in evidenza, l’indice, in quanto rapporto fra due grandezze, prescinde dal livello assoluto con cui il fenomeno si presenta nelle singole unità territoriali. Infatti, il valore assunto dal coefficiente di localizzazione imprenditoriale, per esempio riferito al bacino di Roma, pari a 1,43, è ottenuto dal rapporto NLD INPS/ NLD ISTAT = 841.139 /589.295 = 1,43; ad Alghero, invece, il valore dell’indice, pari a 0,80, è ottenuto dal rapporto 4.076/5.072. Tenendo presenti gli aspetti connessi con il procedimento di calcolo dell’indice, i risultati hanno bisogno di ulteriori approfondimenti. In questa prospettiva, onde evitare frettolose e semplicistiche conclusioni, gli alti valori assunti dal coefficiente per alcuni bacini meridionali, in particolare siciliani, richiedono ulteriori conoscenze ed analisi da basare sulla particolarità degli aspetti socio-territoriali e sui correlati riscontri scientificamente validi.