Le tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Quinta parte: Multinazionali e produttività.

Svelato il “trucco”: gli enormi incrementi di produttività non tornano a remunerazione del fattore lavoro

Raul Krugman (in “Geografia e commercio internazionale”, Garzanti, 1995, pag. 75 e segg.) sostiene che le “grandi regioni” degli Stati Uniti sono paragonabili, in termine di popolazione e dimensione economica, ai “Quattro Grandi europei” e da ciò se ne dedurrebbe che il livello di differenziazione economico tra regioni statunitensi e tra paesi europei siano abbastanza simili, al punto che ci si potrebbe attendere che in Europa si siano avuti processi di localizzazione più spinti anche perché le distanze interne agli USA sono molto maggiori. Krugman, utilizzando dei dati statistici sull’occupazione in Europa e negli Stati Uniti e costruendo degli indici di divergenze regionale-nazionale, giunge al risultato che i paesi europei sono meno specializzati delle regioni statunitensi anche se queste ultime hanno una maggiore omogeneità socio-culturale ma, in termini economici, risultano molto più distinte dei paesi europei. Continuando nella ricerca e analizzando anche dati locali e settoriali, emerge comunque il risultato che il grado di localizzazione economica europea è rimasto molto al di sotto dei livelli americani anche perché, negli Stati Uniti, i comparti dei servizi (in particolare bancari, assicurativi, finanziari, ecc.) sono andati sempre più concentrandosi.

Krugman arriva a sostenere che: ”In particolare, in Europa è diventata una quasi ortodossia che la più stretta integrazione economica avviata nel 1992 con Maastricht spiani la via all’UEM ossia che renda maggiori i vantaggi dell’Unione Monetaria e ne riduca i costi. Questo ragionamento è basato in parte sulla tesi classica dell’area monetaria ottima...poiché la creazione del mercato unico condurrà ad un aumento degli scambi, ne uscirà rafforzata la causa della moneta comune. Sin qui tutto bene. Ma si può anche sostenere che i costi di una moneta comune sono minori quanto più due paesi sono simili nella struttura del loro prodotto (e quindi quanto meno peculiari sono le crisi che essi si trovano a dover affrontare). L’opinione generale degli analisti europei dà per scontato che l’attuazione del mercato unico sarà accompagnata e, d’altro canto, faciliterà una continua convergenza della struttura economica tra i paesi membri della CEE, di modo che la causa per una moneta comune ne trarrà ulteriore impulso”. Ma Krugman, in base all’analisi dei dati statistici, conclude che come effetto dell’Europa di Maastricht i paesi membri dell’UE diventeranno non più simili ma addirittura meno simili e quindi a causa di una maggiore integrazione meno vicini a un’area monetaria ottima. Se ne può concludere che in tendenza l’Europa continuerà ad avere sviluppi economico-produttivi diseguali con una specializzazione produttiva e una localizzazione economica a livelli molto più bassi di quelli americani; processi, che in sintesi, se da una parte possono favorire un decentramento produttivo e, quindi, una minore concentrazione territoriale della produzione dall’altra possono significare un allargamento di potere delle multinazionali realizzando così, come si è potuto vedere nel contenuto di questo capitolo, una più forte concentrazione proprietaria.

Va comunque evidenziato che a partire dai processi di internazionalizzazione economica e dai processi di delocalizzazione produttiva, si assiste nei più importanti poli capitalistici geoeconomici a continue fusioni, acquisizioni e concentrazioni finanziarie ed industriali che spesso assumono la forma di processi a carattere nazional-capitalistico alla ricerca di spazi concorrenziali. Nella quasi totalità dei casi di concentrazione della proprietà si invoca l’efficienza e la competitività che si traduce in drastiche riduzioni del personale, in esternalizzazioni di fasi del ciclo che producono lavoro nero, precario e flessibile, in condizioni ed in genere in forme di redistribuzione tutte favorevoli al profitto. A tal fine le multinazionali giocano un ruolo strategico fondamentale. È per questo che non si può concludere questa inchiesta senza porre ulteriormente l’accento sui processi di acquisizione e fusione legati alla “nuova geografia” settoriale e proprietaria delle multinazionali [1].

La competizione globale e lo sviluppo tecnologico hanno molto influenzato la gestione, le dinamiche settoriali e localizzative e l’organizzazione dei processi produttivi delle grandi multinazionali [2].

Va detto che le imprese multinazionali per molti anni hanno seguito un modello gerarchico impostato su obiettivi di espansione dimensionale e di controllo di ogni fase del processo produttivo. Si ha così la “casa-madre” che assume un carattere prevalente sulle altre imprese e a cui spettano le decisioni di carattere strategico e le filiali che sono soggette a controlli e rappresentano la parte del sistema più strettamente operativo.

La crescita delle condizioni concorrenziali, l’innovazione tecnologica, la diminuzione degli intervalli di tempo tra progetto e commercio dei prodotti, le caratteristiche della globalizzazione finanziaria e della competizione globale, hanno fatto sì che molto spesso le filiali nazionali si siano trovate ad avere condizioni di crescita e di efficienza molto superiori a quelle della casa-madre. Questa situazione ha facilitato il passaggio dal modello gerarchico a quello cosiddetto reticolare con caratteristiche dell’organizzazione interna di tipo non gerarchica e un mercato interno ed esterno favorevole a questa impostazione.

Nel sistema reticolare non esiste più la casa-madre e la filiale ma diventa fondamentale una forte interdipendenza tra le diverse unità che devono saper lavorare insieme senza l’intervento specifico del centro. Si parla, infatti, di centro e di periferia per far risaltare la mancanza di un’impresa leader che organizza e controlla le altre. Si viene a creare, quindi, una sorta di “rete di impresa” costituita da rapporti con partner che sono all’interno del paese di insediamento; questo sistema di partnership consente di diminuire gli apporti di capitale, di integrarsi meglio nel contesto locale e di gestire le problematiche nazionali. La grande impresa centralizzata viene sostituita da una rete estesa su scala mondiale; all’interno di questa rete vi sono forme di partnership interne (ad esempio il franchising) e forme di partnership esterne (come ad esempio le joint ventures).

Le imprese multinazionali, comunque, lavorano su due dimensioni geografiche: quella globale e quella regionale. Tra le prime vi sono quelle imprese che operano in settori ad elevato contenuto tecnologico (come quello dell’informatica), mentre tra le imprese con organizzazione regionale vi sono quelle che distinguono la loro attività in regioni o macro-aree in funzione soprattutto dei vantaggi associati a questa distinzione (come la possibilità di sfruttare l’omogeneità dei mercati, le migliori condizioni fiscali e del mercato del lavoro con figure professionali a buon livello di specializzazione e con basso costo del lavoro).

È importante ricordare poi che vi sono due criteri organizzativi fondamentali: quello verticale e quello orizzontale. Nelle imprese multinazionali integrate verticalmente i diversi stadi della produzione sono localizzati in luoghi diversi a seconda dei vantaggi, di cui si è scritto in precedenza, che si possono trarre nelle varie aree. Il rapporto tra le filiali, quindi, dipende da come i prodotti intermedi sono trasferiti da uno stadio all’altro lungo i confini nazionali. Nelle imprese multinazionali integrate orizzontalmente, invece, lo stesso stadio della produzione viene ripetuto in un altro paese; lo stesso bene è prodotto così sia dalla casa-madre sia da una filiale estera, dovendo pertanto scegliere fra esportazione e modalità di investimento. Dal momento che la vendita avviene per il prodotto finito, la creazione di una filiale all’estero spesso serve per eludere tariffe, pesi fiscali, barriere amministrative e costi di trasporto, normative adeguate sul lavoro e per comprimere al massimo i costi del lavoro stessi. Con l’integrazione orizzontale, poi, si cerca di evitare l’entrata nel mercato di altre imprese per ragioni di concorrenza.

Le imprese multinazionali, comunque, svolgono un ruolo fondamentale nel processo di integrazione, diffusione ed allargamento degli scambi, in un’ottica sempre di “guerra produttiva e commerciale” per blocchi economici, in particolare in questa fase di accesa competizione globale. Le diverse operazioni di fusione, alleanze e accordi produttivi e commerciali, la stessa dinamica degli IDE, insomma i diversi processi di internazionalizzazione di questi ultimi anni, danno un’idea del ruolo svolto dalle multinazionali nella competizione economica mondiale per poli geoeconomici sub-globali [3].

Va ricordato che la gran parte dei movimenti internazionali di acquisizione e fusione si attua nei tre grandi blocchi mondiali costituiti da Unione Europea, Stati Uniti e Giappone, e che proprio queste sono le aree dove i fenomeni di concentrazione prendono forma. Ciò avviene proprio per ridisegnare il ruolo delle multinazionali nei conflitti geopolitici e geoeconomici della competizione globale. Ne segue che se le acquisizioni di aziende e le fusioni sono cresciute notevolmente in questi ultimi anni è anche vero che, mentre in precedenza queste operazioni avvenivano prevalentemente in aree economiche sviluppate, si è registrata da qualche tempo una crescita anche nelle aree a medio livello di sviluppo. L’interesse delle multinazionali verso questi paesi è dovuta al fatto che queste economie hanno costi bassi dei fattori produttivi e standard qualitativi ed organizzativi molto competitivi; si pensi ad esempio, oltre alle storiche aree asiatiche, all’Europa balcanica e Centro-Orientale.

Uno studio dell’UNCTAD [4] indica che il numero e il valore delle acquisizioni e delle fusioni è molto cresciuto in questi ultimi anni; ad esempio, se si analizzano le acquisizioni di quote di maggioranza di imprese situate all’estero si rileva che sono quasi raddoppiate tra il 1998 e il 1997. Queste attività di fusione e di acquisizione hanno visto tra i principali protagonisti paesi come gli Stati Uniti , il Regno Unito e la Germania; ad esempio Stati Uniti e il Regno Unito nel 1998 hanno fatto registrare insieme circa il 50% delle attività di fusione e acquisizione, sia dal punto di vista degli acquisti sia delle vendite; sempre questi due paesi sono stati protagonisti di tre delle sette più grandi fusioni avutesi nel 1998 (ossia quelle con valore superiore a 10 miliardi). All’interno dell’UE invece le acquisizioni e le fusioni hanno registrato tra il 1997 e il 1998, una tendenza di poco inferiore a quella mondiale. Il mercato asiatico infine, (oggetto in questi ultimi anni di una forte crisi finanziaria che ha avuto notevoli ripercussioni sull’attività produttiva e commerciale internazionale) non ha avuto incrementi di attività di fusione e di acquisizione sia di vendite sia di acquisti; il Giappone infatti è l’unico paese ad economia avanzata che non ha avuto aumenti di fusioni ed acquisizioni.

È interessante a questo punto vedere quali sono state le imprese protagoniste in questi ultimi anni delle maggiori fusioni ed acquisizioni; i dati della Tab. 1 confermano quanto già scritto, ossia che USA e Regno Unito sono stati i paesi maggiormente attivi in questo senso.

Lo sviluppo tecnologico e l’abbattimento delle barriere, che negli anni passati ostacolavano maggiormente la libera circolazione delle informazioni ha permesso la nascita di una serie di alleanze che vedono coinvolte molte aziende operanti in settori merceologici diversi. Va ricordato che le più importanti operazioni di fusione ed acquisizione sono state attuate da imprese multinazionali di grandi dimensioni. Nel 1998, ad esempio, si sono avute ben 89 acquisizioni e fusioni di grandi dimensioni su scala internazionale, ognuna delle quali ha comportato un movimento di capitali superiore al miliardo di dollari (11 delle 89 grandi operazioni che sono state portate a termine nel 1998 sono state effettuate nelle aree economiche sviluppate).

La maggior parte di queste acquisizioni e fusioni va ricollegata alle politiche di privatizzazione che sono state attuate in questi anni. Per esempio, la maggior parte delle operazioni riguardanti il settore delle telecomunicazioni hanno avuto come area geografica strategica il Brasile, dove quasi tutte le aziende operanti nel settore (come la Telebràs) sono state privatizzate. Infatti sempre lo studio dell’UNCTAD sulla distribuzione delle acquisizioni e fusioni indica che nel 1998 l’industria automobilistica ha registrato, tra il 1997 ed il 1998, la crescita maggiore ed è stata coinvolta nelle operazioni più grandi. Le telecomunicazioni hanno visto nascere nuove alleanze a livello internazionale soprattutto per la recente liberalizzazione e la privatizzazione del settore nei maggiori paesi industrializzati.

Si noti che mentre negli anni ’80 le grandi acquisizioni e fusioni si erano avute soprattutto nel settore manifatturiero, le nuove operazioni presentano caratteristiche diverse soprattutto a causa dell’apertura dei mercati connessa alla liberalizzazione degli investimenti e della circolazione di capitali. Ciò avviene specialmente nel settore dei servizi, che ha reso più facile per molte imprese l’espansione all’estero dell’attività ed infine perché la dimensione d’impresa si è sviluppata ed è cresciuto il raggio d’azione produttivo e localizzativo delle imprese multinazionali; quest’ultime ora sono molto più attente al contenuto di capitali immateriali portato nel processo produttivo e tengono in maggior considerazione le aree geoeconomiche a medio livello di sviluppo.

Un altro recente studio edito da Mediobanca (“R&S International financial aggregates: 257 companies”, ediz.2000) analizza l’andamento di 257 multinazionali, così suddivise: 236 nei settori manufatturieri ed energetici, 20 nelle telecomunicazioni e 1 che agisce in ambedue i settori [5].

Dal rapporto risulta che le società europee (seguite da USA e Giappone) sono quelle che hanno la dimensione maggiore sia per le attività sia per le vendite realizzate; questo fenomeno è dovuto alla forte crescita delle acquisizioni e fusioni (rilevato nell’aumento significativo degli impieghi) e all’internazionalizzazione delle aziende. Infatti in Europa si è registrato un + 66,7% nel periodo 1989-1997 ed un + 81,7% negli anni 1989-1998, negli Stati Uniti invece rispettivamente il 67% e il 65,7%, ed ancora in Giappone si è avuto un aumento degli impieghi del 60,4% e nel 1989-1999 del 68,4%. Ed ancora, l’Europa nel 1997 impegnava sui mercati esteri il 71% del suo prodotto e nel 1998 il 72,2%, mentre il Giappone ha visto aumentare la percentuale dal 46,8% al 48,5% e gli Stati Uniti dal 43,7% al 46,5% (tale incremento del prodotto venduto all’estero è l’indice considerato per dimostrare l’ampliamento dei processi di internazionalizzazione).


Se si guarda alla struttura del capitale si nota una forte divergenza tra gli Stati Uniti da un lato e Giappone ed Europa dall’altro. Considerato che il “patrimonio netto” rappresenta per tutte e tre le aree la quota maggiore della struttura di capitale, risulta che negli Stati Uniti vi sono subito dopo in graduatoria i prestiti obbligazionari con un valore al 31/12/1998 del 31,4% mentre in Europa è circa del 19 % e in Giappone è del 27,8%.

Sempre dallo stesso studio di Mediobanca si evidenzia dal 1989 al 1998 una diminuzione per l’Europa ed il Giappone dell’aggregato economico relativo al Margine Operativo Netto (MON) rispetto alle vendite, e una crescita per gli Stati Uniti. Analogamente per altri due importanti indicatori: si nota una diminuzione del ROI (redditività degli investimenti) e del ROE (redditività globale del capitale di rischio) per Europa e Giappone, mentre gli USA evidenziano una crescita significativa di tali indicatori.

I settori per i quali il rapporto Margine Operativo Netto rispetto alle vendite è più elevato sono quelle chimiche, le alimentari e delle bevande e soprattutto il settore delle telecomunicazioni; tale settore risulta sempre in forte espansione. L’Europa mostra valori dell’indicatore preso in considerazione più elevati per i settori delle industrie petrolifere e dell’energia, delle industrie chimiche, della carta, degli alimenti e bevande e soprattutto nel settore delle telecomunicazioni; gli USA mostrano i valori più elevati nei settori nei quali l’Europa non ha valori al di sopra della media; il Giappone invece ha un ruolo meno rilevante rispetto a Europa e USA, presentando valori inferiori rispetto agli altri due grandi blocchi economici.

Se si prende in esame l’importanza di ogni settore in relazione alla propria quota di mercato, si nota che il settore meccanico è quello più importante; infatti, preso come 100 il totale delle vendite avute nel complesso dei settori (ossia delle aziende aggregate per settore), il meccanico registra una quota del 30,5% nel 1997, quota che ha un incremento del 33% nell’anno successivo. Gli altri settori importanti sono quello energetico che ha registrato nel 1997 una quota del 16,2% ed è poi sceso al 12,4% nel 1998 e quello chimico che registra, nel 1998 un 14,1%.

Va comunque sottolineato che negli anni 1989-1999 tutti i settori hanno segnato un aumento delle vendite, ed il ramo che ha avuto l’aumento più alto è quello dell’elettronica che ha registrato un +32,4% dal 1989 al 1998.

Dai dati dell’indagine Mediobanca, inoltre, emerge come le multinazionali segmentano il loro processo produttivo, e come gestiscono affari di diverso genere, “gettandosi” in più attività economiche tra loro anche diverse.

Secondo l’ultimo Rapporto dell’UNCTAD (“World Investment Report 2000: Cross-border Mergers and Acquisitions and Development”; si veda in particolare il comunicato stampa, relativo al Rapporto pubblicato su internet all’indirizzo : http:// www. UNCTAD. org) gli investimenti diretti esteri (IDE) sono arrivati nel 1999 a 865 miliardi di dollari e le previsioni per il 2000 indicano che è possibile superare abbondantemente il livello dei 1000 miliardi di dollari. Considerando che in tale Rapporto tra le “imprese trasnazionali” si fanno rientrare le società capogruppo (con il possesso di un pacchetto azionario almeno del 10% come soglia minima per accedere al controllo di una società in nazione diversa da quella di origine) e le loro affiliate estere, ciò significa in pratica che le multinazionali saranno in grado nel 2000 di muovere flussi veramente spaventosi di capitali (si pensi che 1000 miliardi di IDE per il 2000 corrispondono a circa il totale del PIL realizzato in un anno dall’Italia). Comunque, già per il 1999, degli 865 miliardi di dollari ben 636 sono affluiti alle nazioni industrializzate contro i 481 miliardi di dollari del 1998; nel contempo gli IDE indirizzati ai paesi in via di sviluppo sono arrivati a 208 miliardi di dollari contro i 179 del 1998. Le affiliate estere delle imprese trasnazionali hanno generato nel 1999 un fatturato di 14.000 miliardi di dollari (si tratta di 5 volte il livello del 1980, cioè di un importo pari al doppio del volume delle esportazioni globali). Le imprese trasnazionali, sostiene il Segretario Generale dell’UNCTAD, Rubens Ricupero, sono circa 63.000 aziende con 700.000 affiliate estere e sono presenti in tutti i paesi e in tutte le attività economiche e il nuovo record degli IDE è dovuto soprattutto alle fusioni e alle acquisizioni all’estero “nelle quali vanno fatti rientrare anche gli acquisti da parte di investitori stranieri di imprese del settore statale privatizzate”. In pratica si sta realizzando un mercato globale in cui la compravendita di imprese al di là dei confini nazionali ha raggiunto livelli mai avuti negli anni passati.

Il Rapporto UNCTAD sostiene che le principali 100 imprese multinazionali non finanziarie del mondo, in termini di capitale estero controllano un valore di oltre 2000 miliardi di dollari dando lavoro a circa 6 milioni di persone. La Gran Bretagna nel 1999 è stato il paese che ha effettuato i più alti investimenti all’estero (con circa 200 miliardi di dollari) superando abbondantemente il livello degli Stati Uniti; paese quest’ultimo che continua invece ad essere il principale destinatario degli IDE (con circa il 34% del totale mondiale) cioè 276 miliardi di dollari e ciò soprattutto è dovuto alle operazioni di fusione e acquisizione avutesi nel 1999 negli USA.

Il Rapporto UNCTAD 2000 sottolinea, inoltre, che l’avvento dell’euro ha aumentato la concorrenza portando le aziende a più frequenti processi di ristrutturazione; ciò ha fatto sì che le multinazionali dell’UE hanno effettuato IDE di 510 miliardi di dollari nel 1999, cioè oltre il 65% dei flussi in uscita totali mondiali. Per il Giappone si registra nel 1999 un record di 13 miliardi di dollari di IDE in entrata (quattro volte il livello del 1998), mentre gli IDE in uscita sono diminuiti del 6% attestandosi intorno ai 23 miliardi di dollari. Sempre per il 1999 si registra un incremento degli IDE in entrata dei paesi dell’America Latina e dei Caraibi ( circa 90 miliardi di dollari) e verso i paesi asiatici in via di sviluppo (circa 106 miliardi di dollari). Gli IDE in entrata dell’Europa Centrale non sono mutati molto attestandosi intorno ai 21 miliardi di dollari. Va infine sottolineato che gli IDE in uscita dai paesi in via di sviluppo per il 1999 sono raddoppiati arrivando a circa 66 miliardi di dollari, anche se oltre 30 miliardi di dollari sono movimentati dalle multinazionali registrate nelle Bermuda e 20 miliardi di dollari provengono da multinazionali con sede a Hong Kong.

Come si è scritto in precedenza, il Rapporto UNCTAD 2000 evidenzia che la crescita degli IDE è dovuta prevalentemente ai processi di fusione e acquisizione che nel 1999 hanno raggiunto un valore complessivo di circa 2.300 miliardi di dollari per 24.000 contratti complessivi. Se si considerano, poi, le fusioni e acquisizioni oltre confine con l’acquisto di più del 10% del capitale azionario, risulta che nel 1999 il valore ha raggiunto i 720 miliardi di dollari, anche se si sono avuti 109 megaccordi, cioè contratti con un valore unitario maggiore di 1 miliardo di dollari, che hanno rappresentato oltre il 60% del valore totale delle fusioni e acquisizioni all’estero e riguardato molte delle principali 100 multinazionali. Per quanto riguarda l’attività di fusione e acquisizione all’estero, le multinazionali con sede nell’UE sono state le più attive con un totale di 354 miliardi di dollari di vendite e di 519 miliardi di dollari di acquisti. In particolare le multinazionali della Gran Bretagna hanno attuato forti investimenti negli USA per conquistare le aziende statunitensi, mentre l’UE nel suo complesso ha rappresentato oltre l’80% di tutte le operazioni di fusione e acquisizioni oltre confine attuate negli USA nel 1999. Sono proprio le imprese multinazionali dell’UE che si sono evidenziate come le maggiori acquirenti di attività nei paesi in via di sviluppo attraverso i processi di fusione e acquisizione. Il continuo interesse dei paesi dell’UE verso l’Europa Centro-Orientale è ancora una volta evidenziato dal fatto che anche per il 1999 sono molto alte le attività di fusione e acquisizione all’estero effettuate in tale area strategica da società provenienti dall’Europa Occidentale (per un valore all’incirca di 10 miliardi di dollari); ciò è stato possibile tramite forti processi di privatizzazione realizzati nell’Europa Centro-Orientale, processi che sono tra le maggiori motivazioni di attrazione degli IDE anche in America Latina e in Asia.

Il Rapporto UNCTAD evidenzia, inoltre, che se si classificano le 100 principali imprese multinazionali non finanziarie in base agli attivi esteri, risulta ancora al primo posto la General Electric seguita dalla General Motors, Shell, Ford, Exxon, Toyota, IBM, BP Amoco, Daimler-Benz, Nestlè SA; e tale classifica non modificamoltoquellaprecedenteal1998 delle prime 10 multinazionali. Si conferma pertanto una forte stabilità nel dominio delle multinazionali proprio perché anche la classifica delle prime 100 non cambia molto tra un anno e l’altro; tale stabilità è anche confermata per i settori di appartenenza (automobilistico, elettronico, petrolifero anche se sta guadagnando molte posizioni il settore delle telecomunicazioni) e per la distribuzione spaziale, infatti 90 delle 100 principali multinazionali hanno la sede centrale nei paesi dei tre grandi poli geoeconomici (UE, USA e Giappone).

In conclusione, si conferma il ruolo e la posizione dell’UE come più importante fonte degli IDE anche nel 1999, con in primo piano paesi come Gran Bretagna, Francia, Germania e Olanda e con tassi più elevati di crescita rispetto all’anno precedente di Danimarca, Francia e Spagna, mentre Italia, Germania e Finlandia segnano un forte decremento degli IDE del 1999 rispetto agli anni precedenti. Inoltre l’UE ha realizzato la metà del totale delle cessioni inerenti fusioni e acquisizioni oltre confine e il 70% degli acquisti; infine le multinazionali dell’UE sono state coinvolte in 9 delle 10 principali fusioni e acquisizioni oltre confine realizzate nel 1999. Ma l’intensificarsi dei movimenti degli IDE, il forte dinamismo economico-produttivo delle multinazionali, tutte le tendenze macroeconomiche e le scelte politiche economiche del neoliberismo poggiano su un preciso e calcolato “trucco contabile”. L’innovazione tecnologica di questi ultimi 25-30 anni, la resa del movimento sindacale che ha scelto la via concertativa e consociativa, cioè la subalternità e molto spesso la complicità alle scelte funzionali al nuovo paradigma dell’accumulazione flessibile, determinano forme sempre più intense di sfruttamento della forza lavoro e ciò essenzialmente avviene e si misura attraverso gli incrementi di produttività; come si è visto nelle precedenti parti dell’analisi-inchiesta, non essendosi tradotti tali incrementi di produttività complessivamente in aumenti occupazionali, in contrazioni della disoccupazione, in diminuzione dell’orario di lavoro, in forme internazionali di redistribuzione della ricchezza, in adeguati investimenti produttivi capaci di creare nuova e stabile occupazione, né in corrispondenti aumenti del salario reale diretto, differito o indiretto (Stato sociale), di conseguenza si determina il “trucco contabile”, cioè aumenta quantitativamente la crescita economica e, mancando la redistribuzione dei redditi e soprattutto della ricchezza, ciò non determina sviluppo sociale; cioè si innovano le modalità, ma siamo pur sempre nel moderno modo di produzione capitalistico basato sullo sfruttamento del lavoro attraverso l’estorsione di plusvalore in maniera più o meno diversamente articolata rispetto al passato e con forme diversificate di accumulazione di capitale.-----

La mancata redistribuzione al fattore lavoro degli incrementi di produttività determinano, quindi, solo in apparenza un “trucco contabile”, in realtà si tratta del “trucco economico-politico”, insito nel modo di produzione capitalistico. Vediamo, allora, di seguito, l’esplosione quantitativa della produttività avutasi a partire, quasi in tutti i paesi capitalistici a struttura avanzata, dalla metà degli anni ’70.

La produttività è in termini di rendimento il rapporto fra il prodotto ottenuto e la quantità di fattori impiegati; è questa la produttività globale o totale che può essere espressa nel modo seguente: produttività globale: prodotto ottenuto/quantità dei fattori. Questo indice ci offre la possibilità di quantificare la capacità di un sistema economico nel trasformare le risorse disponibili in prodotti, con una riduzione dei costi reali per unità di prodotto. Ovviamente, poiché in questo rapporto sono indicati fattori eterogenei, sorge il problema di utilizzare un valore comune; questo valore non può che essere la moneta, per cui si fa riferimento sia al prezzo del prodotto (o meglio al valore aggiunto della produzione), sia al prezzo dei fattori produttivi (nel nostro caso per semplificare si userà la somma del costo del capitale e del costo del lavoro). Oltre alla produttività globale possiamo calcolare quella specifica di un fattore (lavoro, capitale). Per quanto riguarda il lavoro possiamo calcolare anche la Produttività media del lavoro fornita dal rapporto tra il valore aggiunto dell’intero prodotto e quello dell’intero fattore; può essere calcolata generalmente in tre modi: Valore aggiun-to/Costo del lavoro; Valore aggiunto/N. ore lavorate; Valore aggiunto/N. dipendenti.

Diversamente da quella del lavoro, la Produttività media del capitale si calcola generalmente in un unico modo: Valore aggiunto/valore del capitale.

Essendo un indicatore molto importante dell’andamento del sistema economico, è interessante esaminare l’evoluzione della produttività nel corso degli anni. Negli anni ’60, ad esempio, in Italia, l’andamento della produttività è stato crescente grazie ad un elevato livello di progresso tecnologico e ad un’organizzazione del lavoro sempre aziendalmente più efficace che ha portato, per l’alta conflittualità operaia, ad un aumento costante dei salari reali. L’incremento di produttività intenso diminuisce dopo il 1973, come si poteva facilmente prevedere, considerate le recessioni che si sono verificate nel nostro paese durante gli anni ’70 e ’80, a causa dell’aumento del prezzo del petrolio, all’andamento degli investimenti in ricerca e sviluppo e di un livello insufficiente di investimenti in nuovi macchinari, per poi riprendere una crescita abbastanza accelerata a inizio anni ’90, nonostante proprio nei primi anni’90 il mondo intero sia stato colpito da un periodo di mancata crescita economica complessiva che ha costretto la maggior parte dei paesi ad attuare piani di ristrutturazione in molti settori produttivi. Nonostante questa sia avvenuta durante gli anni ’80 e ’90, il sistema industriale si basa, ancora, principalmente sui settori base e di consumo finale, con carenze strutturali nelle aree dei grandi beni strumentali, dell’impiantistica, della progettazione e della ricerca. Inoltre, con l’ampliarsi delle politiche monetariste restrittive di stampo neoliberista, si è radicata l’idea in tutti i paesi capitalistici a struttura avanzata che il lavoro sia un costo da limitare e non una risorsa da incentivare in modo da assorbire a profitto tutti gli incrementi di produttività.

Per avere una visione più diretta dell’andamento della produttività nei principali paesi capitalisti a industrialismo avanzato si è calcolata su dati delle rilevazioni OCSE per ogni singolo paese la produttività del lavoro, del capitale e totale, relativamente al settore industriale attraverso l’uso dalle statistiche ufficiali dei tre aggregati indispensabili per la determinazione degli indici suddetti.

Analizzando in modo più approfondito i dati contenuti nei Riquadri successivi si possono evincere risultati e fenomeni molto interessanti. Gli Stati Uniti, ad esempio, fino al 1978 si sono caratterizzati per livelli di produttività costantemente crescenti; ma tra fine anni ’70 e inizio ‘80 vi è stato, un cambiamento di tendenza che ha toccato il suo livello minimo nel 1985; negli ultimi anni, fino al ‘95, la situazione è tornata a segnalare livelli alti di produttività totale, ma anche singolarmente come produttività del lavoro e del capitale. Negli anni che partono dal 1976 il Giappone, invece, ha fatto registrare livelli di produttività totale crescente, che si è mantenuta costante per quasi tutti gli anni’80; solo tra il 1989 e il 1993 si è avuto un calo negli indici, che ha avuto fine a partire da quella data; da segnalare una produttività del lavoro sempre molto alta ad esempio rispetto agli USA, mentre è più bassa la produttività del capitale.

Per compiere un’analisi approfondita dell’andamento della produttività che ha caratterizzato l’Unione Europea in questi ultimi venti anni è necessario fare una distinzione più dettagliata tra i vari paesi. L’Austria, il Belgio, la Finlandia, la Germania e la Francia sono accomunate da un andamento sempre crescente della produttività, negli anni ’70; successivamente si è verificato un periodo di crisi agli inizi degli anni’80; negli ultimi tempi, però, il livello della produttività è tornato a crescere ad alti ritmi. Per quanto riguarda la Danimarca e il Portogallo il primo periodo di crescita si è prolungato fino al 1985, ma dal 1986 si è rilevata una flessione; solo dal 1991 la produttività totale ha ripreso la sua crescita abbastanza elevata. Per la Grecia, la situazione non è molto positiva, infatti la produttività ha avuto un andamento quasi sempre modesto, raggiungendo solo un picco più elevato nel 1986. In maniera più specifica, la Germania segnala un’alta produttività totale negli anni ’70, dovuta soprattutto al peso della produttività del capitale, per attestarsi poi negli anni ’80 e i primi anni ’90 a livelli medi intorno ad 1,25. La Francia mantiene livelli medio-alti di produttività del lavoro con andamento altalenante della produttività del capitale; la produttività totale aumenta significativamente a partire da fine anni ’80. La Spagna si caratterizza per avere sempre livelli mediamente molto alti rispetto agli altri paesi sia della produttività totale e del lavoro, ma soprattutto della produttività del capitale. Nel Regno Unito si segnala una produttività del capitale mediamente sempre più alta rispetto agli altri paesi oggetto di indagine, con livelli di produttività totale che aumentano a partire da fine degli anni ’80.

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Infine nel nostro Paese, si evidenzia, nella seconda metà degli anni ’70, un andamento della produttività totale significativamente crescente, con un picco massimo nel 1979; agli inizi degli anni’80 il livello di quest’ultima è stato in flessione, ricominciando la sua risalita solo nella seconda metà dei suddetti anni. Va segnalato, inoltre, un significativo livello sempre più alto rispetto alla media degli altri paesi della produttività del lavoro. Per quanto riguarda la produttività totale settoriale, durante gli anni ’70 e ’80, sempre in Italia nei settori della meccanica, della chimica, della farmaceutica, dei minerali e dei prodotti non metalliferi, è risultato un tasso di crescita maggiore rispetto all’industria estrattiva e alimentare. Questa crescita è dovuta ad un forte aumento della produttività del lavoro e degli input energetici, mentre quella verificatasi nella meccanica la si è ottenuta grazie anche all’accelerazione del risparmio degli input intermedi. Nella seconda metà degli anni ’80 si è registrato un maggiore utilizzo degli input energetici ed intermedi, mentre è rallentato il processo di accumulazione del capitale. La produttività del lavoro, invece, negli anni ’80 è aumentata in misura rilevante nell’industria dei mezzi di trasporto, pur avendo un andamento crescente un po’ in tutti i settori. Negli ultimi anni, infine, la produttività del capitale nel nostro Paese ha fatto registrare valori che si sono mantenuti stabilmente abbastanza alti; si è rilevato, infine, un rallentamento nel processo di accumulazione dovuto a nuovi investimenti produttivi mentre si sono avuti forti investimenti finanziari e forti incrementi valoriali d’impresa dovuti a investimenti in capitale intangibile o risorse immateriali.

Anche dal seguente Riquadro 8, con dati sui tassi di variazione rilevati dalla Confindustria, si rileva che la produttività totale ha avuto andamenti diversi a seconda dei paesi che si prendono in considerazione: ad esempio nei paesi anglosassoni è risultata in maggiore aumento rispetto agli altri paesi oggetto del nostro studio.


È interessante confrontare di seguito l’andamento della produttività correlata ai tassi di variazione degli investimenti.

In sintesi si può evidenziare che i processi di ristrutturazione che hanno caratterizzato la maggior parte dei paesi europei hanno provocato, non solo un brusco abbassamento dell’occupazione ma anche un sensibile incremento della produttività del lavoro e del capitale per addetto. In Germania, Francia e Italia, pur essendosi ridotto il livello degli investimenti, si mantiene un discreto grado di utilizzo degli impianti; in Gran Bretagna il decremento degli investimenti è stato spesso accompagnato da buoni livelli di crescita della produttività del capitale e quella totale. In Giappone, la produttività del lavoro si mantiene alta, contrariamente a quella del capitale che è diminuita del 4.4% a fronte di frequenti contrazioni degli investimenti. Gli Stati Uniti, invece, hanno una dinamica diversa, poiché non vi sono stati segnali significativi di mutamento nell’andamento della produttività del capitale e del lavoro.

Come si può vedere dal Riquadro 9 in tutti i paesi presi in esame la produttività totale del settore privato ha avuto, negli anni ’60, tassi di variazione elevati, che però sono diminuiti tra il 1974 e il 1979, e anche tra il 1980-1991. Per quanto concerne, in specifico, la produttività del lavoro e del capitale, hanno fatto registrare andamenti fra loro dissimili: la prima si è incrementata molto velocemente nell’Unione Europea e in Giappone negli anni’60, per poi frenare la sua crescita solo in alcune fasi e comunque i processi di ristrutturazione hanno sempre avuto riflessi significativi sulla produttività del lavoro stesso; la produttività del capitale, al contrario, ha mostrato, in tutti i paesi, tendenze altalenanti con tassi di variazione per alcuni periodi negativi, risultati dovuti all’andamento degli investimenti e in genere all’andamento di molti parametri macroeconomici connessi all’andamento del fattore capitale, dimostrando comunque che i processi di ristrutturazione post-fordisti sono caratterizzati da sempre più intensi livelli di sfruttamento della forza-lavoro con diverse connotazioni (aumenti dei ritmi e dell’intensità di lavoro, ecc.).

Per concludere anche dai seguenti dati ISCO, fino al 1997, (Riq.10) risulta che la produttività del lavoro ha quasi sempre avuto tassi di variazione significativamente alti, non solo nel nostro Paese, ma anche in Germania, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, e anche in Francia, mentre ha un andamento più altalenante in Giappone.

Invece la produttività del capitale ha fatto registrare quasi sempre un andamento molto simile a quello del prodotto lordo, il quale ha avuto negli ultimi anni tassi di variazione annuali spesso in diminuzione, rispetto ai cicli precedenti, nell’Europa continentale e in Giappone, contrariamente a quanto è avvenuto negli Usa e in Gran Bretagna dove è risultato quasi sempre in netta crescita.

Se, infine si osservano i Riquadri successivi elaborati su Banca dati Datastream (da: Fondo Monetario Internazionale e prendendo come anno base il 1995=100) si hanno delle informazioni aggiuntive rispetto ai riquadri precedenti in cui si consideravano il valore annuale dei diversi indici di produttività e i tassi percentuali di variazione.

Considerando la produttività del capitale calcolata tra il 1974 e gli inizi del 2000, come anno base il 1995, dagli Schemi da 1 a 6 si può notare che quella del Giappone è drasticamente diminuita negli anni, passando da un indice pari a 149,94 nel 1974 a 91,76 nel 2000.



Visualizza schemi da 3 a 6

Sono invece aumentate la produttività dell’Inghilterra e degli Stati Uniti che avevano negli anni ’70 e ’80 una bassa produttività del capitale; risultano avere un andamento molto simile, invece, la produttività di Italia, Francia e Germania con flessioni sempre contenute; infatti la produttività del capitale dal 1975 al 1995 è stata sempre non molto superiore al 100; mentre a partire dall’anno base 1995 Italia e Germania hanno subito una leggera flessione attestandosi sotto tale valore, la Francia ha avuto una leggera crescita superiore al 100.

È interessante notare che, a partire dai primi anni ’90, tutti i paesi considerati (sia quelli che negli anni ’70 e ’80 avevano una bassa produttività del capitale sia quelli che si discostavano molto in senso positivo dal valore dell’anno base) si allineano a valori molto vicini a quelli del 1995 (anno base) stringendo molto il campo dei precedenti differenziali positivi o negativi rispetto ai valori base del ’95. Se si considera che proprio gli USA e l’Inghilterra avevano i valori di partenza molto bassi rispetto all’anno base, mentre ad esempio il Giappone, Francia e Germania quelli più alti, si intuisce allora il processo di allineamento dal capitalismo anglosassone al modello renano-nipponico.

L’indice della produttività del lavoro, calcolato con anno base il 1995 (vedi Schemi da 7 a 12), mostra un tendenziale forte aumento in tutti i paesi considerati; in particolare, l’aumento risulta maggiore tra il 75 e il 95, dopo tale data l’incremento è meno accentuato ma costante. La Germania ha subito tra il 1990 e il 1991 una brusca diminuzione, infatti l’indice è passato da 106,08 a 90,97, probabilmente anche a causa del riallineamento dei dati contabili e del riassorbimento della struttura economico-produttiva dell’ex Germania Est. A partire dal 1995 tutti i paesi si attestano oltre il 100, in particolare gli Stati Uniti che nel primo mese del 2000 registrano un indice pari a 113,69, la Germania a 109,38, Inghilterra, Francia e Giappone intorno a 107, mentre l’Italia evidenzia un 102,67. Tale costante e accelerato incremento della produttività del lavoro dimostra chiaramente la centralità e il ruolo della forza lavoro rispetto al modo di produzione capitalistico che, seppur mutando fase e modalità dell’accumulazione, seppur imponga nuovi modelli di produzione e conseguenti diverse forme di presentarsi del lavoro (dal lavoro fordista, alle mille facce del lavoro atipico, flessibile e precario), è sempre e comunque basato sull’estorsione di pluslavoro e plusvalore a partire dallo sfruttamento di un, per quanto nuovo, ma sempre e comunque lavoro salariato e subordinato.


Dagli Schemi da 13 a 18 si evidenzia che l’indice della produttività totale, calcolato con anno base 1995, mostra un tendenziale aumento in tutti i paesi, in particolare l’aumento risulta maggiore tra il 1974 e il 1995; dopo tale data l’incremento è meno accentuato ma costante. La Germania ha subito tra il 1990 e il 1991 una brusca diminuzione, infatti l’indice è passato da 105,61 a 96,1 a causa probabilmente dei processi economici strutturali legati alla riunificazione con la ex Germania Est. A partire dal 1995 tutti i paesi si attestano oltre il 100, in particolare gli Stati Uniti che nel primo mese del 2000 registrano un indice pari a 109,7 e l’Italia 107,91; mentre per il Giappone risulta un valore di 100,02 nel 1998 e di 102,47 nel 2000 e Germania, Francia e Inghilterra si hanno valori intorno a 105 a Gennaio 2000.

Visualizza schemi da 13 a 16

Risulta, quindi, infine che anche l’indice di produttività totale, così come quello del lavoro, ha mostrato nel periodo 1975-2000 in tutti i paesi considerati, un andamento in continua e forte crescita, ciò a dimostrare che i forti incrementi della produttività del lavoro determinano il trend crescente dell’andamento dell’indice di produttività totale “compensando” ampiamente l’andamento a volte altalenante della produttività del capitale.

È sempre nello sfruttamento del lavoro la chiave di lettura del modo di produzione capitalistico.

Ma tutti gli incrementi di produttività non sono stati correttamente redistribuiti, anzi come si è visto nel corso dell’analisi-inchiesta sono andati quasi esclusivamente a remunerare il fattore capitale, sotto forma di un profitto non reinvestito produttivamente ma finito quasi totalmente nella “bolla finanziaria speculativa” a facile guadagno ma non capace di creare nuova e reale occupazione.

Al risanamento finanziario pubblico e reddituale privato non è corrisposto un adeguato irrobustimento degli investimenti in ricerca e sviluppo e di innovazione e tale processo è stato caratterizzato da un forte incremento del progresso tecnologico ma che ha avuto come risvolto negativo una continua diminuzione del livello di occupazione e una sua precarizzazione con l’unico scopo di aumentare i profitti comprimendo i costi del lavoro, il salario sociale complessivo come insieme di salario diretto e indiretto. Il divario tra produzione (industria, servizi, attività pubbliche) ed esigenze occupazionali è stato riformulato solo nell’ottica di uno sviluppo della performance di profitto, sempre più spesso a connotati finanziari, nel quale la valorizzazione socio-culturale delle risorse umane ha rappresentato solo un costo, e non una grande occasione per incrementare la domanda singola e comunitaria, anche di sviluppo ad alta sostenibilità socio-ambientale favorendo le attività basate su funzioni di incremento di cultura, di solidarietà e di civiltà. Ciò perché anche lo Stato ha dismesso la sua funzione di regolatore del conflitto sociale e ha fatto proprie le più rigide politiche di efficienza d’impresa, imprese che da molti anni adottano la regola che i guadagni di produttività ottenuti grazie all’introduzione di tecnologie sempre più avanzate, vengono ripartiti esclusivamente al fattore capitale, cioè agli azionisti e ai manager, sotto forma di dividendi, aumenti di investimenti finanziari o benefici di altra natura. Questo stato di cose ha provocato, e provoca, la mancanza di redistribuzione degli incrementi di produttività ai salari diretti e indiretti dei lavoratori, i quali rivendicano il diritto di ricevere in forme remunerative dirette o indirette tali incrementi attraverso retribuzioni più elevate, o in alternativa con riduzioni dell’orario di lavoro, aumenti dell’occupazione, miglioramento dello Stato sociale, cioè forme di redistribuzione di ricchezza agli occupati e disoccupati di reddito e di ricchezza; nell’analisi-inchiesta finora condotta si è potuto verificare che tutto ciò non è avvenuto, che la remunerazione del fattore capitale si è rafforzata ai danni dei salari e del fattore lavoro in generale.


[1] Della “nuova geografia” spaziale delle multinazionali se ne parla nel capitolo apposito dedicato alle dinamiche degli IDE.

[2] È utile ricordare che un’impresa multinazionale è composta da un’insieme di unità organizzate, con obiettivi diversificati, e geograficamente plurilocalizzate a livello internazionale ed include sia la casa-madre sia le diverse consociate nazionali e filiali acquisite; le attuali dinamiche sono viste nelle diverse parti dell’inchiesta dedicate ai movimenti degli IDE.

[3] Ad esempio basti ricordare le fusioni ed acquisizioni più lampanti come quella della IBM-Siemens, della Michelin-Uniroyal e della Motorola-Toshiba.

[4] United Nations, “World investment report: foreign direct investiment and the challenge of development”, 1999.

[5] Le società del campione operano in Scandinavia (Finlandia, Norvegia e Svezia), Benelux (Belgio e Olanda), Germania, Italia, Francia, Stati Uniti, Giappone, Svizzera e Regno Unito; va segnalato però che le imprese non sono distribuite equamente tra i diversi paesi ma appartengono per la maggior parte agli Stati Uniti, seguiti dal Giappone e dal Regno Unito. I settori in cui operano queste imprese sono quelli del: ferro, acciaio e metalli non ferrosi, olio ed energia, gomma e cavi, chimico, ingegneria meccanica, ingegneria automobilistica, carta, chimico, cibo e bevande, elettronica, telecomunicazioni. Queste imprese hanno un numero di addetti poco al di sotto dei 20 milioni, investimenti per 4.700 miliardi di euro e un giro di affari di 4.500 miliardi di euro.