Le pensioni a galla

Nicola Galloni

I governi di centro-sinistra emersi dopo la consultazione elettorale del 1996 hanno sfiorato il tema delle pensioni e poi, per ragioni varie - in parte di mera opportunità politica, in parte per talune modificazioni riguardanti le prospettive dell’INPS - hanno preferito glissare e rimandare il tutto alla verifica del 2001, come la cosiddetta riforma Dini del 1995 prevedeva.

I malumori espressi, subito, da molte organizzazioni dei lavoratori per la prospettiva di un anticipo della verifica prevista dalla riforma Dini si sono, infatti, abbinati ad un aumento del gettito dell’INPS derivante da due concomitanti fenomeni: a) la crescita della domanda di lavoro regolare - seppure molto precario - da parte delle imprese e la riduzione del trend del sommerso (il quale, beninteso, sta solo rallentando); b) le entrate dovute all’assoggettamento di molte figure cosiddette atipiche a versamenti che, per ora e nel recentissimo passato, hanno oscillato tra il 10 e il 13% della retribuzione corrisposta.

Rimane aperto, anzi, si aggrava il problema dei lavoratori, più o meno precari, che non potranno arrivare - in mancanza di coraggiosi (e socialmente necessari) interventi - ad una vera e propria pensione, qualsiasi tipologia “tecnica” si definisca. Il perché di tale fosca prospettiva appare molto semplice e, forse, evidente: fino a pochi anni fa, l’aumento dell’età al lavoro (ad un lavoro che consentisse versamenti pensionistici adeguati), poteva venir compensata - si tratta, beninteso, di una riflessione più teorica che pratica - da un pari aumento dell’età alla pensione.

Da circa tre anni, invece, accade che le imprese tendano ad assumere giovani con buoni titoli di studio, sottopagandoli, per poi licenziarli ed assumere lavoratori ancora più giovani con titoli di studio più elevati ed offrendo paghe relativamente decrescenti.

Dietro questi preoccupanti fenomeni che comportano l’espulsione dal mercato del lavoro degli ultratrentacinquenni e l’utilizzo degli ammortizzatori sociali per la fascia di età attorno ai 45, si trovano tre cause che sembrano avere ben poco in comune con la globalizzazione e la competitività delle imprese: a) l’assenza di vere e proprie politiche industriali da parte del governo, b) un sistema della formazione professionale non focalizzato sull’esigenza di costituire una forza lavoro che risponda alla domanda di collaborazione qualificata da parte delle imprese, c) l’assegnazione al management delle imprese, da parte della proprietà, di obiettivi di profitto da conseguire, nell’immediato, anche a costo di sacrificare, nel futuro, le prospettive di crescita e di competitività delle stesse imprese.

La storia economica insegna che proprio la resistenza sindacale alla naturale tendenza del capitale a voler ridurre le paghe determina reazioni nella composizione della forza lavoro stessa che vede crescere la propria produttività; al contrario, lo scadimento nella condizione anche retributiva dei lavoratori - pur consentendo, nell’immediato, un aumento dei profitti - causa perdite di competitività internazionale e, successivamente, crisi economica.

Il libro di Rita Martufi e Luciano Vasapollo - Le pensioni a Fondo, Media Print, gennaio 2000 - mette in luce tali problematiche, fornendo una guida utile e interessante che, una volta, si sarebbe fatta rientrare nell’ambito della categoria della controinformazione.

Infatti, secondo gli autori, il tema di una riforma delle pensioni non andrebbe confuso con l’obiettivo della privatizzazione del sistema pensionistico. Il problema della riforma delle pensioni (pubbliche e a ripartizione) si pose quando si osservò che il trend di coloro che andavano in pensione superava - e avrebbe potuto superare ancora di più nel tempo - il trend di coloro che ottenevano un lavoro (in modo di consentire versamenti adeguati al raggiungimento della pensione stessa).

La crescita del lavoro nero, la precarizzazione della forza-lavoro, la disoccupazione o, principalmente, l’insufficiente crescita di posti di lavoro “buoni” erano la causa di un possibile dissesto finanziario; non sarebbe stato, quindi, il sistema pensionistico pubblico e a ripartizione a rivelarsi insufficiente e inefficace rispetto ai tempi, ma le politiche economiche, monetarie, occupazionali, degli investimenti.

Purtroppo, la confusione e, a volte, la mancanza di buona informazione o, se si vuole, di controinformazione efficace, si abbinò con i cambiamenti culturali (e di massa) di tipo liberistico o, per essere più precisi, antisociali e individualistici.

Da un punto di vista prettamente individuale (che non è, di per sé, antisociale, ma che può diventarlo), infatti, il sistema pensionistico a capitalizzazione “non fa una piega”: tanto il singolo lavoratore versa di contributi durante la vita, di tanto si valorizzano tali somme alle condizioni del mercato finanziario e tanto il lavoratore riceverà al momento della pensione.

Rita Martufi e Luciano Vasapollo richiamano l’attenzione del lettore sul fatto che la apparentemente logica conseguenza delle pensioni a capitalizzazione, vale a dire la privatizzazione (sempre per la cultura corrente, infatti, la redditività assicurata da un gestore privato è maggiore, per definizione, rispetto a quella di un gestore non privato) può produrre conseguenze nefaste quando ci si avvicina a situazioni caratterizzate da crisi finanziarie.

Per quanto riguarda i fondi pensione, infatti, c’è da osservare come la ricerca di performances migliori di quelle assicurate dal mercato obbligazionario (quando i tassi di interesse sono bassi) finisce per porre un limite alla crescita economica più forte di quella corrispondente al costo del danaro.

Introducendo la tematica della riforma del TFR, infatti, gli autori di “Le pensioni a Fondo”, hanno presenti i rischi propri della privatizzazione pensionistica che potrebbero vanificare proprio la funzione sociale di tali istituti che consiste nell’assicurare un aiuto - seppure in funzione di quanto ciascuno ha risparmiato forzatamente - a coloro che lasciano l’attività produttiva e, invecchiando, hanno anche maggiori probabilità di incorrere in difficoltà, malattie ed acciacchi vari.

Una maggiore regolarizzazione del lavoro sommerso (attualmente le misure varate dal governo appaiono ancora troppo timide sebbene abbiano dato risultati anche per l’azione che, pure, andrebbe potenziata di più, dagli ispettorati del Lavoro, dell’INPS e dell’INAIL); una politica dell’occupazione e della formazione che riduca il precariato e la precarietà del rapporto di lavoro; un aumento - almeno fino al 20% - dei versamenti dei datori di lavoro sui contratti cosiddetti atipici; la separazione gestionale tra la parte previdenziale (di cui si sta cercando di parlare qui) e quella assistenziale (che determina il fabbisogno finanziario del sistema pensionistico pubblico), sono tutte misure e politiche che consentirebbero un ritorno al sistema a ripartizione gestito dall’INPS.

I dati più recenti, infatti, dimostrano come la famosa “gobba” che descriveva la spesa pensionistica rispetto al PIL si appiattisca quasi del tutto introducendo variabili quali: a) la crescita dell’occupazione femminile fino al raggiungimento della media europea; b) i versamenti dei nuovi occupati (ex precari, ex lavoratori in nero, ex disoccupati); c) un aumento del PIL stesso, rispetto alle previsioni di qualche tempo fa, dello 0,4% - 0,5% all’anno, vale a dire per una media non del 2%, ma del 2,4 - 2,5%.