L’università emblema dell’organizzazione del potere

Salvatore D’Albergo

Il meritorio rilancio di una discussione - da troppo tempo desueta - sulla caratterizzazione odierna dell’Università particolarmente in Italia, rilancio documentato dagli interventi in “Proteo” nonché nel “Primo Quaderno del Laboratorio per la critica sociale” (2000), consente di collocare i puntuali rilievi critici di A. Crescimanni e di A. Ciattini sulle tendenze legislative recenti e in corso in un quadro di riferimento generale che aiuti a cogliere sia il concorso di cause che hanno condotto all’attuale burocratizzazione dell’Università, sia a prospettare il tipo di percorso critico da seguire nel rapporto tra breve e medio termine, in nome di una esigenza di socializzazione delle istituzioni oggi drasticamente rimossa dall’imperversare dall’economicismo tecnocratico sotto l’egida della ideologia del capitalismo allo stesso tempo privato e di Stato.

Al di là, infatti, dello stravolgente “settorialismo” con cui matura una legislazione dominata dal tendenziale ribaltamento dell’asse di principi costituzionali - volti a dare il primato ai valori “sociali o generali” su quelli “economico - privati” pur entro le ben note contraddizioni dello scontro l’”est-ovest” degenerato a partire dall’89
 occorre ripristinare una analisi critica che tenga conto della reale unitarietà dell’organizzazione del potere, la cui complessità e conseguente articolazione è solo apparentemente componibile in ambiti presentati come segmenti tecnicisticamente regolabili da una ideologia del potere che ha avuto storicamente bisogno di neutralizzare le forze sociali impegnate a contrapporre una autonoma visione del mondo ad una organizzazione che - trasformando le proprie “tecniche” nelle varie fasi dello scontro dì classe - riesce a condizionare sino a rimuovere l’istanza della “democrazia sostanziale” passando attraverso lo stravolgimento della “democrazia formale” nel nome della “governabilità” imperante nei sistemi britannico e nordamericano.

Se infatti, si ripercorre senza nostalgie improduttive, ma con la dovuta consapevolezza, la parabola iscritta nel passaggio dagli anni I967-68 a questo inizio del 2000, si può cogliere il senso di un vero e proprio rovesciamento che nella trama dei rapporti tra società e Stato si è venuto determinando per impulsi successivi come reazione a quella crisi sociale incombente in tutto l’occidente quando non più solo il movimento operaio organizzato nelle forme storiche ma anche altri movimenti avviarono la denuncia dei guasti crescenti ed irreversibili provocati da un capitalismo incontrollato e non conseguentemente contrastato. Nelle esperienze del “socialismo reale” e in tale contesto dell’acme della contrapposizione ideologica trovò la sua collocazione più significativa nella presa di coscienza del movimento degli studenti, degli scienziati e dei tecnici resisi tempestivamente consapevoli delle ambiguità contraddittorie insite nella rivoluzione scientifica e tecnologia pervenuta oggi al suo massimo dispiegarsi, non solo ma al contrario che negli anni sessanta e settanta in una cornice di enfatica glorificazione di quella che si è convenuto di chiamare “globalizzazione”. Il punto si rivela
 per allora e per oggi fatte le debite differenze socio-istituzionali - decisivo per intendere come e perché si sta imponendo l’attuale ristrutturazione dell’Università, poiché quella in atto è la dura e stringente replica del potere dominante al contenuto della contestazione “globale” che le forze sociali subalterne tentarono di lanciare ponendo una stretta relazione tra ruolo del capitale e ruolo della scienza, tra potere dell’economia e potere della cultura: si che - come ben ricorda Stefano Garroni - prevalse nel ’68 l’idea che è troppo stretta l’interrelazione tra rivoluzione sociale e rivoluzione culturale perché potesse farsi strada una riforma universitaria in contrasto con il modello socio-istituzionale proprio dell’organizzazione capitalistica. Al di là delle scelte e delle responsabilità di chi a sinistra optava per la priorità della lotta nella società o nelle istituzioni, certo è quanto documentato dalla Commissione “Trilateral” alla cui relazione - preoccupata di “ridurre” la complessità indotta dall’espandersi della democrazia in Europa - fu premessa una introduzione contenente un allarme per rischi di caduta dell’autorità accademica conseguente alla svolta politica di una parte del corpo docente influenzata dall’ideologia marxista; sicché occorre procedere ad una reinterpretazione del processo storico degli ultimi trent’anni per spiegare come una fase che ha trovato il suo epicentro nella lotta all’università e comunque sul ruolo delle strutture di potere scientifico e culturale trovi ancora - al culmine della parabola discendente iniziata dopo la metà degli anni settanta - l’Università come terreno di una restaurazione favorita da quella stessa sinistra che sia pure in forme reticenti ed ambigue- tale restaurazione aveva frenato ed ostacolato quando era stata proposta nel segno di un progetto governativo di quel centro-sinistra noto nel segno della scandito “ventitre e quattordici” (il numero dello stampato parlamentare contro cui avevano fatto una relazione di minoranza sia Rossana Rossanda sia - sìc! - Luigi Berlinguer).

Ciò significa che si deve risalire alla spiegazione di quella che si è convenuto di chiamare la “anomalia del caso italiano” per dare risposte adeguate ad una vicenda che - appunto - non è settoriale, ma altamente qualificatrice della portata complessiva delle forme dello scontro di classe sperimentato particolarmente in Italia secondo i connotati specifici (a suo tempo sottovalutati, quando non addirittura denigrati) del modello di costituzione di “democrazia sociale” costantemente posto in discussione dalle forze conservatrici e moderate, ed oggi nel mirino di quanti - concentricamente da sinistra come da destra - puntano ad una “modernizzazione” anticipata con l’erosione dei principi costituzionale in corso dal 1978 in poi, avendo come traguardo sempre più ostentato la vera e propria sostituzione della repubblica “fondata sul lavoro”, con la “repubblica fondata sul mercato”, cercando di capire e far capire alle masse oggi sempre più disorientate e perciò astensioniste come mai le forze politiche sociali omologhe agli interessi del capitale puntino sulle “riforme istituzionali“- tema ostico alle classi subalterne, anche per la responsabilità di certo marxismo - per aggirare i termini di uno scontro che ha comunque come obiettivo i rapporti di classe, in tutti gli ambiti in cui la nostra costituzione ha cercato di alimentare una dialettica tra democrazia formale e democrazia sostanziale.

Per quanto siano cosi mutate da apparire anche lontane le circostanze in cui si disputava sulle differenze tra lotta per il socialismo e il tatticismo riformista di stampo social democratico, senza richiamarsi ai contenuti di quelle dispute così accese (in cui il riferimento al modello costituzionale contribuiva a fare da spartiacque) non sarebbe possibile identificare - oggi che vengono chiamare “riforme” tuot tourt gli assetti normativi che vanno conferendo un primato al quel “privato” che la costituzione subordinava al “sociale” - gli aspetti più salienti di quel processo di democratizzazione che tra immani difficoltà entro lo scontro ideologico “est-ovest” fu parzialmente avviato nella breve stagione degli anni 1968-1975, cercando di coniugare in stretta interdipendenza “riforme sociali” e “riforme istituzionali” facendo leva sull’autonomia delle forze sociali e sull’autonomia - al centro e in periferia - degli istituti rappresentativi, sino a legittimare forme di democrazia di base e diretta in gradi di spostare l’asse del potere dai vertici degli apparati della società civile come della società politica, verso la comunità di lavoratori e di portatori di interessi sociali: non solo nella fabbrica, ma anche nello Stato e nelle sue variegate istituzioni.

In tal senso quello che viene demonizzato - dalla stessa destra comunista - come “assemblea rismo”, risaltava come il tentativo di portare alla più penetrante capacità di intervento quello che la costituzione legittimava con la pienezza del pluralismo sociale e politico e dei diritti di autorganizzazione e di sciopero dei lavoratori, si che non è un caso che proprio nella scuola e nell’Università - luoghi della formazione del sapere, dello sviluppo della cultura e della selezione della classe dirigente- la capacità di tenuta del potere dominante abbia potuto essere maggiore che nel luogo dei rapporti sociali di produzione in quanto - ecco il punto sul quale occorre portare una riflessione articolata e rigorosa - alla linearità della contrapposizione tra proprietà e management dell’impresa da un lato e classe lavoratrice dall’altro, non ha corrisposto una simmetrica caratterizzazione antagonista tra le forze sociali presenti nell’Università, con la conseguenza che più che incidere studenti e personale non docente sulle strutture del potere accademico, sono state queste a irretire l’autonomia delle “componenti” universitarie, anche a causa del mancato dispiegarsi di un autonomo movimento di docenti consapevoli della necessità di democratizzare gli apparati di ogni specie, ivi comprese le dirigenze amministrative e tecniche che in uno Stato di democrazia sociale (a differenza che nelle varianti di Stato autoritario storicamente affermatosi) devono ridislocarsi, riqualificando in senso sociale ed egualitario l’esercizio di attribuzioni che devono acquisire autorevolezza e non autorità, in nome del soddisfacimento dei valori sociali cui la scuola e l’Università pubblica - al pari di ogni altra istituzione non privata - è preordinata se, appunto, lo Stato è uno “Stato comunità” e non uno Stato apparato verticistico e burocratico.

L’ampiezza del fronte di lotta dalla fabbrica all’Università, vedeva coinvolti quelli che Bobbio ha definito “i due grandi blocchi di potere discendente gerarchico in una società complessa”, cioè da un lato l’impresa e dall’altro lato l’apparato amministrativo, nel cui ambito un ruolo decisivo svolgono scuola e Università, comprovando il fondamento della teoria di Althusser sugli apparati ideologici di Stato laddove ha affermato che il potere politico non può fare a meno del potere ideologico, potere “immenso” monopolizzato - è sempre Bobbio che parla - “da un gruppo di possessori e trasmettitori della dottrina cui spetta di dichiarare quali siano le idee giuste e quali quelle sbagliate”: fronte che in modo diseguale presentava un ideologia autoritaria come referente di un processo di socializzazione pervenuto a qualche “spezzone” di riforma giudicato comunque pericoloso ed inaccettabile dalle forze capitalistiche - più nell’ambito del sistema delle imprese che in quello degli apparati “centrali” dello Stato cui l’Università appartiene, come si ricava dalle conquiste pur transeunti dei delegati in fabbrica, rispetto ala scarsa consistenza degli esiti delle rivendicazioni studentesche.

Se invece di fare un’operazione meccanicisticamente liquidatoria delle esperienze degli ani 60/70 e dare per scontata l’attuale fase contrariformatrice, si analizzano gli aspetti differenziali del procedere della lotte antiautoritarie e le cadenze degli atti restauratori imposti negli anni 80/90, si può meglio identificare il nesso determinante che si è posto fra le cause di una mancata riforma universitaria- che in qualche modo si è tentata, in linea con quella strategia che dalla riforma regionalista ha condotto almeno alla riforma sanitaria del 1978 - e le cause dello strisciante processo di “modernizzazione” che ha portato all’attuale stravolgimento dei principi nel cui ambito la costituzione del 1948 aveva inscritto il ruolo e della scuola e dell’Università. Ponendoci in tale ottica, va infatti rammentato come negli anni 1967-1976 - per ammissione dello stesso Bobbio - il punto di riferimento centrale di ogni lotta sociale o politica sia stato colto nella “partecipazione” di massa ad un processo di democratizzazione inteso come espansione del potere “ascendente” e nella sfera dei rapporti civili e politici e nella sfera dei rapporti sociali, per cui non solo lo status di cittadino, ma anche quello di “padre e di figlio, di coniuge, di impresario e di lavoratore, di insegnante e di studente” e cosi via sono stati investiti da un nuovo modo di far politica, imperniati su attori e strumenti nuovi come “assemblee, manifestazioni e agitazioni di piazza, occupazioni di sedi pubbliche interruzioni di lezioni e di riunioni accademiche”: partecipazione, che comportava l’apertura di un nuovo corso nei rapporti tra democrazia di base e democrazia rappresentativa, e quindi l’introduzione nelle varie normative - compresa quella sull’Università - di inedite forme di regolazione dei rapporti tra interessi sociali/generali e forma organizzative di funzionamento delle istituzioni.

E proprio con riguardo a quegli aspetti partecipativi, che avevano dischiuso la strada ad un potere sindacale di tipo nuovo e alla istituzionalizzazione dei “consigli di quartiere sia nella scuola che soprattutto nell’Università il movimento ha subito un immediato impatto di cui occorre vagliare in modo analitico cause ed effetti specifici, dai quali alla lunga è derivato quel progressivo deterioramento sia a carico delle riforme democratiche variamente avviate sul “territorio” - divenuto l’emblema della strategia del potere “dal basso” - sia a carico della scuola e dell’Università, luoghi rimasti sostanzialmente sguarniti in ragione del ruolo qualificante generale che le sedi di formazione intellettuale rivestono nella complessiva organizzazione del potere. Non si può non convenire - almeno oggi, visto che ciò è sfuggito o è stato trascurato, specie dopo il dpr.382/80- che la sconfitta della democrazia, invano perseguita ricorrentemente da movimenti studenteschi via via riprodottisi con sempre minore capacità egemonica, si è tradotta in un immiserimento corporativistico di un problema pur reale di “rappresentatività” delle componenti universitarie diverse da quelli che allora (ma non più oggi) venivano bollati come “baroni”, e in una mistificatoria distinzione/separazione tra gestione “amministrativa” e gestione “sociale” dell’Università, che ha impedito di affrontare i problemi reali sollevati nel 67/68 quando - contestualmente all’attacco alla autonomia e alla sovranità della grande impresa - si lanciò la critica ad una Università al servizio del potere economico, per riportare a premesse di segno opposto il rapporto tra scienza e democrazia e tra ricerca e didattica.

Va denunciato con lucidità e franchezza - se la critica all’attuale degenerazione non vuole essere solo descrittiva, ma anche rivendicatrice di un diverso modello di scuola e di Università per le lotte future - come l’una e l’altra delle forme in cui si presentava e si presenta la questione universitaria siano state il terreno in cui è venuto a mancare il peso di una alleanza necessaria tra studenti - dequalificati da soggetti “sociali” a meri “utenti” individuali - e corpo docente, visto almeno in quella sua parte che (su terreni diversi da quello del ruolo loro aspettante negli atenei) si collocavano ideologicamente sul versante di impegno delle forze politiche e sindacali da tempo rivolte a combattere il sistema di potere quale si configurava prima dell’entrata in vigore della nuova costituzione che - pur lungi dall’aprire una fase di transizione al socialismo - indubbiamente apriva una dialettica democratico - sociale inedita nell’Europa occidentale. Gli stessi docenti “democratici” hanno preferito (salvo rilevanti casi personali) concorrere alla redistribuzione formalistica di poteri burocratici nei consigli di facoltà, di corso di laurea e di dipartimento, impedendo che l’elezione dei vari organi collegiali (locali e nazionali) e degli organi monocratici di ateneo - specie dei rettori - potesse aprire una stagione realmente nuova: scelte che sono rimaste “invisibili” come origine delle candidature e l’incontrollabili” quanto a uso delle attribuzioni rimaste dello stesso segno rispetto a quelle del testo unico del I933. La stessa “trasparenza” - come unico obiettivo di rinnovamento prospettato - si è via via fatta riassorbire da una prassi di istituzionalizzazione delle componenti comunque “gerarchizzate”, per cui le decisioni sono solamente “registrate” in organi collegiali privi di una reale dialettica, e consegnati alla gestione di “fiduciari” dei docenti di “prima” fascia in naturale “combine” con quelli di “seconda” fascia, “combine” necessaria a contenere la categoria “subalterna” dei “ricercatori”. Nella consolidata ininfluenza e dei rappresentanti del personale tecnico-amministrativo e soprattutto degli studenti, anelanti prevalentemente a misurare la forza percentuale di liste commisurate all’ascendenza delle forze politiche presenti nelle istituzioni, sullo sfondo di un assenteismo/astensionismo dì massa dell’elettorato studentesco che nella sua cronicità ha anticipato quello che ormai dilaga nell’elettorato nazionale e locale, sia per le elezioni che per i voti referendari. Si è cosi riusciti ad “addomesticare” ogni istanza di rinnovamento, riportando gli studenti - come si deduce dal fatto che persino le punte più avanzate del movimento degli anni 67-68 abbiano acriticamente condiviso l’enfasi meccanicistica data da una parte dei docenti al modello organizzativo del “dipartimento” contrapposto a quello della “facoltà” - nell’avvio di un processo di “istituzionalizzazione” contrastante con le originali strategie “autonomistiche” imperniate sulla domanda non solo di una apertura degli organi collegiali ad una visione non strettamente “baronale” della rappresentanza del corpo docente, ma anche - e, per certi versi, soprattutto - ad un uso delle competenze burocratiche funzionali ad una riqualificazione dei rapporti tra ricerca e didattica, e quindi ad un nuovo modo di lavorare dell’intero corpo docente secondo moduli da sperimentare e imperniati sulla sempre più invocata, ma pervicacemente disattesa “interdisciplinarità”.-----

A dimostrazione della coerenza di un impianto strategico che spingeva sia il movimento operaio che gli altri movimenti ad obiettivi di socializzazione del potere in fabbrica e nello Stato per un nuovo “modo di produrre” sia beni che servizi, si andava infatti profilando sia nella grande impresa che negli apparati pubblici specie locali e regionali l’enucleazione nell’ambito dell’organizzazione del lavoro di moduli di tipo nuovo, volti a ricomporre i segmenti in cui produzione e sapere erano andati via via parcellizzandosi, tramite vari “gruppi di lavoro” rapportati a forme periodiche di valutazione globale quindi formalmente “assembleare” delle unità organizzative nelle quali la visione di fondo degli obiettivi del produrre e della conoscenza garantisse periodicamente il prevalere delle sintesi sulle analisi oramai sempre più sconnesse per le masse degli studenti da un asse centrale di riferimento sia a fini scientifici che professionali: cosi si spiega che la lotta all’Università - come aspetto centrale di una lotta che si svolgeva nella società per intaccare le forme autoritarie del sistema produttivo e dello Stato - mirasse alla creazione di nuove forme di ordinamento didattico mediante il superamento della lezione solo “cattedratica”, l’istituzionalizzazione di seminari e di commissioni di lavoro, la ricerca di nuove modalità di svolgimento degli esami.

Sarebbe bastato, allora, che i docenti ideologicamente professatisi “di sinistra” avessero dato operatività alle osservazioni di Gramsci che aveva denunciato come “nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non è organizzato. Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della laurea avviene che lo studente sì avvicini al professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono altro che una serie di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione, tutte o solo in parte: lo studente affida poi alle dispense, all’opera che il docente stesso ha scritto sull’argomento o alla bibliografia che ha indicato (Quaderno n.1): e, proseguiva Gramsci - dovrebbe da fatto personale “diventare funzione organica” il costume di singoli docenti impegnati a fare una propria “scuola”, per avere propri “seguaci” o “discepoli”, per avere giovani “distinti” posti in rapporto con altri specialisti ma “accaparrandoli” definitivamente. Invece, tali docenti hanno enfatizzato sempre più l’antitesi tra dipartimenti e facoltà, con una formula istituzionale che - considerando “atipico” e perciò disincentivato il dipartimento “tematico” e realmente intedisciplinare - ha favorito il perpetuarsi dei vizi tradizionali dietro l’immagine semplificatrice dei dipartimenti istituzionali votati all’assemblaggio delle materie “affini” nella logica degli storici istituti “policattedra” con il solo risultato, “moralizzatore” bensì ma non produttivo di effetti qualificatori nella formazione, connesso al superamento degli istituti “monocattedra” specie a medicina e giurisprudenza.

Tanto più va denunciata la scelta di escludere dalla riforma universitaria la ristrutturazione della didattica in relazione a natura e compiti della ricerca di base, in quanto si è eretta a barriera pretestuosa e insormontabile la “libertà” costituzionale di ogni singolo docente, come se la programmazione istituzionalizzata. della didattica come didattica “integrata” non fosse destinata a garantire la funzione generalizzante e critica della articolazione delle conoscenze settoriali mediante la riduzione della libertà come libertà “negativa” in quanto personale/privata e arrogantemente “antisociale” in un servizio pubblico dipendente non già dagli interessi diffusi della comunità studentesca, ma dalle logiche di potere arbitrario degli appartenenti ai vari segmenti corporativi.

In ciò tutte le componenti hanno gradi diversi di responsabilità, compresi quei ricercatori che hanno visto esaurire la legittimità delle loro rivendicazioni (poste addirittura come “movimento”) nella peraltro insoddisfatta rincorsa alle “fasce” di docenti, disposti al massimo a concedere l’equiparazione di titoli formali ai fini del potere amministrativo esercitabile nelle Università, senza che si sia elaborata una autonoma strategia volta a collegare almeno la parte più giovane del personale docente con le masse le cui rivendicazioni, frattanto, hanno perso di spessore, con le mere rivendicazioni del c.d. ”diritto allo studio”, concepito come aspetto specifico della rivendicazione - comunque subalterna - dello “Stato sociale”, puntandosi cioè ai servizi di utilità pubblica, nella totale sottovalutazione dei problemi organizzativi della didattica come servizio di utilità pubblica di primo e superiore livello. Non sono certo mancati tentativi di motivare l’assunzione di un ruolo coerente di formatori “critici”, ma la loro sporadicità espunta da progetti organici sia di componenti culturali sia di forze politiche e sindacali non ha lasciato le tracce operative necessarie, rimanendo comunque testimonianza da valorizzare per una ripresa - se e quando ne matureranno le condizioni della lotta per una università socialmente coerente con le esigenze di democratizzazione dalla società e delle istituzioni: cosi rimane importante il rilievo di chi osservava che la critica “sociale” della didattica alla quale deve accompagnarsi la critica “teorica” degli specialisti può cominciare soltanto se le masse storicamente espropriate della cultura sono in grado di riappropriarsene cessando di ricevere dall’esterno una cultura elargita e saranno capaci di gestirla attraverso una partecipazione di massa (Mario Alighiero Manacorda);di chi parlando di una “qualità critica e dell’organizzazione socialmente avanzata e necessaria ad una didattica nuova ha sottolineato che i nuovi strumenti implicherebbero non già di creare una forma nuova “priva di contraddizioni”, ma di far nascere “dentro” la critica reale della vecchia forma i nuovi moduli del lavoro intellettuale, organizzando nei “luoghi” dove storicamente si produce i soggetti, le forme e gli strumenti del lavoro conoscitivo e formativo in modo che tutti “riacquistino una funzione critica collettiva” (A.De Castris);e di chi rimarcava che il problema della didattica “come problema di una ricomposizione unitaria del sapere sociale” risulta “centrale” nella misura in cui comporta un processo di appropriazione critica ed autocritica del presente posto in essere sul terreno “istituzionale” della formazione della forza lavoro intellettuale (P.Voza).

Se, quindi, sono rimaste marginali posizioni politico-culturali necessarie a proiettare nel cuore dell’organizzazione pubblica della cultura e del sapere i principi più innovatosi dello Stato di democrazia sociale, si può capire come la parabola discendente del processo di democratizzazione culminato negli anni 68-75 sia stata favorita dal vero e proprio disimpegno delle forze culturali della sinistra sul terreno dal quale avrebbero potuto ricevere nuova linfa e legittimazione le lotte sviluppatesi su tutto l’arco delle questioni di trasformazione della società e dello Stato, per una organizzazione del potere nella quale la simbiosi tra potere economico e potere culturale rischiava ancora una volta di vanificare - come è puntualmente avvenuto - l’impegno di valorizzare secondo i principi costituzionali, in senso sociale e non burocratico/privatistico, il superamento degli istituti recepiti dalla fasi liberale e fascistico-corporativa. Non si può spiegare il succedersi della normativa sull’Università della fine degli anni ’80 e degli anni ’90, senza tener conto del quadro in cui tale normativa ha potuto prendere corpo, mediante un progressivo sfarinamento delle incisive seppur limitate innovazioni democratiche conquistate, sfarinamento documentato dall’introduzione della “legge finanziaria” come strumento di ridimensionamento della spesa pubblica e dell’autonomia delle scelte di politica-sociale, secondo criteri di “economicità” volti a disattendere il modello di una costituzione per la quale la programmazione pubblica doveva condizionare l’autonomia del sistema imprenditoriale, dando primato alla “finanza” secondo una concezione di equilibrio propria dell’impresa “privata” e non viceversa “pubblica”. L’aggiramento dell’art. 81 della costituzione che il meccanismo annuale della “legge finanziaria” ha rappresentato dal 1979 in poi è la chiave volta di quel rovesciamento di linea che ha preso corpo immediatamente contro la riforma sanitaria del 1978, per disarticolarla in nome dei principi di managerialità ed efficienza propri dell’organizzazione privata: ciò che via via si è trasferito in tutti gli ambiti della vita economica e dei servizi pubblici, a partire dalla politica delle cosiddette “dismissioni” delle partecipazioni statali per restituire alle imprese private quel che esse prima avevano lasciato nelle mani dello stato per convenienza non sociale ma di profitto con proseguimento mediante la trasformazione delle ferrovie dello Stato da azienda “burocratica” in l’ente pubblico economico” e poi in società per azioni, contraddicendo alle finalità sociali del servizio pubblico, adozione della forma della “spa” da quel momento dilagante per assoggettare a regole “privatistiche” sia i grandi istituti bancari pubblici sia il modello degli l’accordi” istituzionali tra gli enti pubblici di livello territoriale, fino al tentativo di stravolgere lo stesso carattere “pubblico”, dell’organizzazione amministrativa dello Stato mediante l’equiparazione del rapporto di pubblico impiego a quello dei lavoratori delle imprese manifatturiere. Non altrimenti può spiegarsi l’operazione di trasformare le Università in enti pubblici della stessa specie degli enti di ricerca, con un riferimento mistificatorio alla costituzione che puntava non già alla “entificazione” delle Università, ma ben più significativamente a farle esprimere in modo del tutto nuovo come “ordinamenti autonomi” in quanto recettivi della dimensione “sociale” e non “settoriale” di un tipo di organizzazione espressiva dei valori della libertà della scienza e dell’insegnamento secondo le esigenze proprie dell’alta cultura, se la cultura è il luogo anche istituzionale dì formazione ideologica, cioè di quella che Gramsci chiamava la “critica reale della razionalità e storicità dei modi di pensare” quindi delle costruzioni che corrispondono alle esigenze di un periodo storico complesso e organico (Quaderno n-11). La scelta, operata nel senso di considerare le Università come enti strumentali o funzionali - secondo le classificazioni care ai giuristi - ha cosi finito per operare una svolta pericolosa in quanto - dopo avere ripudiato il collegamento tra didattica e ricerca di base (su tale insopprimibile esigenza valgono le recenti puntualizzazioni di Alessandro Mazzone su collegamento tra “scienza” e “umanismo”, nel citato primo Quaderno del Laboratorio per la Critica Sociale) - le forze della cosi detta sinistra di governo hanno optato per una connessione della didattica non con la ricerca di base, ma con la ricerca “finalizzata”, facendo della stessa trasformazione del ministero dell’istruzione superiore in “ministero dell’università e della ricerca scientifica” lo strumento di adeguamento alla pressione di una industria anelante a vedere una resa utile anzitutto ideologicamente degli investimenti propri e dello stato in un campo che sembrava persino sfuggire troppo al controllo del capitale. E così, dopo avere vittoriosamente respinto agli inizi degli anni settanta le lotte per una gestione “sociale” dell’Università con il falso pretesto che obiettivi sociali “immediati” prevalessero contro obiettivi culturali “permanenti”, l’intellettualità accademica dominante (ivi compresa quella c.d. di sinistra nella sua parte prevalente) ha finito per dequalificare l’Università in nome del conseguimento di obiettivi di tipo applicativo, allineandosi all’indirizzo espresso dagli strumenti politico-culturali dell’organizzazione degli imprenditori, che nel I987 ha indetto una serie di seminari intesi a proclamare l’esigenza di una autonomia universitaria volta a “integrare” sistema produttivo e università/ sottolineando che il sapere implicato nella produzione di beni e di servizi da parte delle imprese “deve” far si che queste ultime “diventino sempre più oggetto di ricerca da parte dell’università” con l’obiettivo di ottenere che l’industria sia più scienza e che la scienza sia più industria, tutto ciò come base di un’operazione istituzionale tendente a far diventare prassi ordinaria l’offerta al docente di esperienze manageriali e a far configurare l’autonomia universitaria nella maggiore assimilazione della gestione a quella di un’impresa, per una maggiore efficienza didattica e per lo sviluppo di interazione col mondo produttivo (rapporto Lombardi, I988). E non è un caso, allora, che la normativa degli anni novanta abbia visto assimilare l’opinione espressa dalla Confindustria come organizzazione e dal presidente della Fiat in persona, secondo cui ai fini della promozione dello sviluppo un potente elemento di accelerazione può essere l’integrazione tra la faccia del “pensare” propria dell’Università, e la faccia del “fare” propria dell’impresa, sino al punto di rimarcare che l’esigenza dell’autonomia universitaria “richiede che nella gestione dell’Università entrino anche criteri e mentalità Imprenditoriali” (Agnelli, 1991).

Al punto in cui siamo, con l’aziendalizzazione dell’Università a immagine del processo di “privatizzazione” che ha investito le istituzioni pubbliche in nome della “modernizzazione” invocata dalla sinistra di governo più che dalla destra sociale e politica. si tratta di non chiudersi nella pure essenziale questione dei rapporti tra le categorie docenti per riprendere il punto relativo al c.d. “docente unico” non solo dal punto di vista - certo, pregiudiziale - che è mancato quando lo stesso movimento degli studenti non era ancora influenzabile - come è stato per la “pantera” degli anni novanta - dall’idea che la monetizzazione dei fìnanziamenti sia una scelta neutra: ciò che nel corpo accademico è stato accolto in modo supino, riaccreditando l’esigenza di insistere nel “continuum” del primato di una ricomposta categoria di “emeriti” come tetto di una piramide accademica stratificata per l’esercizio del potere in simbiosi ufficiale con il potere economico, ma unita poi nell’obbedire al degrado della funzione dell’Università in quanto Università “pubblica”, dove la scolarizzazione di massa non viene più rifiutata a patto che venga istituzionalizzata la discriminazione tra il titolo di studio per l’avviamento professionale e il titolo di studio per la formazione culturale, cancellando in via di principio l’idea che l’università debba istruire “educando”, come evidenziato da Gramsci nella critica alla riforma Gentile, in quanto senza educazione - appunto - il discente sarebbe mera “passività”, un meccanico recipiente di nozioni astratte (Quaderni n.12).

Occorre pertanto riaprire la questione della connessione tra didattica e ricerca di base, mettendo operativamente in discussione e quindi in crisi la distinzione tra le tipologie di laurea, dimostrando nei fatti cioè nelle forme concrete di insegnamento che è oggettivamente irricevibile la contrapposizione tra professionalità e cultura se questa avviene nella sede di “alta cultura” ove sia le scienze tecnico-naturali sia le scienze sociali richiedono - per essere realmente tali - il superamento e della ultra-specializzazione e della dequalificazione funzionale, attraverso l’istituzionalizzazione delle “commissioni didattiche” che taluni statuti di ateneo hanno introdotto con l’obiettivo di quel “coordinamento” che sin qui è completamente mancato, e che comporta l’attivazione di nuove forme di lavoro integrato o di gruppo, idonee a verificare come l’insegnare superi comunque la “tecnicità” delle discipline separate prescinda in linea di principio dall’integrazione con il mondo dell’impresa, oggetto a sua volta di egemonia culturale da parte della collettività organizzata: salvo il caso, del tutto distinto e consacrato in accademie “private”, come la LUISS, nelle quali discende dalla proprietà stessa della istituzione universitaria “non pubblica” che la ricerca sia vista nella prospettiva di intensificare i rapporti tra problemi economici e organizzazione delle imprese.

Precondizione fondamentale di un impegno che garantisca una politicizzazione sin qui mancata è che nel corpo accademico - anche per dare un senso non meramente “corporativo” ancorché comunque necessario al processo di superamento della gerarchizzazione dell’intero corpo docente - maturi l’esigenza di dar vita ad una “sindacalizzazione” che non ripeta meccanicisticamente le divisioni delle confederazione e delle altre formazioni che in contrapposto ad esse si vanno sempre più radicando nel corpo sociale: avendo come riferimento il metodo e gli obiettivi perseguiti in seno alla magistratura dal quel corpo di “intellettuali” che in una sede per certi versi più delicata di esercizio di funzioni “sovrane” da oltre un trentennio hanno animato una dialettica interna ed esterna che nel mondo accademico a fortiori - dovrebbe allignare, se è vero che l’autonomia culturale è il presupposto qualificante delle lotta per la democrazia.

Occorre che gli accademici di tutte le c.d “fasce” di appartenenza operino scelte atte a vitalizzare un pluralismo che per il perdurante burocratismo rende opaco all’ombra del mantenimento di posizioni di potere in cui domina l’amministrativizzazione - pubblica o privata, rimane in tale senso espressione di una disputa “secondaria” - anziché la “socializzazione” di un nuovo modo di lavorare per un nuovo modo di far cultura, nella effettiva, e con solo demagogicamente affermata, connessione tra ricerca e didattica, verificabile nella consapevolezza che anche in sede di didattica è possibile e necessario superare la standardizzazione delle forme del sapere, facendo entrare in un circuito permanente la dialettica delle idee e quindi della interpretazione della realtà, sia nel mondo del sapere proprio delle scienze sociali sia nel mondo del sapere tecnico e della natura: anche per la sempre più pressante esigenza di superare gli steccati tra le c.d. “due” culture.